Un teatro per l’estetica, o sull’arte al quadrato

Con «teatro per l’estetica» o «arte al quadrato» intendo qui due esempi, con possibili, chissà, ricadute teoriche più generali, di drammatizzazione come vera e propria ‘messa in dramma’, in linguaggio teatrale e in azione scenica, del farsi e dell’operare di due arti diverse dal teatro, la poesia e la pittura — più precisamente, la poesia di Federico Garcia Lorca e la pittura di Pablo Picasso.

Scopo di questa duplice commistione — scopo solo parzialmente consapevole, al momento della stesura dei due testi, nell’animo dell’autore, ossia di chi scrive, preso e mosso piuttosto da una sorta di innamoramento per i suoi due personaggi e per gli embrioni di drammaticità da lui avvertiti nel forte correlarsi nel loro mondo di arte e vita, creazione e azione — scopo di questa duplice commistione appare dunque essere stato in primo luogo quello di mostrare, riaffermandola con la peculiare eloquenza e forza d’urto della rappresentazione teatrale, insieme la specificità, l’autonomia e la radicalità delle forme simbolico-espressive proprie dei linguaggi artistici in questione rispetto alle forme di espressione o linguaggi non artistici con essi interagenti sulla scena. In una sorta di corpo a corpo, o di resa di conti, in qualche modo, tra questi e quelli, condotta una volta tanto non sul terreno apparentemente neutrale ma in realtà addomesticato, spianato, discorsivamente monoplanare, di pur raffinati metalinguaggi critico-informativo-culturologici, ma nel campo ad esso non so se più limitrofo o più opposto e comunque, questo sì, volutamente, dichiaratamente «militante», di un’avventura artistica a tutto tondo.

Nella misura, in secondo luogo, in cui mi sono apparse plausibilmente, connaturativamente, direi, veicolabili dalla forma del dramma, la specificità e la radicalità di due forme d’arte pur diverse, nei loro più evidenti principii costruttivi, dal teatro come la poesia e la pittura, hanno lasciato venire viceversa in luce una loro più riposta — o rimossa, oggi — ma non per questo meno significativa natura pragmatica, argomentativo-performativa, insomma drammatica, appunto, nel senso originario del termine «dramma», di azione sommuovitrice e instauratrice di realtà. Che è poi, quest’ultima, o almeno dovrebbe essere, nell’ottica che qui privilegio di un’arte non an-estetica, non subalterna cioè alla logica oggi prevalente della cultura come sapere tuttologico, omologante-rassicurante, una realtà che da quest’agire teatralmente rivelato e potenziato risultasse, prima che creativamente ri-generata e per poterlo essere, attraversata una volta di più da parte a parte, scossa nelle basi stesse dei suoi assetti costituiti, scomposta e ricomposta nelle sue situazioni limite e nei suoi aspetti esistenzialmente più pregnanti, tali da mettere maggiormente a rischio e a repentaglio l’idea di sé e del mondo nutrita dai soggetti in essa implicati.

Ora, è questo sicuramente il caso delle due forme d’arte di cui si immagina qui la ‘teatralizzazione’, la poesia di Garcia Lorca e la pittura di Picasso; per cui entro senz’altro nel merito dei due testi.

Processo e morte di Federico Garcia Lorca, poeta, mostra già nel titolo, per il rilievo assuntovi in ragione della sua posizione finale dalla parola «poeta», l’intenzione di porre al centro del lavoro il nesso tra, da un lato, la messa in stato d’accusa e l’uccisione del grande granadino — avvenuta com’è noto nell’agosto del 1936, subito dopo lo scoppio della guerra civile spagnola, ad opera delle forze di destra insorte contro la Repubblica — e, dall’altro, il suo status, appunto, di artista della parola. Nesso, questo tra soppressione violenta e figura di poesia, che si estende embrionalmente anche alla premessa della prima, ossia a quell’altro termine del titolo, «processo», che essendo parimenti noto essere stata in realtà quella di Lorca un’esecuzione sommaria, priva della benché minima parvenza di legalità, prefigura con una punta di tragica ironia ciò che di più suo il testo intende liberamente ma non inverosimilmente drammatizzare rispetto alla nuda ricostruzione dell’evento: la messa in scena delle ragioni, qui incarnantisi nei gesti e nelle parole attribuibili al poeta e ai suoi carcerieri-giudici nei due giorni compresi tra la detenzione e l’assassinio, che si presume abbiano determinato prima l’uno e poi l’altro.

In prima approssimazione, e stando, come dire?, alla lettera di quanto i due principali responsabili della detenzione di Lorca ci ricordano nelle prime scene dell’opera riguardo ai motivi abitualmente addotti ancora oggi per spiegare la loro impresa, sembra, per la verità, che la decisione di sopprimere il poeta sia stata presa per ragioni fondamentalmente politiche, che poco o nulla hanno a che vedere con la sua arte: le sue prese di posizione a favore delle classi meno abbienti, i suoi rapporti di amicizia con uomini politici e artisti di sinistra come il poeta comunista Rafael Alberti, addirittura il sospetto, a dir poco ridicolo ma reso in qualche modo credibile dal clima incandescente di quei giorni, di essere una spia dei russi. Il tutto, condito dalla sua fama di omosessuale, tale da scatenargli contro anche il ‘machismo’ dei suoi nemici, e dalla strumentalizzazione del suo caso da parte di uno dei gruppi di potere che, dall’interno dello schieramento vincente, si contendevano i posti di comando nell’appena conquistata Granata.

Questi motivi, benché più che sufficienti, in quella situazione, per far ammazzare chiunque, non possono tuttavia farci dimenticare, primo, che all’epoca Lorca era comunque e soprattutto uno dei più noti e acclamati poeti e drammaturghi spagnoli; secondo, che le sue poesie e i suoi drammi più famosi erano già di per sé portatori, oltre che di rilevanti novità formali e inseparabilmente da queste, di significati marcatamente anti-militaristi, anti-clericali, anti-convenzionali, in una parola: sovversivi, al punto da avergli procurato qualche tempo prima una querela per diffamazione della Guardia Civil; terzo, che la persona che comandava la squadra che lo arrestò — e che nel dramma è anche il principale accusatore del poeta — era un sindacalista di destra, giornalista ed ex-deputato, sicuramente al corrente, e in buona parte per conoscenza diretta, della produzione letteraria di Lorca. Di qui, la legittimità dell’ipotesi, che si rivela via via essere l’idea-guida del dramma, primo, che lo scontro di cui il poeta sarà fisicamente la vittima non è tanto fra due opposte appartenenze politiche, quanto tra due non meno incompatibili concezioni dell’arte e del linguaggio; secondo, che il «processo» che quel giornalista e l’ufficiale suo complice intentano a Lorca si configura sempre più come un processo alla forza eversiva e al potere liberatorio della letteratura; terzo, che questo processo finisce però allora per ribaltarsi in un contro-processo, perché pur non arrivando a salvargli la vita — anzi sancendo, in quel contesto, la sua insalvabilità — il linguaggio ipersignificante e libertario del poeta si prende almeno la soddisfazione di sconfiggere, proiettando questa vittoria oltre il termine dell’esistenza del suo autore, il linguaggio oppressivamente unidimensionale, oltre che ben più piattamente e poveramente ideologico, dei suoi quindi solo fino a un certo punto vittoriosi nemici.

È evidentemente impossibile, in questa sede, dar conto in dettaglio del modo in cui la performatività, la forza di seduzione e di convinzione, già intrinseca di suo al linguaggio poetico lorchiano, viene ulteriormente potenziata, tanto da autorizzarci a parlare di «arte al quadrato», dalla sua messa in dramma nelle scene di Processo e morte di Federico Garcia Lorca, poeta. Valga per tutte, perciò, per quel che può valere così fuori contesto, la scena in cui gli attacchi lanciati a Lorca dall’artefice della sua detenzione, il giornalista ed ex-deputato di destra Ramón Ruiz Alonso, cominciano a rovesciarsi nel contrattacco mosso dalla pienezza del libero linguaggio poetico del primo all’inespressiva vuotezza del linguaggio ultra-istituzionale del secondo…

Ruiz Alonso (Allontana la pistola dal viso di Lorca) Eh, gran brutta cosa, la paura, soprattutto per un signorino a cui tutto è sempre andato bene… (Urla) Ti ho chiesto se pensi sul serio di aver dimostrato la tua innocenza, raccontandomi di quel giudice e della sua assoluzione!

Lorca (Si protende in avanti, in un soprassalto di orgoglio) Sì che lo penso, sì, sì! Perché quell’assoluzione è la migliore conferma della verità di quello che sostengo, e cioè che nelle mie opere io faccio poesia, non politica, creo un mondo diverso da quello reale, non spingo la gente a cambiare violentemente la realtà!

Ruiz Alonso Ma sentitelo! Chiama «migliore conferma» la sentenza di un giudice catalano, quando è risaputo che i catalani, e lo hanno dimostrato, oh loro sì che lo hanno dimostrato sul serio e continuano a farlo, a nostre spese, i catalani sono tutti o anarchici o comunisti. E separatisti, per giunta. Davvero un bel difensore dei valori nazionali, sarà stato, quel tuo giudice!

Lorca Anche il tipo che mi aveva denunciato, era catalano.

Ruiz Alonso E allora? Questo dimostra soltanto che i tuoi spropositi sono così scandalosi, che perfino un comunista o un anarchico separatista, perché qualcuno con un po’ di decenza ci sarà anche tra loro, li può trovare intollerabili. (Tra sé, in tono uniforme) «Nella grotta di Betlemme / i gitani si radunano. / Coperto di ferite, San Giuseppe / avvolge una ragazza in un sudario…»(Pausa. A Lorca) Ti sembra possibile?

Lorca Sì, mi sembra possibile. (Con ben altra partecipazione e efficacia) «Nella grotta di Betlemme/i gitani si radunano. /Coperto di ferite, San Giuseppe/avvolge una ragazza in un sudario…» (Con forza) Perfettamente possibile!

Ruiz Alonso (Si gratta la nuca con la canna della pistola) Come attore, è vero, non sono mai stato un gran che… (Cerca invano di far meglio) «Testardi fucili acuti / per tutta la notte risuonano. / La vergine cura i bambini / con salivita di stelle…»

Lorca (c. s., con in più qualcosa di trionfale nella voce) «Testardi fucili acuti / per tutta la notte risuonano. / La vergine cura i bambini / con salivita di stelle…»

Ruiz Alonso (Alzando irritato la voce, ma con risultati immutati) «Ma lo stesso i carabinieri / avanzano seminando roghi / dove giovane e nuda / l’immaginazione brucia…» (Tra sé, scuotendo la testa) No, non può essere…

Lorca Sì, che può, invece… (c.s.) «Ma lo stesso i carabinieri / avanzano seminando roghi / dove giovane e nuda / l’immaginazione brucia:»

Ruiz Alonso (Annuisce) Ecco… (Come risvegliandosi, e urlando) Ma che dico, se sono solo bestemmie!

Lorca (Piano ma fermo) No. Poesia.

Ruiz Alonso (Urla) Menzogne! Menzogne e bestemmie!

Lorca (c.s.) Poesia.

Ruiz Alonso (c.s.) Menzogne, porcherie, bestemmie!

Lorca (c.s.) Poesia, poesia, poesia.

Ruiz Alonso (c. s., avventandosi su Lorca e puntandogli la pistola alla bocca) Bestemmie, bestemmie, bestemmie!

Lorca (Cerca di spostare la pistola) Per favore…

Ruiz Alonso (Dopo qualche istante, spostando appena la pistola e col viso vicinissimo al viso di Lorca) Bestemmie, sì, come quando dici ai tuoi amici giornalisti che Granata sarebbe dovuta restare ai mori, o che ti senti più vicino un cinese buono di uno spagnolo cattivo… Perché ho letto anche questo, sai? (Pausa. Dà un colpetto sul viso a Lorca con la canna della pistola) Sempre pronto a offendere la patria, sempre pronto a seminare odio e anarchia!

Lorca (Piano ma fermo) No. Amore.

Ruiz Alonso (Urla) Odio, odio!

Lorca (c.s.) No, amore. E verità.

Ruiz Alonso (c.s.) Odio, e anarchia!

Lorca (c.s.) No. Amore, e verità, e giustizia.

Ruiz Alonso (Punta e preme di nuovo la pistola contro la bocca di Lorca, che chiude gli occhi terrorizzato) Zitto! Devi stare zitto, hai capito? Hai parlato anche troppo. (Allontana la pistola dalla bocca di Lorca e arretra leggermente). Hai parlato e sei stato ascoltato anche troppo, a differenza dei buoni spagnoli come me. (Rinfodera la pistola e va su e giù per la stanza) Amore, dice! (A Lorca) Forse che è amore, di’, ve nirci a raccontare che San Giuseppe e la Madonna combattono a fianco dei gitani, un popolo di ladri e di sbandati, contro i tutori dell’ordine?

Lorca Ho detto anche giustizia, benché irreale, per chi da quell’ordine è sempre stato escluso.

Ruiz Alonso Bella giustizia davvero, presentare i difensori della legge come dei banditi, dei saccheggiatori, e i suoi nemici, i gitani, come dei martiri!

Lorca Ho detto anche verità, seppure non della storia ma del sangue, e delle sue fantasie.

Ruiz Alonso (Continuando ad andare su e giù) Che fantasie e fantasie! Magari, fossero solo fantasie… E invece… Invece uno, uno come me, mettiamo, passa i migliori anni della sua vita scrivendo libri sulla riappacificazione fra proprietari e nullatenenti, o fa discorsi a non finire su come rendere sempre più forte quell’alleanza tra Stato e Chiesa che ha fatto grande la Spagna, e tutt’a un tratto ecco che arrivi tu, un benestante, uno che dovrebbe stare dalla nostra parte, e con una manciata di cosiddetti versi, sì, perché non sono nemmeno in rima, con quattro parole appiccicate con lo sputo, ti metti a raccontare il contrario, riscrivi la storia e la religione a immagine e somiglianza di una banda di pezzenti, e mandi tutto all’aria! (Pausa. Più piano, tra sé e sé) E il bello è, che questi quattro cosiddetti versi che fanno saltare tutto per aria, queste bestemmie attaccate con lo sputo, ti arrivano molto più dentro, sì, e mettono molte più radici, di tutti quei discorsi e articoli in cui io difendo la fede e l’ordine…

Ma lasciamo Lorca alla sua sconfitta-vittoria, e passiamo al secondo esempio di «forma militante» o «arte al quadrato» di cui vorrei trattare qui, ossia al dramma, anch’esso in due atti, Diavolo, quel Picasso!.

Più ancora che nel caso di Lorca, un testo teatrale che pretende di mettersi «al servizio», diciamo, di una forma d’arte già così poderosamente completa come la pittura di Picasso, si presta facilmente all’accusa di superfluità, se non addirittura di indebita e autolesionistica invasione di campo. A questa realistica eventualità, tuttavia, fa da pendant — almeno, così mi piace credere — la diffusa opinione che l’arte di Picasso sia a tal punto complessa e inquietante da esigere, quasi, di venire spiegata, o quantomeno raccontata, ricostruita, pena l’inaccessibilità dei suoi significati più profondi e innovativi. Diciamo, allora, che la pretesa-presunzione di Diavolo, quel Picasso! come messa in dramma dell’arte pittorica di quest’altro grande andaluso è, sì, di interpretarla, ma, analogamente a quanto già visto con la teatralizzazione della poesia di Lorca, senza farla fuoriuscire con ciò dall’ambito dell’arte, piuttosto sceneggiandola, appunto, ossia lasciandola insieme dirsi e agirsi in un linguaggio per un lato, evidentemente, ripeto, diverso dal suo, ma tale nello stesso tempo da rifletterne meglio di altri l’indiscutibile, intensa performatività.

La mossa di maggior peso di cui questo tentativo si avvale è consistita, a mio parere — ma è anche questa un’osservazione essenzialmente a posteriori — nell’affrontare un argomento palesemente esorbitante non, diciamo così, di petto, ma attraverso il filtro di una microstruttura di natura anch’essa teatrale. Si immagina, in altre parole, che Picasso, del quale è nota la passione per le arti della scena e che proprio nel luogo e all’epoca in cui è ambientata la storia, cioè la Parigi degli anni quaranta, aveva anche composto due lavori teatrali, chieda alla sua da poco ex-aman te, la fotografa e pittrice Dora Maar, e a due dei suoi migliori amici, il poeta Paul Eluard e sua moglie Nush, di rappresentare insieme a lui un lavoro che egli stesso avrebbe tratto dal racconto Un capolavoro sconosciuto di Balzac.

Impersonando l’anziano pittore seicentesco protagonista del racconto, ma in modo tale da scompaginare creativamente le attese dei suoi compagni di recitazione ora discostandosi dal copione, ora lasciando che la studentessa spettatrice dello spettacolo vi si inserisca con i versi scritti su di lui dallo stesso Eluard, Picasso dà voce e corpo al significato della sua pittura, qui esemplificata dal ritratto di Dora Maar noto come «Femme au corsage bleu». Mette in essere, in altre parole, una vera e propria autotraduzione intersemiotica, che lungi dal depotenziarla discorsivamente pone viceversa in risalto e teatralmente cavalca, potremmo quasi dire, la potente onda d’urto della drammaticità costitutiva di questo straordinario dipinto.

In questa commistione teatrale di linguaggi diversi che è nello stesso tempo, ma più in profondità, insisterei, anch’essa una sorta di loro corpo a corpo o resa di conti, vediamo all’opera due schieramenti, due complicità o intese: da una parte, cioè, abbiamo la pittura e la poesia, impersonate rispettivamente da Picasso e dalla studentessa; dall’altra, il linguaggio del privato, del quotidiano, impersonato da Dora Maar, e quello della politica, impersonato da Paul Eluard nella sua veste di militante comunista. In mezzo, o meglio sotto e sopra, insomma tutt’intorno, con funzione portante e trainante, il linguaggio esemplarmente performativo del teatro, che schierandosi per naturale simbiosi dalla parte degli altri due linguaggi artistici finisce per decretarne la vittoria, esaltando in una con il proprio il loro primato di attività fabbricatrici di mondi, di autentiche ed emblematiche demiurgie.

Di nuovo, non sta a me stabilire se questo secondo esempio di arte al quadrato rappresenti più un’avventura o una disavventura della forma; né, forse perché ancora troppo vicino a questa mia avventura (o disavventura) più artistico-estetica che estetico-artistica, mi sento di dire, e la cosa è ancora più grave, quale più ampia conclusione teorica sia eventualmente estrapolabile da una simile esperienza. Mi limito, perciò, anche in questo caso, a calarmi in corpore vili, riportando di seguito un frammento forse più significativo di altri di Diavolo, quel Picasso!, ossia le sue pagine finali, a partire dalle battute conclusive di quella rappresentazione nella rappresentazione che si è detto costituire il fulcro dell’opera…

Nush (a Picasso, guardando il ritratto di Dora Maar) Perdonatemi, maestro, lo sapete quanto io vi stimi, ma di questo, di questo… Dipinto, sì, perché pur sempre di un dipinto si tratta, mi risulta difficile anche solo riconoscere che rappresenta una donna!

Picasso (Si alza di slancio, senza più traccia di stanchezza, e copre il quadro alla vista di Dora e di Marlene, che sono rimaste un po’ scostate) Ma perché voi, amici miei, siete rimasti al tempo dei Greci e dei Romani! Ma che dico, Greci e Romani, se perfino i pittori delle caverne erano più moderni di voi! (Eluard guarda con inquietudine Nush, e questa Dora, che continua a ‘sorvegliare’ Marlene) Voi pensate ancora che una donna è una donna e basta; che non è, che non può essere, nello stesso tempo, mille altre cose di cui neanche lei si rende conto: un idolo, per esempio, un cane, uno spirito maligno, un cavallo, un uomo… (A Dora, scostandosi per lasciar vedere il quadro anche a lei e a Marlene) Non ho forse ragione, Gillette? E non sembra anche a voi che questa signora (indica il quadro) vi somigli?

Dora guarda prima Eluard, che le fa segno di rispondere a Picasso, e poi il quadro. Dopo qualche istante, la sua espressione di sfida comincia a cedere il passo ai segni di una crescente inquietudine, mentre ella si porta una mano al collo come se si sentisse soffocare)

Nush (Nel frattempo, tra sorpresa e divertita, a Picasso e con la sua voce vera) Addirittura… (Passando alla voce da uomo, con un sorriso incerto) Una donna, essere nello stesso tempo addirittura un uomo!

Senza smettere di guardare il quadro, Dora accenna appena di no con la testa, quindi si passa lentamente la mano sul viso, di nuovo sul collo e infine sul petto, mentre il suo sguardo riconosce e insieme nega una somiglianza che la fa soffrrire, e Picasso la fissa con una luce di vittoria negli occhi.

Marlene (a Nush, di slancio) Certo, come un uomo potrebbe essere nello stesso tempo una donna! (Si porta una mano alla bocca, tra imbarazzata e divertita) Cioè, no, che ho detto…

Picasso No, no, bravissima, invece, ah ah ah! (Più serio, indicando il quadro) No, davvero, se noi…

Eluard (Lo interrompe) No, scusate, maestro, o Pablo… Ecco, vedi, non so nemmeno più come chiamarti… Dimmi prima una cosa: stiamo ancora recitando, o no? (Cerca di trattenere Dora, che senza staccare gli occhi dal quadro ha cominciato ad arretrare lentamente verso la porta) Che fai, no, aspetta… (a Picasso) Allora? (Sconsolato, indicandogli Dora) Lo vedi anche tu, no, che così non si può andare avanti.

Eluard alza le spalle, poi fa per prendere il quaderno dalle mani di Marlene, che però non glielo cede.

Picasso (Con finta meraviglia) Ma io posso solo rimettermi a te, pardon, a voi, caro Paul Eluard Poussin, (indica tutt’intorno) oltre che naturalmente a tutto il rispettabile pubblico… Però a me sembra che stiamo, nello stesso tempo, recitando e non recitando, come sempre, ah ah ah!

Marlene (a Eluard, recitando) «Dietro al tuo sguardo dalle tre spade incrociate / i tuoi capelli intrecciano il vento ribelle… // Alla tua vista io so che nulla va perduto…» Stasera, maestro, la verità è figlia della memoria e dell’immaginazione, senza eccezione!

Picasso (Euforico, lanciando uno sguardo di vittoria a Eluard e di compiacimento a Marlene) Esatto! (Indica il quadro) Se noi vediamo, dicevo, cioè se noi immaginiamo e dipingiamo questa donna così diversa, che oltre che una donna è molte altre cose, anche inquietanti, anche provocanti…

Nush (A Picasso, stringendogli un braccio e indicandogli Dora, che si è appoggiata alla stufa e scuote lentamente la testa, guardando per terra) Pablo, sii buono…

Picasso (Più forte, liberandosi con dolcezza dalla stretta di Nush) Se noi facciamo questo, sì, se noi cioè guardiamo e immaginiamo e dipingiamo una donna senza paura di sfigurarla perché siamo convinti che solo alterando i suoi lineamenti possiamo rappresentare tutto l’altro che ella porta in sé; se noi facciamo questo, noi liberiamo lei e il mondo dalla loro fissità, li arricchiamo di nuova verità, li reinventiamo, riuscendo tanto più simili al Creatore quanto più palpitante di originalità è questa nostra creatura… (a Dora, con un accento in cui l’ironia si mescola con la pietà) Mi segue anche lei, vero, Gillette? (A tutti, indicando via via i particolari del quadro) Ecco, questi capelli che invece di scendere lungo il viso sostituiscono il mento, come una barba, possono rivelare appunto l’uomo che è in lei;

mentre questa specie di uovo con una fenditura, in corrispondenza della parte sinistra del viso, ricorda un elmo, come al pennacchio di un’armatura fa pensare la piuma del cappello e a una missione sublime, a un ideale ultraterreno, il colore azzurro del cappello e del vestito di questa angolosa guerriera, o guerriero che dir si voglia…

Dora (Forte, portandosi al viso le mani strette a pugno) Basta! (Più piano) Basta, miscredente, basta, demonio… (Si muove verso la porta, ma inciampa in un lembo del mantello e cade. Nush e Eluard le si fanno vicino per aiutarla a rialzarsi, ma ella li respinge e si rialza da sola) Sì, begli amici… Complici! (Va fino al tavolo, si toglie il mantello e ve lo getta sopra, rimanendo di spalle al pubblico. Anche Eluard e Nush si tolgono il mantello e lo gettano sul tavolo)

Nush (a Dora) Vuoi che ti accompagni a casa? (Senza girarsi, Dora annuisce)

Picasso (Contrariato, fa scorrere lo sguardo da Dora a Eluard, da Nush a Marlene) Ma se siamo appena all’inizio!

Eluard (a Dora) Proprio non ce la fai, a rimanere? Dimmi quello che pensi, dai, ragioniamo…

Dora (Accenna col viso a Picasso) Perché, ti sembra che lui stia ragionando? (Va verso la porta, seguita da Nush e da Eluard, che le sfiora un braccio in un ultimo tentativo di trattenerla. Passando davanti a Marlene, la indica col viso) D’ora in poi, toccherà a questa qui fargli da giocattolo, lasciarsi smontare e rimontare a capriccio. (Raggiunge la porta)

Picasso (a Dora, facendo un passo verso di lei) E va bene, ho giocato, col tuo viso, è vero, ma come un bambino onnipotente (guarda Marlene), come un dio burlone, e tu avresti potuto giocarci con me, avresti potuto evocare e imbrigliare con me le ombre che ti scavano dentro, fino a rovesciare il loro sogghigno in allegria! E invece no, hai preferito piangere ai piedi dell’eterno, dell’Unico e Vero… Sei ancora così giovane, così viva, e non lo capisci? (Si toglie il mantello e lo getta sul tavolo) Non capisci, che perché questo gioco riesca, bisogna uscire dalla nostra vecchia pelle e sentirsi una cosa sola con tutto l’altro, con tutti gli altri, che portiamo in noi?

Dora (con la mano sulla maniglia della porta) Io… Io non mi sento più nessuno. (Picasso guarda sconsolato Eluard e Nush, si stringe nelle spalle e scambia un’occhiata con Marlene, che si affretta a togliere dal cavalletto il ritratto di Dora e a sistemarvi il proprio, mentre Picasso si prepara rapidamente una delle sue ‘tavolozze’con un giornale. A Marlene, accennando col viso a Picasso) È peggio di un ragno, vedrai, ti succhierà le viscere!

Marlene (Forte, sedendosi sul divano e sbottonandosi lentamente la camicetta) Non m’importa, se serviranno a nutrire le sue tele!

Picasso Ah ah ah, sì, così, benissimo, dille il fatto suo!

Dora (Forte, uscendo e cominciando a scendere le scale) È più spietato del minotauro, ti ridurrà in pezzi! (Sparisce alla vista, ma il rumore dei suoi passi continuerà a udirsi, sempre più tenue)

Marlene (Forte) Non importa, perché il suo pennello li rimetterà comunque insieme!

Picasso Ah ah ah, brava, perfetto! Ah ah ah! (Si porta davanti al cavalletto e comincia a dipingere, rapido e sicuro, guardando di quando in quando Marlene. La luce che ora lo colpirà da dietro, e che si andrà sempre più attenuando, dovrà far sì che l’ombra dei suoi movimenti ricordi, alla minore distanza possibile da Marlene, i movimenti di un ragno gigantesco che incombe sulla sua preda. Dopo qualche istante, il rimbombo del portone che si chiude si prolunga in una specie di muggito, e questo in un’ultima risata dalla sonorità dilatata, irreale, che si spegne lentamente insieme alle luci) Ah ah ah… Ah ah ah…

Sipario

Col titolo di Per una forma militante, o dell’arte al quadrato, questo testo è stato presentato come relazione al Convegno L’arte e le arti. Le avventure della forma, tenutosi nei giorni 8 e 9 maggio 1998 presso l’Istituto di Studi Filosofici di Napoli.