Il limite (è) nel concetto. Studi sulla «filosofia del limite» nel primo Fichte

Über diese drei Absoluten hinaus geht keine Philosophie.

(GA I 2, 152; 127).1

Nel fondamento non si abita

(GA I 2, 116; 89)

1. Una «filosofia del limite»

Altrove ho affrontato la questione del limite nel filosofare del primo Fichte a partire dalla recensione dell’Enesidemo di Schulze.2 Ne sono emerse tracce per una «filosofia del limite» che intendo qui riprendere e portare avanti seguendo l’evolversi dello stesso pensiero fichtiano — un pensiero spesso ondivago e ripetitivo che tenta in molti modi di portare alla parola quell’intuizione fondamentale che Fichte ritrova in Kant ma che Kant stesso non sarebbe riuscito a esprimere adeguatamente.

In quell’occasione il tema del limite mi pareva emergere da ogni pagina della recensione fichtiana. Innanzitutto lo scetticismo di Gottlob Ernst Schulze è esso stesso un pensiero del limite che rivela l’inafferrabilità dei confini tra soggetto, oggetto e rappresentazione nella filosofia di Reinhold o tra io come cosa in sé, come noumeno o come idea trascendentale nella filosofia dello stesso Kant. E tuttavia, è nell’argomentare fichtiano che — nonostante la critica non gli abbia riservato un posto di rilievo — appare centrale il tema del limite tra soggetto e oggetto da un lato e tra coscienza e realtà dall’altro, ma soprattutto svetta la questione dell’io come limite intrascendibile contro cui urta ogni tentativo di andare di là da esso e cui sono legati, a differente titolo, i temi del circolo, del conflitto e della fede (come sentimento del limite).

Se infatti — concludevo allora — la questione del limite ritorna con frequenza nelle argomentazioni fichtiane, tuttavia essa non è stata portata a tema dagli studiosi che in modo accidentale […] . Ciò nondimeno, a prescindere dal livello di importanza che il concetto di limite possiede all’interno del pensiero di Fichte, è interessante rilevarne la fecondità ermeneutica — è ben chiaro che si tratta di un’ipotesi di lavoro e che potrà trovare conferma unicamente nello svolgimento di un discorso più ampio di quello fin qui svolto e di cui la presente ricerca rappresenta comunque il primo passo. Del resto, lo iato tra la centralità del concetto di limite e l’interesse che esso ha finora suscitato negli interpreti è dovuto principalmente a due differenti ordini di motivi. Da un lato, esso è indubbiamente una categoria kantiana e come tale è stato interpretato […]; dall’altro — nonostante la grande opera di ricostruzione scientifica del pensiero di Fichte che ha tratto impulso dagli studi di Luigi Pareyson e che ha trovato in Reinhard Lauth il suo maggiore interprete […], nonostante quindi gli sforzi profusi dalla critica nel tentativo di isolare ciò che è di Fichte da ciò che la tradizione, a volte in modo frettoloso, gli ha attribuito — Fichte rimane pur sempre il filosofo dell’infinito, della tensione e quindi del superamento dei limiti o, secondo la soverchiante interpretazione hegeliana, un filosofo del “cattivo infinito” (« schlechte Unendlichkeit ») […] . E tale è effettivamente è, anche se non nel senso inteso da Hegel. Ma ciò non significa che il limite sia un momento da superare o uno spazio da oltrepassare senza residuo e quindi abbandonare. Al contrario, nella prospettiva aperta da Kant il limite è il luogo dell’umano e l’esperienza del limite, sia esso barriera (Schranke) che chiude o soglia […] che dischiude, è il motore dell’intero filosofare. […] Riflettere intorno al limite vuol dire quindi riflettere sulle possibilità della filosofia stessa.3

Ebbene, in queste pagine mi prefiggo di proseguire lungo i sentieri del pensiero del primo Fichte, trattenendomi però dall’affrontare subito la Grundlage del 1794 — impresa che peraltro richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello che qui mi sono concesso. Questo perché intendo indugiare sui movimenti di preparazione, i tentativi, le intuizioni, i ripensamenti che hanno caratterizzato l’inverno del 1793 e la primavera del 1794. Un periodo fecondo, di scoperte e di lotte, durante il quale Fichte getta le fondamenta del suo filosofare successivo. Ecco quindi il motivo per cui mi soffermo, in questa sede, sullo scritto programmatico Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der sogenannten Philosophie, als Einladungsschrift zu seinen Vorlesungen über diese Wissenschaft4 che precede solo di qualche mese la pubblicazione della Grundlage, ma che già ne mostra l’immane fatica del concetto.

2. Il concetto di limite nel Begriff

Quando ai primi di gennaio del 1794 è chiamato a raccogliere l’eredità di Reinhold quale docente di filosofia dell’università di Jena (la comunicazione è datata 26 dicembre 1793), Fichte è sorpreso nell’imbarazzo di non possedere ancora un completo sistema filosofico. Addirittura avrebbe voluto posticipare la nomina di un anno, fino alla primavera del 1795, per potersi presentare al pubblico accademico in modo adeguato.5 Come era consuetudine, un docente incaricato si sarebbe dovuto presentare a studenti, colleghi e al più vasto pubblico non specialistico con un progetto per l’insegnamento accademico che sarebbe iniziato nella primavera successiva (e per il quale, come “professor philosophiae ordinarius supernumerarius” avrebbe ricevuto un compenso forfettario di 200 talleri); in più aveva la facoltà di tenere lezioni private (retribuite dagli stessi uditori).

Ebbene, nell’impossibilità di rinunciare a una simile opportunità accademica, ma anche nella consapevolezza della propria impreparazione (fino ad allora non aveva pubblicato alcuno scritto filosofico che non avesse carattere episodico, se si eccettua l’opera che due anni prima lo fece conoscere al grande pubblico dei kantiani, Versuch einer Critik aller Offenbarung), Fichte si getta alla prova in entrambi i modi: accetta l’invito di Johann Kaspar Lavater — pastore di San Pietro, la chiesa più antica di Zurigo sulla riva destra del fiume Lindenhof e celebre per il suo ciclopico orologio — a tenere un ciclo di lezioni private sulla filosofia trascendentale di Kant presso la sua abitazione (dopo un soggiorno Danzica, Fichte si era trasferito nell’estate del 1793 nella cittadina svizzera dove risiedeva la famiglia della moglie giovane Maria Johanne Rahn),6 e contemporaneamente, su consiglio di un vecchio compagno di scuola e corrispondente jenese, Karl August Böttinger, scrive un Prospectus per gli studenti di Jena — città dove arriverà, dopo 19 giorni di viaggio e una tappa nella città di Magonza,7 il 18 maggio.

Scartata l’idea di una tradizionale “disputatio” in lingua latina,8 ne nasce uno scritto programmatico in lingua tedesca, tutt’altro che sistematico, come lo stesso autore sarà costretto ad ammettere e in occasione della seconda edizione del 1798: un canovaccio di lavoro scritto con molta attenzione alla chiarezza9 ma ben poco rigore filosofico e lessicale — l’autore non ebbe nemmeno il tempo di correggerne le bozze prima della loro pubblicazione sull’Allgemeine Literatur-Zeitung (59/1794; abbr. ALZ) di Friedrich Heinrich Bertuch, al punto che dopo qualche settimana ne uscì un errata corrige — che quasi tutti i suoi più autorevoli lettori, tra i quali Goethe, Schiller, Jacobi e lo stesso Kant, accolsero con freddezza.10 Come tale non può fornire dati attendibili per una ricognizione filologica sul tema del limite. E tuttavia, nella precarietà di un cantiere aperto, misto di intuizioni e intenzioni, il discorso cela nelle sue pieghe alcuni indizi, quasi lapsus filosofici, rivelatori di intenzioni profonde o semplicemente spunti che danno da pensare.

Per esempio, già la scelta del titolo, Sul concetto di una dottrina della scienza, rivela che non si tratta dell’introduzione a un sistema del sapere codificato come scienza o di una sua parte, ma solo di riflessioni al margine del pensare filosofico: riflessioni che vertono sui limiti della conoscenza scientifica e tendono a giustificare termini, ambiti di applicazione e pretese di una “scienza delle scienze”, quale vorrebbe essere appunto la nascente Wissenschaftslehre.

Nell’urgenza di farsi conoscere e soprattutto di far comprendere la prospettiva del proprio pensiero (che peraltro ancora non aveva chiara) l’autore va all’essenziale. E forse anche oltre, tanto che alcuni progetti si riveleranno irrealizzabili e verranno eliminati nella successiva edizione del testo presso l’editore Gabler, nel 1798 (come l’intera terza sezione, dal titolo Partizione ipotetica della dottrina della scienza, esclusa anche dall’edizione curata dal figlio, ma presente in GA I 2, 150-154).11

Ebbene, anche a prescindere dalle reali intenzioni, queste pagine non ignorano la questione trascendentale fondamentale del limite.

Ma quale sia questa intuizione dell’essenziale che qui Fichte si limita ad annunciare e a lambire è presto detto. Si tratta della scintilla sorgiva dell’idealismo, ossia dell’intuizione che la filosofia se vuole abbandonare il nome di amore per il sapere per diventare vero sapere, deve abbandonare ogni riferimento alla cosa in sé e all’implicito inevitabile paralogismo che la vorrebbe causa del contenuto sensibile della conoscenza, per rivolgersi esclusivamente al sapere nella sua forma sistematica quale si trova già perfetta nella geometria. Come questa, infatti, la dottrina della scienza dovrà derivare tutto il sapere (nei suoi aspetti teoretici e pratici) da un unico principio fondamentale, assolutamente primo e indimostrabile. Lungo il sentiero aperto da Descartes12 Fichte rinviene questo punto archimedeo nell’io: non l’io-sostanza dei dogmatici, ma l’io come posizione assoluta di se stesso, cioè come azione (o azione-in-atto, Tathandlung13), secondo il nuovo vangelo faustiano da poco divulgato:

Mir hilft der Geist! Auf einmal seh ich Rat

Und schreibe getrost: Im Anfang war die Tat! .14

Claudio Cesa, nel suo Fichte e il primo idealismo, cita un’interessante testimonianza di Henrich Steffens sull’intuizione fichtiana di fine 1793:

Allora lo sorprese improvvisamente il pensiero che l’azione con cui l’autocoscienza coglie e tiene ferma se stessa sia evidentemente un conoscere. L’io si conosce come generato da se stesso, e l’io pensante e l’io pensato, il conoscere e l’oggetto del conoscere sono la stessa cosa; ogni conoscere muove da questo punto di unità, e non da una disordinata osservazione che si lasci dare spazio, tempo e categorie.15

Ecco nascere una filosofia che — tenendosi salda al limite invalicabile di quello che chiamerà «l’assioma positivo assoluto» dell’Io sono16 — si pone al riparo dagli errori di chi si smarrisce nella ricerca di una realtà esterna, estranea e superiore all’Io, di chi perde il filo che unisce il sapere a un unico e incondizionato principio e, invece, approda inevitabilmente allo scetticismo.

3. «In principio era il (f)atto»: la difficile connessione di reale e ideale

L’esplicito richiamo all’Enesidemo con cui si apre la Vorrede alla prima edizione pone il testo in connessione con le riflessioni della Recensione, come suo naturale seguito. Gli scettici, in particolare Schulze e Maimon (ma più il primo, anche se l’attributo “vortrefflich” [eccellente] riferito agli scritti del secondo pareggia sostanzialmente i conti),17 con le loro interpretazioni e i loro travisamenti della filosofia kantiana, e i nuovi detrattori delle intenzioni fichtiane, sorti dopo la pubblicazione delle prime due recensioni apparse nel corso del 1793 sulle pagine della “Allgemeine Literatur-Zeitung” (la Recensione Gebhard e soprattutto la Recensione Creuzer che causò a Fichte l’ostilità del futuro collega dell’università di Jena prof. Karl Christian Erhard Schmid),18 hanno aiutato l’autore a giungere alla conciliazione delle contrastanti pretese del sistema critico e di quello dogmatico.

Grazie all’ostilità dei kantiani ortodossi e all’acuta lezione di questi nuovi scettici, Fichte ritiene di essere giunto alla consapevolezza che:

lo scettico avrà sempre partita vinta finché si resterà attaccati all’idea di una connessione della nostra conoscenza con una cosa in sé, la quale, del tutto indipendentemente da essa, debba avere realtà (lettera di Fichte a Franz Volkmar Reinhard, 15 gennaio 1794, GA III 2, 39 — corsivo mio).19

La stessa espressione utilizzata nella lettera a Reinhard torna poi in nota nel Begriff per esprimere la questione trascendentale fondamentale del limite nella forma della

connessione della nostra conoscenza con una cosa in sé (GA I 2, 109n; 82n).

Una connessione (Zusammenhang) reale ma allo stesso tempo difficile, la cui soluzione — che pur all’inizio di gennaio del medesimo anno, quando risiedeva ancora a Zurigo, Fichte dichiarava ancora di non possedere20 — è subito esposta nella nota forse fin troppo esplicita, al punto che verrà soppressa nella seconda edizione del 1798:

La lotta [Streit] potrebbe essere decisa [entschieden] da una futura dottrina della scienza che riconoscesse che la nostra conoscenza si connette con la cosa in sé non in modo immediato attraverso la rappresentazione [Vorstellung], ma in modo mediato attraverso il sentimento [Gefühl]; che le cose, in quanto fenomeni, sono solo rappresentate, ma che, in quanto cose in sé, sono sentite; che senza sentimento non sarebbe possibile alcuna rappresentazione; che invece le cose in sé sono conosciute solo soggettivamente, cioè solo in quanto operano sul nostro sentimento (GA I, 2 109n; 82n).

Prima del sentimento, in questo testo c’è il limite (tra dogmatismo e criticismo, tra rappresentazione e sentimento, ma prima ancora tra reale e ideale). Secondo la prospettiva elaborata da Fichte infatti, la lotta (Streit) tra criticismo e dogmatismo — nella quale lo scetticismo gioca un ruolo di importante quanto inconsapevole mediatore — potrebbe essere decisa dalla doppia connessione (Zusammenhang) riconosciuta e garantita solo dalla dottrina della scienza. Nella contrapposizione tra criticismo e dogmatismo si cela infatti la più profonda dialettica tra io e non-io, tra soggetto e oggetto, di cui la rivoluzione copernicana di Kant ha capovolto i poli senza tuttavia giungere a risoluzione in via definitiva.

Ebbene, grazie all’acuta lezione dei nuovi scettici, secondo Fichte tale lotta, altrimenti indefinita e senza vincitori, potrebbe essere interrotta solo da un’azione (la scelta, la de-cisione, Entscheidung, appunto) che frapponendo ai combattenti un limite (questa volta non GrenzeSchranke, ma Scheide cioè “confine”, ma anche “fodero”) li porti a rinfoderare le armi come primo atto d’intesa che instauri una connessione e allo stesso tempo separi e dia spazio a entrambi (e in fondo dia loro effettività) nella reciproca relazione.

L’azione quindi pone nella decisione un limite come tregua-vincolante e traduce la lotta (Streit, cioè indistinto litigio, diverbio, polemica, contrasto, disaccordo, conflitto) in contrapposizione (ma anche confronto: Auseinandersetzung), e questa in connessione (ma anche relazione, concatenazione e addirittura unità… cioè Zusammenhang) e finalmente in dialettica (Dialektik). Lotta, contrapposizione, connessione, dialettica: ecco il climax in cui nasce la dialettica fichtiana, che avrà certo maggior successo nella filosofia di Hegel, ma che in Fichte ha la sua origine nell’azione (che subito si vedrà libera) dell’io: azione dell’imporre un limite. Ed è il limite imposto a entrambi ciò che fa dell’indistinto un distinto tra due opposti che in quanto tali sono anche e innanzitutto posti in relazione reciproca. Anzi è proprio nella posizione del limite che la lotta si rivela per quel che è: contesa e connessione tra due poli altrimenti indefiniti, indeterminati.

Ecco perché l’azione che pone il limite qui non è solo un atto (Tat), né tantomeno solo un fatto (Tatsache) reinholdiano,21 ma una Tathandlung ossia una «azione in atto», come viene solitamente tradotta, o come propongo io, un (f) atto, cioè un atto allo stesso tempo decisivo e fondativo, che con il suo dinamismo e l’ancoramento all’Io che lo compie, si pone a fondamento di ogni sapere.22 Si ricordi quanto scrive Fichte nella Recensione all’Enesidemo:

È vero che dobbiamo avere un principio reale e non formale, ma un tale principio non deve necessariamente esprimere un fatto [Tatsache], ma può anche esprimere un (f) atto [Tathandlung] (GA I 2, 46).23

Fichte interpreta Faust: Im Anfang war die Tathandlung! Un tale (f)atto è tuttavia una decisione non priva di difficoltà. La Zusammenhang infatti è quel limite che separa e tiene insieme (letteralmente, zusammen-hängt), memore al tempo stesso di precarietà e fedeltà: la precarietà dello scalatore appeso a (hängt an) una parete di roccia e la fedeltà di un affezionato (ancora hängt an) a qualcosa. Se infatti la decisione nel dividere gli opposti li viene a porre (in relazione), per cui questi sono determinati (bestimmt) dal limite posto che interrompe la loro lotta in una tregua vincolante, tuttavia il luogo del confine tra i due non è dato a priori. Ciò vuol dire, ancora, che la contrapposizione nasce dall’interruzione della lotta senza tuttavia che vi siano determinazioni prestabilite. Da quest’azione (che in quanto non predeterminata si potrebbe già definire libera e incondizionata — di una libertà almeno negativa) ne va tanto del soggetto quanto dell’oggetto.

Ebbene, nella storia della filosofia occidentale la linea del taglio è andata oscillando da un massimo di prossimità al soggetto a un massimo di lontananza. Al soggetto debole, tabula rasa, potentemente reattivo del realismo (o dogmatismo) fa da contrappunto il soggetto assoluto, ipertrofico, fino quasi all’autismo metafisico, di certo idealismo (o criticismo). Tra i due, Kant sta come limite precario e fedele, che non rinuncia alla cosa in sé senza per questo asservirvi l’io.

Fichte intende dare spazio a questa de-cisione precaria-e-fedele. Ma allo stesso tempo è consapevole che essa tiene in sé anche qualcosa dell’angoscia del religioso. E precisamente il suo oscillare tra essere ancorato saldamente (dal latino religatus) al proprio io ed essere vincolato o perfino incatenato (ancora religatus) all’oggetto. Tra questi estremi — come pure tra gli estremi della precarietà e della fedeltà — si gioca la partita della realtà, che è anche partita della libertà.

Del resto il desiderio del primo Fichte — entusiasta della propria intuizione e ancora ignaro del fatto che altri riterranno oscuro e confuso quel che lui ha visto con chiarezza e distinzione quasi assolute — è quello di superare di slancio il limite trascendentale grazie alla distinzione tra immediatezza e mediazione, ovvero rappresentazione e sentimento. È questa l’intuizione che pone le basi per l’idealismo trascendentale e, successivamente, per il romanticismo filosofico; ma che allo stesso tempo apre a tutte le difficoltà, filosofiche ma anche accademiche e in un certo senso politiche, che Fichte dovrà affrontare senza sosta e che verranno interrotte solo dall’evento inatteso e prematuro della morte.

Finalmente il sentimento (Gefühl). Ora, che in Fichte il sentimento si coniughi con la categoria della mediatezza mentre la rappresentazione con quella dell’immediatezza la dice lunga sul senso che questi termini acquistano nella prospettiva trascendentale. L’originale — ma pienamente kantiana, almeno nelle intenzioni — soluzione idealistica della questione prospettata nel Begriff è infatti la seguente: la linea del taglio che interrompe la lotta, altrimenti indefinita, non passa tra l’io e il non-io, ma (in continuità anche con le riflessioni di Cartesio) più vicino all’io dell’io stesso, ossia al suo interno, nella coscienza. E precisamente tra due diverse facoltà del soggetto: rappresentazione e sentimento. La prima, (la Vorstellung) coglie immediatamente i fenomeni e produce (grazie all’immaginazione, come si vedrà nella Grundlage) una sintesi della realtà oggettiva esterna e contrapposta all’io. La seconda (il Gefühl) sente mediatamente la cosa in sé: essa è lo «stato soggettivo generato dall’incontro dell’attività infinita spontaneamente autoponentesi dell’io con ciò che, negando la direzione di tale attività, la ostacola».24 L’una rimane consapevole del limite come barriera insormontabile (Schranke), anzi, in un certo senso, nel momento in cui sintetizza per la coscienza la realtà oggettiva, è essa stessa questo limite; l’altra soggiorna nel limite (Grenze) e in quanto sentimento della resistenza che l’attività dell’io incontra, e in definitiva del suo nicht-können (non-potere), apre lo spazio per ciò che è oltre esso. E tuttavia, non si tratta di uno spazio percorribile, cioè conoscibile (il quale è dato solo alla rappresentazione), ma di uno spazio possibile, la cui consapevolezza fatica a venire alla parola, e riguardo al quale è possibile solo un «limitato approssimarsi» (geendete Annäherung — cfr. GA I 2, 151; 126)25 fatto di tentativi, scelte, azioni. Fichte chiama tale approssimarsi, che sente ma non esaurisce il limite, appunto con il termine sentimento, Gefühl.26

4. Kant e/è il limite

Nell’intero testo del Begriff il concetto di limite ritorna più di una ventina di volte e principalmente nel significato di linea di confine (Grenzlinie) tra le varie forme di sapere e, in particolare, tra la dottrina della scienza e le altre scienze particolari (cfr. GA I 2, pp. 128, 129, 133,27 134, 135, 137). Si tratta cioè, il più delle volte, come Fichte scriverà nella Grundlage, non del limite o dei limiti della conoscenza, quanto piuttosto del limite della conoscibilità del pensiero di Fichte stesso così come egli intende e può esprimerlo ai suoi contemporanei (cfr. GA I 2, 253; 149).28

E tuttavia, la prima volta che compare, già nella Vorrede alla prima edizione del saggio, è per marcare fortemente la questione trascendentale fondamentale e il legame, ma anche il limite, con l’autore dei pensieri che Fichte non smetterà mai di pensare ulteriormente, cioè Kant:

Fino a ora l’autore è intimamente convinto che nessun intelletto umano possa spingersi oltre i confini [Grenze] all’interno dei quali si è posto lo stesso Kant, in particolare nella sua Critica del Giudizio, [confini] che tuttavia egli non ha mai determinato [bestimmt] per noi né ha indicato come i confini ultimi [die letzte Grenze] del sapere finito (GA I, 2, 110; 83 — corsivi miei).

Kant e il limite. Più che di una relazione si tratta di un’identità: Kant è il limite oltre il quale nessun filosofo può spingersi. Egli infatti ha tracciato le colonne d’Ercole trascendentali nel principio di invalicabilità della ragione.29 E tuttavia, questo confine è Grenze, appunto, e non Schranke. Kant stesso infatti lo ha lasciato indeterminato, lo ha solo indicato senza specificare se si tratti o meno dell’ultimo confine (die letzte Grenze) del sapere finito.30

La situazione in cui si trova il sapere umano è pertanto quella di essere posto tra due limiti che si implicano vicendevolmente e che sono l’uno il capovolgimento dell’altro: uno definito e uno indefinito. Il primo è l’originaria limitatezza (ursprüngliche Begrenztheit — cfr. GA I 2, 130n; 104n) della conoscenza che è aperta all’incertezza, all’insicurezza e alla necessità di credere, presumere, assumere arbitrariamente, etc., che rende il sapere umano sempre finito e limitato (engbeschränkt — GA I 2, 113; 87). Il secondo è il limite assolutamente invalicabile del trascendentale, ma che lo stesso Kant ha lasciato indeterminato di modo che rimane aperta la possibilità che esso in futuro possa essere non oltrepassato (cosa impossibile, appunto) ma dilatato, approfondito, chiarito e semmai spostato oltre (cfr. GA I 2, 110; 83). Il limite-certo è l’incertezza originaria che fa del sapere possibile un sapere comunque finito, il limite-incerto è lo spazio lasciato aperto per le possibilità della futura indagine filosofica i cui attori non sono solo le facoltà razionali ma anche l’agire e il sentimento.

5. La difficile certezza del sistema del limite

Così de-limitate, le possibilità del sapere umano si possono dispiegare o nella direzione di un’irriducibile infondatezza o nella direzione di una difficile certezza.

Scartata la terza via della facile certezza dei dogmatici, Fichte sceglie la via lunga come opzione esistenziale contrapposta al comodo sentiero degli scettici e la cui correttezza non potrà essere dimostrata che solo al termine dell’intera indagine (e questo, nella prospettiva di cattivo infinito dove si situa e caparbiamente permane Fichte, vuol dire che essa è ingiustificabile kat’exochen). Questa via lunga si realizzerà nel sistema che vive della relazione di limitazione-unione (questa volta) tra forma e contenuto. Il sistema per ora solo prospettato da Fichte intende, infatti, muoversi con archimedea certezza in un contenuto incerto, laddove «sapere con certezza» significa avere «intendimento dell’inseparabilità di un dato contenuto da una data forma» (GA I 2, 123; 98). La peculiarità della dottrina della scienza sarà pertanto quella che la distingue dalla logica. Essa infatti intende dare un contenuto a quel che la logica tratta solo in modo formale: invece di un astratto A=A, essa pone Io=io.31

Ecco quindi dispiegarsi la prospettiva della difficile certezza: tra la certezza del principio d’identità e la certezza dell’io la difficoltà sta tutta, manco a dirlo, nella connessione.

Una tale certezza è rappresentata da un lato dalla solidità del principio di identità e dall’altro dall’evidenza di quel punto minimale, ma assolutamente certo, che è l’Io stesso. Come detto, la difficoltà sta tutta nella connessione: l’Io infatti vuole essere principio e termine della dottrina della scienza la quale sarà l’unica scienza compiuta dal momento che il suo compimento coinciderà con il ritorno al principio, cioè all’Io. Un ritorno però che, come sarà mostrato in modo più chiaro nella Grundlage, sebbene sia reso possibile dal fatto che dalla coscienza non è possibile alcuna sortita verso l’esterno (ma in un certo senso nemmeno è possibile un ingresso dall’esterno), comunque non sarà a somma zero, ma lascerà un residuo per cui l’Io non sarà mai solo l’io (con la i minuscola), né l’io sarà mai Io: questo perché la sua identità non sarà adeguata ma lascerà uno spazio aperto, uno scarto, e il movimento speculativo rimarrà quindi incompiuto e imperfetto.

Ma di questa difficile identità si potrà parlare più a lungo nell’analisi del concetto di limite nella Grundlage che esorbita dall’obiettivo del presente scritto. Qui basti quanto Fichte anticipa nel Begriff, cioè che la dottrina della scienza, nella sua compiuta incompiutezza si presenterà anche, in un certo senso, in una fondata infondatezza, giacché essa non è il primum. Essa infatti non vuole essere il sapere par excellence ma solo la sua sistematizzazione. Infatti la filosofia è scienza, dice Fichte, e la scienza ha da essere un edificio sistematico nel quale le varie proposizioni o leggi siano connesse tra loro a formare un edificio solido a partire da un fondamento che a sua volta sia solido e certo prima del legame con le altre proposizioni. Ma, per quanto solido e certo possa essere, «nel fondamento non si abita» (GA I 2, 116; 89) e del resto nemmeno il sapere pienamente dispiegato sarebbe propriamente il primum, giacché esso a sua volta segue l’agire.32

La scienza «non è qualcosa di indipendente da noi e che esiste senza il nostro intervento, ma [piuttosto33] qualcosa che dev’essere prodotto solo in virtù della libertà del nostro spirito che opera secondo una determinata direzione» (GA I 2, 119; 93). E se l’agire precede il sapere, quello, privo del supporto normativo che questo ambisce fornirgli, non è altro che un incerto tentare.34 Vi è quindi un limite trascendentale anche per la stessa dottrina della scienza. Essa non contempla l’agire, ma lo assume alle sue spalle e lo preconizza dopo di lei. Detto altrimenti: dalla coscienza non si esce (né propriamente si entra), anche se tutto ne rimanda oltre. Qualsiasi riflessione intorno all’Io che venga alla coscienza, proprio per il fatto di venire alla coscienza, ricade inevitabilmente nella forma della rappresentazione e come tale riposa al di qua del limite trascendentale marcato da Kant. Per questo Fichte sente l’urgenza del ricorso al sentimento se non come via d’uscita almeno come via d’accesso alla coscienza.

6. Il limite nella “mathematische Denkweise” di Fichte

Anche per segnare la distinzione tra la compiutezza (non priva di problematicità) della dottrina della scienza e l’incompiutezza (non priva di fecondità) delle altre scienze particolari, Fichte ricorre di nuovo al concetto di limite. Come già detto, non si tratta di un utilizzo sistematico quanto piuttosto rapsodico, e tuttavia rivelativo di una profonda (o quanto meno implicita) «filosofia del limite».

Fichte utilizza spesso esempi e analogie tratte dal mondo naturale e scientifico per chiarire a sé e ai non specialisti il senso del proprio indagare. Ma non è un caso che in queste pagine del Begriff Fichte ricorra all’esempio del limite in geometria (cfr. GA I 2, 135 e 135n; 109 e 109n). Per dire infatti la linea di confine (Grenzlinie) tra la dottrina della scienza e le scienze particolari Fiche utilizza, con un’iperbole che è difficile definire casuale, il concetto di limitazione in geometria. Riguardo a essa, infatti, la dottrina della scienza pone dei termini che sono dei confini assoluti (absolute Grenzen) quali lo spazio e il punto, mentre la scienza particolare provvede a limitare lo spazio tracciando così una linea.

La dottrina della scienza dà come necessari lo spazio e il punto come confini assoluti [absolute Grenze] e tuttavia lascia all’immaginazione la più completa libertà di collocare il punto dove essa voglia. In quanto questa libertà è determinata ad es. a muoverlo verso la delimitazione [Begrenzung] di uno spazio illimitato [unbegrenzt] e perciò a tracciare una linea  […], noi non siamo più nell’ambito della dottrina della scienza, ma sul terreno di una scienza particolare che si chiama geometria. Il generale compito di limitare [begrenzen] lo spazio mediante una regola, ovvero la costruzione di esso, è principio della geometria ed essa è perciò nettamente distinta dalla dottrina della scienza (GA I 2, 135; 109).

Che si tratti di voluta o inconsapevole ridondanza del limite qui non è rilevante — anche perché più volte Fichte quando si addentra in paragoni matematici sacrifica il rigore logico all’analogia di superficie rischiando così di dare adito a non difficili confutazioni35 — e tuttavia dà da pensare il fatto che in uno scritto programmatico di poche pagine il concetto di limite ritorni in varie forme e sia utilizzato persino negli esempi esplicativi, quasi si trattasse di mostrare implicitamente come la dottrina della scienza sia, appunto, una «filosofia del limite» in nuce.

Del resto — sia detto per inciso — le occorrenze casuali non sono poi tali, se si pensa che l’esempio geometrico appena citato è preceduto dalla dichiarazione che Fichte stesso fa in diverse lettere, tutte redatte tra il novembre del 1793 e il gennaio del 1794 e indirizzate a differenti destinatari nelle quali paragona la dottrina della scienza proprio alla geometria:

Credo che in un paio d’anni avremo una filosofia che per evidenza sarà uguale alla geometria (lettera a Heinrich Stephani, dicembre 1793; GA III 2, 28) .36

Nel saggio «Mathesis of the Mind». A Study of Fichte’s Wissenschaftslehre and Geometry, David Wood,37 sulla scia della pubblicazione nella Gesamtausgabe fichtiana delle opere inedite più tarde, come la Erlanger Logik del 1805,38 ha ricostruito con dovizia di particolari la genesi della passione di Fichte per la matematica e le relazioni “filosofiche” tra dottrina della scienza e geometria euclidea. Ne emerge un Fichte che dedicò grande importanza alla geometria giacché, sul modello di Cartesio, rinvenne in essa un paradigma di certezza scientifica di cui apprezzava la forma strettamente deduttiva e assiomatica, l’analisi chiara e distinta dei processi razionali, la gestione intelligente tanto delle dimostrazioni e quanto delle affermazioni indimostrabili. Ma anche se, a differenza di Cartesio, la “filosofia della matematica” di Fichte non va oltre la passione dilettantesca e un po’ ingenua, tuttavia è evidente, secondo Wood, sin dalle prime riflessioni dell’inverno 1793-9439 fino alla cosiddetta esposizione “geometrica” del suo sistema nell’abbozzo intitolato Neu Bearbeitung der Wissenschaftslehre (GA II 5, 331-401), che la matematica, e in particolar modo la geometria euclidea, abbia stimolato il filosofare fichtinano contagiandone la «interna, astratta struttura cognitiva della Wissenschaftslehre».40

Le riflessioni di Wood giungono infine a inserire il pensiero di Fichte nel sentiero della filosofia della matematica platonica (o neoplatonica) e a definire il suo idealismo come un «idealismo geometrico» dal momento che Fichte, nel suo generale intento fondativo, considera le intuizioni, le costruzioni e gli assiomi della geometria alla stregua di istanze particolari di quelle intuizioni, costruzioni e di quegli assiomi (Grundsätze) più universali che sono espressi dalla Dottrina della scienza. In quest’ottica vanno interpretati i tentativi di presentare esempi tratti dalla geometria, come quello di cui ho detto sopra: non solo quindi sortite di filosofia-popolare, ma tentativi di fondare le proprie riflessioni sul solido terreno della tradizione filosofico-matematica dell’epoca.

Per esempio la quarta lezione zurighese (GA IV 3, 19-41) è intitolata Verhältniß der Wissenschaftslehre zur Geometrie,41 e vi si legge:

Si mostrerà inoltre che l’io è originariamente intuizione, ma non intuizione sensibile sibbene intellettuale.

La dottrina della scienza è perciò anzitutto in possesso della pura intuizione, altrettanto che la geometria, e tutte le intuizioni della geometria sono fondate nelle intuizione della dottrina della scienza.

Si mostrerà infine che anche la pura intuizione dello spazio è prodotta mediante l’attività dell’immaginazione, soltanto non in maniera libera, come le intuizione geometriche, ma con necessità; pertanto essa è costruita, cosicché pure la dottrina della scienza è in possesso di una costruzione, che però è la sola.

La dottrina della scienza non può dimostrare nulla da questa costruzione, in quanto questa è infinita, e pertanto eccedente la nostra capacità di comprensione; la ulteriore elaborazione — la limitazione di questa costruzione, cioè dello spazio — , vien trasferita alla geometria (fogli 34r-35v del manoscritto di J. K. Lavater; trad. it. cit., p. 95).

Del resto, questo mathematische Denkweise, per usare l’espressione di Andreas Speiser,42 era un ethos diffuso nel Diciottesimo secolo (da Wolff a Kant, da Mendelssohn allo stesso Schelling e infine ovviamente ai canonici Leibniz e Spinoza) il cui Leitmotiv era appunto la ricerca di un sapere auto-evidente.

E in diverse occasioni Fichte scrive e dichiara in pubblico l’affinità tra filosofia e geometria (come appunto nelle citate lezioni di Zurigo) e non fa mistero della speranza che la sua Dottrina della scienza diventi per la matematica del Diciannovesimo secolo quello che gli Elementi di Euclide sono stati per il pensiero matematico della Grecia antica.43 E c’è da credere che qualcosa di simile se non è accaduto, almeno così è stato percepito dai contemporanei, se Madame de Staël ebbe a scrivere:

Fichte est dans les idées abstraites une tête mathématique comme Euler ou Lagrange.44

7. Il necessario è limitato: l’infinito alle spalle

Che il concetto di limite sia il punto archimedeo da cui è possibile interpretare l’intero argomentare fichtiano, a volte ridondante ma non certo privo di logicità, lo dimostra anche la stessa determinazione delle differenze tra la dottrina della scienza e le scienze particolari cui si è appena fatto cenno. Infatti Fichte ricorre ancora una volta (ed è questo il quarto significato del termine limite utilizzato da Fichte nel Begriff) al concetto di limite quando afferma che la dottrina della scienza contiene l’assoluta totalità del necessario, mentre le altre scienze sono infinite (cioè incompiute e incomplete). Tale “necessario”, che potrà essere determinato solo nel corso dello svolgimento delle successive ricerche, è definito da Fichte come begrenzt, limitato — ma questa volta nel senso di compiuto, completo (GA I 2, 136; 111).

Così già qui si vede — lo ricordiamo solo di sfuggita — perché soltanto la dottrina della scienza avrà l’assoluta totalità, mentre tutte le scienze particolari saranno infinite. La dottrina della scienza contiene esclusivamente il necessario; se questo è necessario da ogni punto di vista, allora lo è anche dal punto di vista della quantità, cioè è necessariamente limitato [begrenzt] (GA I 2, 136; 110-111).

Mentre le scienze dello spirito e quelle della natura (ma nella prima edizione Fichte dice «quelle del Non-Io»; GA I 2, 136; 111) sono perfettibili all’infinito, la dottrina della scienza si pone al riparo dalla cattiva infinità della perfettibilità perché è limitata (=determinata, destinata) ad avere un compito infinito, un compito che «non può esaurire in eterno» (ibid.).

È davvero interessante questo passaggio, dal momento che Fichte tenta una sortita, ante litteram, da quel cul-de-sac del cattivo infinito, das Schlecht-Unendliche, in cui lo pone la critica successiva: ebbene la dottrina della scienza non si pone dal punto di vista dell’indefinito e indeterminato (di quel cattivo cattivo-infinito che Hegel stigmatizza con un freddo: «und so fort ins Unendliche», e così via all’infinito).45 Questa sarebbe la naturale destinazione delle scienze dello spirito (dell’Io) e della natura (o del Non-io) che come tali tendono all’infinita perfettibilità (ma, si badi, anche a una certa determinazione di libertà).46 La dottrina della scienza, invece, ha a che fare con un infinito che non sta davanti, quasi a chiuderne i sentieri, ma alle spalle, come un compito e come tale è sempre nella forma del Sollen, del dover essere. Quello stesso Sollen che nella Scienza della logica di Hegel sarà la naturale destinazione (Bestimmung) del finito a superare se stesso (a causa dell’inadeguatezza di una figura nella quale ciò che deve essere è e allo stesso tempo non è, ché altrimenti non dovrebbe) ,47 per Fichte rende invece pienamente il carattere opposto, ossia l’intrascendibilità dell’Io e l’assunzione dell’infinito come già da sempre dato cioè limitato (determinato) come suo ambito d’azione.

È evidente che la tonalità trascendentale del pensare fichtiano lo trattiene ancora dalle avventure dell’idealismo assoluto che sarà di Hegel:

Da parte di una esauriente dottrina della scienza — conclude quindi Fichte — non c’è pertanto da temere nessun pericolo per la perfettibilità, che procede all’infinito, dello spirito umano; essa non può essere soppressa, ma piuttosto messa interamente al sicuro e al di là di ogni dubbio, e le è assegnato un compito che non può esaurire in eterno (GA I 2, 137; 111).

La critica hegeliana, pertanto, non fa che cogliere nel segno dove rimprovera a Fichte esattamente quel che lui voleva realizzare: non uscire dal finito, ma coglierne la naturale destinazione verso l’infinito tramite una limitazione (Anstoß) che mantenga questo nella sua apertura e, allo stesso tempo, non lo annulli nell’infinito. Le parole di Hegel nella Scienza della logica potrebbero quindi essere ben sottoscritte dallo stesso Fichte:

L’urto infinito dell’idealismo fichtiano può bensì non aver per base alcuna cosa in sé, da diventar puramente una determinazione dell’io. Ma questa determinazione è in pari tempo una determinazione immediata rispetto all’io, che la fa sua e ne toglie via l’esteriorità; è un limite (Schranke) dell’io che l’io può sorpassare, ma che però ha in lui un lato d’indifferenza per cui, pur essendo nell’io, contiene nondimeno un immediato non essere di esso.48

8. Il limite nella dottrina dei tre principi e la metafisica dello spazio

La terza e ultima parte del Begriff del 1794, intitolata Partizione ipotetica della dottrina della scienza, viene soppressa nell’edizione del 1798 (similmente la parte della Grundlage sui tre principi scomparirà nelle successive esposizioni della dottrina della scienza). Il motivo evidente è che la riflessione autonoma e le chiarificazioni imposte dalle critiche hanno portato Fichte a ritenere queste argomentazioni finite in un binario morto.49 E tuttavia, proprio i binari morti rappresentano una fucina di idee e stimoli che in questa sede non intendo lasciar cadere mai del tutto.

In questa terza parte, dopo aver presentato le tre ipostasi di Io, Non-Io e di Io e Non-Io insieme nell’Io assoluto,50 Fichte spiega queste mediante il concetto di limite o, ma che è lo stesso, di quantità:

Questo [l’uguaglianza e l’opposizione di Io e Non-Io nell’Io assoluto] si potrebbe pensare solo a condizione di un terzo termine nell’Io in cui entrambi fossero uguali e questo terzo sarebbe il concetto della quantità. Entrambi avrebbero una quantità determinabile dal loro opposto (GA I 2, 150; 125).

Con l’espressione «entrambi avrebbero una quantità determinabile dal loro opposto» Fichte vuole intendere l’imprescindibilità del limite come ciò che oppone ed eguaglia Io e Non-io. E infatti di seguito spiega in nota:

Solo il concetto dell’Io, del Non-Io e della quantità (del limite [der Schranken]) sono assolutamente a priori. Da essi vanno dedotti tutti gli altri concetti puri mediante opposizione e uguaglianza (ibid. — corsivo mio).

Per chiarire quanto appena detto — e che di un chiarimento ci sia bisogno lo testimonia lo scoramento dei pur dotti uditori delle lezioni zurighesi, come Hans Georg Geßner (pastore dell’orfanotrofio di Zurigo e futuro genero di Lavater), il quale annota nel suo diario alla data 7 marzo 1794: «Difficile lezione sul concetto di quantità»51 — Fichte, in questa Grundlage in miniatura (anche se non è la prima perché secondo la moglie di Fichte la prima Wissenschaftslehre è rappresentata proprio dalle lezioni zurighesi),52 anticipa in modo tanto rapido quanto sibillino le riflessioni della grande Grundlage e torna di nuovo a utilizzare il concetto di limite.

Innanzitutto il tema centrale — da Reinhold in poi — della possibilità della rappresentazione è risolto in modo tranchant da Fichte con il terzo principio che pone tanto l’io quanto il non-io uguali, opposti e interni all’Io assoluto. Si tratta di una metafisica dello spazio in cui la prospettiva aperta dalla categoria della quantità consente la compresenza di io e non-io, soggetto e oggetto, nel medio della reciproca limitazione; a patto però che non si tratti di un’opposizione statica ma attiva, e che quindi il limite sia in un certo senso valicabile cioè consenta un suo oltrepassamento nell’azione dell’uno sull’altro e viceversa. E che non si tratti di un’opposizione ipostatizzata ma di una Auseinandersetzung dinamica è detto con il ricorso all’a priori di una limitazione reciproca che è al tempo stesso sia determinazione (Begrenzung) sia destinazione (Bestimmung). Io e Non-Io sono quindi pensabili non solo nella categoria (statica) della relazione, ma piuttosto in quella (dinamica) della causalità.

Ecco quindi che la relazione che intercorre tra Io e Non-Io è espressa nei termini di causalità e di causalità-che-non-è-causalità. Al culmine della vertigine teoretica Fichte chiosa:

La causalità [Kausalität] è pensabile a condizione di un avvicinamento limitato all’infinità [geendeten Annäherung zum Unendlichen] (GA I, 2, 151; 126 — corsivo mio).

In questo passo che ha del criptico e che ha generato sarcasmo e critiche tra i suoi detrattori, Fichte intende affermare che l’Io viene determinato dal Non-io (e in questo si chiama Intelligenza e sarà approfondito nella parte teoretica della dottrina della scienza) ma che tale determinazione annullerebbe la natura attiva dell’Io stesso se non fosse, essa stessa, frutto di una precedente determinazione operata questa volta da un Io assoluto sul Non-Io. Ora, se la prima determinazione consente di rappresentare il Non-io come agente e l’io come passivo (parte teoretica della Grundlage), la seconda non può che invertire i ruoli e togliere la capacità di produrre effetti al Non-io che quindi, preso in assoluto, da causa della determinazione dell’io diviene causa-non-causa perché effetto della causa prima che sarebbe un altro io, e per la precisione l’Io assoluto (parte pratica della Grundlage)

In quanto causa-non-causa il Non-io assoluto non è rappresentabile ed è pensabile solo come tensione all’infinito. Ripeto: il concetto di «causa-non-causa» equivale al concetto di un «tendere» (Streben) ossia di un avvicinamento finito (geendeten) all’infinità, la quale senza questa definizione non sarebbe in alcun modo pensabile. Nel tendere, invece, l’infinito è presente come pensato e, per questo, lo Streben sarà il concetto fondamentale della parte pratica della Grundlage. Nonostante la difficile pensabilità di un Non-io assoluto, esso mostra quindi la sua imprescindibilità come stazione sulla via dell’infinito, altrimenti impensabile.

Una precisazione sull’uso dei termini Kausalität e geendeten. La connessione della prima con lo Streben si chiarisce se il concetto di Kausalität è inteso, come farà Fichte nella Grundlage, come sinonimo di Wirksamkeit, cioè della “capacità di produrre effetti” o “produttività” (cfr. GA I 2, 294; 189)53: se l’io è capacità di produrre effetti, ossia di agire fattivamente, il non-io è di conseguenza questa capacità castrata ma non per questo annullata, e quindi tensione, Streben. Per quanto riguarda il participio geendeten, mi pare quindi di poter condividere la scelta di Mauro Sacchetto, curatore dell’edizione italiana del testo presso l’editore UTET, di tradurlo con “limitato”, perché qui Fichte non vuole solo indugiare nel gioco di parole di un «avvicinamento finito all’infinito», ma anche rendere il cuore della propria via all’infinito che è proprio la limitazione (e l’urto, Anstoß). Dietro al geendeten c’è infatti il begrenzt e anche il bestimmt, ossia l’urto in cui s’imbatte l’avvicinamento nel suo tendere verso l’infinito e che in definitiva è un Sollen: un urto che non annulla la tensione, anzi la rafforza determinandola e destinandola proprio verso quell’infinito che altrimenti non sarebbe neppure pensabile.

In un secondo passo poi Fichte utilizza il termine delimitazione (Begrenzung) come sinonimo di fondazione e in riferimento al compimento che la parte teoretica della dottrina della scienza troverà nella parte pratica:

Nella seconda [parte della Grundlage, quella pratica] la parte teoretica perviene alla sua certa delimitazione (Begrenzung) e al suo saldo fondamento (GA I, 2, 151; 126 — corsivo mio).

Delimitazione è qui sinonimo di determinazione e di destinazione e tutti questi concetti, pur nella loro dinamicità, anzi proprio per questa, convergono su di un punto minimale ma allo stesso tempo certissimo che è l’io agente, l’io capace, l’io assoluto. Questo io nell’azione, limitata e determinata, quindi destinata nella tensione, è il perenne e immobile fondamento del mobile agire che ne deriva.

Il tema del limite si presenterà quindi congeniale a una filosofia o, meglio, a un filosofare come quello fichtiano, la cui natura è intrinsecamente pratica. Ma è evidente che quanto appena detto conduca già in medias res per quanto riguarda le riflessioni della Grundlage. È necessario pertanto interrompere il discorso per riprenderlo dal punto di vista di quest’opera, cosa che mi riservo di fare in un secondo momento.54

9. L’assoluto come limite

Solo un cenno, prima di chiudere. È interessante notare come il Begriff termini con una nuova affermazione di un limite trascendentale che questa volta non è più rappresentato dal pensiero di Kant, ma dai tre assoluti sopra prospettati: l’Io assoluto e il Non-Io assoluto ai quali si aggiunge la facoltà assoluta in noi di determinarci assolutamente. Chiude Fichte, maestro del limite:

Nessuna filosofia va al di là di questi tre assoluti (GA I, 2, 152; 127).


  1. «Nessuna filosofia va al di là di questi tre assoluti». La citazione è a conclusione del testo Sul concetto della dottrina della scienza, apparso nel maggio del 1798, nella sezione era che verrà poi eliminata nella seconda edizione del 1798. Oltre alla numerazione delle pagine secondo la canonica Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di Reinhard Lauth (et al.), F. Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 sgg., riporto, dopo il punto e virgola, la numerazione delle pagine dell’edizione italiana a cura di Mauro Sacchetto di J.G. Fichte, Scritti sulla dottrina della scienza 1794-1804, Utet, Torino 1999. ↩︎

  2. C. Fiorillo, Altrimenti che Enesidemo o al di qua del limite. La Recensione dell’«Enesidemo» di J.G. Fichte. In: “Annuario filosofico 22/2006”, Mursia, Milano 2007, pp. 237-264. ↩︎

  3. Ibid., pp. 260-261. ↩︎

  4. Ed. Industrie-Comptoirs, Weimar, 11 maggio 1794 — in GA I 2, 109-172. La traduzione italiana, dal titolo Sul concetto della dottrina della scienza ovvero sulla cosiddetta filosofia come scritto introduttivo alle lezioni su questa scienza, comprensiva anche delle Introduzioni aggiuntive e contributi alla seconda edizione, è disponibile a cura di M. Sacchetto, in J.G. Fichte, Scritti sulla dottrina della scienza, ed. cit., pp. 81-139. Sul contesto all’interno del quale nacque questo e gli altri scritti del periodo si veda soprattutto M. Ivaldo, Introduzione a J.G. Fichte, Lezioni di Zurigo. Sul concetto della dottrina della scienza, Guerini e Associati, Milano 1997, pp. 13-61 oltre ai più datati: G. Duso, Contraddizione e dialettica nella formazione del pensiero fichtiano, Argalia, Urbino 1974; F. Moiso, Natura e cultura nel primo Fichte, Mursia, Milano 1979 e altri saggi che, volta a volta, indicherò in nota. ↩︎

  5. Cfr. la lettera a Christian Gottlob Voigt del 15 (o del 9) gennaio 1794 (GA III 2, 42-43). È da notare che Voigt era il funzionario del duca (e dal 1815 granduca) di Sassonia-Weimar-Eisenach, Carlo Augusto, responsabile per l’università che, per la sua funzione, ebbe un ruolo importante nella chiamata di Fichte a Jena (pari forse a quello svolto, ma su tutt’altro piano, dal placet dello stesso Goethe) e che proprio in vista di questa aveva caldamente raccomandato a Fichte di definire il proprio pensiero dicendosi persino allarmato per le pericolose oscillazioni dello stesso — in particolare lo invitava a moderare le sua «fantasia (o fantasticheria) democratica» così come emergeva negli scritti sulla libertà di pensiero e sulla rivoluzione francese (usciti entrambi anonimi, ma dalla chiara paternità fichtiana, nel 1793) in modo da presentarsi più adatto al mondo accademico del ducato di Weimar (cfr. lettera di Voigt a Hufeland del 20 dicembre 1793, in AA.VV., J.G. Fichte im Gespräch. Berichte der Zeitgenossen, a cura di E. Fuchs et al., 7 volumi, Frommann-Holzboog Verlag, Stuttgart-Bad Cannstatt 1978 ss., vol. I, p. 77). ↩︎

  6. Sposata poi il 22 ottobre dello stesso anno. ↩︎

  7. Questa visita alla città di Magonza merita una nota. Dopo la conquista francese a opera del général moustache, lo sfortunato condottiero giacobino Adamo Filippo de Custine, nel 1792, Magonza aveva vissuto la prima esperienza democratica in terra tedesca. La repubblica, alla cui guida figuravano anche illustri personalità dell’università locale, resistette solo qualche mese e fu violentemente repressa dall’esercito prussiano nel luglio del 1793. L’episodio lasciò una forte impressione nel mondo della cultura liberale tedesca. La visita di Fichte si inserisce nel periodo di breve restaurazione prussiana, giacché Magonza tornerà sotto l’influenza francese già nel 1795, e il nostro sembra presentirne il destino, come risulta dalla lettera alla moglie del 12 maggio 1794: «i sentimenti della popolazione, i cui campi sono pur stati devastati dai francesi, vanno tuttavia a favore di questi ultimi. L’uomo comune li ama perché se qualcuno non aveva più nulla essi lo nutrivano; vengono furiosamente odiati solo dai ceti privilegiati. A Magonza e a Francoforte se ne auspica il ritorno» (lettera alla moglie del 12 maggio 1794; Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe, a cura di H. Schulz, Leipzig 1925, vol. I, p. 360). ↩︎

  8. Cfr. le lettere a Böttinger del 4 febbraio, a Voigt del 17 febbraio e infine di nuovo a Böttinger del 1 marzo nella quale per la prima volta fa riferimento a una Wissenschaftslehre, un termine scelto per distinguerlo dalla «“mera” passione per il sapere o filosofia» (GA III 2, 72). Si vedano al riguardo: R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, Guerini e Associati, Milano 1996 (in particolare pp. 99-109); D. Breazeale, Fichte, Early Philosophical Writings, Cornell University Press, Ithaca [NY] 1993, (in particolare pp. 87-93). In precedenza Fichte aveva tentato la strada di un’altra espressione, «filosofia elementare», poi abbandonata perché troppo legata a Reinhold: «Filosofia elementare è riflessione, pensiero sul modo più universale di agire o di patire del nostro io» (GA II 3, 22). ↩︎

  9. L’idea di presentare la filosofia trascendentale in forma gradevole e accessibile al grande pubblico, e quindi di esprimere concetti profondi in un modo che non apparisse così profondo, era un’avvincente scommessa per Fichte che alla fine si disse soddisfatto del risultato (cfr. la lettera a Böttinger del 2 aprile). Anzi nella prefazione alla Grundlage e poi quasi con le stesse parole negli “Annalen des philosophischen Tons” del 1797 (SW, II 481n.) egli affermerà: «non sarò in grado di scrivere in materia di speculazione nulla di comprensibile per coloro ai quali essa [la terza sezione del Begriff, § 8] risulta incomprensibile» (GA I 2, 253). ↩︎

  10. Solo Maimon, nell’agosto dello stesso anno, ricambiò l’apprezzamento con cui si apre il testo fichtiano, mentre Beck e lo stesso Reinhold avranno modo di esprimere, sia pur in modo anonimo, le loro critiche (cfr. M. Sacchetto, Nota introduttiva a Sul concetto della dottrina della scienza, in J.G. Fichte, Scritti sulla dottrina della scienza, ed. cit., pp. 77-79). ↩︎

  11. Non solo la dottrina dei tre principi, anticipata nel § 8 e molto criticata per la sua oscurità, sarà cassata dalle esposizioni della Dottrina della scienza successive al 1794, ma anche i temi «del piacevole, del bello, del sublime, della legalità naturale nella sua libertà, della teologia, del cosiddetto generale intelletto umano ovvero del naturale senso della verità e infine un diritto naturale e una teoria della moralità» (GA I 2, 151; 126), pur annunciate nella prima edizione dello scritto, troveranno altre collocazioni o semplicemente cadranno nel vuoto, per questo non vi si trova cenno nell’edizione successiva del Concetto↩︎

  12. Fichte segue le orme di Descartes anche nel titolo di un’opera rimasta incompiuta, e ancora inedita in italiano e resa nota al pubblico tedesco solo nel 1971, scritta proprio a cavallo tra il 1793 e il 1794: Eignen Meditationen über Elementarphilosophie (GA II 2, 21-177). ↩︎

  13. La traduzione di questa parola ha dato non pochi pensieri agli studiosi, forse la più interessante è quella proposta da Ives Radrizzani nell’introduzione all’edizione francese delle lezioni di Zurigo presso l’Archives de Philosophie: dopo aver tradotto il reinholdiano Tatsache con «fatto-cosa», Raddrizzani propone di tradurre Thathandlung con «fatto-atto». Qui come altrove propongo una versione leggermente sincopata della stessa traduzione: «(f)atto». ↩︎

  14. «Mi aiuta lo Spirito! All’improvviso vedo chiaro / e scrivo sicuro: “In principio era l’Atto!”». Cfr. J.W. Goethe, Faust I, vv. 1236-37, in ID., Gedenkausgabe der Werke — Briefe und Gespräche, a cura di E. Beutler, Artemis-Verlag (la celebre “Artemis-Ausgabe”), Zürich 1948 e sgg.; trad. it. a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1970, p. 95. Si noti — per inciso — che il primo frammento della “divina tragedia”, come amavano chiamarla i giovani studenti di Fichte, viene pubblicato dal “Giove di Weimar” con il titolo Faust. Ein Fragment nel settimo tomo delle sue opere complete, nel 1790. ↩︎

  15. In C. Cesa, Fichte e il primo idealismo, Sansoni, Firenze 1975, p. 8. In base a un’altra celebre testimonianza, quella del poeta danese Jens Immanuel Baggesen, si può collocare tale intuizione in data 7 dicembre 1793 (cfr. C. Cesa, Introduzione a Fichte, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 14). ↩︎

  16. L’espressione è utilizzata nella prima lezione pubblica (del 23 maggio) sulla missione dell’intellettuale, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten (cfr. GA I 3, 25-68; trad. it., con il titolo La missione del dotto, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 48). ↩︎

  17. Fichte si riferisce principalmente a Die Kategorien des Aristoteles del 1794, ma anche al precedente Über die Progressen der Philosophie del 1793 (cfr. l’introduzione al Begriff in GA I 2, 94-96). ↩︎

  18. Il professor K.C.E. Schmid (1761-1812) era un teologo, autore della prefazione del libro di Leonhard Creuzer (1764-1844), Skeptische Betrachtung über die Freiheit des Willens mit Hinsicht auf die neuesten Theorien über dieselben (Marburg 1793), che Fichte criticò aspramente per il suo «fatalismo intelligibile» nella detta recensione del 30 ottobre 1793 sull’Alz. Brillante oratore più che scrittore (cfr. il suo Kritik der reinen Vernunft im Grundnisse zu Vorlesungen, Jena, 1786, 17982), Schmid rappresentava un’autorità nell’atmosfera culturale della Jena dell’epoca. Si distingueva per le sue amicizie con Goethe, Novalis e quasi tutti i romantici della prima ora, ma filosoficamente era un intransigente e conservatore kantiano (del quale predicava il ritorno alla prima critica) e uno dei suoi primi divulgatori. Per questo polemizzò a lungo con Reinhold e soprattutto con lo stesso Fichte sulla possibilità di derivare la filosofia come sapere scientifico da un principio (Grundsatz) supremo. Già il 15 febbraio del 1794, dalle pagine della stessa Alz (14/1794), Schmid aveva replicato attaccando Fichte con una Dichiarazione (Erklärung) alla quale seguì la pronta risposta fichtiana con una Gegenerklärung datata Zurigo 8 marzo 1794 (n. 29/1794 dell’Alz, pp. 231-232; GA I 2, 75-58). Sulla polemica Schmid-Fichte, che proseguirà anche nel 1795 (anno in cui Fichte scriverà Vergleichung des von Herrn Prof. Schmid aufgestellten Systems mit der Wissenschaftslehre) si veda AA.VV., Fichte und Carl Christian Erhard Schmid, a cura di E. Bergmann, Poeschel & Treptel, Leipzig 1926; L. Sennewald, Carl Christian Erhard Schmid und sein Verhältins zu Fichte. Ein Beitrag zur Geschichte der kantischen Philosophie, Frommhold & Wendler, Leipzig, 1929; G. Graf von Wallwitz, Die Interpretation und Ausformung von Kants Philosophie durch Carl Christian Erhard Schmid (Diss.), Shaker, Aachen 1998. ↩︎

  19. Trad. it. di C. Cesa in ID., Fichte e il primo idealismo, ed. cit., pp. 48-49. ↩︎

  20. Anzi, la citata lettera a Voigt rivela che Fichte brancola nel buio: «un insegnate di filosofia — si legge nella lettera minuta — deve avere un sistema almeno per se stesso del tutto valido. Attualmente io non ne ho nessuno che mi soddisfi pienamente, e non sarei quindi in grado di soddisfare le alte aspettative che questa onorevole offerta a sollevato intorno a me» (GA III 2, 43). ↩︎

  21. Cfr. K.L Reinhold, Über das Fundament des philosophischen Wissens (Jena 1791), Meiner, Hamburg 1978, pp. 77-78. ↩︎

  22. Anche se solo della sua parte teoretica, come spiegherà la Grundlage. ↩︎

  23. Trad. it. a cura di E. Garulli in “Il pensiero”, Xxiii, luglio-dicembre 1982, pp. 97-119; la citazione è a p. 104. ↩︎

  24. G. Boffi, in J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Bompiani, Milano 2003, p. 673. ↩︎

  25. Sull’utilizzo del termine geendete e sulla sua traduzione si veda quanto dico subito sotto. ↩︎

  26. Come sappiamo, il tema del sentimento occuperà la seconda parte della Grundlage↩︎

  27. Cfr. il titolo del paragrafo n. 5: «Qual è il confine che distingue l’universale dottrina della scienza dalla scienza particolare che essa fonda?». ↩︎

  28. «Se quello scritto — scrive Fichte nella prefazione alla Grundlage — segna il limite del loro comprendere, allora esso è il limite della mia comprensibilità; i nostri spiriti sono divisi l’uno dall’altro da questo limite e io chiedo loro di non perdere tempo leggendo i miei scritti». ↩︎

  29. «Sistemare la filosofia critica — scrive Luigi Pareyson nella monografia dedicata a Fichte, opera insuperata quanto a profondità e lucidità — non può voler dire ordinarla sotto un principio ad essa eterogeneo, cioè ricadere nella metafisica dogmatica: dopo che la critica ha mostrato che la filosofia non è oggettiva, non riguarda direttamente l’essere, ma soltanto il sapere dell’essere, non si può subordinarla all’essere. La giustificazione del sapere dell’essere, cioè della coscienza reale e del suo realismo empirico, deve dipendere dall’erezione a principio della stessa essenza della critica, dall’assolutizzazione della sua impostazione, ch’è l’invalicabilità della ragione» (L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, Mursia, Milano 1976 (anche in copia anastatica presso lo stesso editore nelle Opere complete, vol. 5, 2011, a cura di C. Ciancio), p. 167. ↩︎

  30. Fichte stesso afferma di sapere «di non poter dire nulla su cui Kant, in modo diretto o indiretto, chiaramente o oscuramente, non si sia già espresso» (GA I, 2, 110; 83). ↩︎

  31. Sul tema della relazione tra dottrina della scienza e logica si veda P. Vodret, L’impostazione logica della teoria dei princìpi nella Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre e il rapporto con una possibile ontologia, in AA.VV., Leggere Fichte vol. I: La fondazione del sapere e l’ontologia trascendentale¸ Editions Euro-Philosophie on line (*http://www.europhilosophie-editions.eu/fr/IMG/pdf/leggere_fichte1.pdf*), pp. 33-56. ↩︎

  32. Ancora il Faust del «Am Anfang war die Tat!». ↩︎

  33. Inserito nella seconda edizione del 1798. ↩︎

  34. Cfr. GA I 2, 119; 93: «se si dia una tale libertà [la 2a ed. aggiunge: “del nostro spirito”], allo stesso modo noi ora non possiamo ancora sapere». ↩︎

  35. Sulla singolare questione della “connessione” tra Fichte e la matematica si veda il supplemento n. 29 delle Fichte-Studien a cura di David W. Wood, «Mathesis of the Mind». A Study of Fichte’s Wissenschaftslehre and Geometry, Rodopi, Amsterdam-New York 2012. ↩︎

  36. Cfr. anche la lettera a Johann Friedrich Flatt, novembre-dicembre 1793 (GA III 2, 18); la lettera a Franz Volkmar Reinhard, 15 gennaio 1794 (GA III 2, 40); e quella a Karl August Böttinger, 4 febbraio 1794 (GA III 2, 55). ↩︎

  37. D.W. Wood, «Mathesis of the Mind». A Study of Fichte’s Wissenschaftslehre and Geometry, ed. cit.. ↩︎

  38. Uscita solo nel 1993 in GA II 9, 51-171. ↩︎

  39. Non è un caso che proprio di quest’inverno siano le già citate “meditazioni” raccolte in Eigne Meditationen über Elementarphilosophie che Reinhard Lauth chiama il suo «sistema in statu nascendi» (cfr. R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, ed. cit., p. 101). ↩︎

  40. Cfr. J. Widmann, Die Grundstruktur des transzendentale Wissen nach Joh. Gottl. Fichtes Wissenschaftslehre 18042, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1977, p. 16. ↩︎

  41. La quarta lezione del 27 febbraio 1794 è alle pp. 32-37 della GA; la sua traduzione è in Lezioni di Zurigo…, ed. cit., pp. 91-101. ↩︎

  42. Cfr. A. Speiser, Ein Parmenideskommentar. Studien zur platonischen Dialektik, K.F. Koehler, Leipzig 19592, pp. 73-78. ↩︎

  43. Cfr. D.W. Wood, op. cit., pp. 8-9. Si pensi, per esempio, all’incipit categorico del Sonnenklarer Bericht an das größere Publikum über das eigentliche Wesen der neuesten Philosophie. Ein Versuch, den Leser zum Verstehen zu zwingen, edito presso l’editore Späthen di Berlino nel 1801: «l’autore di questo sistema è convinto, per quanto lo riguarda, che c’è un’unica filosofia così come c’è un’unica matematica» (GA I 7, 185; trad. it., Rapporto chiaro come il sole per un pubblico più vasto sull’essenza propria della più recente filosofia. Un tentativo di costringere il lettore a capire, a cura di M. Sacchetto in J.G.Fichte, Scritti sulla dottrina della scienza 1794-1804, ed. cit., p. 485). ↩︎

  44. G. de StaËL, De l’Allemagne (orig. 1813), Flammarion, Paris 1968, vol. 2, p. 148. ↩︎

  45. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in ID., Gesammelte Werke, a cura di F. Hogemann e W. Jaeschke, Felix Meiner Verlag, Amburg 1985 (20082), vol. 21, p. 141; trad. it., Scienza della logica, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 143. ↩︎

  46. «Tutte le scienze vanno verso la libertà, tanto quelle del nostro spirito quanto quelle del Non-Io assolutamente indipendente da noi» (GA I 2, 136; 111). ↩︎

  47. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, ed. cit., p. 130 (trad. it., p. 132). Cfr. anche la nota a p. 132 (trad. it., p. 133): «Nel dover essere [Sollen] comincia l’oltrepassamento della finità, l’infinità. Il dover essere è quello che, in un ulteriore sviluppo, si presenta dietro a quella impossibilità come il progresso all’infinito». ↩︎

  48. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, ed. cit., vol. 11, pp. 10-11 (trad. it., p. 441 — per traduzione del passo ho preferito riportare la versione italiana che Luigi Pareyson propone nel suo Fichte. Il sistema della libertà, ed. cit., p. 34). ↩︎

  49. Fichte non chiarirà mai la profonda ragione dell’abbandono della dottrina dei principi e della sua sostituzione con la dottrina dell’intuizione intellettuale, cui segue anche la rinuncia anche alla poco «naturale» e troppo «kantiana» bipartizione teoria-pratica. Al riguardo scrive Cesa: «Si può supporre, inoltre, che Fichte si fosse accorto di non aver dato quella fondazione trascendentale dei principi logici che pure aveva promesso, e che avrebbe dovuto legittimare a posteriori il ruolo ad essi attribuito; […] Si può capire quindi perché Fichte abbia scelto un approccio più immediato, nel quale l’evidenza si manifestasse senza la mediazione della tradizionale formula dell’identità, e si esprimesse, insieme, la libertà» (C. Cesa, Introduzione a Fichte, ed. cit., p. 54). ↩︎

  50. La storia della ricezione da parte dei contemporanei del concetto di Non-Io — che generò sorpresa e sarcasmo, nonostante questo potesse vantare un avo illustre nella nozione scolastica di «impedimentum» (cfr. C. Cesa, Introduzione a Fichte, ed. cit., p. 21) — meriterebbe un saggio a parte. ↩︎

  51. Cfr. M. Ivaldo, Introduzione a J.G. Fichte, Lezioni di Zurigo…, ed. cit., p. 20. ↩︎

  52. Cfr. AA.VV., Fichte im Gespräch, ed. cit., vol. I, p. 52. ↩︎

  53. Mauro Sacchetto nella sua edizione Utet (1999) del Fondamento traduce con «produttività», Guido Boffi, nell’edizione Bompiani (2003) traduce con «capacità di produrre effetti» (p. 237). ↩︎

  54. Parimenti, il riferimento finale (cfr. GA I 2, 153-154; 128) alla «missione del dotto» richiede di indugiare sulle lezioni pubbliche tenute a Jena nel giugno del 1794 e dedicate al tema «de officiis eruditorum». ↩︎