Il «Cattivo soggetto» e le domande dell’ermeneutica

Hier sitz’ ich, forme Menschen nach meinem Bilde, ein Geschlecht, das mir gleich sei, zu leiden, weinen, genießen und zu freuen sich, und dein nicht zu achten, wie ich.

— J. W. Goethe, Prometheus1

1. La farmacia di Heidegger

La farmacia di Heidegger ha chiuso — non è poco tempo che la filosofia dibatte la possibilità di un nuovo parricidio — e tuttavia, non è caduta in oblio l’istanza ermeneutica del filosofare. Se, per un verso, è conclusa la fase della cultura continentale che va sotto il nome di filosofia ermeneutica che ha avuto come interpreti i discepoli di Heidegger di prima e seconda generazione, non è morta per questo l’ermeneutica filosofica. Non è esaurita cioè quella pratica filosofica che muove da un già dato nella consapevolezza che alla riflessione tutto giunge dall’esterno ma nulla è estraneo.2 La filosofia vive nella miseria del fuori tempo che è però ricchezza del riconoscimento che passa però inevitabilmente attraverso la frattura, il fraintendimento, il fallimento.3 Come Eros, essa ha il possesso della verità come impegno a ricercarla sempre e ulteriormente — e nella ricerca «qualcosa accade sul serio»,4 e per questo essa è anche, innanzitutto e perlopiù, creazione.

Non solo. La pratica filosofica muove dalla consapevolezza che le diverse interpretazioni sono stazioni lungo la via crucis del pensiero attivo e, allo stesso tempo, rampe di lancio per l’azione: «È grigia, caro amico, qualunque teoria. / Verde è l’albero d’oro della vita», così il Mefistofele di Goethe rivela il primato kantiano della ragion pratica (Faust, vv. 2. 038-2. 039).5

Di più ancora. La pratica filosofica sa che le diverse interpretazioni sono ponti gettati verso il mistero dell’altro. Come aveva intuito Schleiermacher, la questione ermeneutica fondamentale è l’oscurità del tu e l’abisso dell’alterità personale, per cui ogni comunicare è tradurre, ogni dire è intendere, ogni comprendere è interpretare.6

Ricerca di senso, pensiero attivo, mistero dell’alterità. All’interno di questa costellazione di senso, l’espressione “le domande dell’ermeneutica” assume tonalità particolari: le domande intorno all’opera d’arte, al significato del testo o il tentativo di comprendere l’autore meglio di come lui stesso si era compreso sono superate dall’interrogare che nasce nelle pieghe dell’esistenza e che richiede risposte personali, testimonianze responsabili, e che non di rado di fronte al limite e alla resistenza dell’alterità rimane aperto o — che è lo stesso — rimanda la questione al mittente. Per quanto si sforzino di uscire, trascendere e travalicare il limite del proprio quaerere, le domande dell’ermeneutica rimangono, così, aperte. Il difficile riconoscimento è il fardello di Eros, il cui significato (con buona pace dei puristi in filologia) sta nell’erotân7 platonico, cioè nel palpitante domandare in cui qualcosa vede la luce.

Vi è però un rischio mortale: che il primato della pratica si trasformi nel imperio del fraintendimento,8 che il domandare scada in retorica, che la risposta giunga anch’essa fuori tempo o magari nella lingua sbagliata! È un rischio che non va eluso, ma consapevolmente corso — «il rischio è bello», dice Platone.9

Fare una storia dell’ermeneutica sarebbe oggi pleonasmo. Mi piace invece riflettere un po’con voi su due figure del rischioso dialegesthai interrogante, che a tutta prima parrebbe infecondo: Pilato e Faust. In questo mio salpare da posizioni esterne alla filosofia, ma che le danno da pensare, tradisco personali inclinazioni ermeneutiche. In più con un misto di sacro e profano intendo far dialogare le due anime dell’ermeneutica, l’esegesi biblica e l’interpretazione dei classici lasciando ad altri lo spazio per l’ermeneutica giuridica.10 Pilato domanda ma non attende risposa; Faust invece riceve un rifiuto a quella che più che domanda era disperata richiesta d’adozione. Come nel pensiero n. 372 di Pascal entrambi, silenzio e rifiuto, ammaestrano più di qualsiasi risposta. In quel che vado dicendo prendo questo pensiero interrotto come traccia di ricerca: «Mentre scrivo il mio pensiero, questo talvolta mi sfugge; ma ciò mi fa ricordare la mia debolezza, che dimentico ad ogni momento; il che m’istruisce quanto il pensiero dimenticato, poiché non tendo che a conoscere il mio nulla».11

2. La «più bella occasione»

2.1. Domanda aperta

Giudice umano di qualcosa che infinitamente lo trascende, e tuttavia giudice, cioè custode delle chiavi della libertà e della croce, Pilato giunge al limite estremo delle possibilità ermeneutiche:

egli domanda della verità a Colui che si presenta al mondo come «la via, la verità, la vita»12 (la storia umana e Chi ne tiene il timone non sono certo privi d’ironia!). «Mein schönstes Glück! » dirà Faust (v. 519), la più bella occasione, forse l’unico match point filosofico: interrogare la sorgente della risposta.

Ma Pilato se ne va. Spiazzando l’umanità intera, spettatrice nascosta dell’evento sublime, egli interroga e non attende risposta. Non la vuole, forse. Forse sa che non l’avrebbe, e non sopporta il silenzio dell’Innocente che rilancerebbe a lui ogni responsabilità (ché per il greco che è ancora nella sua romanità lavarsi le mani ha valore solo in solitaria).13 Forse è solo domanda retorica. Forse. Tanto noi quanto lui restiamo accampati nel dubbio, ma lui, a differenza nostra, lo sceglie. Doppio-fallo filosofico (non aspetta, esce) che fa sfumare l’unico match point che la storia della filosofia ricordi: uscendo dal silenzio del Pretorio Pilato entra nel vociare di piazza che però non dice nulla sul serio, e per questo condanna la verità. Sporgendosi sulla folla, come nel dipinto di Ciseri, egli si tira fuori dallo spazio pubblico in cui solo sono possibili comunicazione e lotta per la verità. E questo ritrarsi segna, appunto, la condanna a morte della verità (e non è un caso che in questi giorni si trovi in libreria un libro di Gianni Vattimo che grida Addio alla Verità).14

E tuttavia, il fallimento della più bella occasione può capovolgersi in felix culpa, perché Pilato — cavaliere dell’errare e maestro d’ermeneutica — pare sapere bene che l’intelligenza umana sta nel domandare, e che la risposta è tutta un’altra storia. La risposta è fede.

2.2. «Ecce Ego!» … «Ecce homo!»

Sì, perché la risposta del Salvatore sarebbe stata (vesto un attimo, per azzardo, i panni del Messia): «Sono io. Eccomi. ECCE EGO!».15 Ma qui la filosofia chiude. Si apre la fede di chi crede che sì, la verità sia Lui.

Oggi il credente pregherebbe Pilato di aspettare: «Écoutez Dieu», come chiede Pascal,16 «Ascolta o Israele! » come ripete senza sosta Torah.

Ma Pilato è filosofo, non è credente. Operaio precario nella vigna del sapere, campeggia nel penultimo, non sa nulla ma pensa di saperla lunga e rivela, inconsapevole, la verità al popolo d’Israele: «ECCE HOMO!».17

L’«Ecce ego! » di Cristo diviene nell’errata traduzione di Pilato «Ecce homo! ». La verità ricercata dalla domanda si cela tutta nello spazio di quest’errore: nella differenza tra EGO e HOMO. Tra i due, come termine medio, sta l’esistenza: ECCE! Mentre i corni, EGO e HOMO, sono alfa e omega del campo di forze che si staglia, come immane paradosso, tra l’uomo e il suo io.

Per noi, che viviamo nel tempo della privazione, il compito sarà quello di percorrere a ritroso lo spazio di questa differenza: dall’HOMO all’EGO. In questo cammino che compie verso il proprio io, cammino che si chiama COSCIENZA, l’uomo traguarda il mistero di ciò che è interior intimo suo: perché nell’EGO convergono l’io dell’essere umano e l’io del Messia che si rende disponibile nello spazio e nel tempo, nel sublime «qui» del pretorio.

2.3. La verità è la nostra via

La verità ricercata dalla domanda sta nel cammino dall’HOMO verso l’EGO, dicevo. Tornano alla memoria le parole di Karl Jaspers, all’inizio di Von der Wahrheit: «La verità non è un nostro possesso esclusivo perché noi viviamo nel tempo. La verità è la nostra via».18 Il possesso della verità consentirebbe la sua imposizione, magari violenta, a chi non l’avesse compresa o non la volesse intendere; e allo stesso tempo interromperebbe la domanda, la ricerca e la vita stessa. Il possesso, per un certo verso, uccide il soggetto che non è solo sostanza ma vive nel dinamismo dell’azione, della relazione, nel tempo. Ma, per felice imperfezione, nessun amplesso elimina la persefonina verginità della verità, ché altrimenti porterebbe alla morte l’uomo (non certo lei). Lo stesso Goethe nella lirica Zueignung (1784) che apre la raccolta delle sue opere in quaranta volumi curata di persona a partire dal 1828 presso l’editore Cotta,19 mostra come la luce della verità, «donna divina» (v. 30), non giunga mai impunemente agli uomini — ché chi credesse di possederla la chiuderebbe in sé non rivelandola ad altri (vv. 55-56) — ma attraverso un «purissimo velo» (reinster Schleier) in cui il giovane Goethe riconosce la poesia (v. 96).20

E tuttavia, a questo punto qualcuno preferirebbe morire nella Verità piuttosto che ritardarne l’avvento in una via d’incompiutezza e vaghi rimandi. Ma, come dicevo, qui la filosofia chiude e si apre lo spazio della fede. Per chi, come chi parla, si vorrebbe situare al di qua dell’affascinate salto nella Verità — e preferirebbe ritardarlo per quanto gli è possibile — l’inesauribilità della verità conserva ancora alcune belle occasioni. Prima tra tutte, la possibilità di indugiare all’interno dei confini aperti dalla dialettica pilatesca: la coscienza (transito dall’HOMO all’EGO) e il suo medio (l’ECCE). In questo senso la verità è un’impresa: quella dell’io che nella soglia dell’ECCE tenta di tenere insieme gli estremi che lo dilaniano — ma la forza è la sua. Ebbene il Faust di Goethe è cifra filosoficamente significante di questo cosciente ed errante essere-tra.

3. «Du gleichst dem Geist den… »

3.1. Dialegesthai

Tra Pilato e Cristo c’è stato un dialegesthai, caleidoscopio di fraintendimenti, dove, nonostante quel che Pilato non ha inteso e quel che Cristo non ha detto, qualcosa è accaduto. E qualcosa di significativo.

Altro dialegesthai, asimmetrico come questo e parimenti fecondo, è quello tra Faust e Mefistofele nell’opera di Goethe che gli alunni di Fichte amavano chiamare «göttliche Tragödie», divina tragedia.21

Dove il domandare ermeneutico di Pilato non lasciava spazio di replica, un altro interlocutore d’eccezione, Mefistofele appunto, prende per sé anzi ruba il tempo della replica. Si tratta però di risposta non petita (giacché l’invocazione faustiana non voleva eccezioni) e di certo anche non gradita. Ma andiamo con ordine.

3.2. «Du gleichst dem Geist den…»

L’avventura di Faust, al limite tra umano e meta-umano, si apre nel segno di un rifiuto, sigillo d’impossibilità: «Du gleichst dem Geist den du begreifst, / nicht mir! » — «Tu somigli allo spirito che comprendi, non a me!» (vv. 512-513).

Il giovane Faust, insoddisfatto dalle ragioni dell’ortodossia culturale, ha voluto valicarne regole e barriere così da aprire al demoniaco nella presunzione di scorgere affinità e infinità. Presunzione che rivela speranza e fede, e che insperabilmente ha successo: lo Spirito si manifesta con le parole che prima ho attribuito al Cristo imputato di fronte al tribunale dell’uomo: «Da bin ich! » (v. 489), Ecce ego! Ma il parallelo non procede oltre, per ora. Quel che segue infatti è la parodia della domanda edenica che il Signore rivolge ad Adamo fresco di colpa: «Superuomo (Übermensch) […] Dove sei, Faust? […] Sei tu […] quel verme spaurito che si torce?» (vv. 490, 494, 498).22

Non si sa più bene chi abbia chiamato chi. Ma a scanso di equivoci, pur non sostenendo la vista di questo novello roveto ardente — «Flammenbildung», spettro di fiamma (v. 499) e addirittura «Ein glühend Leben», vita rovente (v. 507) — e ignorando i dotti insulti che lo spirito gli getta contro, Faust azzarda un approccio: «Sono io, sono Faust, pari a te (deinesgleichen)!» (v. 500).

Tornerò in seguito sulla profondissima banalità della tautegoria «sono io». Rilevo solo per ora che si tratta del rovescio dell’ECCE EGO di Mefistofele: il da-bin-ich diviene ich-bins. Al di là delle regole sintattiche della lingua tedesca, il rovesciamento sembra condizione per il riconoscimento. Faust è il calco di Mefistofele, e questi è il suo negativo.

Ora mi soffermo sul deinesgleichen che chiude il verso dinamizzato dalla triplice ripetizione dell’essere: «Ich BINS, BIN Faust, BIN deinesgleichen».

Teologo orfano e parricida, Faust per colmare il vuoto di Dio ci mette del suo: la terra. Cent’anni prima della morte di Dio egli risponde all’imperativo nietzschiano di fedeltà alla terra. Ma la terra è il calco del cielo, e a Faust non rimane che invocare il demonio. E questi, lo Spirito della Terra, da onesto negativo di Dio, rovescia il FIAT della Genesi in un NICHT MIR. L’agognata affiliazione demoniaca urta così già en arché (nella prima scena, Notte, della prima parte dell’opera)23 contro il limite della dissomiglianza, che è radicale alterità. Questo limite si erge ancora più insormontabile perché detto con le parole — ancora una volta — della Scrittura: immagine e somiglianza che legavano creatura e creatore vengono ora rovesciate tanto più irreparabilmente quanto più il rifiuto è posto da Mefistofele già da subito, en arché, come limite invalicabile: «tu somigli allo spirito che tu comprendi, non a me!».

I due “tu” ripetuti a distanza ravvicinata, atterrano di rimbalzo il climax della Vorstellung faustiana, ich-Faust-DEINESGLEICHEN, ed esasperano alterità, iato e chorismós ricacciando Faust lontano da quel contatto e da quell’intesa che invocava. Il dottor Faust infatti, se prima aveva espresso pretese di somiglianza, poi aveva tentato anche la via della prossimità e della vicinanza. Nei versi subito precedenti aveva invocato lo spirito supremo con queste parole: «Tu che per il vasto mondo scorri, / operoso Spirito, quanto mi sento vicino a te!» (v. 511-512). Vicino, prossimo e quindi anche simile.

È interessante notare come Mefistofele interpreti la prossimità sentita come pretesa somiglianza, e rifiuti entrambe, quasi a marcare una doppia barriera tra umano e assoluto: dissomiglianza e lontananza, giacché la contiguità pur nella differenza sarebbe pur sempre una forma di contatto, e quindi d’intesa possibile. E invece no: né simile né vicino.24 Sono queste le «incerte condizioni dell’umanità» (v. 629) in cui ama muoversi l’ermeneutica. In particolare la presa di distanza è la dolorosa frattura, frutto della cesura storica o del fallimento di un approssimarsi all’assoluto come quello faustiano, che se da un lato apre al fraintendimento dall’altro lascia aperto lo spazio per l’interpretazione come possibile creazione del nuovo a partire dall’assimilazione (l’Aneignung jaspersiana)25 critica e personale del passato.

L’ultima citazione di questo passo che dà da pensare — sempre sotto il segno del rovesciamento — non è una parola ma un atto (Tat): appena pronunciata la fatidica frase («Tu somigli…» etc.) lo spirito si dissolve. Come Pilato, se ne va senza concedere repliche.

E Faust, ormai solo, spazzato via e annientato (hinweggerafft) dalla parola-tuono (Donnerwort) che nella Bibbia è Rivelazione26 ma qui è scacco del NICHT MIR, dialoga ora col nulla ch’egli è rimasto: «Non a te? / A chi allora? / Io, immagine della Divinità! / Neanche a te? / Oh morte! […] Nel nulla, la mia più bella occasione» (mein schönstes Glück; vv. 514-517, 519). Sfuma anche questa «più bella occasione» di contatto con l’assoluto. Anzi, degenera in farsa, con l’irruzione della meschinità che vorrebbe «sapere tutto»: l’arido noioso famulus Wagner. Solo quando anche questi esce di scena lasciandolo di nuovo, ridondantemente, solo, Faust torna a ripetere — «con inesausta nostalgia», scrive Piero Citati27 — quasi a convincersene nonostante tutto, la sua pretesa affiliazione: «Io, immagine di Dio, che si fingeva prossimo / già allo specchio dell’eterna verità, / che nei limpidi cieli e nella chiarità, / spogliata la veste mortale, godeva di se stesso / io, più di un Cherubino, la cui libera forza / aveva, in un suo anelito, presunto / di scorrere già per le vede della Natura / e, creando, godere di vita divina / — come devo espiarlo, io, questo! Il tuono / d’una parola m’ha annientato» (vv. 614-622; corsivi miei). La profezia del pensiero n. 372 di Pascal s’è avverata. Faust non tende che a conoscere il proprio nulla.28

Come quello tra Pilato e Cristo, anche questo non è dialogo ma epitaffio. Pietra tombale che chiude la partita prima ancora del calcio d’inizio. O se lo è, se è un dialogo (ed è questa l’illusione dell’ermeneutica: che tutto sia dialogo, rimando, sponda, cifra e che l’interpretazione sia replica, rimbalzo, risposta)29 è un dialogo aperto la cui risposta va cercata nelle pieghe del non-detto.

3.3. Esodo 3, 14

Cent’anni prima della Gaia scienza, il teologo Faust sperimenta il rovesciamento del rapporto umano-divino e la riduzione del divino a feuerbachiana immagine e somiglianza dell’umano desiderio d’infinito. E nel caso di Dio la riduzione equivale a morte. Ma è la morte di Platone (come sappiamo), prima che di Dio o dell’uomo. È la morte cioè della parousìa che, unendoli, separa uomo e iperuranio: le idee della ragione non sono che pensieri dell’uomo, mentre l’essenziale è Tutt’Altro.

Nel celebre passo Esodo 3, 14 il Dio della Torah aveva declinato se stesso al positivo, come essere-per-sempre-presente e quindi al futuro: «Ehyèh ashèr ehyèh». Letteralmente: “sarò quel che <o colui che> sarò” con un’esplicita ripresa di quanto assicurato a Mosè due versi prima: «Ehyèh immàch», “sarò con te” (Esodo 3, 12). E così infatti traduce Martin Buber;30 mentre i Settanta, non senza grande libertà, hanno reso con «egó eimi ho ón» e con ciò hanno posto le fondamenta per l’intera ontologia occidentale. Per inciso, come da più parti è stato rilevato, la traduzione sarebbe letteralmente inaccettabile, giacché pone un soggetto, un verbo al presente, un participio presente con articolo… tutti elementi assenti nel testo originale. Solo la Vulgata di san Girolamo torna a fare un po’di giustizia con un «ego sum qui sum» molto più fedele all’originale ebraico — se solo fosse al futuro: «ero qui ero». . .31

Ora, l’interlocutore demoniaco si presenta come il rovesciamento dell’esser-per-sempre-presente: sebbene abbia esordito con un ECCE EGO, subito poi rompe la presenza, cioè la disponibilità e la prossimità: “Io sono colui che non comprendi!”. È un presente senza presenza, un ECCE senza EGO. Un «maledetto QUI» (Das verfluchte Hier!; v. 11. 233) che è limite all’infinito che Faust — con profonda prossimità alle forze vitali della natura — sente di essere. “Io sono colui che non comprendi!”. Detto altrimenti, applicando rovesciata la prova ontologica: “Io non sono!”. Mefistofele, fondatore della me-ontologia, è il primo maestro del sospetto.

3.4. Ospitalità del negativo

Se è vero che il simile conosce il simile (cosa tutta da dimostrare in un ginepraio di peripezie semantiche come quello in cui mi sono cacciato), Faust dialoga con il simile e somiglia a ciò che comprende: il Non-Io non è nelle sue corde. Non lo pone, non lo produce, non lo comprende, non lo riconosce.

Cosa gli rimane da (ri)conoscere, allora? A cosa è simile?

La pretesa somiglianza era figlia inconsapevole, se non illegittima, del pensiero onnivoro, totalitario, tristemente wagneriano32 e illuministicamente assetato d’ipertrofia del soggetto — che è altra cosa dall’infinito che pure Faust sente in sé. Ma il pensiero sfugge. Faust, come Eva, ha peccato d’illuminismo (“Sarete uguali a Dio… ”).33

Ora non rimane che essere uguale a sé — e già questo è compito d’una vita!

E tuttavia, Faust aveva ragione, quando rispondeva all’appello al super-uomo di Mefistofele, con l’attestazione (che con Coleridge ho chiamato tautegorica)34 “Sono io”. Ma non era affermazione, era negazione. Era quel che resta dell’io quando gli è negata ogni affiliazione divina o demoniaca. Chi è l’oltre-uomo? Semplicemente l’io. Non il primo io che si voleva uguale a Dio, ma questo secondo, umiliato e annientato dal tuono della negazione (non negazione assoluta ma determinata, che fa molto più male: NICHT MIR), che non assomiglia a nulla se non a sé — la cui esistenza sotto il segno del naufragio è (r)esistenza.

Ma il gioco delle peripezie non termina. La fragilità di Faust (filosofo, e non credente) scalza la pietra tombale deposta sopra la sua testa dalle parole di Mefistofele: la sua incapacità ad accettare l’incondizionato rifiuto, l’impossibilità a dismettere le categorie canoniche del pensiero e a lasciare l’ontologia per un’incerta35 me-ontologia, infine la mancanza di hýbris che farebbe sfidare a duello il trascendente insultatore — come Marsia Apollo -, sono tutti caratteri della debolezza di Faust che però, secondo la grammatica del rovesciamento tipica della tragedia36 e della modernità (e diletto dell’ermeneutica) è forza (ma forza di (r)esistenza).

Infatti Faust non fugge, come invece Pilato. Anzi, quando lo spirito torna (nella terza scena, Studio) lui è lì ad accoglierlo, come se dialogare con Satana fosse la cosa più naturale del mondo (vv. 1. 322 sgg.). Ripeto è debolezza questa. Ma è la debolezza di Chisciotte, che è invincibilità.37 Non fugge. Come Cristo nel pretorio, rimane disponibile. Il suo fare, che in verità è un subire, l’ingenua caparbietà del vinto di resistere nel minimale punto zero della disponibilità, capovolge il limite in possibilità, il rifiuto in dialogo. È forza di resistenza, si dirà, non forza attiva. Ma pur sempre forza. Ché dissomiglianza è sì insulto e inciampo ma anche realtà (il non-essere è un modo di essere, se ad esso ci si tiene aggrappati disperatamente, pur di lontano). E ancor di più: è realtà condivisa, anche se non compresa.

Il rifiuto costituisce (costruisce, edifica) una nuova possibile soggettività, aperta alla relazione perché ferita dal fallimento della relazione (egoica, illuministica, wagneriana) di somiglianza. Il limite sancito dal rifiuto rompe la soggettività irrelata, che affiliandosi a Dio l’avrebbe voluto assoggettare, e apre, per colui che vi soggiorna, al contatto con un mondo che si definisce tuttavia solo negativamente: Non-Io, Altro, Tutt’Altro. C’è un Non-Io dietro al Tu. I limiti venuti all’evidenza spingono quindi Faust a cercare l’ospitalità del negativo.

Nelle pieghe del negativo (e della differenza) emerge quindi, inattesa, un’altra affinità, differente dalla pretesa originaria. La rivela, inconsapevole, lo stesso Mefistofele, quando poco oltre ricorda a Faust: «Tu sei, in fondo… quel che sei. / Mettiti in testa parrucche con centomila riccioli, / mettiti ai piedi coturni alti un braccio, / resterai sempre quel che sei» (Du bist am Ende — was du bist. […] Du bleibst doch immer, was du bist! — vv. 1806-1809).

Torna l’insistenza del “tu” per dire che l’io è limite a sé: homo homini limen. «Tu sei quel che sei» vuol dire che non c’è azione che renda l’uomo estraneo a sé; non c’è domanda che esca dall’io; ogni valico è sempre ritorno, anabasi del soggetto.

3.5. Anabasi del soggetto

E tuttavia, nel negare somiglianza a sé, Mefistofele rivela una differente e più alta affiliazione: la figliolanza divina di Faust. Nell’allontanarlo da sé, lo risospinge verso Dio. La sua definizione è infatti omogenea a quella che Dio dà di se stesso in Esodo 3, 14: «sono colui che sono». Non si tratta dell’immobile cristallizzazione dell’identità (divina o umana, quale che sia), ma piuttosto della comune destinazione all’identità nella coscienza, ossia in quello che avevo chiamato cammino dall’HOMO all’EGO. A ragione Buber traduce questo dinamismo con «io sono colui che sarà sempre con te!». E qui sta il senso del futuro del testo originario: «sarò quel che sarò», «sarai quel che sarai». Per Dio è l’eterno trinitario, per l’uomo un compito: il riconoscimento.

Ecco che da questa affiliazione (che in fondo è un’altra somiglianza, con se stesso — e nella somiglianza a sé è somiglianza a Dio) Faust trae allo stesso tempo forza e identità. Ma forza di (r)esistenza, dicevo. Infatti Faust non è un eroe, e tuttavia così accade. Come dicevo, l’urto, il rifiuto, il limite sono forieri di possibilità o pietra tombale. Faust li accetta come suo EGO e continua a vivere. Accetta di dimorare nel limite invalicabile dell’imperativo mefistofelico «tu non mi comprenderai», accoglie il proprio io come limite a se stesso, e così l’invocata affiliazione (nei confronti dello Spirito) trova un esito pur nella dissomiglianza. Torna alla memoria la voce che chiude la prima parte dell’opera: «Ist gerettet! », è salvato (v. 4. 611).38

Di più. La messa fuori gioco della somiglianza (con lo Spirito) diviene per Faust condizione di possibilità del superamento dei limiti della doxa fallace e, nell’assunzione del limite a dimora, diviene apertura alle vie della possibilità (del Non-Io, di Altri, di Dio).39 Ma tutte queste vie non conducono fuori, ma verso l’io.

4. Tracce di «cattivo soggetto»

Ora, dal momento che Pilato, Mefistofele e Faust hanno preso quasi tutto il tempo, rimane solo lo spazio per alcune tracce di una riflessione ulteriore, che tuttavia merita almeno la durata di un accenno.

4.1. Deontologizzazione dell’io

Coevo alla gestazione del Faust goethiano, nell’orizzonte filosofico si consuma il rovesciamento tra sostanza e accidente che non è semplice ribaltamento delle prospettive cognitive ma nodo centrale della modernità. All’alba del diciannovesimo secolo, infatti, la radicalizzazione del trascendentale kantiano, cioè la sua ontologizzazione, apre la strada per la deontologizzazione dell’io che in Hegel assumerà i caratteri del passaggio dalla Sostanza al Soggetto,40 ma che già in Fichte era presente nel capovolgimento dell’assunto della metafisica classica: “esse sequitur operari”.41

4.2. Dalla sostanza alla relazione

E tuttavia, mi pare rilevante il fatto che la riflessione successiva, o forse la storiografia che l’ha seguita, abbia corso il rischio di sclerotizzare questa deontologizzazione sul versante del solo accidente dell’azione e solo di recente abbia riscoperto la ricchezza contenuta negli altri accidenti. Per esempio, davvero fecondo è il passaggio dalla sostanza alla relazione (di cui peraltro non sono all’oscuro né gli stessi Fichte e Hegel, né autori successivi come Kierkegaard).

Se per il romantico ciò che costituisce l’io è principalmente l’agire (basti pensare all’esegesi faustiana del prologo giovanneo: «Im Anfang war das Wort… Im Anfang war der Sinn… Im Anfang war die Kraft… Im Anfang war die Tat», «In principio era la Parola… In principio era il Senso… In principio era l’Energia… In principio era l’Atto» — vv. 1. 224, 1. 229, 1. 232 e 1. 237) ,42 così anche la relazione può essere ontologicamente costitutiva dell’io. Unita alla relazione l’azione può smettere i panni di prerogativa dell’etico/pratica e divenire dimensione ontologica dell’io. Parimenti la sostanza diviene accidente, fragile, fluida, indeterminata: l’io non è più dato, ma da realizzare. Ma non più nella solitaria attività del singolo, piuttosto nella relazione in cui l’io si accerta di sé, di riconosce e si costruisce con e contro l’altro io.

La categoria della relazione, del resto, fornisce spazialità (e quindi consistenza nel tempo) alla categoria altrimenti solo temporale (e quindi maggiormente sbilanciata sul nulla) dell’azione.

4.3. Riflessione e (r)esistenza: un’altra ontologia

Il capovolgimento sostanza-relazione apre all’io un orizzonte ontologico nuovo: vi è un’ontologia dell’alterità o meglio un’altra ontologia in cui il non-io non è l’alter ego, solo rovesciato, dell’io. E tuttavia allo stesso tempo è pur sempre qualcosa, un qualcosa che però solo un’ontologia pratica o sociale è in grado di dire.

Provo a definire questa ontologia pratica. L’io sociale è possibile soltanto nella libera estraneità o nella libertà estranea che non è tautologia del Medesimo (o paralogismo pratico) ma appello e responsabilità. Mi spiego con un esempio: la celebre “regola aurea” «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te» è, se mi è consentito, ipertrofia del soggetto. Essa esprime sì il principio evangelico di reciprocità potenziale che, ad esempio, nell’etica medica è riassunto nella sentenza del celebre “Ippocrate inglese” del diciassettesimo secolo, Thomas Sydenham: «Nessuno è stato da me curato diversamente da come vorrei essere curato io, se mi capitasse la stessa malattia»,43 ma alla base di questo principio di reciprocità (che è principio pratico quasi lapalissiano) non vi è forse la presunzione che l’altro voglia essere trattato come vorrei essere trattato io? Una simile sostituzione vicaria se per un verso è inevitabile, e frutto del più genuino senso comune, nondimeno può risultare davvero molto rischiosa. Di più, rischia di essere un paralogismo pratico: applica all’altro una categoria che è dell’io. Al contrario, la socialità è una relazione, ma non al soggetto, bensì una relazione che lascia essere (libero) l’altro. Lasciar essere (libero) l’altro non è inglobarlo.

Quest’altra ontologia richiederebbe addirittura un’altra logica: una logica in cui il soggetto è sostituito dal predicato, la sostanza dall’accidente, appunto.

Ed è questa infatti la deduzione (non trascendentale ma metafisica — ossia la giustificazione dell’essere del non-io nell’io) disperatamente tentata da Fichte: sebbene non possa pensare il non-io che nei termini della sua stessa riflessione (ovvero come rappresentazione sempre e comunque dell’io — e quindi con una inevitabile sostituzione vicaria), l’io richiede una relazione non di dominio al non-io che come tale è (r) esistenza (e, come già ho fatto sopra, mi piace scrivere questa parola con la R tra parentesi). Perché nella relazione l’io ha bisogno della (r)esistenza e che sia vera, reale, non solo ideale. Ma allo stesso tempo possibile, cioè non pre-determinata.

Tale (r)esistenza è un costitutivo possibile dell’io. Perché fonda la possibilità ontologica dell’io desostanzializzato, ma allo stesso tempo non è necessaria ma libera: essa accade. E tuttavia, essa accade non solo nella fluidità della categoria temporale (per così dire “esclusiva”, ché l’attimo raramente è a due piazze) dell’azione, ma anche nella possibile compresenza garantita dalla categoria spaziale (più tollerante) della relazione.44

4.4. Il limite costitutivo possibile

La logica classica vorrebbe che l’io lotti per annullare la (r)esistenza del non-io, che lo superi e al massimo lo recuperi come passato nella nozione di eredità.45 Ma questo ha un minimo costitutivo di libertà che non dipende dal soggetto, e che tuttavia l’io stesso richiede.

Se prima della rivoluzione della modernità la riflessione dava senso alla (r) esistenza (riducendo così il non-io a funzionale per l’io — o addirittura strumentale con gli esiti tragici visti nel Novecento) ora si prospetta la possibilità di quella che Pareyson ha chiamato ontologia della libertà:46 lasciar essere l’urto con la (r)esistenza.

Per questo l’ontologia non può che essere sociale, pratica, etica:47 perché è un’ontologia della possibilità sempre aperta, della compresenza e della disponibilità (e quindi anche della scelta).

Non si tratta inoltre di un urto o (r)esistenza qualsiasi, ma di urto libero, cioè persona; che il pensiero vorrebbe comprendere nelle proprie categorie, ma che fuori dal suo essere-per-la-riflessione è nulla. Anche se l’io le dà il nome di altro.

Al riparo anche dell’egida della Poetica di Aristotele, la quale attesta che il «riconoscimento è [sempre] riconoscimento di persone»,48 posso affermare quindi che l’io desostanzializzato si (ri) conosce e si comprende come relazione solo in una società di persone: è nel dialogo che si costruiscono i soggetti.49

4.5. Elogio del “cattivo infinito” e del “soggetto possibile”

Ponendo le basi per questa altra ontologica Fichte era incappato nella celebre accusa di “cattivo infinito” (das Schlecht-Unendliche, die schlechte Unendlichkeit50). Ma effettivamente l’io desostanzializzato vive nel cattivo infinito.

Poiché la (r)esistenza è il luogo del possibile (addirittura del possibile nulla) ma allo stesso tempo è costitutiva dell’io, anche l’essere e il soggetto che ne risultano sono “essere possibile” e “soggetto possibile”. Il soggetto possibile è quello che emerge dall’interazione con un non-io che, anch’esso, non è prima di lui, ma che, in quanto (r)esistenza, è con lui, nel limite che separandoli li unisce. È nell’urto con il limite che io e non-io — Faust e Mefistofele — sono. Nella loro dissomiglianza e nel loro dialegesthai per quanto frainteso e interrotto, e solo in esso.

Ora un simile soggetto-possibile, affidato alla propria azione e alla propria responsabilità nella relazione, vive in un “cattivo infinito”, cioè nello spazio aperto della possibilità sempre da compiere, sempre ulteriore, e sempre aperta al fraintendimento. Quindi è un “cattivo soggetto”, non predeterminato, chiuso, ma allo stesso tempo bisognoso di apertura: soggettività carente, sempre da definire (limitare) ulteriormente, sempre affidata alla propria e altrui responsabilità.

Ecco chi è Faust, un cattivo soggetto — lo sa bene Margherita!

Ciò vuol dire che, nonostante l’urto con la (r)esistenza sia un evento possibile ma allo stesso tempo imprevisto e sempre nuovo, il processo che esso mette in atto è un cammino di avvicinamento, di “assomigliamento” (in tedesco sarebbe Gleichschaltung, dal terrificante carico semantico: la “sincronizzazione” hitleriana) tra riflessione e (r)esistenza, io e non-io, Faust e Mefistofele, che tuttavia non si chiuderà. Per questo l’io è doppiamente limite a se stesso: perché non può uscire da sé (e dalle categorie del proprio pensiero) e perché il proprio compito è definire, delimitare se stesso in quanto relazione al non-io.

Cattivo infinito quindi non è critica ma istantanea sull’esistenza di questo cattivo soggetto che lotta per e con se stesso senza mai prendersi e allo stesso tempo senza mai uscire da sé pur traguardando, necessariamente, oltre. Ed è forse proprio per questo (per il fatto che l’io non può uscire da sé) che non riesce a prendersi, né a (ri) conoscere e prendere l’altro.

L’ego non è un possesso (tanto meno un possesso definitivo) del soggetto, ma la sua via verso se stesso (anabasi del soggetto). Homo homini limen diviene homo nomini limes: sentiero, che passa attraverso l’urto, il limite, la (r)esistenza e il difficile (ri)conoscimento dell’altro.

Dal soggetto al soggetto, dall’HOMO all’EGO come dicevo, attraverso l’altro: somiglia alla dialettica hegeliana, ma, a differenza di quella, non chiude.51

Del resto un soggetto che non torni a sé si perderebbe nel buco nero (questo sì infinito negativo) dell’indefinito. Ma allo stesso tempo il ritorno non è pareggio né sintesi. Non siamo nel gioco del Medesimo (anche se tutto avviene nella e per la coscienza) perché il Soggetto tornando a sé non si chiude. Non è un ritorno a somma zero.

Il soggetto possibile, quando torna in sé non è compiuto ma consapevole del limite, dell’urto con il non-io possibile; non è uscito dal finito ma è in via d’uscita, sbilanciato, decentrato. È un infinito imperfetto, quindi finito: sempre imperfetto.

4.6. Autismo metafisico e sclerotizzazione dell’incertezza

Ora, a un simile soggetto si prospettano due pericoli. Il primo è la hegelite irreversibile di cui parla Nietzsche,52 cioè la malattia dell’io che non avendo conosciuto il limite effettivo nell’urto vive sub specie sui: è l’ipertrofia del soggetto che si traduce in autismo metafisico del famulus Wagner (l’io senza non-io) che Nietzsche rinviene nello «svergognato ottimismo filisteo» di Strauss. Il secondo pericolo è il buco nero dell’indefinito: la patologica cronicizzazione dell’incertezza per cui il cattivo soggetto è sempre solo qualcosa che non si prenderà mai. Sono i due estremi all’interno dei quali intendo rimanere, con l’aiuto di Faust.

Sia l’ipertrofia sia la cronicizzazione, del resto, hanno in comune il fatto che sono ipostasi. Mentre il cattivo soggetto è azione e compito, relazione e responsabilità, uscita da sé per il ritorno imperfetto in sé.53

5. Società asimmetrica e riconoscimento

5.1. Per una società asimmetrica

Concludo tornando a Goethe per il tramite ancora l’autorità di Fichte.

Nel ciclo di lezioni intitolato De officiis eruditorum, meglio noto come La missione del dotto del 1794, Fichte riconosce come bisogno fondamentale dell’uomo quello di ammettere al proprio esterno esseri razionali a lui simili.54 Quest’assunto trova una più ampia dimostrazione nel successivo Fondamento del diritto naturale del 1796: «L’uomo (e così in generale tutti gli esseri finiti) diventa uomo solo tra gli uomini […]: se in generale devono esistere uomini, allora ne devono esistere molti».55 Ebbene, la somiglianza sta nella capacità di agire e interagire in virtù di uno scopo. Naturale destinazione dell’uomo è quindi la «reciproca azione di esseri razionali»,56 cioè la società «fondata su concetti, comunità conforme a uno scopo».57 Se non vedesse espresso fuori di sé un siffatto agire libero, l’uomo vedrebbe contraddetta la propria massima tensione e il più grande scopo: quello di essere identico a sé, la completa corrispondenza di sé a se stesso — che è legge morale. Egli ha bisogno cioè di realizzare fuori di sé quell’identità con sé che è la sua destinazione ultima.58 Questo spiega il desiderio faustiano di costruire, nonostante tutto, una società con Mefistofele: la speranza di trovarvi spunti di somiglianza (cioè razionalità, finalismo e libertà) che lo assicurino della sua stessa identità (dall’HOMO all’EGO).

Del resto le ricerche filosofiche, teologiche e scientifiche hanno reso Faust un Egoist, un solipsista, miscredente nella società umana. E la nuova società che instaura con Mefistofele è una società asimmetrica: entrambi razionali e — ciascuno nel suo mondo — liberi; ma radicalmente diversi al punto che, già da subito, viene violato l’assunto fondamentale dell’azione reciproca: la stessa libertà. L’ideale della società fichtiana è l’aspirazione al perfezionamento della specie e per questo l’uomo migliore è colui che, libero, rende liberi gli altri.59 Ma nella società asimmetrica composta con Mefistofele Faust non è libero, giacché la possibile intesa si fonda proprio sulla rinuncia dell’uomo alla libertà per divenire così schiavo di colui che temporaneamente è suo servitore.

Del resto Mefistofele non lotta con Faust ma contro Dio, mentre Faust non lotta con Mefistofele ma per se stesso. L’asimmetria si fa iperbole. I conflitti si moltiplicano e il risultato non potrà certo essere a somma zero. Del resto questa è la divina tragedia, non la divina commedia. Alla fine, quando il sipario si chiude, Faust ha vissuto l’umana avventura ai limiti dell’ineffabile. La domanda originaria (di somiglianza) non ha trovato una risposta, ma «un mare di errori» (v. 1. 065),60 una vita di fraintendimenti (cioè una durata di tentativi d’adeguarsi al compito della somiglianza: «sarò quel che sarò», «sarai quel che sarai». È forse vero, quindi, che la VERITÀ non solo è VIA, ma anche VITA. Del resto, infine, per l’uomo la sintesi è all’inizio, come compito, non alla fine… quella è fede.

5.2. «Vous êtes un homme!»

Ora, nonostante i canoni aristotelici della tragedia e in generale di ogni racconto, dopo le peripezie del rovesciamento, impongano al riconoscimento il manto del silenzio (come nell’imperativo negativo dell’Amleto morente: «il resto è silenzio»),61 il domandare ermeneutico non si scoraggia e tenta ancora un’ultima sortita — almeno per ritardare la propria conclusione indugiando sull’orlo dell’indicibile.

Ebbene, fin qui abbiamo guadagnato quanto segue: la vita è per l’uomo l’impresa della verità, ossia il compito del cammino dall’HOMO all’EGO, che mira al ritorno imperfetto perché non è tautologia del soggetto (Sono io…) né relazione interrotta (Du gleichst dem… , Ecce homo… ), ma scoperta asimmetrica di un Tu dietro al non-io che solo l’altro può donare nell’urto dell’imperfetto riconoscimento reciproco.

Ma quale riconoscimento? “Du gleichst dem… ” è, come ho cercato di mostrare, pietra tombale per la relazione cui l’io (r)esiste comunque; “Ecce homo” è anch’esso una porta chiusa in faccia all’esistenza: l’infinito tutto qua, umiliato nel «maledetto qui!» del vecchio Faust. Entrambi, per rovescio, portano Faust a se stesso: “Sono io… Sono Faust! ”. E questo invece pare essere un riconoscimento possibile. Tuttavia, se dice l’insperata affiliazione divina dell’uomo, non per questo trae Faust dalle secche della questione pascaliana del «mostro incomprensibile»62 ch’egli è — al pari dell’enigma della sfinge che la risposta, anche se corretta, non fa che riproporre a maggiore profondità: “Chi è l’uomo? ”. E infatti la domanda di Mefistofele, “Sei tu quel verme?”, chiedeva più della semplice sostituzione di nome a pronome.

E tuttavia, per la tonalità ermeneutica del filosofare nessuna porta chiude mai del tutto. Esiste sempre la possibilità di una crepa nei cardini.63 E magari proprio l’essere amleticamente «out of joint»,64 fuori dai cardini, è condizione che lascia aperte possibilità per la riflessione ulteriore. Possibilità che qui si nasconde, ancora una volta, in un altro rovesciamento dell’ECCE HOMO!

Se nella scena goethiana pare che non si possa uscire dall’interruzione della relazione di cui Pilato fu pilota, e al massimo rimane dischiusa una porta sulla possibilità dell’altro che però è occupata dal deus ex machina della fede (sia nel caso di Margherita sia dello stesso Faust), nella vita di Goethe65 c’è un esempio di apertura della comunicazione tra due esistenze che, con meraviglia di entrambe, si riconoscono come uomini, pur diversi in tutto. L’anelito ultimo di Faust, cioè il riconoscimento che il compagno demoniaco gli nega categoricamente (almeno a parole, perché in fondo era tutto un gioco, lo sappiamo sin dal Prologo in cielo), si avvera infatti il 2 ottobre del 1808, nella cittadina di Erfurt.

Qui la filosofia chiude sul serio. La possibilità della fede rimane sempre aperta. E tuttavia la domanda si arresta di fronte (angesichts) alla vita, le cui esperienze, le interiori emozioni e i vissuti rimangono patrimonio delle persone che l’hanno vissuta. Ed è con tenerezza66 che l’indagine ermeneutica indugia e s’inchina di fronte al pudore di Wolfgang Goethe nel non voler raccontare più di tanto di quell’incontro che lo vide, al pari di un uomo qualunque, semplicemente emozionato. E tale fu lo sconcerto del suo interlocutore nel trovarsi di fronte il genio dell’intera cultura universale nella figura di un semplice uomo.

Napoleone, il «Principe soggettivo» — come Goethe e l’amico Friedrich Wilhelm Riemer si divertivano a chiamarlo, con un fortunato misto di Fichte e Calderon —, nel ricevere il poeta nello studio che un tempo era stato di lui (iperbole del rovesciamento!), esce in queste meravigliate parole, che sono un ponte gettato sull’abisso schleiermachiano dell’alterità: «Vous êtes un homme!».67


  1. J.W. Goethe, Prometheus, ultima strofa dell’ode pubblicata all’insaputa dello stesso Goethe in F.H. Jacobi, Über die Lehre des Spinoza in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn, Breslau, Löwe 1785 (trad. it., Lettere sulla dottrina di Spinoza, a cura di F. Capra e rivista da V. Verra, Laterza, Bari 1969): «Io sto qui e plasmo uomini a mia immagine, una stirpe simile a me, fatta per soffrire e piangere, per godere e gioire e non curarsi di te, come me». ↩︎

  2. Mutuo queste parole dal discorso inaugurale che Ugo Perone tenne al convegno torinese sul tema Dietrich Bonhoeffer. Eredità cristiana e modernità. Cfr. C. Fiorillo, Eredità cristiana e teologia della musica. Dietrich Bonhoeffer nel centenario della nascita, in “Minerva”, (2006), pp. 64-68. Gli atti del convegno, a cura di U. Perone e M. Saveriano, sono editi nel 2006 per i tipi della Claudiana. ↩︎

  3. Cfr. P. Ricœur, Parcours de la reconnaissance, Stock, Paris 2004; trad. it., Percorsi del riconoscimento, a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2005. ↩︎

  4. Cfr. F. Rosenzweig, Das neue Denken, in Id., Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, vol. III, Zweistromland. Kleine Schriften zu Glauben und Denken, a cura di R. e A. Mayer, M. Nijhoff, Dordrecht 1984, p. 151; trad. it., Il nuovo pensiero, a cura di G. Bonda, l’Arsenale, Venezia 1983, p. 57. ↩︎

  5. J.W. Goethe, Faust, in Id., Gedenkausgabe der Werke - Briefe und Gespräche, a cura di E. Beutler, Artemis-Verlag (la celebre “Artemis-Ausgabe”), Zürich 1948 e sgg.; trad. it. a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1970, p. 155. D’ora in poi ogni riferimento al Faust sarà accompagnato soltanto dal numero del verso. ↩︎

  6. Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Hermeneutik, a cura di H. Kimmerle, Winter, Heidelberg 1959; trad. it. a cura di M. Marassi, Rusconi, Milano 1996. Si veda al riguardo M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988, p. 138 e ID., L’ermeneutica, Laterza, Roma 1998, p. 9. ↩︎

  7. Cfr., per esempio, Platone, Cratilo 390c. ↩︎

  8. Cfr. M. Ferraris, L’ermeneutica, ed. cit., p. 23: «Per l’ermeneutica, allora, il problema non è tanto vedere ciò che c’è, bensì segnalare che, dietro a quanto ci appare come evidente, c’è qualcosa di oscuro o, almeno, di nascosto; di altro da noi nel tempo o nell’anima: sicché una comprensione immediata è esclusa, e si deve piuttosto postulare il primato del fraintendimento (vale a dire che il fraintendere è una condizione più diffusa e normale dell’intendere». ↩︎

  9. Platone, Fedone, 114d. ↩︎

  10. Ma a rileggere quel che vado dicendo forse anch’essa trova casa. ↩︎

  11. B. Pascal, Pensées, in Œuvres de Blaise Pascal, a cura di L. Brunschvicg, P. Boutroux e F. Gazier, Paris 1904-1914, n. 372; trad. it. in Id., Pensieri, Opuscoli, Lettere, a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 19903, p. 439. Cfr. C. Fiorillo, Pensiero sfuggito. Variazioni su un tema pascaliano, in Aa.Vv., Interruzioni, Note sulla filosofia di Ugo Perone, a cura di E. Guglielminetti, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 43-53. ↩︎

  12. Cfr. Gv. 14, 6. ↩︎

  13. Non possiamo accusare Pilato d’ignorare la rivoluzione copernicana avvenuta solo qualche ora prima nel cenacolo. Se solo avesse inteso quel che, pur a tentoni, aveva intuito Simon Pietro, avrebbe potuto offrire non solo le mani ma anche il capo alle abluzioni dell’imputato. E invece si abbandona alla massima risorsa pagana, il narcisismo greco. Eppure i pezzi del puzzle ci sono tutti: l’acqua del battesimo, l’autorità costituita che sveste i panni del giudice come Gesù aveva già smesso le vesti (atto alethico per eccellenza che verrà ripetuto effettivamente di fronte alla colonna per la flagellazione e poi ancora di fronte alla croce… un filosofo greco non avrebbe potuto non cogliere l’evidenza di tutta quella verità disvelata, alétheia) del maestro per lavare i piedi ai discepoli, la dissertazione sulla verità… Ma quanta confusione nella mente di Pilato! Si aggiungano poi i sogni della moglie, Calpurnia rovesciata. Ma il Mandatum novum (cfr. Gv. 13, 34) ammette forse ignoranza? ↩︎

  14. Cfr. G. Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009. ↩︎

  15. Cfr. 1 Sam. 3, 9. ↩︎

  16. B. Pascal, Pensées, ed. cit., n. 434; trad. it. p. 565. ↩︎

  17. Gv. 19, 5. ↩︎

  18. K. Jaspers, Von der Wahrheit, Pieper & Co. Verlag München 1947, p. 1. ↩︎

  19. Goethe’s Werke. Vollständige Ausgabe letzter Hand.40 Bde, J.G. Cotta, Stuttgart, Tübingen 1827-30, vol. I, pp. 1-7. Ora in Goethes Werke, Hamburger Ausgabe in 14 Bänden, hrsg. v.E. Trunz, C. H. Beck, München 1982-2008, Bd. I, pp. 149-152. ↩︎

  20. Cfr. P. Citati, Goethe, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 220-221. ↩︎

  21. Il parallelo è riportato nell’estate del 1806 allo stesso Goethe dal giovane storico berlinese Heinrich Luden (cfr. H. Luden, Rückblicke in mein Leben, Jena 1847, p. 24: «bisogna riconoscere che questo frammento, detto Faust, è un frammento di una grande, sublime, divina tragedia»), ed era già stato schizzato da Schelling nel suo Über Dante in philosophischer Beziehung nel Kritisches Journal der Philosophie che dirigeva insieme a Hegel (1803 n. 2; cfr. F.W.J. Schelling, Sämmtliche Werke, hrsg. v. K.F. Schelling, Cotta, Stuttgart 1856-1861, Bd. I, 5, p. 156). Se l’autorità di Auerbach (cfr. E. Auerbach, Entdeckung Dantes in der Romantik, in Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, 7, 1929, poi in Id., Gesammelte Aufsätze zur romanischen Philologie, hrsg. von F. Schalk, Bern-München 1967, pp. 176-183) smaschera la superficialità letteraria di un simile paragone - che pure doveva essere gradito, almeno nelle intenzioni di Luden, a chi come Goethe possedeva una copia della maschera funeraria di Dante - esso comunque rende bene l’entusiasmo che suscitò il frammento del Faust pubblicato nel 1790 (lo stesso Luden si vantò con Goethe di conoscere a memoria l’intera opera). E tuttavia, come dirò, mentre scriveva il Faust Goethe non pensava solo alla somma entelechia dantesca, ma creava simmetrie con il Libro dell’umanità: la Sacra Scrittura! ↩︎

  22. Cfr. B. Pascal, Pensées, ed. cit.., n. 366; trad. it. p. 438: «O ridicolissimo eroe!». ↩︎

  23. Cfr. vv. 512-513. ↩︎

  24. La disfatta di Faust è cifra dello scacco dell’umano cui tenta invece di sottrarsi la figura tragica ed eroica insieme di Ifigenia. Qui mi piace citare non il paradigma euripideo, ma la sua traduzione goethiana. Nel dramma Ifigenia in Tauride, che lo stesso Goethe chiama «maledettamente umano» («es ist ganz verteufelt human» - lettera a Schiller del 19 gennaio 1802), l’eroina pare consapevole di quel che Faust ignora: «Non mi misuro con gli dèi, soltanto / la donna vive in stato miserevole» (I.W. Goethe, Iphigenie auf Tauris. Ein Schauspiel, in Goethe’s Schriften, vol. 3, G.J. Göschen, Lipsia 1787, pp. 1-136; trad. it., Ifigenia in Tauride, a cura di R. Fertonani, Garzanti, Milano 2001, vv. 23-24). E in seguito: «Ma gli dèi non dovrebbero / trattare da pari a pari con gli uomini; / la stirpe dei mortali è troppo debole / e cede alle vertigini di un’altezza inconsueta» (vv. 315-318). ↩︎

  25. Jaspers - per esempio nel suo Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens (Walter De Gruyter, Berlin 1936; trad. it.,Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, a cura di L. Rustichelli, Mursia, Milano 1996) - prospetta l’opera del pensiero come forza sempre creativa, mai ricreativa o archeologica, che nell’impresa interpretativa di ricostruzione di un passato a partire da un futuro che non c’è (ricostruzione che non riproduce il passato, ma un nuovo e originale presente) richiede l’impegno personale e la messa in questione di se stesso da parte dell’interprete che, come tale non è solo lettore. Cfr. C. Fiorillo, Fragilità della verità e comunicazione. La via ermeneutica di Karl Jaspers, Aracne, Roma 2003, pp. 31-46. ↩︎

  26. Cfr. Mt. 3, 17; 17, 5; Mc. 1, 11; 9, 7; Lc. 3, 22; 2 Pietro 1, 17-18: «Questi è il figlio mio prediletto…». ↩︎

  27. P. Citati, Goethe, ed. cit., p. 242. ↩︎

  28. Cfr. B. Pascal, Pensées, ed. cit., n. 372; trad. it. p. 439. Del resto, quasi al termine di Faust I, quando ormai la sorte di Margherita è segnata, Faust grida il suo tragico riconoscimento: «Aiutami, demonio, ad abbreviare il tempo della mia angoscia! / Che subito quel che ha da essere sia! / Che la sua sorte crolli su di me / e con me lei si annienti» (vv. 3.362-3.365). ↩︎

  29. Tornano utili le parole di Alessandro Baricco, scrittore di formazione ermeneutica: «è illusione dell’ermeneutica quella che il numero finito dei fatti prodotti dalla Storia generi un numero infinito di combinazioni leggibili ciascuna come un’Idea» (A. Baricco, Il genio in fuga. Due saggi sul teatro musicale di Giacomo Rossini, Einaudi, Milano 1997, p. 5). ↩︎

  30. Riporto l’intero passo di Buber: «Nel discorso del roveto ardente [Es 3, 14] il nome viene espresso con l’aggiunta di un’ulteriore lettera. Dio risponde alla domanda di Mosè sul suo nome, piuttosto sul senso del nome, in quanto, trasponendo il verbo dalla terza alla prima persona, ’ehjeh [hawah è la forma più antica del verbo, hajah la più recente], “Io sarò” dice, e aggiunge: ’asher ‘ehjeh, “come colui che io sarò”; il fatto che ’Ehjeh sia da comprendere come il nome manifestato, deriva dalla frase immediatamente seguente: “Così devi parlare ai figli di Israele: ’Ehjeh mi manda a voi”. Da sempre si suole tradurre quel ’ehjeh ‘asher ‘ehjeh: “Io sono colui che sono” e con ciò - quando non si vuole fare esprimere a Dio addirittura il suo rifiuto di ogni risposta attraverso questo modo di dire non inconsueto, ma pure triviale - si comprende una espressione di Dio sulla sua eternità o persino sul suo essere-sé-da-se-stesso; ciò è impossibile già per il fatto che un uso del verbo nel senso della sua esistenza è altrove estraneo alla Bibbia: esso significa - a prescindere dall’impiego come copula o nel senso di “c’è” e simili - divenire, accadere, farsi presente, essere presente, esser-ci. Per custodire il significato di questo brano centrale da ogni fraintendimento, l’ultimo narratore, ovvero il Redattore, adottando in modo magnifico lo strumento biblico della ripetizione al quale ho già fatto riferimento, ha fatto parlare Dio a Mosè con lo stesso ’ehieh, nella stessa sezione quasi immediatamente prima del nostro passo [v. 12]: “Io ci sarò presso di te” e poco dopo [Es 4, 12, 15] ha fatto ripetere la parola ‘ehjeh nello stesso, inequivocabile, senso» (M. Buber, Per una nuova versione in tedesco della Scrittura, trad. it. a cura di N. Bombaci, in “Dialegesthai”, Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia[in linea], 6 (2004), disponibile su World Wide Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/&gt;, [171 KB],ISSN1128-5478; ora anche in Aracne, Roma 2007). ↩︎

  31. Cfr. le note di Erri De Luca in Esodo/Nomi, a cura di E. De Luca, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 23 sgg. ↩︎

  32. «Certo, so molto. Ma vorrei sapere tutto» confessa dolente il ridicolissimo discepolo Wagner, aspirante Pangloss in veste da camera come il Descartes delle Meditationes, e con la lucerna in mano, novello Diogene (v. 601). ↩︎

  33. Genesi 3, 5. ↩︎

  34. Cfr. F.W.J. Schelling, Philosophie der Mythologie. Bd I. Einleitung in die Philosophie der Mythologie, in Id., Sämmtliche Werke, ed. cit., Bd. II, 1, p. 196 n. ↩︎

  35. «Ma tu m’hai risospinto duramente / nell’incerta condizione umana (ungewisse Menschenlos)» (vv. 628-629). ↩︎

  36. Cfr. Aristotele, Poetica 6, 1450a; 11, 1452a-b. ↩︎

  37. Cfr. E. De Luca, Chisciotte e gli invincibili, Fandango, Roma 2007. ↩︎

  38. Nel testo l’espressione è riferita a Margherita. ↩︎

  39. Similmente accade in Pascal: «Pensée échappée, je la voulais écrire; j’écris, au lieu, qu’elle m’est échappée», «Pensiero sfuggito, lo volevo scrivere; scrivo invece che mi è sfuggito» (B. Pascal, Pensées, ed. cit., n. 370; trad. it. p. 439). ↩︎

  40. Cfr. la Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, in G.W.F. Hegel, Werke, Bd. 3. Phänomenologie des Geistes, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, pp. 20 sgg.; trad. it. a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960, pp. 7 sgg. ↩︎

  41. Si legge nella Grundlage del 1794: «Esso [l’io] è nel contempo l’agente e il prodotto dell’azione, ciò che è attivo e ciò che è prodotto dall’attività; azione e atto sono un’unica e medesima cosa; e perciò l’io sono è espressione di un’azione-in-atto: ma anche dell’unica possibile azione-in-atto, come deve risultare dall’intera dottrina della scienza» (Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre als Handschrift für seine Zuhörer, in Id., Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth et al., Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 sgg. (abbr. GA) Bd. II, 2, p. 259; trad. it., Fondamento dell’intera dottrina della scienza, a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2003, p. 149). ↩︎

  42. Lo stesso Fichte, in Introduzione alla vita beata del 1806, aveva colto nelle parole d’inizio del Vangelo di Giovanni la vera essenza e la corretta interpretazione dell’incipit dei testi sacri: «In principio Dio creò…» (cfr. J.G. Fichte, Die Anweisung zum seeligen Leben oder auch die Religionslehre, in GA I, 6, pp. 118 sgg.; trad. it., Introduzione alla vita beata, a cura di G. Boffi e F. Buzzi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, pp. 293 sgg.). ↩︎

  43. Cfr. K. Jaspers, Der Arzt im technischen Zeitalter, Piper, München 1986; trad. it.,Il medico nell’età della tecnica, a cura di M. Nobile,Introduzionedi U. Galimberti, Raffaello Cortina Editore, Milano 1991, p. 2. ↩︎

  44. Cfr. E. Guglielminetti, I “Gedanken” diFeuerbache la metafisica dellospazio, in «Annuario Filosofico», VII, 1991, pp. 259-286. ↩︎

  45. Cfr. U. Perone, Verità e tempo in Bonhoeffer, in “Annuario filosofico”, 2 (1986), pp. 259-275. ↩︎

  46. Mi sia concesso qui solo rinviare alle mirabili riflessioni di Luigi Pareyson in Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995. ↩︎

  47. Certo, l’espressione ontologia-etica dà da pensare. E richiederebbe maggiore spazio: ma se merita ne avrà. ↩︎

  48. Cfr. Aristotele, Poetica, 11, 1452b: «poiché il riconoscimento è riconoscimento di persone». ↩︎

  49. Cfr. ancora A. Baricco, Il genio in fuga…, ed. cit., p. 15. ↩︎

  50. Cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Id., Werke, Bd. 3, vol 15, Berlin 1836, p. 629. ↩︎

  51. È uno sport abbastanza diffuso, quello di sparare su Hegel. Vorrei sottrarmi. Anche perché ben più raffinato è notare come Hegel abbia già incassato ogni colpo nel suo stesso pensiero. Anzi, ogni colpo risulta solo un diverso fraintendimento. Ma, come mostra la storia della filosofia, si tratta molto spesso di felici fraintendimenti. ↩︎

  52. «Wer einmal an der Hegelei und Schleiermacherei erkrankte, wird nie wieder ganz kuriert» (F. Nietzsche, Unzeitgemäße Betrachtungen, I: David Strauss, der Bekenner und der Schriftsteller (1873), in Nietzsche Werke: Kritische Gesamtausgabe, hrsg. G. Colli e M. Montinari, III, 1 Walter de Gruyter, Berlin 1972, p. 187; trad. it., Considerazioni Inattuali I, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 ssg., vol. III, tomo I, p. 48). ↩︎

  53. Qui il paradigma della temporalità come categoria di quel che ha il proprio centro fuori di sé - secondo la definizione di Schelling - bilancia la staticità del paradigma spaziale nella difficile sintesi che vado prospettando. Scrive Schelling: «Temporali sono tutte le cose che non hanno in se stesse la completa possibilità del loro essere bensì la hanno in altro. Il tempo è pertanto il principio e la forma necessaria […] di ogni realtà non essenziale» (Cfr. F.W.J. Schelling, Philosophie und Religion, in Id., Sämmtliche Werke, ed. cit., I, 6, p. 45; trad. it., Filosofia e religione, in Id., Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974, p. 59). ↩︎

  54. «Rientra nel novero dei suoi bisogni il fatto che esistano al suo esterno degli enti simili a lui» (J.G. Fichte, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, in GA I, 3, pp. 23-74; trad. it., La missione del dotto, a cura di N. Merker, Editori riuniti, Roma 1982, p. 61). Ancora: «Rientra nel novero degli istinti fondamentali dell’uomo l’ammettere che al suo esterno esistono degli esseri razionali simili a lui» (ibid., p. 63). ↩︎

  55. J.G. Fichte, Grundlage des Naturrechts nach Principien der Wissenschaftslehre (erster Theil), in GA I, 3, p. 39; trad. it., Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienze (prima parte), a cura di L. Fonnesu, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 35-36. ↩︎

  56. J.G. Fichte, Einige Vorlesungen…, ed. it. cit. p. 59. ↩︎

  57. J.G. Fichte, Einige Vorlesungen…, ed. it. cit. p. 63. ↩︎

  58. Non è questo il luogo per un’approfondita disamina su queste categorie fichtiane. Rimando comunque a C. Cesa, Introduzione a Fichte, Laterza, Roma-Bari 1994 (in particolare pp. 75-108). ↩︎

  59. Cfr. J.G. Fichte, Einige Vorlesungen…, ed. it. cit. p. 65: «la positiva caratteristica della società risulta essere un’azione reciproca per mezzo della libertà». ↩︎

  60. Infine Faust si riconosce nella pascaliana cloaque d’incertitude et d’erreur: «Io non sono simile agli Dei. Lo sento troppo a fondo: / al verme somiglio che fruga la polvere» (vv. 652-653). Cfr. B. Pascal, Pensées, ed. cit., n. 434; trad. it. p. 564: «Giudice di tutte le cose, sprovveduto verme della terra; depositario del vero, cloaca d’incertezza e di errore, gloria e rifiuto dell’universo». ↩︎

  61. W. Shakespeare, Hamlet, v. 352; trad. it., Amleto, a cura di C.V. Lodovici, in Id. I capolavori, Einaudi, Torino 1994, vol. II, p. 135. ↩︎

  62. Cfr. B. Pascal, Pensées, ed. cit., n. 420; trad. it. p. 516. ↩︎

  63. Mi piace citare un passo dei frammenti di Kafka intitolati Egli, come manifesto della situazione ermeneutica dell’esistenza: «Il suo appartamento ha una strana porta: quando la si chiude non la si può più aprire, ma bisogna farla levare dai cardini. Per questo egli non la chiude mai; anzi, perché non si chiuda, colloca contro la porta sempre semiaperta un cavalletto di legno. Ciò gli impedisce beninteso di stare in casa a suo agio. I vicini, è vero, sono persone fidate, ma ciononostante deve portare con sé tutto il giorno gli oggetti di valore in una borsa, e quando sta in camera coricato sul divano, è come stesse nel corridoio, d’estate gli entra di lì l’aria afosa, d’inverno quella gelida» (F. Kafka, Er. Aufzeichnungen aus dem Jahre 1920, in “Europäische Rundschau”, 7 (1931), pp. 373-379; trad. it., Egli, a cura di E. Pocar, in Id. Frammenti e scritti vari, Mondadori, Milano 1989, pp. 20-21. ↩︎

  64. Cfr. W. Shakespeare, Hamlet, I, 5, vv. 188-189; trad. it. cit., p. 41: «The time is out of joint; o cursed spite that ever I was born to set it right!», «Il tempo è sconnesso; o dannata disdetta ch’io sia mai nato per rimetterlo in sesto!». ↩︎

  65. Del resto questo è nell’essenza stessa dell’ermeneutica, che non è solo interpretazione di testi (e primariamente del testo sacro), ma innanzitutto e perlopiù, interpretazione dell’esistenza, grazie alla sua moderna matrice freudiana (cfr. P. Ricœur, De l’interprétation: essai sur Freud, Seuil; Paris 1965; trad. it., Dell’interpretazione. Saggio su Freud, a cura di E. Renzi, Jaka Book, Milano 1967, Il Melangolo, Genova 1991; Il Saggiatore, Milano 2002). ↩︎

  66. La tenerezza, nota Ugo Perone, è sentimento ontologico di prim’ordine, che coglie trattiene e lascia essere la caduca fragilità di quel che vive. Cfr. U. Perone, Le passioni del finito, EDB, Bologna 1994, pp. 14-18. ↩︎

  67. Cfr. G. Seibt, Goethe und Napoleon. Eine historische Begegnung, C.H. Beck, München 2008; trad. it., Il poeta e l’imperatore. La volta che Goethe incontrò Napoleone, a cura di M. Lumachi e P. Scotti, Donzelli, Roma 2009. ↩︎