Tra «scelta» e «possibilità». Curvatura etica dell’esistenzialismo di Nicola Abbagnano

1. Introduzione

La caratterizzazione dell’esistenzialismo come fenomeno culturale e tradizione filosofica, tipici di un tempo di crisi, di incertezze, di instabilità, di problematicità,1 se, da una parte, rappresenta, uno dei nodi più discussi e controversi della storiografia filosofica del Novecento,2 dall’altra, mostra che, pur operando le opportune distinzioni,3 la filosofia esistenziale, con la riscoperta dell’esistenza,4 come chiave interpretativa dell’intero volume dell’umano, nel mettere a fuoco il “problema dell’uomo”, offre la possibilità di elaborare una filosofia del concreto vivente che, al di là delle derive idealiste e materialiste,5 può essere in grado di rendere ragione della complessità della questione antropologica e delle implicanze etiche ad essa strettamente connesse, in un tempo in cui, dopo la dichiarazione della fine delle antropologie caratterizzate e caratterizzanti, tipiche delle “grandi narrazioni” del passato, ci si muove tra le “avventure della differenza” senza verità e senza senso nel puro fluire di una “ontologia del declino” che fa dell’“attualità” l’unica ragion d’essere.6 Da questo punto di vista, a giudizio di Abbagnano, l’esistenzialismo, nel presentarsi come esperienza riflessiva che pone attenzione alla condizione dell’uomo nella sua concretezza esistenziale, ha inteso e intende proporre “il problema dell’uomo come problema centrale della filosofia: dell’uomo nella sua singolarità e nei suoi rapporti che lo legano alle cose e gli altri, della situazione nel mondo e nella società, e nei rischi molteplici e sempre incombenti della sua auto-progettazione. Insistendo su questi rischi l’esistenzialismo ha reso estremamente improbabile ogni smisurato ottimismo ma non ha neppure, almeno nelle sue forme più equilibrate, prospettato all’uomo un pessimismo desolante”.7 Questo vuol dire che mediante la ricerca di problemi, l’individuazione dei metodi di analisi e dei modi linguistici per esprimerli, l’esistenzialismo, proprio muovendosi nel gioco rischioso di possibilità e impossibilità, colto nella sua inevitabilità per la condizione umana che comprende e pratica il proprio rapporto con il mondo, ha messo in evidenza che il filosofare implica un impegno radicale il quale, nella essenziale inseparabilità tra esperienza soggettiva e campo oggettivo, tra vita e pensiero, comporta una componente etica in quanto, proprio nella tensione tra possibilità e impossibilità, configura la dimensione della “scelta” come chiave interpretativa dell’appropriazione dell’umano dell’uomo in ciascun concreto uomo.8 Sotto questo profilo, l’attenzione da prestare allo sviluppo riflessivo di Nicola Abbagnano, uno dei più significativi filosofi esistenzialisti italiani,9 che intende l’esistenzialismo come una “filosofia della possibilità” la quale, opponendosi ad ogni interpretazione “tragica” del fenomeno umano e intendendo mettere in luce la finitidune umana per scrutarne a fondo la sua natura, si basa su una radicale assunzione di responsabilità dell’uomo nei confronti di se stesso e della propria umanizzazione, sembra offrire, pur tenendo presente che dopo la metà degli anni Cinquanta Abbagnano orienta la sua riflessione nella direzione di un illuminismo critico che si concreta poi nella forma di un empirismo metodologico,10 interessanti squarci comprensivi per l’articolazione di teoriche alternative a qualsiasi forma di “destrutturazione” o “superamento” dell’umano.11

2. L’“analisi” dell’esistenza come filosofare sulla possibilità

Il procedere della filosofia di Nicola Abbagnano si sviluppa a partire dalla considerazione della problematicità dell’esistenza dell’uomo; una problematicità sempre aperta, concreta e determinata che l’uomo deve affrontare mediante l’uso razionale delle diverse teoriche filosofiche. Infatti, Abbagnano, facendone l’elemento caratterizzante dell’esistenzialismo, intende la filosofia fondamentalmente come analisi dell’esistenza, in ragione del fatto che:

per esistenza basta preliminarmente intendere il complesso delle situazioni in cui l’uomo viene a trovarsi o in cui si trova solitamente o per lo più. Tale analisi è fatta con la procedura seguita in qualsiasi campo in cui si voglia istituire un’analisi: cioè utilizzando in larga misura il linguaggio comune e scientifico e correggendolo o integrandolo, laddove lo si ritiene opportuno, con elementi linguistici della tradizione filosofica o escogitati ad hoc. Ma l’analisi di una situazione esistenziale può essere istituita e condotta innanzi solo se sin dal principio si ritengono inclusi in essa tutti gli elementi che entrano a comporla; cioè non solo l’uomo singolo, nei suoi specifici modi d’essere e di agire, ma anche gli altri uomini, le cose, etc., in una parola il “mondo” in generale, giacché solo rispetto a questo complesso di fattori gli specifici modi d’essere e di agire del singolo uomo possono essere compresi.12

Il problema della filosofia, dunque, per Abbagnano, non è un problema, ma il problema, per cui l’essere della filosofia è la sua assoluta problematicità, che, nel corso dell’esistere e del pensare dell’uomo, si manifesta nella sua più assoluta e autorevole radicalità. La filosofia è, cioè, ricerca prima che si costituisce come causa di se stessa sul piano del pensiero, e, in quanto non può presupporre l’essere, essa è quel modo dell’essere che si costituisce ponendo come sua natura il problema dell’essenza, in altre parole, la sua autoproblematicità radicale.13 Dato che questa problematicità è presente solamente nell’uomo, in quanto unico animale filosofico, secondo Abbagnano, riconoscere la natura e l’essenza problematica della filosofia significa riconoscere che come suo oggetto formale di indagine venga posto l’uomo,14 in quanto la filosofia:

concerne sempre l’uomo nella sua totalità; nell’essere problematico che gli è proprio e interamente lo impegna nella forma e nell’atteggiamento che gli consente di scegliere.15

Filosofando, l’uomo affronta esplicitamente il proprio destino umano e cerca di chiarire il problemi che emergono nel proprio rapporto con se stesso, con gli altri uomini, con il mondo. In tale senso il filosofare non è elaborazione di concetti, costruzione di sistemi, ma scelta, decisione, impegno, che dà all’uomo la possibilità di vivere, filosofando, autenticamente se stesso.16 Sotto questo profilo, il filosofare è “un atto umano” e il suo problema è “il problema che l’uomo pone a se stesso intorno a se stesso, è l’essere dell’uomo come problema di se stesso”,17 e la filosofia non viene ad essere una particolare disciplina tra le varie figure del sapere, ma la struttura stessa dell’orizzonte di comprensione dell’umano nella sua totalità che ha il compito nell’impegnare l’uomo a chiarire, comprendere e vivere il modo d’essere che gli è proprio.18 Pertanto,

alla filosofia l’uomo può e deve chiedere di comprendere un po’ meglio se stesso; e gli uomini di intendersi un po’ meglio tra loro. La comprensione di sé, l’intelligenza reciproca fra gli uomini, sono a fondamento di ogni opera, di ogni lavoro umano; e costituiscono la trama di cui è tessuta la vita quotidiana del singolo, come la vita storica dell’umanità.19

Dato che “l’unico legittimo accesso all’analisi esistenziale”,20 per Abbagnano, che prende posizione nei confronti dell’esistenzialismo di Heidegger e di Jaspers,21 si fonda sulla reinterpretazione della categoria della possibilità, la riflessione filosofica, in quanto realtà di comprensione della totalità dell’umano, deve configurarsi come un filosofia della scelta e della possibilità, in ragione del fatto che “la soluzione di un problema è in generale la scelta di quella possibilità che giustifica (o rende possibile) il problema stesso”.22 Questo perché, essendo l’esistenza una modalità d’essere che viene determinata dal problema come possibilità d’intederminazione, in quanto “l’esistenza è la struttura di un essere che, nella propria struttura, è la possibilità dell’indeterminazione dell’essere”,23 è necessario:

riconoscere che l’esistenza è strutturalmente possibilità di essere e che perciò può essere analizzata soltanto nei limiti delle condizioni che definiscono le sue possibilità particolari, senza mai irrigidire alcune o tutte queste possibilità in impossibilità necessitanti. Il presupposto di questa analisi era la riduzione della vita umana al suo significato problematico.24

Essendo la problematicità dell’uomo investita dalla drammaticità del suo esistere di fronte all’essere, al suo senso e significato, la scelta di tale problematicità e l’assunzione della possibilità comporta, pertanto, il porre necessariamente l’uomo al centro della ricerca filosofica poiché

i problemi della filosofia concernono veramente l’essere dell’uomo; e non già dell’uomo in generale; ma del singolo uomo, nella concretezza del suo esistere, e sono appelli o richiami a lui rivolti perché venga in chiaro con se stesso, assuma le sue responsabilità e prenda le sue decisioni. La prima manifestazione di un serio impegno in un problema filosofico è la sua autentificazione: la quale esige in chi se lo propone, lo sforzo fondamentale del suo essere cui il problema si riferisce. […] Questo processo di autentificazione, per quel che riguarda il problema dell’esistenza, è il processo stesso del raggiungimento della costituzione dell’io.25

La problematicità, strutturandolo di fronte all’essere, pone l’uomo nel campo della responsabilità di dover dare senso al suo essere uomo attraverso la presa di coscienza della sua esistenza, la quale, in quanto “è rapporto con l’essere”, “non può riconoscersi e porsi che come questo rapporto, realizzandolo per quello che è nella sua problematicità fondamentale”.26 Sotto questo profilo “la problematicità fa consistere l’esistenza in se stessa, impedendole il riferimento impossibile a ciò che non è se stessa e dandole la sostanza che le è propria”.27 Pertanto, dato che la filosofia ed il filosofare sono elementi, opere strettamente personali, in quanto è messo in gioco il destino proprio dell’uomo, il suo rapporto con il mondo e con gli altri uomini e il suo impegno nei confronti dell’umanità,28 l’uomo in quanto filosofo è essere pensante che prende, filosofando, coscienza dell’esistenza nei suoi caratteri più specifici quale la possibilità, la problematicità, la finitudine.29 Ciò in ragione del fatto che, secondo Abbagnano:

un sapere problematico è un sapere possibile, che implica la possibilità di non sapere. Esso è quindi incessantemente accompagnato dal dubbio che è appunto il riconoscimento della possibilità negativa implicita in ogni sapere positivo: la possibilità dell’errore, della perdita e dello smarrimento del sapere possibile. Il sapere necessario definisce la vita pensante di un essere infinito. Il sapere problematico definisce la vita pensante di un essere finito. Finitudine non significa qui che problematicità: non esprime che la problematicità costitutiva di un sapere che è sempre la possibilità del non sapere. L’uomo è il solo essere pensante finito; il sapere problematico perciò costituisce la condizione e il modo d’essere dell’uomo. Se si chiama esistenza il modo d’essere dell’uomo, il sapere problematico definisce ed esprime l’esistenza. Si rivela a questo punto quel tratto da cui l’esistenzialismo prende nome: l’identità tra esistenza e filosofia.30

In questo modo, il problema della possibilità pone, in Abbagnano, le basi per la considerazione della identità tra filosofia ed esistenza, in relazione alla problematicità del sapere ed alla sua possibilità di realizzazione e, quindi, di conoscenza, in quanto una concezione dell’esistenza è sempre una risposta agli interrogativi più impellenti che caratterizzano la problematicità della stessa esistenza.31 Questo vuol dire, per Abbagnano, che la filosofia deve soffermarsi soprattutto a considerare gli aspetti meno soddisfacenti e più inquietanti della vita,32 perché:

una considerazione pensante problematica, in quanto finita, è una considerazione esistenziale; e la condizione o il modo d’essere che definisce ed esprime è l’esistenza. Per esistenza si deve infatti intendere la condizione o il modo d’essere dell’uomo; e l’uomo è il solo essere pensante finito. L’esistenza, caratterizzata essenzialmente da un sapere problematico, è essa stessa una condizione o un modo d’essere problematico. L’uomo non ha una natura determinata e determinante: è il problema stesso della sua natura. Non è ragione né istinto, né alcuna di quante altre determinazioni gli si possono ascrivere; non è angelo né bestia. Può essere l’una e l’altra delle determinazioni che gli si presentano come possibilità inerenti alla sua condizione problematica e gli si offrono quindi nella forma dell’alternativa e della scelta.

I chiarimenti addotti sulla filosofia intesa come considerazione pensante problematica, da un lato restringono, dall’altro allargano il dominio della filosofia. Lo restringono all’uomo ed al suo modo d’essere, sottraendo la filosofia all’illusoria pretesa di valere come un sapere divino nel mondo. L’allargano perché, restituendo la filosofia all’uomo e al suo modo d’essere, le riconoscono la possibilità di intendere tutti gli aspetti e gli atteggiamenti dell’uomo, evitandole il ripiego di confinare nell’apparenza, nell’errore e nell’arbitrario buona parte di questi elementi. Se come considerazione problematica finita, la filosofia è considerazione esistenziale, nulla di ciò che è umano le è o le deve essere estraneo. Il suo problema è il problema stesso dell’uomo come tale; la sua problematicità è la problematicità stessa dell’esistenza.33

3. L’esistenza tra strutturale problematicità e possibilità di decisione

L’uomo, in questo modo, è fondamentalmente questa esistenza problematica, strutturale ed originaria,34 che vive una situazione di instabilità esistenziale in quanto problematicità radicale e qualifica la stessa esistenza nella sua modalità problematica originaria esprimendola come un possibile collocato in una determinata situazione.35 Tale problematicità, radicandosi nel passato per protendersi verso il futuro dal quale le può sopravvenire il consolidamento o la perdita delle sue possibilità,36 se da una parte mette in evidenza che la temporalità è proprio l’orizzonte della finitudine e l’espressione della essenziale problematicità dell’ente nel suo rapporto con l’essere,37 dall’altra, mostra che l’esistenza ha la struttura di un movimento,38 di una ricerca che procede da uno stato di indeterminazione iniziale ad uno stato di determinazione finale. Pertanto è dalla risposta all’appello degli interrogativi umani che dipende il senso ed il futuro dell’uomo e, dunque, concretamente, la positività dell’esistenza in quanto orizzonte di significazione e di realizzazione che, attraverso la dimensione dell’appello e della scelta, apre verso la decisione mediante la quale l’uomo tende ad incamminare l’indeterminazione propria della sua struttura esistenziale, la sua possibilità originaria, verso il senso nel quale può essere svelato il significato dell’esistenza.39 Infatti, dato che “il problema che l’uomo pone a se stesso, è l’essere stesso dell’uomo come problema di se stesso”,40 la problematicità è la sua costituzione esistenziale, essa definisce in un senso preciso l’essere dell’uomo, in quanto l’esistenza dell’uomo si pone e si colloca esattamente sul fondamento della indeterminazione problematica che esprime il senso e l’essenza di ogni atto esistenziale, e non si esaurisce in sé, ma è un movimento che va sempre al di là, cercando di saldare la fase iniziale con quella finale. Questo per Abbagnano significa che la definizione dell’esistenza dell’uomo come problema, comporta riconoscere che all’uomo l’essere non è mai dato come identità o come possesso stabile o totale. L’instabilità del possesso dell’essere caratterizza il senso della ricerca dell’uomo. Di conseguenza se l’esistenza non trascendesse l’uomo, questi sarebbe nella sua finitudine la totalità dell’essere, ma questa situazione non è possibile, perché non potrebbe esserci esistenza al di là del singolo.

L’esistenza, intesa in tal senso, costituendo la specifica dimensione del vivere umano in tutta la sua positività, il vivere umano, che si realizza nella libertà, nella decisione e nella scelta, fa emergere la “possibilità” nella sua portata categoriale e normativa, in modo così da costituirsi in esistenza autentica, nella realizzazione dell’uomo come una unità propria in un mondo ordinato ed in una comunità che gli offra garanzia di solidarietà e comprensione. In questo modo, l’uomo, definendosi in rapporto al mondo e in rapporto agli altri, sperimenta la temporalità nel costituirsi della condizione della storicità che pone l’uomo in una situazione di continua opzione esistenziale la quale diventa la norma del suo stesso vivere ed umanizzarsi.41 Da questo punto di vista, per Abbagnano:

la sostanza problematica della natura esistenziale è così la norma della mia decisione, norma che si sottrae all’indifferenza e all’equivalenza delle possibilità e le raccoglie e le valuta sul fondamento della loro unità sostanziale.42

L’esistenza dell’uomo è, dunque, problematicità che assume addirittura carattere strutturale. La struttura, per Abbagnano

esprime la natura dell’atto esistenziale, in quanto è un atto di indeterminazione problematica. La struttura è il movimento che pone e giustifica una situazione avvenire, che è il significato autentico e il valore della situazione dalla quale muove la decisione. La struttura non elimina l’indeterminazione problematica, anzi la costituisce.43

Nella posizione di questo atto esistenziale si rivela l’esistenza nella sua assoluta libertà, la decisione non è mai una decisione presa una volta per tutte, il rischio non è mai eliminato e l’indeterminazione non è abolita. Il rinnovamento della decisione viene richiesto dalla essenza problematica della struttura. L’atto esistenziale come decisione autentica si ha allorché la considerazione del rischio e la responsabilità che il rischio implica sono parti integranti di esso. Nella struttura, cioè, l’uomo decide, sceglie se stesso, del suo proprio essere, perché “la costituzione della struttura implica […] un dover essere, una norma nella costituzione dell’ente”.44 La scelta consente all’uomo di realizzarsi nella sua struttura di ente che possiede il proprio essere. L’umanità dell’uomo, cioè, si concreta realmente come tensione appassionata nell’adeguazione alla norma che è l’atto mediante il quale l’uomo ritrova e vive la sua unità nel rapporto totale dell’essere con se stesso nella struttura.45 La normatività della struttura offre all’uomo la garanzia della possibilità della determinazione della propria esistenzialità mediante il riconoscimento della propria finitudine che lo apre all’impegno, alla scelta, alla libertà, all’autenticità e alla trascendenza.46 Sotto questo profilo, l’atto costitutivo della decisione determina l’uomo come individualità autentica, che possiede un destino, e con questo atto l’uomo si trascende, in quanto il movimento della struttura costituisce il movimento con il quale l’uomo si assume l’impegno di ancorare la sua individualità finita ad una sfera che la trascende e dalla quale essa ricava il suo significato.47 A tal proposito Abbagnano osserva che

la decisione su me è la decisione sull’essere, che mi deve appartenere, che deve costituire il mio essere autentico. La scelta che faccio è la scelta che costituisce non solo la mia inconfondibile verità finita, ma anche, e con lo stesso atto, una sfera dell’essere che diventa il mio proprio possesso. Il movimento della struttura appare sotto questo aspetto, il movimento con cui io decido di ancorare la mia individualità finita ad una sfera che la trascende e dalla quale essa ricava l’intero suo significato.48

In questo senso l’esistenza è trascendenza e l’atto costitutivo della struttura esistenziale è un atto di trascendenza.49 Nell’atto di trascendenza il movimento della struttura trova la sua completa realizzazione. Nella trascendenza, allora, l’uomo riconosce il significato ultimo della finitudine, della sua insufficienza, del mistero della sua esistenza, scoprendo il significato dell’esistenza che è mediazione dell’immediatezza della problematicità operata mediante il riconoscimento e giustificazione dell’immediatezza problematica costituita concretamente dalla finitudine umana. In altre parole, la trascendenza è un trascendersi, un procedere al di là della pura immediatezza della iniziale situazione problematica, per ritrovarsi ciò che si è nella propria radicale umanità come struttura d’indeterminazione problematica, cioè, come possibilità.50 Infatti, “la trascendenza realizza il significato autentico di quello che sembra (e non è) il suo opposto: dell’immanenza”, proprio perché “l’immanenza è il rapporto totale dell’essere con se stesso”.51 Questo determina che, per Abbagnano, poiché “la trascendenza dev’essere definita come possesso”, perché “l’essere si possiede solo in quanto si trascende, cioè solo in quanto si costituisce a struttura esistenziale”,52 l’uomo “possiede il suo essere, nel senso della libertà e della trascendenza”,53 costituendo l’esistenza come essenziale tensione verso la compiutezza umana definitiva.

Tuttavia, dato che, proprio in ragione di questa tensione essenziale l’uomo non è l’essere nella sua pienezza e non è neppure l’esistenza nel senso pieno e totale, la trascendenza dell’essere si rivela come fondamento della comprensione coesistenziale, all’interno del quale sussistono possibilità infinite di incontro fra me e l’altro, e come norma costitutiva dell’uomo,54 in quanto il dover essere, che si esprime nella possibilità della realizzazione della sua individualità finita, lo aggancia all’essere55 e lo immette nella comunità esistente, esprime l’impegno dell’uomo verso l’essere che deve appartenergli come proprio e verso la comunità con la quale comprendersi nella solidarietà.56 Tale prospettiva pone, altresì, in questione la realtà del mondo intesa come determinazione fondamentale della struttura dell’uomo, poiché fa dell’uomo un ente del mondo che lo pone in un rapporto necessario con l’essere e con gli uomini e quindi, sostiene ancora Abbagnano, in una totalità incondizionata che lo comprende.57 Infatti, per essere veramente se stesso, l’uomo deve essere in rapporto con l’essere e con gli uomini attraverso il mondo, in quanto “riconoscere o considerare il mondo significa riconoscersi e considerarsi nel mondo. Proporsi il problema della costituzione del mondo significa proporsi il problema di sé come ente nel mondo”.58 L’essere nel mondo dell’uomo pone l’uomo in un rapporto di coesistenza tra la compresenza degli altri enti e lo spinge verso il superamento della propria solitudine esistenziale facendogli sperimentare, nella trans-soggettività trascendentale, la con-soggettività esistenziale concretata nelle diverse forme dell’amore e della comunione.59 Ciò in ragione del fatto che “l’atto con cui l’io si rinsalda a se stesso, ponendosi come rapporto con l’essere, si fonda sull’atto con cui egli si rinsalda all’altro, ponendosi come rapporto con l’esistenza”, per cui, in questo modo, “la trascendenza costitutiva dell’unità, fondandosi nella trascendenza costitutiva della coesistenza, realizza l’universalità dell’unità”.60

Condizione fondamentale di questo rapporto e di tale determinazione dell’uomo nel mondo è la corporeità. Essa è un fatto originario e irripetibile, perché:

l’atto della rivelazione del mondo all’uomo è l’atto stesso con cui l’uomo si radica nel mondo e si riconosce originariamente come ente nel mondo. Questo atto è la sensibilità. La funzione trascendentale che l’unità dell’io esercita rispetto al mondo, condizionando il mondo nell’essere che gli è proprio, cioè nel suo ordine, si riflette immediatamente nella condizionalità che il mondo esercita a sua volta rispetto all’uomo nella sua capacità di attuarsi e di determinarsi come ente nel mondo. Il fatto originario che l’uomo realizza nel rapporto esistenziale la condizione del mondo, determina il fatto sensibile che l’uomo è incluso nel mondo ed ha bisogno del mondo. Che la condizione trascendentale del mondo risieda nell’uomo e precisamente nel rapporto esistenziale che gli è proprio, implica che l’uomo si costituisca come elemento del mondo e si radichi nel mondo per la possibilità stessa del suo esistere. Ma che l’uomo sia elemento del mondo implica che il mondo sia una totalità di elementi di cui l’uomo faccia parte. Il rapporto esistenziale determina così il costituirsi di una totalità di elementi, nel cui ordine l’uomo si inserisce in virtù dello stesso rapporto. In virtù di tale inserzione l’uomo è condizionato dal mondo: ha bisogno degli elementi del mondo per la sua realizzazione.61

Il bisogno, continua Abbagnano, è la realtà che caratterizza la situazione dell’uomo nel mondo e determina il rapporto con le cose, in quanto esso implica l’esteriorità degli elementi del mondo tra loro e con l’uomo in quanto elemento del mondo, in altri termini, implica la corporeità di tali elementi e dell’uomo stesso. Nella realtà dell’uomo nel mondo, attraverso la dimensione della corporeità, la temporalità acquista il significato dell’essenza dell’esistere dell’uomo nella sua finitudine. Tuttavia il rapporto dell’uomo con il mondo assume lo specifico carattere di indeterminazione, perché sostiene il nostro autore, se i rapporti dell’uomo con se stesso, con gli altri uomini e con le cose fossero determinati e fissati una volta per sempre, l’esistenza non sarebbe problema. Anche se tali rapporti possono variare secondo determinate condizioni, la situazione dell’uomo sarebbe priva di qualsiasi indeterminazione per cui non offrirebbe nessuna possibilità di porre il problema. Il riconoscimento della indeterminazione del rapporto dell’uomo con le cose e con il mondo, a giudizio di Abbagnano, è il primo momento fondamentale per la considerazione delle emergenze antropologiche che qualificano l’uomo come tale.62

4. La possibilità come “valore”

La garanzia della possibilità, che appartiene alla struttura esistenziale, proprio perché l’esistere è l’atto con cui una possibilità è ricondotta alla forma universale della possibilità, di essere e realizzare pienamente la propria umanità costituisce, per Abbagnano, un valore che non solo va riconosciuto, custodito, ma va, anche, continuamente ricercato e realizzato. Questo perché:

il problema del valore è il problema dell’uomo che, lanciato nel molteplice degli avvenimenti, messo di fronte a mille possibilità diverse ed escludentisi, incerto di sé e del suo destino, va in cerca frettolosamente di un saldo filo conduttore che gli consenta di uscire dal pelago e di ritrovare la sua strada e se stesso.63

Strettamente connesso con l’essere dell’uomo e con la prospettiva della compiutezza della sua umanità, il valore si presenta trascendente come dover essere, in quanto “il valore come dover essere è l’essere nella sua trascendenza”,64 e si configura come un dover essere normante per l’essere stesso dell’uomo. Proprio per questa dimensione normativa o di dover essere, per Abbagnano, il valore è sostanza che, appunto perché sostanza, rivela il suo rapporto intrinseco con la costituzione dell’uomo e in quanto tale si offre all’uomo, si dimostra essere come nucleo sostanziale del suo essere, perché esso è ciò che l’uomo è sostanzialmente chiamato ad essere. La possibilità di essere per l’uomo ciò che egli è chiamato ad essere concreta, in questo modo, il valore come una realtà che concerne l’esistenza e lo fa apparire come possibilità trascendentale della radicalità dell’uomo in quanto uomo. Tra essere, possibilità e valore c’è una intrinseca relazionalità che, svelando, la radicalità dell’esistenzialità dell’umano, fonda ogni possibile tentativo di dare consistenza all’umanità dell’uomo al di là delle derive nichiliste che hanno caratterizzato diverse espressioni dell’esistenzialismo del novecento. L’articolazione di essere, possibilità e valore, esprime la libertà dell’uomo come possibilità e impegno orientati a realizzare la compiutezza dell’esistenzialità umana nella quale l’uomo trova veramente se stesso.65 Da questo punto di vista, a giudizio di Abbagnano,

trascendere verso il valore, lavorando per esso, l’uomo tende ad uscire dalla labilità della sua vita temporale e a riconnettersi a qualcosa di permanente e di eterno. Il valore gli appare come sopratemporale e intemporale. E tale esso è ontologicamente, come dover essere, sostanza e realtà obiettiva di fronte all’insufficiente e mutevole essere dell’uomo.66

Anche se la condizione di finitudine, la frammentarietà dell’esperienza della vita nel tempo e nello spazio, per Abbagnano, non può essere superata e annientata con l’eterno, data la strutturale problematicità della rapporto che l’uomo ha con la totalità del suo essere la quale, nel caso in cui impattasse con esso, di fatto, scomparirebbe. Tuttavia, poiché la radicalità di questa problematicità non può essere elusa, l’articolazione di esistenza, possibilità e valore, costituendo il modo d’essere dell’uomo nella sua radicale problematicità, s’invera e s’incarna “nell’impegno esistenziale, per il quale l’uomo trascende verso il valore, cioè verso il significato autentico della coesistenza, di se stesso e del mondo”,67 nella tensione della realizzazione della propria compiutezza umana di cui deve prenderne continuamente coscienza.

5. Nascita e morte come concrezione della curvatura etica della possibilità

La presa di coscienza da parte dell’uomo della propria condizione ineliminabile di essere finito avviene attraverso la considerazione di nascita e morte, le quali essendo due caratteristiche che determinano l’esistenza come problema e conferiscono il significato ultimo dell’autenticità del problema, sono le determinazioni fondamentali dell’esistenza. Questo perché, a giudizio di Abbagnano, nascita e morte:

non sono fatti; non sono, come si ritiene comunemente, i termini obbligati dell’esistenza umana, o della vita in generale. Sono possibilità che sta all’uomo di riconoscere e accettare o disconoscere ed ignorare. Riconoscere che si nasce significa per me riconoscere che la mia esistenza non è tutta l’esistenza, che essa è legata, quanto alla sua stessa origine all’esistenza degli altri: e significa perciò riconoscere la comunità con la quale coesisto e che mi ha dato origine. Rendersi conto del fatto originario (che tutti verbalmente ammettono ma che non tutti realizzano nel suo significato esistenziale) che si nasce, significa rendersi conto della natura essenziale, costitutiva dei vincoli che legano l’uomo alla comunità e del carattere concreto e individuale della propria esistenza: il che significa riconoscere la dignità e l’importanza degli agli rispetto alla mia stessa esistenza. L’esistenza non basta a se stessa: alla sua origine deve essere posto un atto di trascendenza verso l’esistenza: la trascendenza verso l’esistenza è la coesistenza. L’uomo nasce dall’uomo. Questo esprime tipicamente la necessità della coesistenza per l’esistenza: l’insufficienza dell’esistenza a se stessa, la necessità di ritrovarsi nella sua coesistenza.68

Questo è possibile perché,

nascita e morte si riferiscono al fondamento coestistenziale dell’esistenza. L’esistenza nasce dall’esistenza, l’uomo dall’uomo. La nascita è la possibilità che l’uomo crei l’uomo, l’esistenza. La morte è la possibilità che l’uomo sia tolto all’uomo, l’esistenza all’esistenza. Nascita e morte non sono i termini estremi tra i quali corre l’esistenza: sono determinazioni fondamentali dell’esistenza, costituiva della sua essenza. L’esistenza è, nella stessa natura, nascita e morte.

La nascita esprime l’originarietà del legame coesistenziale. L’esistenza è originariamente legata all’esistenza, quanto alla sue stessa origine. In quanto soggetta alla nascita, essa rivela la sua problematicità fondamentale, quella problematicità per la quale è rapporto con se medesima. In quanto soggetta alla morte, l’esistenza rivela la stessa problematicità in quanto è possibilità che il suo rapporto con se medesimo vada scisso o perduto. L’uomo è nascita in quanto è morte ed è morte in quanto è nascita. Le due determinazioni fondamentali esprimono identicamente l’essenziale problematicità dell’esistenza: quella per la quale essa è rapporto con se medesima".69

Con il riconoscimento da parte dell’uomo di queste due determinazioni fondamentali dell’esistenza che è, essenzialmente, problematica, Abbagnano radicalizza, ulteriormente, accentuandolo, l’atto di problematicità fondamentale. Questo è, un atto che lo inserisce nella coesistenza e lo vincola ad essa in modo definitivo e cruciale. L’uomo, con tale atto, fa il suo ingresso nella comunità che determina decisivamente la sua individualità e nello stesso tempo gli si manifesta come una rinascita. Nascita e morte esprimono il significato concreto dell’esistenza dell’uomo che oltre ad essere problematicità fondamentale è temporalità e si coglie nella sua costituzione di originarietà. Nel riconoscimento di queste determinazioni fondamentali dell’esistenza umana l’uomo

si assume e si attua nel proprio destino, si consolida in quello che originariamente è: coesistenza, io, unità, ragione, corporeità, e si dispone ad assumere liberamente il destino che gli è proprio. Senza rimpianto, senza illusione, egli assume di essere quello che è: uomo. E solo allora può dire di avere inteso e realizzato il problema dell’esistenza come vero, autentico problema.70

In modo particolare, la morte non essendo la fine dell’esistenza,71 poiché questa è struttura, rappresenta l’espressione suprema della temporalità, in quanto “esprime il senso problematico della forma totale dell’ente ed è quindi connessa alla natura dell’ente stesso”,72 cioè dice, concretamente, che la natura propria dell’uomo è data dalla morte

non come fatto che accade inevitabilmente nell’ordine necessario delle cose naturali, ma come possibilità sempre presente, sempre connessa a tutte le possibilità umane. Come fatto essa ci è estranea, come possibilità essa determina tutta la nostra natura e tutta la nostra esistenza. Il senso della morte è infatti il senso della problematicità dell’esistenza e quindi della sua temporalità.73

Questo perché

il movimento che va dalla problematicità costitutiva della vita al fondamento di questa problematicità, dalla possibilità in possesso dell’uomo alla possibilità trascendentale costitutiva del possesso, è riconosciuto come il movimento che pone l’uomo nella sua finitudine e di questa libertà si rivela allora condizione suprema la morte: nella fedeltà alla morte come accettazione e riconoscimento del rischio fondamentale dell’esistenza, è il vero destino dell’uomo, la possibilità della sua costituzione autentica nella storia.74

6. Conclusione

Nicola Abbagnano ha definito il suo esistenzialismo come esistenzialismo positivo. Il significato di questa forma di esistenzialismo sta nell’affermazione che la vita, pur muovendosi nell’ambito della possibilità, e quindi del dubbio, si chiarisce però agli individui in forma intrinsecamente “normativa”, come dover-essere, consentendo a ognuno di mantenere la propria dignità, la funzione critica, la libertà.75 Abbagnano tende, principalmente, a sottolineare che la problematicità fondamentale dell’esistenza può essere affrontata dall’uomo non con quegli atteggiamenti angoscianti, deprimenti e dagli esiti nichilisti di alcune figure importanti dell’esistenzialismo, ma mediante l’uso razionale che vede nella categoria della possibilità l’elemento caratterizzante la positività dell’esistenza umana. Con Abbagnano l’esistenzialismo si apre a molteplici influssi, presentandosi nella sua accezione più interpretativa dell’esistenza offrendo così un valido contributo per la possibilità di cogliere un senso da dare o da acquisire per l’uomo. Infatti, l’esistenzialismo positivo mette in evidenza che la categoria della possibilità, inerente alla struttura dell’essere e della persona, apre la via ad una conclusione positiva. Non a caso l’ulteriore sbocco del filosofare di Abbagnano, nella dimensione sociologica ed etica, secondo la quale la ricerca dell’uomo avviene in un contesto sociale nel quale l’uomo stesso può realizzare i suoi progetti nell’ottica dell’auto-comprensione della sua esistenza problematica e della possibilità come fonte originaria di tutta la sua determinazione e struttura esistenziale, determina concretamente quella fondamentale comprensione dell’esistenza dell’uomo intesa come possibilità e ricerca di senso, all’interno della quale metodologie, conoscenze, sistemi di pensiero sono necessari per la percezione di una possibile risposta al senso dell’uomo che nella libertà si coglie come essere aperto e coesistenziale.76 La positività dell’esistenza diviene, di conseguenza, positività. Il carattere fondamentalmente etico della filosofia di Abbagnano emerge con evidenza estrema nella considerazione dell’uomo che esprime l’accettazione e la scelta di se stesso come problematicità e diventa di essa pienamente cosciente, ed in questa decisione fondamentale egli vive la sua trasformazione esistenziale come fondante il suo esistere.77


  1. L’esistenzialismo come fenomeno culturale ha caratterizzato il periodo tra le due guerre mondiali ed ha trovato espressione durante e dopo la seconda guerra mondiale, infatti, “a partire dall’inizio degli anni quaranta, quando ormai gli eventi epocali, che hanno marcato il nostro secolo avevano raggiunto il loro grado di massima intensità, e anche tragicità, l’esistenzialismo si diffonde come fenomeno culturale europeo: la filosofia dell’esistenza, nata nel nome di Kierkegaard si è ormai spinta ben oltre i luoghi deputati della filosofia, e ora attraversa la letteratura, la psichiatria, le riflessioni sulla relazione, fino a porsi come una specifica forma di vita nei tratti della quotidianità”. P. A. Rovatti, Esistenzialismo, in P. Rossi (a cura), La filosofia, IV. Stili e modelli teorici del Novecento, Utet, Torino 1995, p. 88. ↩︎

  2. Dinanzi alla considerazione dell’“esistenzialismo” inteso come una vuota etichetta storiograficamente inutilizzabile, la necessità di alcune precisazioni di ordine metodologico e critico implica il riferimento obbligato alle seguenti coordinate: “a) L’esistenzialismo non è né una vuota etichetta, né un nominalismo equivoco, né tanto meno una semplice moda, bensì una specifica ”atmosfera“ culturale e filosofica […]. Atmosfera che, a un certo punto ha unito una serie di autori, i quali, in un determinato momento della loro elaborazione teorica (come testimoniano i loro scritti) si sono trovati a essere ”partecipi“ di essa, sebbene, in seguito alcuni di essi abbiano intrapreso altre strade. b) Parlare di ”esistenzialisti“, anziché di esistenzialismo, non risolve il problema, ma lo sposta soltanto, rivelandosi alla resa dei conti, un inutile accorgimento, in quanto, per catalogare determinati autori come esistenzialisti, bisogna già presupporre un concetto generale di esistenzialismo. Concetto che, in ogni caso, appare più soddisfacente e storicamente determinato di quello di ”filosofia dell’esistenza“. c) Il fatto che l’esistenzialismo, anziché essere una ”scuola“ o un corpo sistematico di dottrine ruotanti intorno a un ben preciso nucleo teorico, rappresenti una fluida e sfaccettata ”atmosfera“ di pensiero, che raggruppa in se stessa una pluralità articolata di posizioni e soluzioni (talvolta opposte fra di loro), non esclude l’esistenza di alcuni tratti comuni, cioè di un orizzonte linguistico e concettuale affine. […]. d) La natura controversa del termine ”esistenzialismo“ impegna gli studiosi che in qualche modo ne fanno uso a fornire taluni criteri di identificazione, che non possono provenire da formule generiche o da schemi estrinseci di ordine valutativo e polemico […] ma da una imparziale considerazione del fenomeno”. G. Fornero, L’esistenzialismo come atmosfera culturale e filosofica, in G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 631-632. ↩︎

  3. “Quando si parla di esistenzialismo è bene distinguere fra l’esistenzialismo come situazione storico-culturale e l’esistenzialismo come filosofia. Pur essendo strettamente connesse, ”situazione esistenzialistica“ e ”filosofia esistenziale“ […] costituiscono due realtà distinte. Infatti, pur potendo contribuire a promuovere una situazione esistenzialistica, ricadendo in essa come uno dei suoi elementi qualificanti, la filosofia esistenziale presenta una propria specificità nei confronti della situazione esistenzialistica. Inoltre, il nesso tra situazione esistenzialistica e filosofia esistenziale non è mai univoco, cioè descrivibile alla stregua di una connessione diretta e inevitabile, in quanto non è detto che una situazione esistenzialistica metta necessariamente capo a una filosofia esistenziale organizzata secondo precise modalità teorico-linguistiche”. G. Fornero, L’esistenzialismo come atmosfera culturale e filosofica, in G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, p. 632. ↩︎

  4. “a) Nelle filosofie cosiddette esistenzialistiche assume un rilievo tematico centrale la riflessione circa l’esistenza […]. b) L’”esistenza“ viene identificata dagli esistenzialisti innanzitutto come un rapporto (o un insieme di rapporti) con l’essere. Partendo dalla constatazione che l’uomo è l’ente che interroga se stesso intorno al proprio essere e all’essere in generale, gli esistenzialisti concepiscono l’esistenza non come una realtà compiuta e autosufficiente, ma come un’entità qualificata dalla trascendenza, ossia costitutivamente aperta a un oltre. La trascendenza non è intesa dall’esistenzialismo in senso tradizionale, ossia come attributo di Dio in quanto esiste ”al di là del mondo“, ma, sulla scia della fenomenologia, come il movimento per cui l’esistenza si protende verso l’essere e si costituisce come rapporto con l’essere stesso”. G. Fornero, L’esistenzialismo come atmosfera culturale e filosofica, in G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, p. 638. ↩︎

  5. È possibile caratterizzare l’esistenzialismo “come una reazione in linea generale all’idealismo, a ogni idealismo compresi quelli che si erano prodotti tra fine Ottocento e inizio Novecento come effetti della dogmatica positivistica e anche materialistica: reazione a ogni blocco di sapere in cui la verità, già organizzata, aveva finito per cancellare la condizione dell’individuo o per ridurla a un margine insignificante e quindi a un’inconsistenza filosofica”. P. A. Rovatti, Esistenzialismo, in P. Rossi (a cura), La filosofia, IV. Stili e modelli teorici del Novecento, p. 87. ↩︎

  6. Sono queste le istanze portate avanti, specialmente in Italia, dal cosiddetto “pensiero debole” rappresentato da G. Vattimo che, ispirandosi ad un confronto dialogico a distanza tra Heidegger e Nietzsche, ha scritto diverse opere dedicate alla formalizzazione ed espressione di tale forma di pensare, nella convinzione di individuare in essi l’unica possibilità per fuoriuscire dalle strettoie della modernità, in un allontanamento dalla presunzione metafisica dell’oggettività. Cfr. G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Edizioni di Filosofia, Torino 1963; Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino 1967; Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari 1971; Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione [1974), Bompiani, Milano 1983; Le avventure della differenza. Cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger, Garzanti, Milano 1980; Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1981; Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la fisolofia, Laterza, Roma-Bari 1994; Credere di credere, Garzanti Milano 1996; Tecnica ed esistenza. Una mappa filosofica del Novecento, Einaudi, Torino 1997. Su Vattimo si vedano gli interessanti studi di C. Dotolo, La teologia fondamentale davanti alle sfide del “pensiero debole” di G. Vattimo, LAS, Roma 1999 e di L. Grion, Il problema etico nel pensiero di Gianni Vattimo. Considerazioni su forza e debolezza, tolleranza e carità, in C. Vigna (a cura), Etiche e politiche della post-modernità, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 283-301. ↩︎

  7. N. Abbagnano, Esistenzialismo, in Enciclopedia del Novecento, II, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, p. 761. “Dobbiamo senz’altro riconoscere con Abbagnano che l’esistenzialismo ha messo al centro ”il problema dell’uomo“, ma è anche necessario aggiungere: non lo ha fatto nella direzione dell’umanismo. Gli esiti post-esistenzialistici, tanto nella filosofia francese (Foucault, Derrida) quanto in quella italiana, ma certo anche nel dopo Heidegger in Germania, non hanno preso la via auspicata da Sartre (o in Italia da Paci e dallo stesso Abbagnano), di un umanismo compiuto. In ogni caso, la ”trasfigurazione“ dell’esistenzialismo non si è compiuta attraverso il marxismo umanistico degli anni Sessanta, né attraverso l’approdo nell’empirismo razionale. Ciò a cui si è pervenuti, prendendo sul serio il tema del rischio, opportunamente sottolineato da Abbagnano, è stato piuttosto il problema della paradossalità di ogni umanismo: la riconsiderazione, radicalmente critica, del rapporto tra soggetto e oggetto, tra uomo e mondo. Le coppie razionalismo-irrazionalismo, ottimismo-pessimismo, sono divenute obsolete, comunque inadeguate a incorniciare l’esistenzialismo: e bisogna riconoscere che è stata proprio questa stagione filosofica, o soprattutto essa, a produrre tale obsolescenza. Così, oggi, siamo di fronte alla cosiddetta componente tragica dell’esistere, consideriamo la paradossalità del rapporto tra soggetto ed essere, lavoriamo attorno alla questione della identità bloccata, oppure riconosciamo che il soggetto è mancante e comunque non dispone di se stesso, senza più bisogno di difenderci dal fantasma dell’irrazionalismo (o del negativo, si diceva), o di arginare gli effetti distruttivi (o solo in apparenza gratificatori) del pessimismo. Come se quello della stagione esistenzialistica avvolgeva di pathos, oggi riuscissimo a osservarlo con lucidità, dando così alle idee dell’esistenzialismo, una maggiore credibilità filosofica; non più espressioni della ”crisi“ e del disorientamento, o magari détours letterari e descrizioni senza nucleo teoretico, come spesso si è voluto credere, ma semmai ricerca di problemi e di modi linguistici per esprimerli”. P. A. Rovatti, Esistenzialismo, in P. Rossi (a cura), La filosofia, IV. Stili e modelli teorici del Novecento, pp. 90-91. ↩︎

  8. Abbagnano, a tal proposito, scrive che “le filosofie esistenziali tendono infatti a mettere a fuoco l’instabilità della realtà umana e della realtà tutta di cui essa fa parte. La loro polemica è, implicitamente o esplicitamente, rivolta contro il romanticismo ottocentesco e le sue derivazioni, per il quale il destino dell’uomo nel mondo è garantito in modo infallibile da una forza infinita, che può essere variamente chiamata (Umanità, ragione, Superanima, Assoluto, ecc.), ma che in ogni caso ha il compito di sopperirne le deficienze, di rettificarne le deviazioni e di indirizzarlo inevitabilmente al trionfo definitivo del bene. Contro questa prospettiva consolante, per la quale, però, l’uomo deve essere considerato come lo strumento, più o meno consapevole, di una Realtà superiore, l’esistenzialismo filosofico è condotto a mettere in luce gli aspetti dell’esperienza umana che smentiscono o almeno rendono dubbia o problematica tale prospettiva. Esso insiste, perciò, in primo luogo, sulla instabilità e sul rischio di ogni realtà umana; e in generale su tutto ciò che limita, condiziona e rende precaria o addirittura impossibile l’iniziativa umana nel mondo”. N. Abbagnano, L’esistenzialismo in Italia, in Aa. Vv., La filosofia contemporanea in Italia. Società e filosofia di oggi, Arethusa-Società Filosofica Romana, Asti-Roma 1958, p. 150. ↩︎

  9. Abbagnano stesso ci offre un quadro sintetico della diffusione e dello sviluppo delle tematiche esistenzialiste nel panorama culturale italiano. Egli scrive: “In Italia l’esistenzialismo si è cominciato a diffondere negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale. La cultura italiana era in quegli anni dominata dall’idealismo romantico che, subito dopo la prima guerra mondiale si era affermato con Croce e Gentile. Per quanto politicamente separate dal loro atteggiamento nei confronti del fascismo, queste due personalità hanno esercitato sulla cultura italiana un’influenza analoga e cospirante, data la grande somiglianza delle loro filosofie. La loro stessa polemica filosofica rimase interamente nell’ambito dell’idealismo e non offrì temi o spunti per nuove problematizzazioni. La reazione contro questi epigoni del romanticismo assunse, pertanto, in Italia la forma di una riaffermazione della realtà dell’individuo umano nei suoi rapporti con gli altri individui e con gli oggetti naturali, e quindi anche della realtà della società, come comunicazione tra individui, e della natura. Questo significava riconoscimento della realtà finita dell’uomo, cioè dell’uomo non in quanto manifestazione dello Spirito Infinito, o dell’Atto Puro, ma in quanto soggetto ai rischi della natura e della storia. Questa riaffermazione fu da un lato utilizzato da pensatori cattolici in generale dominati da interessi religiosi, allo scopo di riproporre e giustificare il tema della trascendenza di Dio rispetto all’uomo, alla natura e alla storia; dall’altro lato fu utilizzata come punto di partenza per nuove ricerche intorno alla struttura finita dell’uomo in rapporto al suo mondo naturale e storico-sociale. Sulla prima via si pose Armando Carlini che in uno scritto del 1936 utilizzava alcuni temi di Kierkegaard e Heidegger che poi furono da lui sviluppati in numerosi altri libri. Con interessi analoghi ma con intonazione diversa, riferendosi soprattutto al Marcel, Luigi Pareyson studiava negli anni successivi le varie manifestazioni dell’esistenzialismo, e specialmente la filosofia di Karl Jaspers al quale dedicava una monografia. Dall’esistenzialismo tuttavia egli traeva motivi e spunti per una elaborazione di un personalismo spiritualistico che ha poi trovato la sua forma più matura negli studi raccolti in Esistenza e persona”. Dopo avere precisato che l’esistenzialismo italiano si è concentrato sul tema della possibilità di comprendere l’uomo come ente finito, tra gli altri uomini e nel mondo, Abbagnano continua scrivendo che “i primi contributi all’analisi esistenziale […] si ebbero con la pubblicazione dei Principi di una filosofia dell’essere di Enzo Paci e della mia La struttura dell’esistenza. Paci, assumendo esplicitamente nel suo libro alcuni presupposti dell’idealismo italiano concentrava la sua attenzione su due problemi, insieme connessi, che erano estranei a tale idealismo: il problema della personalità e quello della natura. Per Paci, infatti, l’esistenzialità dell’uomo significava in primo luogo la sua naturalità: una naturalità tuttavia non paga di se stessa ma che trascende verso il valore e cerca di realizzarlo. La vita spirituale dell’uomo (la moralità, l’arte, la religione) era infatti considerata da Paci come tensione fra essenza e valore: il che vuol dire: come valore che cerca l’esistenza o come esistenza che si pone come valore. Assieme all’interesse per il mondo naturale, e quindi al riconoscimento della validità della scienza, si presentava, perciò, in Paci, il problema del valore, che era rimasto estraneo all’esistenzialismo tedesco. Per mio conto, ne La struttura dell’esistenza, prendevo posizione nei confronti dell’esistenzialismo di Heidegger e di Jaspers additando una terza possibile via all’analisi esistenziale”. N. Abbagnano, L’esistenzialismo in Italia, in Aa. Vv., La filosofia contemporanea in Italia. Società e filosofia di oggi, pp. 155-157. ↩︎

  10. A differenza di P. A Rovatti che, a tal proposito, parla di un congedo dall’esistenzialismo da parte di Abbagnano, (Cfr. P. A. Rovatti, Esistenzialismo, in P. Rossi (a cura), La filosofia, IV. Stili e modelli teorici del Novecento, 112), G. Fornero afferma che “l’incontro con il neoempirismo e il neoilluminismo non ha coinciso, per Abbagnano, con un abbandono dell’esistenzialismo (positivo). Infatti, come testimonia l’ultima fase della sua produzione […], Abbagnano è rimasto fedele ai principi di fondo del proprio esistenzialismo e, coerentemente con il suo concetto di filosofia come ”uso del sapere a vantaggio dell’uomo“, ha continuato a praticare la filosofia alla stregua di una riflessione globale sui problemi esistenziali (individuali e collettivi). Una riflessione coincidente con una forma di nuova ”saggezza“ impegnata a misurarsi con i problemi quotidiani del vivere (l’amore, il matrimonio, l’educazione dei figli, ecc.)”. G. Fornero, Manifestazioni alternative della filosofia dell’esistenza, in G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, pp. 732-733. Per una ricostruzione di questo contesto Cfr. G. Fornero, F. Restaino, Storia della filosofia, X, La filosofia contemporanea, 4, TEA, Torino 1996, pp. 291-295 e pp. 299-306. ↩︎

  11. Per Abbagnano, “l’esistenza non deve guardare al di là di sé, a ciò da cui muove — il nulla — o a ciò verso cui muove — l’essere — ma unicamente a se stessa, e deve realizzarsi nel rapporto con se stessa”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 52. ↩︎

  12. N. Abbagnano, L’esistenzialismo in Italia, in Aa. Vv., La filosofia contemporanea in Italia. Società e filosofia di oggi, pp. 152-153. ↩︎

  13. “Se il modo d’essere che inizia e contrassegna la filosofia, è l’essere a se stessa problema, questo modo d’essere, in quanto è proprio della totalità dell’essere, in quanto è proprio della filosofia, è proprio della totalità dell’essere, che ad essa è presente. La filosofia nasce come esigenza di dare a se stessa la propria nascita: nasce cioè ponendo a sé il problema di sé medesima, costituendosi come problema. Il problema è dunque il modo d’essere che la caratterizza. Ma se, […], la filosofia è essa stessa una sfera dell’essere ed anzi una sfera che comprende tutte le altre, proprio è la forma universale dell’essere, in quanto ad essa è presente. La filosofia è dunque l’essere che è problema a se stesso; e il problema esprime la forma universale dell’essere. Il problema proprio della filosofia si trasforma immediatamente in problema universale. Il problema della filosofia è la forma stessa del problema. E la forma del problema è la forma dell’essere, della totalità dell’essere. Il problema come forma universale è il problema dell’essere: è l’essere come problema”. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, Paravia, Torino 1939, pp. 22-23. ↩︎

  14. Trattare “della natura della filosofia significa ritenere già fermamente stabilito un punto essenziale: la necessità per l’uomo, per ciò che egli è, per ciò che deve essere, del filosofare. […]. C’è un senso — ed è un senso assai antico — in cui il filosofare si identifica con l’esistenza stessa dell’uomo e in cui (come Platone voleva) non si può essere uomo senza essere filosofo”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 18. ↩︎

  15. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, Taylor, Torino 1948, p. 25. ↩︎

  16. Cfr. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 20. ↩︎

  17. Ibidem, p. 21. ↩︎

  18. “La filosofia non può fondarsi sull’illusione di rendere l’uomo spettatore disinteressato di sé. Ogni chiarimento che l’uomo riesce a conseguire intorno a se stesso e anche quello che soltanto s’illude di conseguire, entra immediatamente a costituire la sua esistenza, che ne risulta modificata. Il che vuol dire che la filosofia non ha un oggetto, nel significato proprio del termine; ma soltanto un compito, e che questo compito consiste nell’impegnare l’uomo a quella forma o a quel modo di essere che egli giunge a ritenere suo proprio”. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, p. 25. ↩︎

  19. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, pp. 19-20. ↩︎

  20. N. Abbagnano, L’esistenzialismo in Italia, in Aa. Vv., La filosofia contemporanea in Italia. Società e filosofia di oggi, p. 117. ↩︎

  21. Abbagnano, a differenza di Heidegger, nel quale lo sforzo verso l’essere, che risolve in sé la totalità dell’essere, si rivela come ex-sistere, cioè come un distaccarsi dal nulla, ma in cui il nulla rimane come orizzonte permanente dell’esistenza nella sua impossibilità di definirsi come attualità, per cui l’esistenza viene vista come assoluto installarsi nel rapporto con il nulla (Cfr. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, pp. 12-13) che configura l’unica autentica possibilità di esistere nell’impossibilità di esistere (Cfr. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, p. 34), e di Jaspers, nel quale lo sforzo verso l’essere rimane sempre e necessariamente sforzo di fronte ad un essere che sta al di là dello sforzo il quale, come trascendenza, è inattingibile, per cui la situazione finale dello sforzo è lo “scacco” (cfr. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, p. 13) cioè la sua fondamentale impossibilità (cfr. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, p. 34), propone un esistenzialismo positivo “che giustifichi il riconoscersi e il mantenersi dell’esistenza nella sua fondamentale problematicità, e lasci aperte le possibilità in cui essa si costituisce” (N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, p. 35), in modo tale che la possibilità resti possibilità sempre aperta nella sua problematicità. Dal punto di vista della evoluzione del pensiero di Abbagnano è significativo notare che mentre in Esistenzialismo positivo, viene anche considerata la posizione di Sartre, nel quale verificandosi l’equivalenza assolute di tutte le possibilità umane, l’impossibilità della scelta “equivale alla nullificazione e alla perdita di tutte indistintamente le possibilità, quindi alla negazione dell’esistenza come tale” (N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, pp. 33-34), nell’Introduzione all’esistenzialismo, l’autore è convinto che “non sono possibili impostazioni esistenzialistiche diverse” da quelle di Heidegger e Jaspers e sua (Cfr. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 47). E questo perché “la superiorità dell’impostazione che io presento consiste nel fatto che solo in essa il problema dell’essere trova il suo fondamento come problema. Nelle altre due la posizione del problema è l’annullamento del problema […]. Ricollocata nella sua vera base di possibilità del rapporto con l’essere, l’esistenza trova in se stessa il suo significato positivo ed autosufficiente. Essa non si nega realizzandosi, ma si afferma proprio in quello che è, cioè nella sua essenza o natura di rapporto. Ed il rapporto in cui essa consiste viene, dall’atto della sua realizzazione, ricondotto esso stesso alla sua natura, alla sua problematicità fondamentale. La problematicità del rapporto con l’essere viene a consistere in se stessa e a insistere se stessa, realizzandosi come problematicità pura, come pura possibilità di un rapporto possibile”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 47. In questo modo, Abbagnano intende contrapporre il suo esistenzialismo positivo a quello di Heidegger e di Jaspers proponendosi l’obiettivo di superare le negatività del loro pensare. ↩︎

  22. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, p. 20. ↩︎

  23. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, p. 36. ↩︎

  24. N. Abbagnano, L’esistenzialismo in Italia, in Aa. Vv., La filosofia contemporanea in Italia. Società e filosofia di oggi, pp. 157-158. ↩︎

  25. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, pp. 11-12. ↩︎

  26. Ibidem, p. 49. ↩︎

  27. Ivi↩︎

  28. La filosofia “mette in gioco il destino concreto, nel mondo e fra gli uomini, dell’uomo che vi si impegna. E poiché nessuno può decidere per un altro e assumere su di sé la scelta e la responsabilità che spetta all’altro, il filosofare è quanto di più intimo e di più segreto c’è nell’esistenza del singolo: al quale nessuna parola luminosa, nessuna grande e bella verità può diminuire il peso della decisione ultima. Tuttavia il singolo non è mai solo. Egli è bisognoso di aiuto ed è in cerca di aiuto: e l’aiuto può riceverlo e può darlo. Perciò ognuno in filosofia lavora per sé e per gli altri; ascolta la parola degli altri e ne fa nutrimento e vita per la propria, la quale a sua volta sarà nutrimento e vita per gli altri. La filosofia non ha l’universalità astratta della scienza, l’universalità che consiste nella identità del giudizio. La sua universalità si chiama comprensione e solidarietà umana. È un’universalità nella quale viene in luce, si riconosce e si attua nella sua essenza genuina coesistenziale dell’esistenza”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 6. ↩︎

  29. “Che l’uomo esista, che l’esistenza sia il modo d’essere che gli è proprio, significa che egli si costituisce non come essere, ma come rapporto con l’essere e possibilità di questo rapporto. La problematicità essenziale per qualsiasi cosa egli sia o subisca o intraprenda implica una domanda, una ricerca, un rischio e la necessità d’una decisione, rivela che l’essere dell’uomo non è che possibilità di essere, cioè possibilità di costituire un qualsivoglia rapporto con l’essere. Tale problematicità costituisce la finitudine dell’uomo”. N. Abbagnano, Metafisica ed esistenza, in Aa. Vv., Filosofi italiani contemporanei, Milano 1946, p. 8. ↩︎

  30. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, p. 22. ↩︎

  31. “Il richiamo all’esistenza, proprio dell’esistenzialismo, è il richiamo all’analisi delle situazioni umane considerate come fondamentali, o essenziali o decisive o situazioni-limite, ecc, cioè alle situazioni umane più comune e ricorrenti, che meno si prestano ad essere eluse o dimenticate, come quella per cui l’uomo ha bisogni, o deve lottare, o deve morire, o deve vivere con gli altri, ecc. ”. N. Abbagnano, Sul metodo della filosofia, in Aa. Vv., La filosofia contemporanea in Italia. Invito ad dialogo, Arethusa-Società Filosofica Romana, Asti-Roma 1958, p. 26. ↩︎

  32. La filosofia “ha perduto la fede nella stabilità dell’esistenza e si rifiuta di scorgere in essa una qualsiasi garanzia infallibile di verità, di bontà o di progresso. Perciò vede nell’esistenza incompiutezza, squilibrio, instabilità, precarietà, rischio, e riconosce in questi aspetti sconcertanti, elementi non già provvisori, ma costitutivi e fondamentali (quindi ineliminabili) dell’esistenza stessa. C’è da meravigliarsi se un’arte e una letteratura che vivono nel clima di tale filosofia tendono ad esprimere soprattutto le incertezze, gli errori e le aberrazioni che rivelano, meglio di ogni altra cosa, l’instabilità dell’esistenza). Un problema tuttavia si propone con sempre maggiore urgenza: se sia possibile, non chiudendo gli occhi di fronte alla stabilità dell’esistenza, ma anzi accettandola e realizzandola sino in fondo, ritrovare la guida e l’orientamento per un’esistenza ordinata, sana e umana”. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza, Taylor, Torino 1967, pp. 5-6. ↩︎

  33. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza, pp. 16-17. ↩︎

  34. “L’esistenza è il rapporto della problematicità con se stessa ed è la costruzione dell’uomo nella sua problematicità originaria”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, pp. 55. ↩︎

  35. “All’uomo soltanto appartiene l’essere in questa forma problematica; la quale definisce perciò l’esistenza propriamente umana. Io (ognuno di noi può parlare in prima persona) compio un atto importante della mia esistenza: inizio o compio, ad esempio, un lavoro a cui è legata buona parte della mia vita e dei miei interessi; lego il mio destino a quello di un’altra persona; affronto un danno o un pericolo in vista di un interesse che ritengo superiore. In tutti questi casi il mio atto — che chiamo decisione, ma che non è soltanto un atto di volontà che impegna tutto il mio essere e che meglio perciò può dirsi atto esistenziale — il mio atto esistenziale, in tutti questi casi, implica una indeterminazione e perciò anche un rischio per me […]. Questa determinazione reale, questa fondamentale problematicità è propria di tutti gli atti esistenziali”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 22. ↩︎

  36. “Il tempo infatti è la dimensione stessa della problematicità, la quale si radica nel passato per protendere verso il futuro dal quale può sopravvenirle il consolidamento o la perdita delle sue possibilità”. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza, p. 20. ↩︎

  37. “Il riconoscimento della problematicità dell’esistenza implica il riconoscimento della temporalità dell’esistenza […]. La temporalità del tempo non è che l’instabilità fondamentale della possibilità esistenziale”. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, pp. 42-43. “La temporalità definisce la natura, la costituzione ultima dell’uomo, perché è la problematicità stessa del suo essere. Tutto ciò che l’uomo è, lo è in virtù della sua struttura problematica; e questa è la sua stessa problematicità”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 69. ↩︎

  38. “La natura temporale dell’esistenza costituisce la problematicità fondamentale. Per tale problematicità ogni atteggiamento umano, in quanto è definito dalla temporalità, è movimento verso l’avvenire”. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza, p. 111. ↩︎

  39. “Se l’esistenza umana è un possibile, che vive in un mondo di possibili, un criterio di valutazione non può essere estraneo al possibile stesso. Non possiamo ricorrere a un altro concetto: semplicemente perché non l’abbiamo. […]. Possiamo quindi dire: il criterio per giudicare i possibili, e per scegliere a ragion veduta tra di essi, è lo stesso possibile. Ma per essere assunto come criterio di valutazione di se stesso, il possibile deve essere reintegrato nei due aspetti che lo costituiscono e non deve essere ridotto né solo alla sua faccia negativa e nullificante né solo a quella positiva e realizzante. Il possibile è qualcosa che può essere o può non essere. Il può essere fa parte del suo significato non meno del suo può non essere: e reciprocamente. Non possiamo certamente sfuggire al riconoscimento che ogni iniziativa o progetto umano è aleatorio e può finire in nulla. L’esistenzialismo si rifiuta cioè di cullarlo in un ottimismo troppo fiducioso che addormenterebbe la sua vigilanza e lo esporrebbe senza difese a tutti i pericoli. Ma dall’altro lato, l’esistenzialismo deve rifiutarsi di paralizzare l’uomo, e di inchiodarlo all’inerzia e all’abbandono prospettandogli unicamente la non riuscita e lo scacco di tutte le sue iniziative. Deve piuttosto condurre l’uomo alla libertà delle scelte tra queste iniziative, consentendogli di scegliere, caso per caso, nel modo migliore e più ragionevole. Deve quindi incoraggiarlo a formarsi, in ogni campo, criteri di valutazione e di scelta che, senza avere l’illusoria pretesa dell’infallibilità, riducano le possibilità dell’errore e siano continuamente suscettibili di miglioramento”. N. Abbagnano, Possibilità e libertà, Taylor, Torino 1956, p. 21. ↩︎

  40. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 21. ↩︎

  41. “La storicità è la normatività fondamentale dell’essere. È l’esigenza intrinseca dell’esistenza di uscire fuori dalla dispersione del tempo per attuarsi come unità che è principio e fondamento di un ordine eterno. È il dover essere della personalità nel tempo. È l’uscire dal tempo nell’atto stesso di riconoscerlo nella sua natura e di riconfermarlo nella sua problematicità originaria. È il fronteggiare la capacità distruttiva e nullificante del tempo trasformandola in un rischio decisivo di riuscita o di fallimento. Attraverso la storicità, l’uomo deve riconoscersi e attuarsi come destino”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 157. ↩︎

  42. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 53. ↩︎

  43. Ibidem, p. 24. ↩︎

  44. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, p. 151. “Per la possibilità trascendentale, la struttura diventa dover essere, normatività”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 32. ↩︎

  45. “La norma è in un certo senso al di là dell’ente perché esprime l’atto con il quale la struttura trascende la finitudine dell’ente; ma in un altro senso è interiore all’ente appunto perché è la trascendenza costitutiva dell’unità dell’ente. La norma è al di sopra dell’ente (perché al di là della sua finitudine); e tuttavia è intima all’ente perché esprime l’esigenza più profonda della sua natura: quella della costituzione autentica. Perciò la norma assume il carattere di una presenza divina che incute rispetto”. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, pp. 155-156. ↩︎

  46. “Il riconoscimento della finitudine connessa alla problematicità dell’esistenza umana implica l’impegno dell’uomo nell’esistenza. Impegnarsi significa scegliere il proprio compito e rimanere ad esso fedele […]. L’impegno è tuttavia un’alternativa libera. Esso si radica nella problematicità del suo rapporto con l’essere. È l’atto con cui l’esistenza fa di tale possibilità la sua norma costitutiva e si realizza come esistenza autentica. L’esistenza autentica è autenticamente rapporto con l’essere: con l’essere del singolo, che in virtù di essa è propriamente un io, cioè personalità, soggetto, ragione giudicante; con l’essere del mondo, che in virtù di essa si rivela nel suo ordine e vale propriamente come oggetto; con l’essere della comunità, che in virtù di essa si rivela nella sua unità solidale, nel suo destino storico. Ma l’esistenza autentica, per sua normatività costitutiva, è essenzialmente libertà”. N. Abbagnano, Le sorgenti irrazionali del pensiero, Biblioteca di Filosofia, Napoli 1923, p. 9. ↩︎

  47. “La scelta esistenziale è la scelta della scelta. Essa è l’atto di trascendenza che instaura l’unità originaria della forma dell’ente e per il quale l’ente assume di fronte a sé il rischio e la responsabilità del proprio essere”. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, p. 130. ↩︎

  48. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 29. ↩︎

  49. “Il movimento fondamentale dell’esistenza nella sua struttura è la trascendenza. Come rapporto con l’essere, l’esistenza è trascendenza verso la trascendenza”. N. Abbagnano, Metafisica ed esistenza, in Aa. Vv., Filosofi italiani contemporanei, p. 10. ↩︎

  50. “L’indeterminazione è lo stato proprio dell’uomo come possibilità di esere. L’uomo, nel problema dell’essere, è nello stato di indeterminazione perché è stato indeterminazione […]. L’uomo esiste in quanto, costituendosi col problema e nel problema dell’essere, esce dall’indeterminazione che esso implica e muove verso il riconoscimento. L’esistere è un oltrepassamento dell’indeterminazione solo perché è un ritorno all’indeterminazione. […]. Se l’indeterminazione è l’essere come possibilità, l’esistere è il fondamento e la condizione di tale possibilità, è la possibilità trascendentale. […]. Nell’esistere l’indeterminazione si realizza come rapporto con se stessa […]. L’esistenza è il rapporto della problematicità con se stessa ed è la costituzione dell’uomo nella sua problematicità originaria”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, pp. 53-54. ↩︎

  51. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, p. 42. ↩︎

  52. Ibidem, p. 52. ↩︎

  53. Ibidem, p. 53. ↩︎

  54. “L’esistenza stessa, il suo atto costitutivo, quell’atto per quale appunto egli si pone come ricerca e trovamento dell’essere, neppure gli è dato nella forma di un possesso esclusivo e totale. Non solo l’essere, ma l’esistenza medesima trascende l’uomo. Se l’esistenza non trascendesse l’uomo, l’uomo sarebbe nella sua finitudine la totalità dell’esistenza. Non ci sarebbe esistenza al di là del singolo, al di là di me. Ma poiché l’esistenza trascende l’uomo e gli è data solo nel rapporto della trascendenza, la finitiduine del singolo non esaurisce l’esistenza. L’esistenza è trascendenza del verso l’esistenza: tale trascendenza è la coesistenza”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 99. ↩︎

  55. “Se la costituzione della mia individualità è espressa dal possesso, ch’io realizzo in essa, dell’essere, è evidente che esso implica simultaneamente la costituzione di questo essere”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, 30. ↩︎

  56. “Il singolo nel far propria una possibilità determinata o nell’atteggiarsi di fronte ad essa, decide non solo di sé, ma anche, e nel medesimo atto, dei suoi rapporti con gli altri”. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, 38. ↩︎

  57. “L’esistenza, che è il mondo proprio dell’uomo, non è essere ma rapporto con l’essere; tuttavia, proprio come rapporto con l’essere, ricade nell’essere e si radica in esso. L’essere la ricomprende come sua parte e la condiziona; e in tal modo si pone come totalità Questa totalità il mondo”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, 165. ↩︎

  58. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, 166. ↩︎

  59. Cfr. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, 97-106. ↩︎

  60. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, 101. ↩︎

  61. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 97. ↩︎

  62. “L’ente che si costituisce e vive un problema dell’essere è l’uomo. L’uomo è l’ente che non ha altro modo di rapportarsi all’essere e di possedere l’essere che il problema […]. Lo stato dell’uomo definito dal problema dell’essere è l’indeterminazione. L’indeterminazione è la stessa problematicità del rapporto tra l’uomo e l’essere. Per l’indeterminazione l’essere è per l’uomo una possibilità. L’uomo può rapportarsi all’essere e l’essere può esser proprio dell’uomo, costituirne il possesso. Ma questa possibilità non si immobilizza e non si fissa mai in una necessaria immanenza dell’essere all’uomo o in un necessario dominio dell’essere sull’uomo. L’immanenza e il dominio si verificano solo nella forma dell’indeterminazione per la quale l’uno e l’altro sono possibilità effettive sempre, realtà o presenza necessaria mai. L’indeterminazione è la natura propria dell’uomo in quanto non ha natura ed è il problema della sua natura”. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, pp. 52-53. ↩︎

  63. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza, p. 39. ↩︎

  64. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza, p. 44. “L’essenziale è il valore e il valore è al di là del limite. L’uomo deve perciò procedere al di là del limite e trascendere verso l’essere che vale. Il valore nella sua trascendenza appare così come un dover essere che è essenziale all’essere dell’uomo”. Ibidem, p. 45. ↩︎

  65. “Il valore esprime la normatività della struttura esistenziale, la sostanza del valore è trascendente, solo perché si radica nel trascendentale dell’esistenza. E questa sostanza è la libertà. Libertà e valore si identificano nel fondamento esistenziale” per cui si deve dire, secondo Abbagnano, che “vivere per il valore è vivere per la libertà”. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza, pp. 63-64. ↩︎

  66. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza, p. 65. ↩︎

  67. Ibidem, p. 66. ↩︎

  68. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, p. 9. ↩︎

  69. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, pp. 102-103. ↩︎

  70. Ibidem, p. 105. ↩︎

  71. “La morte non è una fine o un compimento, ma una possibilità che accompagna tutte le altre e ne costituisce l’intrinseca limitazione. Essa è la possibilità del non possibile, che domina e determina dall’interno ogni opera umana e ne fa un appello all’avvenire, cioè appunto una possibilità”. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, p. 11. ↩︎

  72. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, p. 170. ↩︎

  73. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, p. 35. ↩︎

  74. N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, cap. V-VI. ↩︎

  75. Abbagnano chiarendo la fondamentale differenza fra l’esistenzialismo italiano, definito da lui come positivo, e quello francese e tedesco che si smarriscono nell’angoscia del nulla scrive che “l’insegnamento che scaturisce dal quadro di questi indirizzi dell’esistenzialismo contemporaneo è che l’equivalenza delle possibilità costitutive dell’esistenza, che è il loro comune presupposto, conduce alla negazione dell’esistenza stessa come possibilità. Se tutte le possibilità che costituiscono l’esistenza sono, per un motivo o per l’altro, equivalenti, l’esistenza è impossibile. Questo riconoscimento fa vedere quanta importanza la considerazione del valore e della normatività abbia per l’esistenzialismo, che tuttavia negli indirizzi accennati l’ha trascurata completamente. Senza una soluzione positiva dell’esigenza valutativa, la problematicità dell’esistenza si trasforma in necessità, la possibilità in impossibilità, l’esistenza si nega nell’atto stesso che si riconosce. Nei confronti di questo esistenzialismo, che si può chiamare ”negativo“, non perché neghi credenze, valori o realtà che sono fuori del suo raggio, ma perché nega lo stesso principio da cui muove, l’esistenza, io propongo un indirizzo positivo che giustifichi il riconoscersi e il mantenersi dell’esistenza nella sua fondamentale problematicità, e lasci aperte le possibilità in cui essa si costituisce. Ad un esistenzialismo che vive sotto l’esclusivo segno di Kierkegaard, il filosofo della possibilità impossibile, bisogna contrapporre un esistenzialismo che riporti Kierkegaard a Kant, e a quanti altri filosofi hanno lavorato per garantire all’uomo il legittimo possesso dei suoi stessi limiti”. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, pp. 35-36. ↩︎

  76. Nel presentare una raccolta di propri articoli pubblicati nei “Quaderni di sociologia” tra gli anni 1951-1959, Abbagnano, chiarendo che il suo intento è stato quello di semplificare e ordinare il linguaggio sociologico, determinare con sufficiente approssimazione la natura e la portata degli strumenti concettuali e metodologici di cui la sociologia può disporre e, infine, precisare i rapporti tra la sociologia da un lato, la filosofia, le discipline storiche e le discipline naturali dall’altro, scrive che “la storia mira a cogliere e a ricostruire quegli eventi che, sotto un qualsiasi aspetto, sono significativi per la vita umana, cioè costituiscono la possibilità di nuovi indirizzi, orientamenti o sviluppi della vita stessa. La sociologia mira a cogliere gli aspetti della vita umana per cui essa si presenta, nel suo complesso, come un insieme di uniformità relative, quindi di ripetizioni possibili, che sono importanti nel loro complesso e non una per una; e tende anzi a risolvere l’evento individuale e propriamente storico nella trama dei rapporti minuti che si ripetono quotidianamente. Il sacrificio di uno di questi indirizzi di ricerca a vantaggio dell’altro non è quindi che un impoverimento della cultura e l’accentuazione di un aspetto parziale della storicità umana. Entrambi vanno coltivati e sviluppati, senza antagonismi o polemiche inutili. E la delineazione esatta della loro sfera rispettiva è, a questo scopo, indispensabile. Questa delineazione vale indubbiamente anche come determinazione critica della possibilità della sociologia. E per essa, la sociologia stessa si presenta come disciplina più adatta a gettar un ponte fra le discipline umanistiche e le scienze naturali e quindi a eliminare un fittizio ma doloroso contrasto del mondo contemporaneo”. N. Abbagnano, Problemi di sociologia, Taylor, Torino 1959, p. 32. ↩︎

  77. Questa dimensione è possibile rilevarla nella serie di articoli che sono stati raccolti nei libri La saggezza della vita (Rusconi, Milano 1985) e La saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita (Rusconi, Milano 1987), i quali testimoniano che in Abbagnano si fa sempre più vivo l’interesse per i problemi dell’esistenza quotidiana e si accentua uno stile più popolare che trova la propria base teorica in una concezione della filosofia come “saggezza”, di chiara ascendenza platonica. A tal proposito Abbagnano scrive che “non ho smesso la mia ricerca. L’ho indirizzata […] sul versante pratico, ovvero di filosofia pratica. Sono moralmente convinto che la filosofia non può essere una meditazione solitaria, deve aiutarci a vivere, guardando all’autodeterminazione, alla dignità e alla libertà di ognuno, e sempre nel rispetto degli altri”. N. Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Rizzoli, Milano 1990, p. 68. ↩︎