Il declino della soggettività nella parabola Pop

1. Nascita e consumo di un mito

Nella Pop Art newyorkese l’oggetto tecnologico ha superato il proprio valore d’uso nell’esasperazione di quello di scambio, fino a sublimare la propria funzione pratica in segno della funzione stessa. È il campione paradigmatico, l’esemplare rappresentativo che consente all’artista una ricostruzione linguistica imparziale, un non-intervento critico entro la realtà.

L’arte è tanto periferica rispetto al processo di omologazione culturale che, seppure non ancora scomparsa, è già divenuta invisibile per eccessiva esibizione. La stessa «messa in scena» degli oggetti banali e popolari risponde ad un «a priori» culturale per cui essi funzionano mitologicamente nel modo del «fresh from the assembly line».1 Non a caso l’oggetto più diffuso è la marca (Robert Indiana, ad esempio, dipinge solo questa): il valore dell’oggetto di consumo è tutto nel segno del consumo stesso.

Il presupposto linguistico della formazione del mito pop risiede nel carattere impersonale della nuova metropoli americana, profondamente diversa da quella europea (ancora luogo delle differenziazioni). Qui si sviluppa la duplice funzionalizzazione dell’oggetto-segno: l’occultato significato dell’utilizzazione pratica (ove il reale diviene intelligibile) e la manifesta ri-funzionalizzazione del segno (ovvero il guardare al valore d’uso dell’oggetto come immediatamente manifesto). Una semiologia urbanistica, per dirla con R. Barthes,2 che intenda la città come scrittura letta dai suoi stessi abitanti, implica (nel passaggio dalla metafora alla descrizione scientifica e quindi alla significazione) sia la non perfetta corrispondenza significante-significato, sia un simbolismo quale spazio aperto di relazioni a differenti significazioni. La città è il centro che raccoglie intorno a sé la vita degli uomini: qui avvengono gli incontri, si consumano le comunicazioni intersoggettive.

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Consumo ed oggetti di consumo (nonché paradigmatici rifiuti) li ritroviamo nella poetica oggettuale di C. Oldenburg: una profusione di monumenti capaci di creare con la città rapporti di ambivalenza tra la banalità del contenuto e la struttura imponente della forma. Come il monumento per Karlaplan, a Stoccolma, così il gigantesco Lipstick, Ascending, on Caterpillar Tracks, del 1969, ripropone un insolito rapporto con lo spazio: la linea fallica (l’erotismo come un modo economico dello scambio-offerta) del rossetto è associato all’elemento classico della colonna (a sua volta rapportato al portico attiguo). Il modello monumentale qui non valorizza l’ambiente circostante, come da tradizione, ma lo banalizza creando intorno a sé uno spazio pop, qualificato esteticamente come spazio reificato. Il monumento diviene segno di una ripetizione ossessiva che non rimanda ad alcun modello, che distrugge la relazione tra le parti della metropoli annullando l’idea stessa di un insieme cui riferirsi, entro cui significare. Questo è lo spazio che si sottrae alla «progettualità» nella misura in cui l’oggetto tradisce il proprio essere un «utilizzabile ontico» nel mondo. La definizione heideggeriana di Zuhandenheit, infatti, nel non «essere qualcosa di semplicemente-presente», quale «determinazione ontologico-categoriale dell’ente così come esso è in sé»,3 è l’anti-tesi dell’oggettualità artistica degli anni sessanta.

Simile alle affiches pubblicitarie è l’ingrandimento pop, volto però a defunzionalizzare l’oggetto, rendendolo minaccioso ed estraneo allo stesso consumatore. Non si tratta di un accorgimento tecnico quanto di un intento teorico volto a sottolineare una sua nuova semanticità: esso è lì, ingrandito, estraniato, per rimandare alla propria funzionalità pratica obliata nell’esser segno della propria «utilizzabilità».

Il riscatto dell’oggetto banale distrugge la banalità, creando un universo assurdo ove l’io ha perso se stesso nell’oblio del trascendimento culturale di ciò che scorre senza di noi, nel puro fluire naturale. Mi sto riferendo all’analisi di E. De Martino, laddove ricorda come:

allorchè è in causa l’esserci o il non esserci come presenza, può consumarsi la crisi di oggettivazione, lo scacco del trascendimento: ed invece di far passare ciò che passa (cioè di farlo passare nel valore) noi rischiamo di passare con ciò che passa, senza margine di autonomia formale.4

Ed è allora che tra l’io e l’oggetto non esiste più alcuna relazione, precipitando l’uno nel contenuto dell’altro. L’esperienza di tale perdita, direttamente associata a quella del crollo del mondo (per molti confrontabile con la schizofrenia5), entro l’esibizione esagerata e straniante dell’oggetto, si ritrova pure nella dimensione mitica del soggetto. Il popolare ed il banale pop, infatti, possiedono un referente oggettuale profondamente mitico: il popolare telefono, dentifricio, rossetto; la banale macchina da scrivere, lattina di Coca Cola, zuppa di minestra. La presenza ed il presente divengono il miraggio di ciò che è perduto, ovvero di ciò che, non essendo stato «oltrepassato nel valore», si ripropone in modo iterato come segno della crisi stessa. Un’estraneazione che si ritrova, dunque, nella negazione del tempo storico e dello spazio, entro una sospensione ove l’io è smarrito ed insieme riassorbito nella confusione della merce.

Emblematico è il modo di assunzione dell’oggetto nell’opera di J. Dine: in Pala e Falciatrice, del 1961, ed in Una falce e coltello rosso, del 1962, questo si esibisce frontalmente, quasi un faccia a faccia ove il vedere resta l’operazione percettiva più importante. La falce, la pala ed il coltello restano sospesi rispetto ad un piano uniformemente colorato: qui, come sul palcoscenico, spazio e luce decidono dell’ambiente. L’oggetto che non resta entro i limiti della rappresentazione è avvertito come una forza in atto di esplodere, una potenza alienante la stessa energia oggettivante della presenza, ridotta al puro guardare. Un guardare, poi, la propria tragica scomparsa: il perdere sé che è associato al vedere sé duplicato e come svuotato. Il quadro non contiene la figura entro i propri confini: sempre più spesso l’oggetto sboccia fuori dalla tela nella forma di un cappello, di una scarpa, di un coltello, di una catena. Segno di ciò che non è stato oltrepassato e della crisi vissuta dal soggetto.

Il mito pop della temporalità, ove la presenza «sostituisce» il presente, vuole destorificare anche lo spazio dell’umano agire, ovvero del corso storico delle azioni. L’attenzione ossessiva di A. Warhol per gli incidenti stradali ripropone la nozione beat della temporalità come durata ed iterazione dell’attimo presente. La sequenza di una stessa fotografia entro la tela, come nella serie dei disastri stradali, opera la decontestualizzazione del fatto esibito. Il tempo filmico delle immagini, iterate come nei suoi lungometraggi, è anche lo spazio geografico ove l’oggetto accanto diventa posteriore rispetto al primo, in una successione solo apparentemente dinamica. Lo scompenso tra il ritmo progressivo e la ripetizione dello stesso è per E. Crispolti6 causa dell’«incanto» delle serigrafie warholiane, ove l’attimo (espressione puntiforme del presente) si configura come espanso ed intensificato. L’immagine è segno dell’assenza nell’atto del proprio dissolvimento, coniugando la morte con l’idea dell’usura della merce: nella «società della pattumiera» vale il «dimmi cosa butti via e ti dirò chi sei».7

2. Dall’oggetto al segno attraverso il colore

È stato spesso trascurato uno studio sulla scelta del colore pop, privilegiando, piuttosto, l’uso del materiale, del sostantivo, vorrei dire, piuttosto che dell’aggettivo. Eppure negli anni sessanta il colore è proprio l’oggetto-segno della parabola pop.8 In esso si supera l’intenzionalità della coscienza che, ancora nell’Informale, si apriva al mondo nella modalità sartriana dell’«azione corrosiva del verme coscienziale». L’importanza riconosciuta da R. Barilli9 all’intenzionalità del «grumo o crosta materica» ci riporta alla relazione io-mondo de L’Être et le Néant, ove il soggetto abitava nella cosa, aderendovi fino a scomparirvi. In tale prospettiva il dipinto si configurava come ciò che conferiva qualità all’oggetto; il colore come ciò che intenzionava la materia.

Il passaggio all’oggetto si realizza nella Pop entro una ricomposizione asettica d’insieme che predilige i colori puri evitando le gradazioni tonali. Il «riscatto» del colore riguarda anche quelli composti di primo grado (giallo + rosso = arancio; rosso + azzurro = viola; giallo + azzurro = verde); sono invece trascurati quelli di secondo grado (come il rosso cupo, il grigio-azzurro e l’ocra). Nulla di più lontano, insomma, da quel rifiuto morale della borghesia di primo novecento che preferiva, ai toni vivi ed aggressivi, le nuances del grigio-malva e del beige.

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Gli artisti pop utilizzano striduli e chiassosi colori e melmosi o plastificati materiali (che ricordano in parte la fluidità materica dell’Informale) per esprimere la consumazione, quale segno ossessivo dell’usura del quotidiano. Il cattivo gusto e la volgarità, nella voracità dell’occhio e dello stomaco, configurano il consumatore come un gigantesco organismo fagocitante, privo di criterio di distinzione e di volontà di scelta. L’iconografia pop è quella di un mondo già sazio, come un grande pannello pubblicitario ove la Pepsi Cola, la Coca Cola, la minestra in scatola o le sigarette si offrono ad un consumatore già consumato dalla merce (pensiamo a Love, di Marisol, del 1962). Una sensazione di disgusto proviene anche dall’affollata esposizione di carne, di hamburger e di frutta marcia delle «vetrine» di C. Oldenburg. Contravvenendo alle elementari regole del design, l’artista, in Pastry Case I del 1961-62, allude ad un consmo già sazio ed ostenta il colore rosso e rosa fino a produrre un effetto nauseante, rievocando il banco di una macelleria piuttosto che quello di un pasticciere.

La seduzione dell’oggetto pop si oppone alla strategia pubblicitaria: sconcerta, disorienta, non invita all’acquisto ma produce un effetto esasperato di splendore ed usura. A ragione T. Osterwold riconosce che se il designer presenta il prodotto, l’artista pop offre il prodotto presentato dal designer. Se, ad esempio, l’arancione è il colore della disponibilità (pensiamo all’arancia di T. Wesselmann in Great American Nude N. 98, del 1967 o alla funzionalità cromatica di questo frutto in Arte come mestiere, di B. Munari), a quale offerta si riferisce A. Warhol in Orange Car Crash 10 Times, del 1963? Se, poi, il verde è simbolo di vita e di fertilità, perché utilizzarlo proprio per il tragico Green Crash del 1963? Qual è, dunque, questa disponibilità o felicità a buon mercato?

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Decisamente negli anni sessanta non è più il nero il colore del lutto, troppo intimo e riferito ad un dolore che non sa ma vorrebbe esprimersi nella simulazione della morte, per superarla. Ora è invece quello sgargiante del fucsia o del verde pistacchio, elettrico e lucente come l’oro e l’argento; sempre energico come la vita o come la forza della sua conversione in morte. Un cromatismo che riceve dalla merce la sua ambivalenza semantica: la disponibilità, perché sia tale, ovvero consumabile, comporta la propria distruttibilità, il poter divenire rifiuto, spazzatura. Così le serigrafie Marylin, di A. Warhol, hanno i colori sfolgoranti del rosso, del giallo, del verde e, soprattutto, del fucsia, dell’azzurro elettrico e del verde mela: la star si è appena suicidata e l’artista sta studiando il tempo di formazione e di usura del suo mito.

In modo non dissimile il colore è segno del tragico (o, meglio, del consumo ideologico del tragico) in Rainbow, del 1961, di J. Rosenquist: l’arcobaleno, con tutti i colori in un unico fascio smagliante, sgocciola da una finestra aperta dietro cui troneggia una forchetta. Mangiare come consumare è un’operazione corrosiva che rimanda al vuoto, come di vuoto è costituita l’assenza riferita all’eccedenza semantica del colore-oggetto.

La valenza estetica pop sottrae realismo alla realtà assumendola ad icona; il colore esagerato oltrepassa la propria funzione non riempiendo più lo spazio ma creandolo (come invece nella lezione cubista). Piuttosto lo consuma. Un colore-oggetto che ha già vissuto la metamorfosi in colore-segno: quello dell’assenza che sorregge il vuoto della panoplia degli oggetti-merce. La stessa mancanza, di cui l’oggetto di serie personalizzato è segno, rimanda, per opposizione, alla totalità del consumo illimitato.

Il mondo degli oggetti rende gli uomini uguali in virtù del valore d’uso, mentre il codice dei segni opera differenziazioni in virt del modello di riferimento, tale da distinguere le classi subalterne (che esibiscono il consumo) da quelle abbienti (che lo celano). Come gli oggetti-feticci, privati della propria utilizzabilità pratica, anche i modelli sociali si impongono in virtù della possibilità, offerta al consumatore, di assumere un determinato atteggiamento estetico. Pensiamo, ad esempio, al cliché dell’uomo esigente che sceglie la propria vita fin nei dettagli: così Elvis Presley N. 1, 1955, di A. Warhol, ha sul volto le tracce della propria scomparsa nel sudore che è sangue, in quell’espressione di uomo conformato al modello che ha scelto la propria distruzione, la propria assenza.

La naturalizzazione e la banalizzazione (ciò che appare naturalmente nella forma e nei tempi della quotidianità) restituiscono il banale come segno solo dopo averlo distrutto come realtà. Questa è sia espressa che consumata dalla Pop: l’ovvietà come segno che vive nello stesso oggetto-segno esibito.

Qui anche, però, il fraintendimento per cui non si colse tale passaggio metalinguistico; né la Pop avrebbe potuto, a partire dal proprio statuto di arte del e nel consumo.

3. L’oggetto-passione: seduzione e fascinazione

Il corpo può tendere all’oggetto tanto quanto l’abbraccio estremo ad un defunto tende alla metamorfosi del cadavere. Non puoi restare lì a lungo, nella stretta: il rischio-desiderio è di diventare, come lui, marmo. Così il vecchio Creonte, dopo aver pianto sulla spoglia di Glauca, invano

tentava di rialzare il suo vecchio corpo, ma restava attaccato alle sottili vesti di lei come edera a un ramo di alloro. E dura era la lotta. Voleva egli sollevare le ginocchia e quella a sé le traeva; e se il vecchio faceva forza, a pezzi strappava dalle propria ossa le sue vecchie carni. Desistè l’infelice alla fine e spirò, ormai vinto.10

Il corpo divenuto oggetto chiama a sé il soggetto che ancora lo desidera, seducendolo in un gioco mortale. Il suo potere sta nell’essere il prossimo nulla del soggetto, ove l’io può sentire l’alterità come tentazione alla propria scomparsa; irredentismo che capovolge la realtà dischiudendola al sogno. Un desiderio di uscita da sé che può anche non risolversi nella tensione verso l’alterità assoluta: l’oggetto-maschera del volto di Medusa, specchio di morte e pensiero ontologico del nulla, può essere sostituito da quello di Dioniso, specchio del molteplice e pensiero dell’univocità dell’essere.

La morte ed il continuo riaffacciarsi della vita sul corpo fatto a brandelli è un gioco in cui il seduttore è l’oggetto giunto da un’estraneità lontana. È la seduzione esercitata dall’oggetto, ovvero la sua supremazia, che realizza il desiderio del soggetto di essere altro da sé, assumendo un altro sé (il sogno o realizzazione del desiderio). Lo stesso anelito del soggetto, poi, si qualifica come il tentativo di spersonalizzazione (o assunzione condizionata del destino dell’altro) di distruzione della soggettività e deresponsabilizzazione nella passione definitivamente oggettivante.

Entro la relazione ludica tra sedotto e seduttore l’oggetto, privo del desiderio, si sintonizza con quello del soggetto, offrendosi come uno specchio riflettente una realtà capovolta, ove l’io incontra la propria illusione. È questo lo specchio che seduce Alice, conducendola in un mondo più assurdo di quello del cappellaio matto, un luogo ove non sarà più il sogno di se stessa ma quello di un altro, del Re Rosso che «raggomitolato su un mucchio di terra sporca» dorme il sogno di Alice.11 La passione (come uscita da sé dell’io) che contraddistingue la relazione sedotto-seduttore implica, nell’analisi di J. Baudrillard, un’idea di possesso che non riguarda l’oggetto-strumento (l’utensile che realizza un fine esterno a sé) quanto ciò che, separato dalla propria funzione, è in grado di ricostituire l’universo del soggetto. Ovvero l’oggetto-passione. L’essere-pratico e l’essere-posseduto diventano le sue funzioni fondamentali, delle quali l’una, come chiarisce in Le Sistème des Object, dipende dalla totalizzazione pratica operata dall’io nei confronti del mondo e, l’altra, da una totalizzazione (questa volta astratta) dell’io stesso, mediante se stesso e al di là del mondo.

L’essere posseduto dell’oggetto realizza il desiderio di uscita da sé del soggetto ed, insieme, il suo rispecchiamento nell’immagine desiderata. Il termine seduzione non implica una malia o invasamento, come avviene invece nella fascinazione, presentandosi piuttosto come una vertigine. Poiché l’oggetto si impone al soggetto sottraendosi e sottraendolo alla realtà, per consegnarlo al sogno, l’io subisce una caduta, un’estraneazione e, al contempo, una sua riabilitazione. Certamente la seduzione non nasce da qualche qualità o abilità dell’oggetto ma è il sedotto, il soggetto stesso, a possederle anzitempo. Perché l’oggetto è ora in sé privo di identità può offrire il sogno, o la sua illusione, all’io (che ad esso si abbandona per rispecchiarsi nei desiderata). Il mondo degli oggetti si configura come un seducente giardino della serenità, ove l’io si placa dopo la propria capitolazione, giungendovi per raccogliersi, per riflettersi nell’oggetto-specchio dell’imago anelata.

L’arredamento borghese di primo novecento stringeva l’io nel cerchio asfissiante del proprio autoporsi. E comprendiamo il fastidio del mittente di «Lettera a una signorina a Parigi» che, pur avendo qualche problema di suo (ad esempio vomita periodicamente piccoli conigli bianco-neri) decide di abbandonare la casa che divide con una donna perché stanco di

entrare in un luogo ove qualcuno che vive tranquillamente ha disposto tutto come una reiterazione visibile della sua anima.12

La sensazione opprimente di vivere in un ambiente costituito da oggetti che personificano relazioni affettive si converte poi in senso di colpa:

quale colpa diventa il prendere una tazzina d’argento e spostarla all’altra estremità del tavolo […] Muovere quella tazzina altera il gioco di corrispondenze di tutta la casa, di ciascun oggetto con l’altro, di ciascun momento della sua anima con l’intera casa e della sua abitatrice lontana.13

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Dietro questa accurata selezione nell’arredamento non esiste alcun sogno da sognare ma, invece, la diretta proiezione dell’io; un’immagine divenuta ancora più pesante del corpo cui il soggetto corrisponde. È l’affezione a qualificare il rapporto con l’oggetto, connotandolo emotivamente e creando, entro il soggetto, una zona altra da sé. L’artista pop che più ha rappresentato il potere seduttivo dell’oggetto e la funzione di specchio-riflettente il sogno dell’io è senza dubbio J. Dine, ossessionato e sedotto egli steso dal loro essere corpo. L’autobiografia, come modo autoreferenziale di pro-porsi, la ritroviamo in quella sua serie di vestaglie appunto denominata «self-portrait». Perché scegliere proprio un oggetto senza corpo (gli indumenti sono infatti svuotati all’interno), di cui l’inserto pubblicitario sul The New York Times, nel 1964, fu solo uno spunto occasionale, per autorappresentarsi?

Per indicare la soggettività (la vestaglia, come indumento, rimanda comunque ad un corpo) restando nel nascondimento. Alludere ed occultare appartengono al gioco seduttivo e, soprattutto, alla serialità ove la seduzione stessa ha modo di realizzarsi (come un gioco infinito di rimandi nello specchio). La moltiplicazione dell’oggetto o la ripetizione dello stesso (quale esasperazione dell’effetto seduttivo e desiderio illimitato di possesso estraneante) attraversa la sua produzione dalle cravatte del 1961 alle pale del 1962, dalle pareti da bagno del 1962 alle tavolozze del 1963 fino alle vestaglie del 1964. L’ossessione dell’io che si rincorre nel giardino degli oggetti attraverso la loro defunzionalizzazione pratica e la loro riproduzione seriale. La collezione, infatti, è un modo eccellente per mantenere appassionata la tensione verso il possesso (la stessa che invece, nella funzionalità, si confonde con l’uso), anche dell’oggetto pop.

Nel miraggio dello specchio si realizza il miracolo della collezione perché la proiezione narcisistica ha modo di moltiplicarsi in un numero indefinito di oggetti. Tale rifrazione, interno all’oggetto-passione ed al fenomeno della collezione, o desiderio infinito di possesso, rimandano ad un ulteriore «merce», funzionale ad una nuova estetica pop relazionata all’economia: il denaro. Negli anni sessanta il dollaro diventa il segno del tempo (come la bandiera quello dello spazio, ovvero degli Stati Uniti) perché in grado di realizzare il «sogno americano». Tutti i prodotti commerciali ora se lo portano impresso come un marchio, icona dell’impulso collettivo a cambiare ed a scambiare, «medium sociale» o estensione del desiderio. Non configurandosi come un sistema chiuso il dollaro funziona come veicolo ed amplificatore dei messaggi sociali, sostituendo qualsiasi oggetto con un altro. La sua rappresentazione artistica tradisce l’intento di veicolare come vera l’illusoria uguaglianza economica data dalla propria circolazione sociale: nonostante l’omologazione, il consumatore «ricco» non compra affatto la stessa merce di quello meno agiato. Così, soprattutto nei lavori di A. Warhol del 1962, viene presentato come un enorme francobollo, volutamente copiato, in modo mediocre, dall’originale: un’immagine che ha definitivamente perduto la propria «aurea». Banconote gettate alla rinfusa come in 18 one-Dollar Bills in 6 Rows, 40 Two-Dollar-Bills in 2 Rows (red), 80 Two-Dollars Bills in 20 Rows (Front and Black and Green), litografia Ten Dollar Bills di R. Lichtenstein del 1956 e la serigrafia di A. Warhol, Two Dollar Bills (Front and Rear), del 1962, sgualcite e moltiplicate conferiscono l’idea di un progresso già realizzato e diffuso a tutto il corpo americano.

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In Big Torn Campbell’s Soup Can (Vegetable Beef) del 1962, sempre di A. Warhol, oltre alla serialità ella merce si rimanda esplicitamente al consumo dei segni. La differenza tra un oggetto di serie ed il suo modello sta nel fatto che prerogativa del primo è il suo deficit tecnico, tale da garantire la sua breve: l’oggetto di serie non deve sfuggire alla moda, ovvero alla propria fine. Ogni merce deve essere consumata entro un breve arco di tempo per poter essere sostituita da un’altra marginalmente differente.

Rendere il dollaro soggetto dell’immagine artistica ha soprattutto un significato di ordine estetico: nella pop il bello è il denaro, la sua fruizione è la sua stessa consumazione. La novità della moda pop è nel suo criterio di bello utile al massimo grado, cioè economico, trasformando l’opera d’arte in feticcio artistico. L’opposizione semiotica tra significante e significato è, negli sessanta e settanta, rapidamente decostruita in nome di un segno ultra-circolante. Il nuovo eroe rinuncia alla propria sentimentalità (ovvero alla «personalizzazione» degli oggetti) per lasciarsi sedurre dall’oggetto-passione, esprimendo per questo una tranquilla indifferenza verso la sua storia (e la propria memoria).

La seduzione si trasforma in fascinazione, mentre l’affettività in economia e l’estraneazione del soggetto in ironia oggettiva del mondo della merce. Nella malia economica la stessa riscoperta del corpo (l’amato nella propria fisicità) passa attraverso l’oggetto divenuto medium. Corpo ed oggetto circolano nella stessa rete di segni omogenei, rimandandosi e consumandosi reciprocamente, entrambi presi dall’identica potenza ammaliatrice del medium-messaggio.

4. La serie ed il modello: un approccio semiologico

L’analisi dello statuto dell’oggetto moderno, entro la contrapposizione del modello alla serie, è utile per rintracciare nel banale oggetto di consumo un lessico i cui segni sono stati occultati dalla Pop. A dispetto del pragmatismo, che vuole l’arte riassorbita nell’esperienza del vissuto quotidiano, la serialità pop esprime una sorta di aporia mistica. Un’esasperata immanenza (coniugazione di arte e di realtà), irrealizzabile quanto la più verticale trascendenza. Rendendo l’arte banale come il banale oggetto di consumo, infatti, l’effetto sortito non è stato il riscatto della quotidianità quanto, piuttosto, del consumo del consumo o metaconsumo. Così C. Oldenburg:

Sono per l’arte che prende le sue forme dalla vita, che si contorce e si estende impassibilmente e acumula e spunta e sgocciola, ed è dolce e stupida come la vita stessa. Sono per l’artista che sparisce e rispunta con un berretto da muratore a dipingere insegne e cartelloni… Sono per l’arte che sventola come la bandiera, o ci aiuta a soffiarci il naso, come il fazzoletto. Sono per l’arte che si mette e si toglie, come i pantaloni, che si bucherella, come i calzini, che si mangia come una fetta di torta.14

L’ovvietà dell’ubicazione della rappresentazione artistica (le strade e le piazze ove si consuma la vita quotidiana) corrisponde all’intento di «mettere in scena» la funzionalità pratica della merce esibita, nella perfetta corrispondenza di utilizzabilità e di maneggevolezza dell’oggetto. La stessa scala di rappresentazione dell’oggetto, poi, rimanda ad un secondo ambito semantico ove non è più l’utilizzazione pratica a valere quanto il proprio essere segno di provocazione. Allusione al tempo che scorre contro l’uomo, sganciandolo dal fare storico per immetterlo nel puro fluire delle merci. Così le macchine da scrivere impacchettate, i giornali spiegazzati o i telefoni molli, che trasmettono messaggi banali quanto destabilizzanti. L’effetto suggestivo dato dall’oggetto ingrandito e decontestualizzato, infatti, elimina la stessa ovvietà del banale, relegandola alle sue caratteristiche formali. Scrive R. Barilli:

La macchina da scrivere rifatta in plastica e su scala gigante è se stessa, ma è anche qualcosa di «altro», si arricchisce di connotazioni, di sensi plurimi; né è più un pezzo staccato, uno strumento che attende umilmente di funzionare; ora esso si pone al centro del mondo, lo fa ruotare intorno a sé.15

Cos’è questo «far ruotare attorno a sé» il mondo? Non è l’oggetto, secondo le dichiarazioni degli artisti pop, naturalmente inserito in esso come la materia lo era nell’Informale? Evidentemente esiste un secondo livello di significazione, interno alla produzione: l’oggetto non è banale. È piuttosto investito di una nuova semanticità che non rimanda più all’universo antropocentrico dell’utilizzabilità quanto, piuttosto, a quello semiologico del servire come segno. La realtà isolata e portata sulla tela perde il proprio quoziente naturale di banalità, ofrendosi per un secondo consumo, o metaconsumo, ove non è più l’ordine degli oggetti a prevalee quanto quello ei segni. Ritornando alle sequenze dei disastri stradali di A. Warhol, cosa si presuppone se non il fatto già divenuto cronaca, ovvero il segno circolante nella comunicazione di massa? E se, dunque, il consumo della scatola di minestra Campbell è consumo del proprio segno, si può forse dire, con J. Baudrillard, che questo non riguarda né gli oggetti né ibisogni (che sono, semmai, il termine della loro utilizzabilità pratica) quanto «un’attività di manipolazione sistematica dei segni»?16

Il fatto che ogni merce acquistata si presenti, al consumatore, come frutto di una scelta, dipende dal particolare modo con cui esso è offerto sul mercato, ove non compare come oggetto di serie quanto, invece, come modello. È la strategia industriale delle differenze inessenziali («MDM» = minore differenza marginale), riferita al colore o alla forma, tale da permettere al consumatore di scegliere in base al proprio modello narcisistico, alla ricerca della personalità ideale offerta dal mercato. Questa offerta dell’oggetto di serie come personalizzato si oppone all’operazione della sua esibizione in quanto oggetto pop. Perché qui non vi è alcun occultamento della propria natura. E questo proprio quando, per voler restare omogenea al sistema consumistico, finisce per tradirlo tradendone l’intenzionalità occultata. E non perché la Pop sia arte ironica o polemica: ama troppo il mondo della merce, della catena di montaggio e della patina luccicante della plastica per prenderne le distanze. È piuttosto talmente omogenea al sistema culturale da consumare quanto in essa si offra, consumandosi essa stessa come fosse una moda.

Il linguaggio pop, sottraendosi all’orizzonte formale del trascendimento operativo della coscienza, si qualifica come linguaggio mitico che annulla l’io e la sua capacità di oggettivazione. In questo R. Barthes individua la differenza tra linguaggio-oggetto (operativo) e metalinguaggio (terreno fertile, questo, per la nascita dei miti); nel passaggio dal primo al secondo, la forza derealizzante del mito borghese. Quando, infatti, i beni di consumo si offrono quali doni elargiti da una magica abbondanza, come nella «messa in scena» pop, il processo di fabbricazione (che qualifica storicamente il prodotto tecnologico) si naturalizza nel mito. La Pop mette in atto un processo mitico che, obliando il passaggio storico dalla produzione al consumo, esibisce il «sogno americano», presentandolo come ovvio, cioè naturale. Ed il mito si configura come una parola che deve essere storicizzata, perché correlata ad un tempo e spazio relazionati ad altri luoghi: la mitologia, come scienza dei segni interna alla semiologia, è funzionale allo studio di ciò che le immagini significano come linguaggio.

Nel mito pop ritroviamo lo schema triadico che pone un’implicazione funzionale tra significante, significato e segno, con la peculiarità che ciò che è segno nel primo sistema diviene significante nel secondo. La fotografia di A. Warhol, il fumetto di Lichtenstein o il manifesto di Rosenquist dovrebbero essere intesi come segni interni al più ampio ambito del mito. Entro questo il significante èal contempo termine finale del sistema linguistico ed iniziale di quello mitico, ricevendo la denominazione di senso a livello linguistico e di forma nella struttura del mito. Il significato resta il concetto, il segno risulta dalla correlazione dei primi due termini (anche se sul piano del mito risulta alquanto ambiguo, essendo il significante già costituito dai segni della lingua) ed il terzo è rappresentato dalla significazione (che è il mito stesso). Tra concetto e senso, poi, si stabilisce quel rapporto che R. Barthes definisce di «deformazione»: come per Freud il senso latente deforma quello visibile del comportamento, allo stesso modo, nel mito, il concetto altera il senso.

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Avviciniamoci ad un mito in particolare: quello della Coca-Cola, vera icona pop. La sua raffigurazione, diffusa e soprattutto deformata (la bottiglia trasformata in spilla, in giocattolo, in saliera o impressa sulle T-shirt sotto la denominazione di Dolly-Cola o Caro-Cuore) mostra da subito come la propria struttura mitologica risieda nella parodia. Come l’imitazione del prodotto (Green Coca-Cola bottles, 1962, di A. Warhol) o la riproduzione della sua marca (CocaCola Plan, 1958, di R. Rauschenberg), la parodia vive in stretta vicinanza con l’originale ma, al contempo, se ne distanzia pure se non nella modalità assoluta dell’ironia.

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Contrariamente a quanti ritengono la Pop arte ironica o polemica mi sembra, piuttosto, che essa sia parodistica, ovvero che giochi con i segni (Coca-Cola, appunto) solo dopo che il quadro significante sia divenuto mitico, come la Gioconda di Duchamp. L’operazione pop di isolamento dell’oggetto sulla scena serve, per dirla con L.R. Lippard,17 a «presentarlo in modo imprevisto», sì che l’osservatore abbia la possibilità di vederlo con «occhi nuovi», ovvero di parodiarlo.

Il luogo comune, il popolare, che solitamente non informa il soggetto perché fin troppo naturalizzato, riesce ancora a stupire, a suscitare nuovi sensi entro l’apparato mitico in cui si muove.18 Il modo di rappresentazione (ad esempio il tipo di grafica che, per la Gestaltheorie, è la forma forte) non soltanto resiste all’azione parodistica di alterazione ma, in qualche modo, si rafforza. È così che i segni Coca-Cola vengono utilizzati sia dai fautori del consumo che dai loro oppositori. La distruzione, o consumazione, del mito è interna alla sua matrice: la physis de-realizza l’uomo, de-situandolo tra oggetti che non rientrano inun’operazione di oggettivazione, ovvero che non sono stati trascesi culturalmente nel valore. Anche questa è una parola, mitica: l’extralinguistico comunica con maggiore forza quando anche l’immagine pop si trasforma in oggetto. Una metamorfosi compiuta che allude ad una futura.

5. Il corpo-feticcio e l’immagine-oggetto: esperire il proprio corpo e l’intersoggettività

L’ostentazione dell’oggetto, quale segno della crisi di oggettivazione, investe l’io sia nella relazione con il proprio corpo che con quello dell’altro. Divenuto oggetto di consumo per eccellenza, esso stesso è consumato nel proprio essergli funzionale, vivendo come segno di ciò che è pubblicizzato, veicolato, divorato.

La sua storia si presenta come quella della propria organizzazione in segni-oggetti di scambio, come la relazione soggetto-corpo riflette quella del rapporto soggetto-oggetto.

La sua riscoperta pop equivale a quella degli oggetti, ove non si celebra tanto la sacralizzazione dell’atto quanto, entro il sistema consumistico, la consumazione del gesto. La rappresentazione della nudità femminile, soprattutto, non rinvia ad alcun movimento erotico perchè non coinvolge l’altro in nome di un’affettività negata in tutte le sue manifestazioni, dalla percezione fino all’amore; è un esibire senza sentire. La proliferazione delle sue immagini è pure segno della propria indeterminazione, della mancanza del desiderio che non può trascendersi in un immaginario.

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La seduzione appartiene all’oggetto: è per rendersi affascinante che l’io, dunque, assume la propria oggettualità rispetto all’altro. Siamo ben lontani dall’apprensione sartriana dell’altro come oggetto, quella che rimandava «ad una percezione fondamentale d’altri, nella quale altri non mi si manifesta più come oggetto ma come “presenza in persona”».19 Nella Pop l’essere-per-altri si frantuma nella collezione delle relazioni interpersonali ove l’altro è colto in modo puramente additivo rispetto agli oggetti circostanti. La figura, soprattutto nella scultura, non è più un polo significante attorno a cui si organizza l’ambiente, costituendosi come tale ma, confuso con-tra la merce, non modifica né lo spazio né lo sguardo. La donna seduta al tavolo di G. Segal, Woman in a Restaurant Booth, del 1961, non è un centro che intenziona: tra la rappresentazione e lo sguardo si frappone una barriera che divide i due spazi, impedendo che interagiscano. Secondo J.-P. Sartre l’apparizione dell’altro nel proprio campo percettivo costituisce «un elemento di disintegrazione», riguardante le «relazioni che io percepisco tra gli oggetti del mio universo»;20 nella Pop Art la teatralità è pure la neutralizzazione del gesto umano. Come l’oggetto non è inteso quale progetto operativo dispiegante lo sforzo culturale, così il corpo, assimilato a valore di scambio, circola come un segno magico del consumo.

L’abbandonanza della merce li contagia e li disperde: accostati gli uni agli altri, nascosti in spazi angusti, isolati, abbandonati, come gli oggetti, silenti. L’essere-per altri diviene, nella scultura pop, l’essere-con gli oggetti. Non è casuale che le performance e gli happenings furono, per gli artisti pop, esperienze perlopiù del periodo formativo. È infatti con gli oggetti, o calchi-oggetti, che essi creano e distruggono gli ambienti. Nulla di più lontano, anche, dall’idea di socialità di E. De Martino:

Io non debbo essere mai solo: ancor meno lo debbo essere e lo sono in quell’atto inaugurale del mio doverci-essere-nel-mondo, che si esprime nella utilizzazione, cioè nell’incessante partecipazione a un pro-getto comunitario dell’utilizzabile.21

Nella Pop Art non abbiamo né l’essere-nel-mondo come soggetto progettante né il dover-essere-nel-mondo come «sforzo per esserci»: né gettatiimpegnati si è al modo d’essere dell’oggetto, quando vale non per il proprio uso ma il segno che veicola. Il corpo non cerca l’alterità né la trova accanto a sé: la coseità resta la forma della propria socialità.

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L’espressione più chiara del passaggio dall’essenzialità della carne-materia, propria dell’Informale, alla fredda plasticità dell’oggetto la ritroviamo soprattutto nella fisiognomica del viso. È negli occhi e sulle labbra della star che si «mette in scena» l’ossessione narcisistica che trasforma il corpo in un feticcio, magico ed insieme banale come l’universo delle merci. Il viso di Marilyn o di Liz Taylor, icone create soprattutto da A. Warhol, star egli stesso, accolgono il bisogno collettivo della consumazione (raggiungimento, appropriazione, gratificazione d’appagamento e distruzione delle scorie) della bellezza e del successo. Alla star tutto è permesso perché la sua funzione risiede esclusivamente nell’essere unica e multipla al contempo; perché sta per l’oggetto pubblico per eccellenza, ove il sogno comune si realizza nello sdoppiamento narcisistico del sé. Gli occhi e la bocca (entrambi socchiusi ed allusivi) valgono come segno di consenso: a nessuno appartiene il suo corpo-marca ma a tutti si offre nell’essere segno estremo di disponibilità. Una bocca può parlare, baciare, mangiare: tutte funzioni che la Pop sussume entro la categoria del consumo e della sua usura (ovvero del suo mito). Lo sguardo languido di Marilyn, all’indomani del suicidio, o di Liz Taylor, dopo il suo ricovero per alcolismo, è segno di questa distruzione, di un dramma che non si conclude ma si rafforza nella propria stessa fine.

Ha inizio qui il «declino dell’affetto» del postmoderno, su questo volto e questa pelle di un corpo-feticcio aggiunto ad altri oggetti-feticci, disincarnato, segno dell’assenza nell’ostentazione della presenza.


  1. Cfr. J. Baudrillard, La Société de consommation. Ses mythes ses structures, Gallimard, Paris 1974 (trad. it. di G. Gozzi-P. Stefani, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 1976). ↩︎

  2. Cfr. R. Barthes, L’aventure sèmiologique, Seuil, Paris 1985 (trad. it. L’avventura semiologica, Einaudi, Torino). ↩︎

  3. M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tubingen 1927 (trad. it. di P. Chiodi Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, cit. p. 98). ↩︎

  4. E. de Martino, Morte e pianto rituale, Boringhieri, Torino 1975, p. 18. ↩︎

  5. Cfr. P. Janet, De l’angoisse a l’extase, Paris 1928. ↩︎

  6. E. Crispolti, Avanguardia di massa, Feltrinelli, Milano 1978. ↩︎

  7. J. Baudrillard, La Sociètè de consommation. Ses mythes ses structures, op. cit., p. 43. ↩︎

  8. Cfr. J. Dubuffet, Prospectus aux amateurs de tout genre, Paris 1946. ↩︎

  9. Al riguardo rimando a due interessanti studi di R. Barilli: Per una estetica mondana, Il Mulino, Bologna 1964 ed Informale Oggetto Comportamento, Feltrinelli, Milano 1979. ↩︎

  10. Euripide, Medea, vv. 1205-1219. ↩︎

  11. L. Carroll, Through the Looking-Glass 1871 (trad. it. Giglio, Alice nel mondo dello specchio, Rizzoli, Milano 1966, cit. p. 145). ↩︎

  12. J. Cortazar, Bestiario, Einaudi, Torino 1965, p. 11. ↩︎

  13. Ibid., pp. 11-12. ↩︎

  14. C. Oldenburg, The Store, Something Else Press, New York 1967. ↩︎

  15. R. Barilli, Informale Oggetto Comportamento, Feltrinelli, Milano 1979, p. 163. ↩︎

  16. J. Baudrillard, Le Système des Objets, Gallimard, Paris 1968 (trad. it. di S. Esposito, Il Sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 1972, cit. p. 250). ↩︎

  17. L.R. Lippard, Pop Art, Thames and Hudson, London 1966 (trad. it. di R. Sanesi, Pop Art, Rusconi, Milano 1989, cit. p. 87). ↩︎

  18. Per uno studio sulla parodia mi sembra interessante il lavoro di C. Bouchè, Lauréamont: du lieu commun à la parodie, Laroune, Paris 1974. ↩︎

  19. J.-P. Sartre, L’Être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943 (trad. it. di G. del Boin, L’Essere ed il nulla, Il Saggiatore, Milano 1965, cit. pp. 321-322). ↩︎

  20. Ibid., cit. p. 324. ↩︎

  21. E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 601. ↩︎