La teoria delle due immagini di Sellars. Antitesi o complementarità della metafisica del senso comune e della metafisica delle scienze fisico-naturali

1. Il problema della immagine manifesta e della immagine scientifica

Una riflessione sul senso comune, e su quanto i contenuti delle nostre percezioni e intuizioni quotidiane abbiano una loro legittimità in quanto a potere descrittivo ed esplicativo rispetto alle strutture della realtà, non può prescindere dal contributo che è stato fornito da Wilfrid Sellars (1963b) con la sua riflessione sulla frattura che lo sviluppo della scienza contemporanea ha aperto tra una metafisica del senso comune e una metafisica completamente ridotta e assimilata alle descrizioni della fisica, tra quelle che Sellars ha chiamato immagine manifesta e immagine scientifica del mondo.

In questo contributo cercheremo di mettere in luce le problematicità e le ambiguità della teoria del filosofo di Pittsburgh. Il fatto ad esempio che la descrizione precisa da lui fornita della immagine manifesta e l’esplicitazione dei suoi contenuti non conducano ad una chiara spiegazione di come questo universo di percezioni, intuizioni e credenze, possa e debba integrarsi con l’immagine scientifica. Anche se Sellars parla più volte di visione stereoscopica non si capisce alla fine se si sia legittimati a guardare il mondo attraverso le due immagini, attraverso due occhi che convergono in un unico sguardo sinottico e complesso. La posizione interna al testo rimane sbilanciata verso l’egemonia della scienza. Del resto è lo stesso Sellars (1963b=2007, 38), dopo avere distinto l’immagine manifesta che ha l’essere umano contemporaneo da quella dell’uomo primitivo, a scrivere: «Emerge dunque che il tentativo di comprendere questa differenza è parte integrante del tentativo di abbracciare con un unico sguardo le due immagini dell’uomo-nel-mondo che mi sono proposto di descrivere. Ciò perché, come vedremo, questa differenza di livello appare non come una discontinuità irriducibile nell’immagine manifesta, ma come una differenza colmabile, in un senso che richiede un’attenta analisi, nell’immagine scientifica». Se anche non dovessimo dimostrare la radicale ambiguità della teoria delle immagini, enfatizzando come esse sono in realtà poste in antitesi e in opposizione, potremmo comunque tranquillamente affermare che la soluzione della integrazione e della complementarità è assai lacunosa e non rende conto della pregnanza autonoma della immagine manifesta, la quale è invece riassorbita, in modi non chiari, nel contesto della immagine scientifica.

Il tema dell’antitesi e della assimilazione si fa ancora più stringente se si pensa che l’immagine manifesta non è soltanto senso comune condiviso, non è solo l’insieme delle nostre intuizioni pre-analitiche sul mondo naturale nel quale abitiamo e sulla nostra vita percettiva quotidiana. Essa ha a che fare anche con i progressi del pensiero umano e con la costruzione di sistemi filosofici che parlano di questo nostro mondo. Per Sellars dunque andrebbero sacrificati all’immagine scientifica non solo le nostre percezioni, ma anche la nostra riflessione filosofica sul mondo.

Questa prospettiva rilancia alcuni problemi interni alla filosofia più ampia di Sellars e stride con altre sue tesi molto note. Non si capisce come si mettano d’accordo il radicale realismo scientifico di Sellars (1963a), e la tesi della egemonia della immagine scientifica, con altre teorie dello stesso Sellars (1956) presenti in altri luoghi della sua riflessione come la critica al Mito del Dato e l’esistenza di uno spazio logico delle ragioni. Non vogliamo occuparci solo delle ambiguità presenti nel testo ma anche di come esse facciano emergere un dilemma teoretico più vasto. Le due immagini sono in radicale opposizione fra loro o c’è spazio per una integrazione, per una loro complementarità? Dobbiamo accettare una egemonia insuperabile della immagine scientifica e pensare, come dice Sellars (1956, §41) che la scienza è «la misura di tutte le cose, di ciò che è in quanto è, di ciò che non è in quanto non è»?

Una delle domande fondamentali è infatti se questo universo sia qualcosa di primitivo e ancestrale che va eliminato progressivamente attraverso le descrizioni più precise e reali della scienza o se esso conservi una qualche legittimità ontologica e metafisica. In generale si può essere tentati di compiere questo estremo atto di riduzionismo eliminativista a scapito della pregnanza di quello che Husserl chiamerebbe il mondo-della-vita. Anche senza ricorrere a questa radicalità si potrebbe assegnare, come fanno Casati, Varzi (2002), al linguaggio fenomenico-percettivo che parla della immagine manifesta solo un ruolo di mera e pragmatica efficacia descrittiva al netto della sua erroneità ineludibile e reiterata.

La nostra prospettiva, che cercheremo di delineare meglio in contributi futuri (Velardi in corso di stampa), è che il senso comune, con il suo linguaggio fenomenico e intenzionale, ha un potere descrittivo genuino e perfino un potere esplicativo nei confronti della causalità naturale e della razionalità delle azioni umane che non può essere sostituito da nessun altro linguaggio neurale o fisicalista. Lasciamo ad altre sedi la elaborazione della nostra visione radicalmente antiriduzionista e della nostra difesa del pluralismo ontologico.

Torniamo ora al testo di Sellars. La sua filosofia nasce in un contesto antimetafisico, influenzata dalla filosofia analitica anglo-americana, anche se non rinuncia al dialogo con i grandi sistemi filosofici del passato. Sin dalle prime pagine del suo testo emerge una certa sfiducia sulle possibilità che la filosofia abbia un suo oggetto autonomo di indagine, quasi come in un contrappunto negativo con la tradizione classica della Metafisica di Aristotele che lo aveva invece trovato nell’ente in quanto ente. Sellars (1963b = 2007, 28-29) scrive: «La filosofia manca, in un senso importante, di un suo oggetto speciale, che stia ad essa come altri oggetti stanno ad altre discipline speciali. Se i filosofi avessero avuto uno speciale oggetto d’indagine, avrebbero potuto consegnarlo ad un nuovo gruppo di specialisti, nello stesso modo in cui hanno consegnato a dei non-filosofi altri oggetti d’indagine speciali negli ultimi duemilacinquecento anni, a partire dalla matematica, per poi passare, più recentemente, alla psicologia e alla sociologia e, oggi, a certi aspetti della linguistica teorica. Ciò che è caratteristico della filosofia non è uno speciale oggetto d’indagine, ma lo scopo di sapersi orientare rispetto agli oggetti di tutte le discipline speciali».

La filosofia dovrebbe essere uno sguardo sul tutto, una capacità di fare sintesi rispetto alle analisi delle varie discipline speciali. Ma cosa vede lo sguardo della filosofia? Nemmeno i termini analisi e sintesi sono d’aiuto. Il filosofo non ha come compito quello di fare chiarezza nell’ambito dello scienziato a meno che non si voglia pensare questi come limitato. Quello che «dovremmo dire è piuttosto che lo scienziato sa orientarsi nel suo circondario, in quanto suo circondario, ma che egli non sa orientarsi allo stesso modo in esso in quanto parte di un territorio considerato nel suo insieme (ivi, 33). Il filosofo potrebbe così tendere allo sguardo unitario sulle cose, a fornire la sinossi di un grande dipinto di cui detiene solo lui l’immagine. Ma il problema è proprio che non esiste questa immagine unitaria, bensì due se non una pluralità di immagini con le quali il filosofo deve confrontarsi. L’analogia migliore e più adeguata è dunque quella di una visione stereoscopica entro la quale convergono due immagini diverse e contrapposte, «nella quale due differenti prospettive su di un territorio vengono fuse in un’esperienza coerente. Ed è così perché il filosofo non è posto di fronte ad un’unica immagine pluridimensionale, la cui unità egli deve giungere a riconoscere nei suoi effettivi tratti; egli si trova piuttosto al cospetto di due immagini, che possiedono essenzialmente lo stesso grado di complessità, ciascuna delle quali si presenta come un’immagine completa dell’uomo-nel-mondo, e che egli deve fondere in un’unica visione, dopo averle esaminate separatamente» (ivi, 34). Siamo davanti appunto alle immagini manifesta e scientifica dell’uomo-nel-mondo.

2. L’immagine manifesta: non solo senso comune ma anche elaborazione teoretica

Marsonet (2001) sottolinea come la nozione di immagine vada compresa adeguatamente e come l’immagine manifesta sia una sorta di idealizzazione. Essa ha una natura spontanea e implicita che solo un processo di riflessione porta alla consapevolezza. Di fatti noi nasciamo e viviamo dentro l’immagine manifesta senza rendercene conto e solo dopo condividiamo esplicitamente questa immagine in termini intersoggettivi o di comunità scientifica che la elabora culturalmente.

L’immagine è manifesta nel senso che la nostra percezione e i nostri strumenti sensoriali specie-specifici ci portano a muoverci e ad abitare il nostro mondo così come lo facciamo grazie alla nostra corporeità. L’immagine manifesta sarebbe quindi una sorta di Umwelt alla von Uexküll.

Sellars (1963b=2007, 36-37) usa il termine di «uomo-nel-mondo» proprio per riferirsi alla peculiarità di questo rapporto che ha i caratteri della transazionalità per usare la terminologia di Dewey: «L’immagine “manifesta” dell’uomo-nel-mondo può venire caratterizzata in due diversi modi; che tuttavia non sono tra loro alternativi, bensì complementari. Essa è, in primo luogo, la cornice concettuale nei termini della quale l’uomo giunse ad essere consapevole di se stesso come uomo-nel-mondo. È la cornice concettuale nei termini della quale, per usare un giro di parole caro agli esistenzialisti, l’uomo incontra per la prima volta se stesso — il che, ovviamente, equivale a dire: quando egli diviene uomo. E non è una caratteristica meramente accidentale dell’uomo, il fatto di avere una concezione di se stesso come uomo-nel-mondo, così come, d’altra parte è ovvio, una volta che ci si rifletta, che «se l’uomo avesse avuto una concezione radicalmente diversa di se stesso, sarebbe stato un genere di uomo radicalmente diverso».

Ho attribuito questa dimensione quasi-storica alla nostra acquisita posizione di privilegio perché voglio sottolineare fin dall’inizio quello che si potrebbe chiamare il paradosso dell’incontro dell’uomo con se stesso, ossia il paradosso consistente nel fatto che l’uomo non potrebbe essere uomo prima di avere in- contrato se stesso. È questo paradosso ad offrire un ultimo baluardo alla tesi della Creazione Speciale».

L’essere umano a cui si riferisce Sellars è quello che abita un mondo da lui percepito come tale in modo spontaneo e che può però pervenire alla condivisione con altri esseri umani di questo co-sentire, di un senso comune dentro cui abbiano luogo un certo genere di rappresentazioni, credenze, intenzioni che fungono da premessa per ogni ulteriore costruzione culturale e teoretica sul mondo. Solo a partire da questo retaggio comune possono emergere progressivamente tutti i sistemi della filosofia. Sellars non si spinge come l’Husserl della Crisi delle scienze europee a dire che questa immagine manifesta è il terreno di legittimazione e di senso finanche della impresa scientifica che parte sempre dal mondo dell’esperienza, dalla Erfahrungswelt e dal mondo-della-vita, dalla Lebenswelt e che ad essi deve sempre fare ritorno. Per Sellars la scienza è un progresso che crea una frattura tra le due immagini e non è un affinamento, una idealizzazione frutto di sviluppi che partono dal senso comune. Solo per quanto riguarda le grandi costruzioni culturali e teoretico-speculative, allora possiamo dire che la riflessione dell’essere umano è senza dubbio partita sempre dalla immagine manifesta e ne è uno sviluppo. Infatti questa immagine manifesta è quella in cui l’essere umano si può dire tale e si percepisce come tale, è un orizzonte e un retaggio ineludibile e imprescindibile per cui «la sostituzione dell’immagine del mondo propria del senso comune ci obbligherebbe a vedere noi stessi in una maniera radicalmente diversa e, com’è ovvio, ci si può chiedere fino a che punto ciò possa realmente accadere. Se l’uomo non può essere tale finché non incontra se stesso, ciò che abbiamo appena detto implica che questo incontro (il quale è un incontro socialmente condiviso) ha avuto luogo nell’immagine manifesta. Sostituire tale immagine con un’altra significa che l’incontro dovrebbe essere rielaborato ab initio. Ma sappiamo anche che il pensiero concettuale è profondamente radicato nell’immagine manifesta. Dal momento che la capacità di pensare è null’altro che la capacità di applicare criteri di correttezza e di rilevanza, è importante notare che detti criteri sono a loro volta relativi all’immagine manifesta, e la loro sostituzione è un compito tutt’altro che facile» (Marsonet 2001, 275).

La storia del pensiero occidentale è legata a questa immagine manifesta che si è delineata ancestralmente nell’essere umano come uomo-nel- mondo. Per questo l’immagine manifesta «non è neppure una concezione ingenua, giacché può essere caratterizzata come il progressivo affinamento di un’immagine più primitiva che è stata a poco a poco rimpiazzata nel corso dell’evoluzione culturale dell’umanità» (ibid.). Se così non fosse «si potrebbe ora pensare che lo scontro fra le immagini sia, in fondo, una lotta impari» (Gatti 2007, 21). Rispetto al sistema rigoroso, compatto, logicamente concatenato della immagine scientifica, che nasce da una metodologia e da una tecnologia evolute e sempre meno condizionate dalla soggettività percettiva, l’immagine manifesta potrebbe sembrare un retaggio naive e oscurantista. Sin dalle prime pagine Sellars «si premura di chiarire che l’immagine manifesta qui presa in esame è un’elaborazione e un perfezionamento (dovuto essenzialmente al lavoro dei filosofi) di quell’immagine ‘originale’ del mondo che possiamo attribuire all’uomo primitivo» (ibid.).

Sellars (1963b =2007, 38) si preoccupa di mostrare la pregnanza della immagine manifesta anche dal punto di vista teoretico-speculativo oltre che percettivo: «Ho caratterizzato l’immagine manifesta dell’umo-nel-mondo come la cornice concettuale nei termini della quale l’uomo ha incontrato se stesso e ritengo che si tratti di un modo utile di caratterizzarla. Tuttavia, in un certo senso, essa è anche fuorviante, dal momento che suggerisce che il contrasto che sto delineando tra le immagini scientifica e manifesta, sia un contrasto tra una concezione pre-scientifica, acritica e ingenua dell’uomo-nel-mondo e una concezione meditata, disciplinata, critica — in una parola, scientifica. Non è affatto questo che ho in mente. Ciò che intendo per immagine manifesta è infatti un perfezionamento o elaborazione di quella che si potrebbe chiamare l’immagine “originale”; un perfezionamento che raggiunge un grado tale da fare sì che questa immagine abbia rilevanza nella scena intellettuale contemporanea. Questo perfezionamento o elaborazione può venire interpretato alla luce di due diverse qualificazioni: (a) empirica, (b) categoriale».

L’immagine manifesta non è quindi solo e soltanto senso comune, non ha a che fare solo con l’universo condiviso delle percezioni e delle intuizioni pre-analitiche dell’uomo rispetto alla sua vita quotidiana e al mondo naturale ed esperienziale che egli abita. Non è qualcosa di prescientifico e ingenuo, «uno stadio storico sorpassato dello sviluppo della concezione che l’uomo ha del mondo e del proprio posto in esso» (ivi, 39), ma è «disciplinata e critica», è il perfezionamento di una immagine ‘originale’ attuato per via empirica o categoriale. Il primo procedimento attua «aggiunte e sottrazioni ai contenuti che sono propri del mondo in quanto esperito» facendo uso dei canoni dell’inferenza induttiva di Stuart Mill integrati con i canoni dell’inferenza statistica. La sua «cornice concettuale» è quella di una sorta di immagine scientifica che si avvale di una serie di procedimenti che si possono chiamare «induzione correlazionale». Nel richiamo ai procedimenti della inferenza induttiva e statistica assistiamo ad un elevazione di rango della immagine manifesta. Essa stessa è in qualche modo «immagine scientifica». La differenza con la scienza è che essa non prevede postulazioni. Per questo Sellars (1963b = 2007, 40) propone di rinominare l’immagine scientifica vera e propria con i termini di «immagine postulazionale» o «teorica». La scienza infatti postula e ipotizza che ci siano delle entità inosservabili che hanno un ruolo causale e possono essere utilizzate coerentemente nella spiegazione dei processi che riguardano i fenomeni visibili della natura. Grazie a questi enti impercettibili la scienza può spiegare i processi causali sottostanti ai fenomeni medesimi.

3. L’egemonia della immagine scientifica

La differenza sostanziale tra l’immagine manifesta e quella scientifica starebbe dunque in questa postulazione. Essa dimostrerebbe una forza speculativa e metodologica della scienza nei confronti della filosofia perché, solo grazie alla scienza l’essere umano può affrancarsi dalla prigione del visibile e dell’osservabile, può andare oltre ai limiti della propria percezione. Al contrario l’immagine manifesta resta vincolata dai ceppi della osservabilità e del dominio dei sensi. Ogni spiegazione possibile al suo interno può limitarsi soltanto a confrontare eventi e generalizzare induzioni o al più mettere in correlazione statistica fatti osservabili. Il richiamo alla opposizione osservabile-non osservabile ha della implicazioni metafisiche ed epistemologiche molto forti. Non ci sembra chiaro che sia la scienza ad emancipare l’essere umano dal dominio della percezione del visibile. Dietro l’inserimento della nozione di postulazione si nasconde una sorta di indietreggiamento di Sellars rispetto alla versione più evoluta fornita poco prima della immagine manifesta. I sistemi filosofici hanno fatto largo uso di entità inosservabili e hanno sottoposto a critica i limiti della certezza sensibile e della nostre intuizioni pre-analitiche. Senza dubbio la scienza fa un utilizzo molto più razionale dell’inosservabile nel senso che esso rientra a pieno titolo nei suoi schemi di previsione e che questi riescono dimostrando la plausibilità dell’esistenza e dell’utilizzo di queste entità inosservabili. Per questo Aune (1990) discutendo ampiamente l’assenza di postulazioni nella immagine manifesta, ha messo in evidenza le implicazioni metafisiche della distinzione di Sellars. Per questo non si può accettare l’interpretazione di Birman (2010) che vede nella distinzione di Sellars qualcosa di pragmatico, inerente ai modi migliori in cui possiamo descrivere il nostro mondo. Dalla prospettiva epistemologica invece van Fraassen (1999, §7) ha contestato l’impostazione di Sellars. Anche se fosse vero quello che dice Sellars si può convenire con de Vries (2005) che, nonostante questi limiti, l’immagine manifesta ha potuto essere lo stesso una utilissima risorsa conoscitiva per l’uomo-nel-mondo anche in assenza dei metodi e delle tecnologie della scienza moderna e contemporanea. Anzi è proprio grazie alle domande posto dalle costruzioni teoretico-speculative proprie della immagine manifesta che l’umanità è giunta a produrre, in quanto umanità immersa nella immagine manifesta e non altrimenti, quello sviluppo conoscitivo che ha portato alla costruzione della immagine scientifica. Però, come abbiamo visto Sellars (1963b = 2007, 39) sottolinea che «tuttavia un tipo di ragionamento scientifico che l’immagine manifesta, per come è stata stipulata, non include, e segnatamente quello che, ai fini della spiegazione del comportamento delle cose percepibili, richiede la postulazione di entità impercettibili». Si avverte qui probabilmente quel realismo scientifico radicale, che è presente in tutto Sellars (1963a), per il quale è solo la scienza che è capace di svelare le cause sottostanti al reale. Sellars (1963b = 2007, 39-40) deve rendersi conto però di un certo eccesso quando, riprendendo il discorso scrive: «il concetto di immagine manifesta dell’uomo-nel-mondo non è quello di uno stadio storico sorpassato dello sviluppo della concezione che l’uomo ha del mondo e del proprio posto in esso. Del resto, il fatto che metodi basati sulla correlazione e metodi basati sulla postulazione siano andati a braccetto nel corso dell’evoluzione della scienza e che essi siano addirittura stati dialetticamente correlati tra loro, è cosa ben nota; si pensi alle ipotesi basate su postulazioni che presupponevano correlazioni da spiegare e suggerivano possibili correlazioni sulle quali indagare». Questa descrizione sarebbe stata molto utile all’autore per rendersi conto della presenza di una continuità fra metodo conoscitivo proprio della immagine manifesta e metodo conoscitivo proprio della immagine scientifica. Inoltre avrebbe potuto fornire una teoria della conoscenza più ampia in cui anche il sapere filosofico sarebbe potuto rientrare con maggiore dignità epistemica. Sellars non si avvede di questo. Subito dopo sembra dimenticarsi della possibilità di questa conoscenza che integra correlazioni e postulazioni, per prendere la strada di una definizione univoca di scienza: «La nozione di una visione scientifica fondata unicamente sulla correlazione è una finzione, sia dal punto di vista storico, sia dal punto vista metodologico. Essa porta infatti ad astrarre i frutti ottenuti per quanto riguarda certe correlazioni dalle condizioni della loro scoperta e dalle teorie nei termini delle quali esse vengono spiegate. Si tratta, in ogni caso, di una finzione utile (e dunque non di una mera finzione), poiché ci mette in condizione di definire un modo di guardare al mondo che, per quanto disciplinato e (in un senso circoscritto) scientifico, è in netto contrasto con un’immagine dell’uomo-del-mondo che è implicita in esso e può essere costruita facendo appello agli aspetti della teoria scientifica contemporanea basati sulla postulazione. E in effetti, ciò a cui mi sonori- ferito col nome di “immagine scientifica”, potrebbe venire più correttamente chiamata immagine “postulazionale” o “teorica”» (ivi, 40).

La contraddizioni con questo assetto iniziale non mancano. Prima Sellars ha detto che anche l’immagine manifesta è in qualche modo scientifica. Poi ha creato un divario tra le due immagini attraverso la nozione di postulazione. Nel seguito della trattazione egli ricorda che anche l’immagine scientifica è una idealizzazione e che esistono molteplici immagini scientifiche quanto sono le scienze. A differenza di epistemologi contemporanei come Dupré (1993, 2001, 2004), egli non si avvede che non è scontato che queste immagini molteplici siano coerenti e in perfetta armonia l’una con l’altra. Per lui possiamo costruire una immagine scientifica unitaria. Non solo. Questa immagine ha un legame profondo e una radice con l’immagine manifesta che invece precedentemente sembrava essere stato dimenticato. Sellars (1963b=2007, 54-55) analizza il modo in cui la immagine manifesta viene perfezionata dalla filosofia che ne è la espressione «scientifica» più matura, quella dove essa trascende il «pensatore individuale» per cui in essa «verità ed errore convivono, anche se può accadere che, in ultima analisi, l’immagine stessa debba venir rigettata come falsa» (ivi, 54). La filosofia è il campo dove verità ed errore si intrecciano e dove si rende necessario emendare molte affermazioni scorrette. Tra queste l’idea che gli oggetti fisici sono solo «complessi di sensazioni», che le mele non sono veramente colorate, che gli stati mentali siano delle mere «disposizioni al comportamento», che non si possa avere l’intenzione di fare qualcosa senza sapere di avere tale intenzione. Ci sono «modi corretti e modi scorretti di descrivere questa immagine oggettiva del mondo nel quale viviamo, e che la correttezza o scorrettezza di tali descrizioni può essere oggetto di valutazione» (ibid.). La variabilità e la erroneità delle tesi dipendono dal fatto che l’impresa filosofica è agita da un pensatore individuale che elabora una immagine manifesta di cui egli pretende la trascendenza nei suoi confronti, ma che invece è al contempo «immanente ad esso». Il pensatore individuale è sempre sottoposto al condizionamento della sua soggettività. Da qui la delicatezza del ruolo della filosofia che può fare emergere «uno dei modi in cui la realtà appare alla mente umana». Occorre dunque uno sforzo intersoggettivo di valutazione dell’adeguatezza delle teorie filosofiche perché l’uomo possa validamente rappresentarsi nei termini della immagine manifesta. Questa congruità deve essere elaborata per potersi poi domandare: «In quale misura l’uomo manifesto sopravvive nella visione sinottica che rende uguale giustizia all’immagine scientifica, di fronte alla quale oggi noi siamo posti? » (ivi, 55). La filosofia analitica, britannica e americana, influenzata dall’ultimo Wittgenstein «ha reso giustizia alla immagine manifesta in modo sempre più efficace e ha ottenuto via via maggiori successi nell’isolarla, per così dire, nella sua forma pura, mostrando anche la follia che è insita nel rimpiazzarla, un pezzo alla volta, con frammenti della immagine scientifica» (ibid.).

Queste considerazioni sembrano rilanciare la visione stereoscopica di cui abbiamo parlato sopra, ma la filosofia rischia di generare una visione stereoscopica dall’occhio dominante sbilanciato. Sellars (1963b = 2007, 41) ricorda che l’immagine manifesta è al cuore di tutto il pensiero occidentale, come un tipo ideale che metta insieme le caratteristiche di tutti i sistemi filosofici che abbiamo a disposizione. Proprio qui si situa il pericolo per cui la filosofia sbilanci troppo il suo asse sulla immagine manifesta che essa ha cercato di «precisare e perfezionare» e così facendo snaturi troppo l’equilibrio della visione stereoscopica rispetto alla immagine scientifica. Tra i filosofi, solo in Spinoza sembra dominare la immagine scientifica e quella manifesta si riduce «a residuo di un errore che può essere spiegato» (ivi, 42): «Pensiamo, per esempio, a Spinoza, il quale istituì una dicotomia tra il modo in cui l’uomo concepisce falsamente se stesso e quello in cui scopre di essere nell’impresa scientifica. Si potrebbe ben dire che Spinoza tracciò una distinzione fra un’immagine «manifesta» ed un’immagine «scientifica» dell’uomo, rifiutando la prima come falsa ed accettando la seconda come vera (Sellars 1963b cit. in Marsonet 2001, 276). Sellars sembra simpatizzare con Spinoza e ipotizzare che la filosofia abbia come ruolo quello di dimostrare l’erroneità e i limiti della immagine manifesta a tutto vantaggio della immagine scientifica. Ma subito dopo lui stesso precisa che «se nella teoria di Spinoza l’immagine scientifica, per come egli la interpreta, domina la visione stereoscopica (…), il fatto stesso di usare l’analogia della visione stereoscopica implica che io consideri l’immagine manifesta come non sopraffatta dalla sintesi» (Sellars 1963b=2007, 42). L’immagine manifesta ha una sua consistenza e non «è irreale in quanto in ultima analisi incoerente, in un senso logico strettamente inteso» (ivi, 83), ma in base a considerazioni logiche più ampie e più costruttive, ad un confronto con una teoria più intelligibile di ciò che vi che le è sfavorevole (ivi, 84). Si profila così il problema della qualità presenti nel dominio manifesto ma che sono refrattarie ad una spiegazione meccanica. In Cartesio esse venivano relegate nella mente del percipiente ed era la loro concettualizzazione a proiettarle come «tratti appartenenti alle cose fisiche indipendenti». Così il colore è nella sensazione, «le cose colorate sono in realtà costruzioni concettuali che scimmiottano i sistemi meccanici del mondo reale» (ibid.). Dietro la negazione delle cose percepibili si nasconde un rischio altissimo e cioè quello di dove arrivare a negare che sia l’uomo il soggetto delle sensazioni e del pensare, perché esso risulta solo un aggregato di particelle nella immagine scientifica. Il rischio non può essere corso a meno che non si trovi un modo differente di spiegare il pensare e il sentire come una interazione tra particelle fisiche e che non si riesca a rimpiazzare la cornice manifesta dentro cui soltanto possiamo pensare come soggetti unitari «senza perdita di potere descrittivo ed esplicativo». Sellars (1963b=2007: 89-90) individua tre modi di pensare la relazione tra immagine manifesta e immagine scientifica: 1. quello del bambino che dice «tutti e due» e pone sullo stesso piano le due descrizioni e visioni del mondo; 2. quella del filosofo che pensa ad parallelismo dei due mondi così che le qualità percepite dell’oggetto fisico nel mondo manifesto abbiano una controparte nelle «configurazioni complesse di particelle fisiche»; 3. quella che propone il primato della immagine scientifica come misura delle cose e la sua dominanza nella prospettiva ‘stereoscopica’.

Sellars propende per questa terza soluzione mantenendo l’ambiguità sulla natura di questo primato. E cioè se esso conduca ad un rimpiazzamento della immagine manifesta o se possa preludere ad una convivenza e ad un interscambio dialettico all’interno della prospettiva sinottica e stereoscopica da lui proposta.

(Marsonet 2001, 279) mette in luce il contrasto inevitabile tra le due immagini: «Tuttavia, quando prendiamo in considerazione la immagine scientifica che emerge dalle molteplici immagini fornite dalle diverse scienze, è facile constatare che essa si propone quale visione completa che contiene l’intera verità circa il mondo e il ruolo che l’uomo vi svolge. Proprio per questo motivo l’immagine scientifica può essere pensata come una rivale di quella manifesta. Essa mette in dubbio la visione che abbiamo di noi stessi, che è in sostanza identificabile con quella manifesta. Se l’immagine scientifica è vera, allora noi non siamo ciò che pensiamo e diciamo di essere».

Marsonet fa emergere la mancanza di neutralità ideologica della scienza e ripensa nei termini interattivi e transazionali di Dewey l’interscambio tra le due immagini: «Un quadro come quello proposto dai sostenitori della validità incondizionata dell’immagine scientifica acquisterebbe senso soltanto se la scienza fosse qualcosa di «neutrale», mentre sembra assai più ragionevole concepirla come la nostra scienza. In altre parole la scienza è sempre il risultato delle nostre indagini sulla natura, e questa è, inevitabilmente, una questione di transazione in cui la natura stessa è uno degli elementi coinvolti, mentre l’altro è colui che indaga. Vista la situazione appena delineata, la scienza di qualsiasi periodo storico non è qualcosa di totalmente indipendente dagli scienziati che la praticano e dalle loro particolari procedure e metodologie d’indagine» (ivi, 280).

4. Visione stereoscopica, antitesi delle immagini e spazio logico delle ragioni

A questo punto della nostra analisi del testo di Sellars possiamo tornare alle domande che abbiamo fatto nel §1. La visione stereoscopica che integra le due immagini esiste davvero o è solo uno stratagemma per favorire l’occhio dominante della immagine scientifica? Siamo davanti alla possibilità di una complementarità delle due immagini o esse restano opposte e antitetiche? Siamo costretti ad accettare quello che Dupré ha chiamato «imperialismo scientifico», quella egemonia insuperabile della immagine scientifica che si rifà al noto principio di Sellars (1956, §41) per cui la scienza è «la misura di tutte le cose, di ciò che è in quanto è, di ciò che non è in quanto non è»? Abbiamo già detto all’inizio che questo principio non si integra armoniosamente con un’altra nozione cardine del pensiero di Sellars, il quale ha parlato di «space of reasons», di spazio logico delle ragioni per attaccare uno degli ultimi residui infondati dell’empirismo e cioè il Mito del Dato. È lo stesso Sellars (1956, 54) a scrivere altrove: «Il punto essenziale è che caratterizzare qualcosa come un episodio o uno stato di conoscenza non equivale a fornirne una descrizione empirica ma, piuttosto, a collocarlo nello spazio logico delle ragioni, nello spazio in cui si giustifica e si è in grado di giustificare quel che si dice». Noi troviamo difficile conciliare la tesi dell’egemonia con quella dello spazio logico e troviamo delle difficoltà a ricondurre ad una unità coerente le tesi della filosofia di Sellars. Possiamo ricordare però come la critica al Mito del Dato abbia avuto conseguenze straordinarie nell’affrancamento dal neopositivismo e dai residui dell’empirismo logico all’interno di molta filosofia analitica (Velardi 2007). Come sappiamo queste tesi sono state sviluppate dal suo allievo McDowell (1994, 1995, 2004), il quale ha approfondito il dualismo tra lo spazio logico della natura, da lui chiamato «crudo naturalismo» e lo spazio logico delle ragioni. Nella sua prospettiva «possiamo riconoscere che l’idea di esperienza è l’idea di qualcosa di naturale pur senza rimuovere l’idea di esperienza dallo spazio logico delle ragioni» (McDowell 1994, XX). Si potrebbe essere tentati di interpretare in modo più ampio la teoria di Sellars seguendo le indicazioni di uno dei suoi allievi migliori. Si potrebbe intraprendere così con McDowell la strada di un naturalismo liberalizzato in cui ci sia spazio per il pluralismo ontologico ed esplicativo. In questa prospettiva sia il dominio della immagine manifesta, sia quello della immagine scientifica avrebbero la loro legittimità. Come ho fatto in Velardi (2007) si potrebbe utilizzare la prospettiva di McDowell per capire meglio la teoria di Sellars. In qualche modo anche il principio per cui la scienza è «misura di tutte le cose» ha il vincolo per cui esso vale «nella dimensione della descrizione e della spiegazione» e non ha la presunzione di esaurire tutto l’universo delle nostre credenze, l’intero spazio logico delle ragioni. Una lettura più attenta del testo di Sellars ci induce a pensare che permangano molte ambiguità e che non sia un caso che, in America, la scuola del maestro abbia prodotto due fazioni contrapposte con una destra e una sinistra sellarsiana, la prima facente capo a Paul Churchland, Ruth Millikan, Jay Rosenberg, che enfatizzano il realismo scientifico e il nominalismo del maestro e la seconda a Richard Rorty, John McDowell e Robert Brandom che sottolineano invece il ruolo dello spazio delle ragioni muovendo critica al mito del dato.

In generale mi sembra che la teoria di Sellars si muova verso una visione stereoscopica che non rende giustizia dell’immagine manifesta e del mondo-della-vita per richiamare ancora una nozione di Husserl. Essa svaluta il contributo dato dalla stessa filosofia alla conoscenza e propende per una egemonia della immagine scientifica.

Ha dunque ragione Gatti (2007, 20) quando conclude la sua introduzione al testo scrivendo: «Si potrebbe affermare che, in un certo senso, il contributo di Sellars (…) consista in una valutazione non frammentaria delle conseguenze che derivano dall’accettazione di quella tesi, nella particolare fase storica in cui l’indagine razionale della realtà intrapresa dall’uomo nell’ambito delle scienze empiriche raggiunge un’ampiezza e una profondità tali da imporre un supplemento di riflessione (filosofica), il cui scopo deve essere l’acquisizione da parte dell’uomo di una adeguata forma di orientamento nel mondo. E parlare di una forma di orientamento adeguata, in questo contesto, significa semplicemente richiedere che essa non eluda le legittime pretese descrittive ed esplicative delle scienze empiriche. Da questo punto di vista, il ragionamento che sorregge l’approccio sellarsiano appare piuttosto cogente: se l’uomo è essenzialmente un animale razionale e se i risultati delle scienze empiriche rappresentano il prodotto di una delle forme più perfezionate di esercizio della razionalità umana, allora sembra legittimo concludere che solo tenendo nella dovuta considerazione l’immagine del mondo che le scienze empiriche tratteggiano, si può arrivare a orientarsi effettivamente nel mondo stesso, inteso anche come scenario del pensare e dell’agire delle persone».

Il problema è che tenere nella dovuta considerazione l’immagine scientifica sembra avvenire a scapito e a tutto svantaggio di quella manifesta.

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