Un antenato in comune. Gadamer e Wittgenstein su Agostino

1. Gadamer: il Verbum Cordis

La domanda dalla quale abbiamo preso spunto, è la medesima che alimenta un saggio di Lawn,1 dove l’autore si chiede come sia possibile che due pensatori contemporanei possano offrirci due interpretazioni così diverse, verrebbe da dire radicalmente divergenti, di uno stesso filosofo.

Lawn muove dal considerare la posizione sostenuta da Gadamer nella terza parte di Verità e metodo, dove viene denunciato l’oblio nel quale è caduta la filosofia del linguaggio di Agostino, quale effetto particolare della più generale «dimenticanza del linguaggio» che ha contraddistinto il pensiero occidentale.

Tale oblio ha, per Gadamer, radici remote; il filosofo tedesco sottolinea infatti come il suo punto di scaturigine vada rinvenuto addirittura nel Cratilo platonico, che costituisce il punto d’inizio della concezione strumentale del linguaggio la quale riduce la parola a mero segno convenzionale. Si tratta cioè di quella concezione che ha poi contraddistinto tutta l’età moderna. Gadamer mette in evidenza come Platone, abbracciando lo strumentalismo di tipo convenzionalista, riconduca la grande varietà di significati che il termine logos possiede, alla sola dimensione razionale. Ma c’è, tuttavia, un’idea di matrice non greca, che rende maggiormente giustizia della natura del linguaggio. Facendo riferimento a quanto affermato da Heidegger, in particolare nello scritto del 1921 su Agostino e il Neoplatonismo dove l’ipponate viene considerato come una delle principali fonti della fenomenologia ermeneutica, Gadamer vede emergere in Agostino una nuova e fondamentale idea del linguaggio. Il punto centrale di questa evoluzione è dato dal passaggio dal logos greco al verbum di derivazione stoica. Nel tentativo di spiegare il mistero della trinità, infatti, l’Ipponate getta nuova luce su questioni fondamentali, non pertinenti direttamente l’orizzonte teologico, ma concernenti l’essere del linguaggio, questioni che il logos greco non era stato in grado di risolvere.

Il problema teoretico fondamentale, concernente il tema della Trinità, è infatti quello di rendere accessibile alla comprensione umana l’idea della consustanzialità tra Padre e Figlio e, quindi, tra Dio e uomo. C’è un’analogia tra la relazione pensiero-linguaggio e quella Dio Padre-Dio Figlio. Su queste basi, pare evidente l’errore contenuto nella concezione del logos proposta nel Cratilo, dove l’approccio convenzionalistico stabilisce una radicale separazione tra pensiero e linguaggio. Se questo fosse vero, si domanda Gadamer, come può il pensiero tramutarsi in parole? Il pensiero infatti, per il filosofo di Marburgo, è essenzialmente verbale; la relazione tra pensiero e linguaggio è quindi la relazione tra una faccia e l’altra di una medesima medaglia, quella della linguisticità.

Il dilemma proposto dal tema della Trinità viene risolto attraverso il recupero della nozione di mondo interiore. Quest’ultimo rappresenta, non una sorgente di significati privati trasferiti alla dimensione pubblica, ma l’universale e necessaria dimensione del linguaggio senza la quale parlare risulterebbe impossibile. La tensione ermeneutica tra mondo interiore e mondo del linguaggio parlato è analoga alla relazione tra il significato corrente di un termine e la tradizione nel corso della quale quello stesso si è formato.

Così, Gadamer può paragonare la relazione tra Dio-Padre e Dio-Figlio a quella tra il mondo interiore e il mondo del linguaggio perché, allo stesso modo in cui Dio è consustanziale con il Figlio, senza per questo perdere le proprie perfezioni, così il mondo interiore è essenzialmente parola, indipendentemente dal fatto che è silenzioso, inespressivo, universale e non può essere articolato. È chiaro che, su queste basi, la lettura che Gadamer offre della visione agostiniana del linguaggio è distante da quella sostenuta da una buona parte del pensiero analitico e post-analitico contemporaneo. Quest’ultimo vede, in linea di massima, nella nozione di mondo interiore un mentalismo in embrione che può sfociare nel nominalismo, cioè in una visione per la quale le parole altro non sono che segni, convenzioni per comunicare pensieri, proprio alla maniera di quanto teorizzato nel Cratilo. Gadamer, piuttosto, vede in Agostino un proto-espressivista.2 Per Agostino, infatti, le parole sono segni, ma questo non implica necessariamente che vadano considerate come mere convenzioni. Gadamer sottolinea a più riprese e con vigore come il segno agostiniano non costituisca una cifra casuale che assume significato soltanto all’interno di un linguaggio costruito dall’uomo, ma come sia piuttosto intimamente legato a qualcosa che va al di là del segno stesso, ovvero alla Parola di Dio. Il significato delle parole è così localizzato al di là delle strutture manipolative della coscienza individuale umana. Sottolineando questo aspetto Gadamer si pone, con forza, lungo la scia della fenomenologia di Essere e tempo e, conseguentemente, si preoccupa di rimarcare che rifiutare l’arbitrarietà del segno equivale a porre in risalto la priorità dell’essere delle cose come fondamento del segno stesso. L’universalità del linguaggio, sostenuta tanto da Agostino che da Gadamer è, per l’Ipponate, testimoniata dal mondo interiore che porta con sé la totalità delle lingue e senza il quale nessuna lingua potrebbe parlarsi. Nello stesso tempo, però, il mondo interiore rappresenta anche l’essere delle cose. Ciò che appassiona Gadamer, in questo discorso, è la possibilità di recuperare attraverso di esso un consistente realismo e proprio l’aver compreso tale esigenza è, per il filosofo tedesco, il merito maggiore di Agostino. È necessario garantire all’intenzionalità del linguaggio una connessione diretta con gli oggetti di cui lo stesso parla; le nostre discussioni, in altre parole, devono concernere qualcosa di reale indipendentemente dalle nostre menti e dal nostro posto nella storia e questo non può essere garantito all’interno di un convenzionalismo che, proprio tra pensiero, linguaggio e realtà, pone delle cesure nette e difficilmente superabili.

Il problema però, come ci mostra sempre Gadamer, emerge dalla constatazione che il linguaggio parlato è, sempre e inevitabilmente, profondamente storicizzato. Si può quindi sottolineare come sia ermeneuticamente sospeso tra l’universalità del mondo interiore e la situazionalità del mondo parlato intimamente contestualizzato. Non c’è tanto una riproposizione dell’antico problema del rapporto Uno-Molti come sembra additare ancora Lawn, ma semmai un’altra interessante connessione con il pensiero agostiniano sulla Trinità: Dio, come i significati linguistici, non è identificabile con un particolare momento storico ed eppure è sempre presente nella storia umana attraverso la consustanzialità con Cristo.

Da questo punto di vista, l’agostiniana visione del linguaggio, così come viene presentata da Gadamer, rientra nel tentativo globale di smantellare, attraverso l’attenta analisi dello sviluppo del concetto di linguaggio proposta nella terza parte di Verità e metodo, l’idea che la forma proposizionale sia l’essenza del linguaggio stesso. E, su questo punto, di natura generale, è possibile rinvenire una convergenza tra Wittgenstein e Gadamer indipendentemente e oltre Agostino. Ed è proprio su questo aspetto che si consuma il paradosso della sorprendente divergenza tra le due letture. Per Gadamer infatti, Agostino rappresenta un momento fondamentale nella costituzione di un’alternativa alla logica della proposizione laddove, secondo Wittgenstein, la filosofia del linguaggio dell’Ipponate ne rappresenta invece un’eminente affermazione.

La lettura di Gadamer ha il suo elemento cardine nella dialettica tra mondo interiore e parlato il quale, al contrario del primo, è condizionato temporalmente e quindi incompleto. Il movimento ermeneutico tra il parlato e il mondo interiore si traduce in una tensione dinamica tra il singolo atto interpretativo e la totalità della tradizione. In questo contesto, assume una valenza centrale il recupero gadameriano della nozione agostiniana di verbum cordis.3 Attraverso tale nozione, Gadamer individua un’analogia nel rapporto tra Verbo di Dio e verbo incarnato da un lato, e verbo interiore e verbo proferito dall’altro. L’accentuare il senso di una simile tensione dialettica è un modo per sostituire all’enunciato assertivo, quale figura centrale del linguaggio, la relazione dialogica e, quindi, per smascherare il modello rappresentazionalista e designativo.4

Emblematico, a riguardo, è proprio il primo rapporto dell’analogia; le parole incarnate, infatti, quelle della Scrittura, derivano direttamente da Dio, sebbene ci giungano per mezzo degli uomini che le hanno trasposte per iscritto. In questo senso, per Agostino, le Scritture soccorrono gli uomini in una maniera analoga a quanto fatto da Cristo che, incarnandosi «si è fatto medicina adeguata per le nostre ferite».5 Questo è il senso ultimo della dottrina agostiniana dei signa divinitus data, che Gadamer dimostra di conoscere a accogliere in pieno.6 L’intervento gratuito della grazia divina permette così la presenza del Verbo di Dio nel verbo interiore e soltanto questa presenza, che è poi parola-evento, che si fa, rende possibili le buone parole e le buone azioni. La tesi di Agostino, che Gadamer vuole recepire, è che il verbum in corde è il riflesso di una realtà superiore nella quale l’individuo si trova fondato. Lo «spaeculum» del verbum in corde, di cui parla Agostino, viene tradotto dal filosofo di Marburgo nell’idea della struttura «speculativa» del linguaggio, ovvero, heideggerianamente, con l’evento del discorso, l’evenienza della parola che manifesta l’appello dell’essere.

Senza indugiare oltre in questioni teologiche, è necessario comunque sottolineare il ruolo, profondamente filosofico, che l’evento della crocifissione possiede, per Gadamer, all’interno del suddetto quadro. È infatti quella l’evenienza che permette di colmare la distanza tra Verbo di Dio e verbum in corde: con quell’atto si realizza difatti la penetrazione della teologia cristiana nell’idea greca di logica: «il senso della parola non si può separare dall’evento dell’annuncio. Il carattere di evento appartiene invece al senso stesso».7 Ne deriva la grande novità che, in Agostino, è anticipazione dell’ermeneutica, ovvero la presenza del linguaggio come medium. La cristologia mostra, in altri termini, come la mediazione tra finitudine umana e infinito può essere operata solo nell’evento dell’esperienza ermeneutica che è, in quanto tale, sempre linguistica: «l’unità della parola, che si dispiega nella molteplicità delle parole, fa apparire ancora qualcos’altro che non si risolve nella struttura della logica, e che porta in primo piano il carattere eventuale del linguaggio: il processo della formazione del concetto».8 Quindi, aggiunge Gadamer, «il pensiero scolastico, elaborando la dottrina del verbum, non può fermarsi all’idea della formazione del concetto intesa come imitazione riproduttiva dell’ordinamento dell’essere».9

Le nozioni teologiche vengono perciò utilizzate dal pensatore tedesco come strumenti per difendere specifiche prospettive filosofiche e, in particolare, per palesare i presupposti dell’ermeneutica che, evidentemente intende muovere, alla maniera di Heidegger, dall’interrogazione sull’essere. Per questo Gadamer può definire la lingua Welterfahrung, «esperienza del mondo»; la singola lingua media quindi il rapporto con la realtà, ma lo fa alla luce di un linguaggio che la trascende. L’esperienza ermeneutica è così un «comprendere da intendersi come evento», il linguaggio, e l’esperienza del mondo che si fa attraverso la sua mediazione, non restituisce la molteplicità degli enti, ma ciò che al di là di essi ci rivolge un appello. Il mondo, quindi, «è mondo soltanto in quanto si esprime nel linguaggio; il linguaggio, a sua volta, ha esistenza solo in quanto esso si rappresenta il mondo». Il carattere umano dell’esperienza linguistica, quindi, «significa l’originaria linguisticità dell’umano essere-nel-mondo».10

La portata ermeneutica della concezione agostiniana del linguaggio e, nello specifico, della concezione del verbum cordis non è da riscontrarsi quindi, secondo Gadamer, nella parziale riabilitazione della lingua proferita, ma nell’evento di verità che essa descrive. Ermeneutica è quell’esperienza che, come la grazia di Dio manifestata dall’evento dell’incarnazione, disorienta in maniera radicale e, nello spaesare, dà senso.

Nello scarto e nella differenza che tale chiamata dischiude, si accenna l’essere manifestando parimenti i limiti della finitudine umana.

2. Wittgenstein: la critica al denotazionismo

Wittgenstein tratta della concezione agostiniana del linguaggio, in modo esplicito, nel Libro marrone, nelle Ricerche filosofiche e nella Grammatica Filosofica. È plausibile «supporre che le annotazioni contenute in Brown Book, in Philosophische Untersuchungen e in Philosophische Grammatik riflettano solo in parte il punto di vista che Wittgenstein attribuisce ad Agostino».11 Il filosofo austriaco, grande estimatore dell’Ipponate, in effetti, non analizza gli scritti, come il De magistro, dove Agostino tratta il tema del linguaggio in forma articolata e specifica, ma si limita a citare il noto passo in cui viene descritto il modo in cui un bambino apprende il significato delle parole. Nulla più. Questo rafforza la tesi che vede Wittgensein assumere Conf. I come mero pretesto per criticare una concezione del linguaggio che non è certo quella più autenticamente professata da Agostino.

Evidenzia in proposito Alici come la lettura di Wittgenstein, piuttosto che un’approfondita analisi della prospettiva dell’Ipponate, «sembra esaurirsi nella volontà di individuare una facile esemplificazione storiografica, che presenti immediatamente un certo modello linguistico».12 D’altro canto, continua Alici, il fatto che il filosofo austriaco riporti esclusivamente passi delle Confessioni, conferma ulteriormente «come egli si sia accontentato della tipizzazione, quasi un pretesto storiografico, per mezzo del quale presentare un’intera tradizione di pensiero, che arrivasse a comprendere anche molte tesi del Tractatus».13 La critica wittgensteiniana al celebre passo delle Confessioni, dunque, finisce per certi versi per mostrarsi come una critica al se stesso del Tractatus.

Peraltro, sul motivo per cui Wittgenstein ha deciso di cominciare le Ricerche con la nota citazione agostiniana, Malcolm racconta: «Mi disse che aveva deciso di cominciare le Ricerche con una citazione delle Confessioni, non perché il concetto espresso da Sant’Agostino non fosse stato espresso anche da altri filosofi, ma perché il fatto stesso che una mente così alta lo avesse pensato ne dimostrava l’importanza».14 Quanto riportato da Malcolm, viene confermato da Wittgenstein stesso nel Manoscritto 111, che risale al periodo tra luglio e settembre del 1931: «E ciò che Agostino dice è per noi importante perché si tratta della concezione di un uomo che pensa naturalmente con chiarezza, il quale è tanto lontano nel tempo da noi da non appartenere al nostro particolare ambito di pensiero».15 E, il fatto che la concezione «che fa del denominare il fondamento, l’alfa e l’omega del linguaggio», fosse già presente in Agostino, in un autore cioè molto distante da noi, testimonia della pervasività di tale concezione.

Quello proposto da Agostino in Conf. I.8. è comunque, per Wittgenstein, un modello indicativo dell’attitudine a concepire il linguaggio secondo i dettami della logica. In ciò che l’Ipponate dice è all’opera una concezione denotazionistica a proposito della sua natura, perché l’argomentazione si fonda sul presupposto che ogni parola ha un significato ben determinato e che tale significato costituisce l’oggetto per cui essa sta. Tale concezione però, osserva Wittgenstein, circonda il suo funzionamento «di una caligine, che rende impossibile una visione chiara».16 Dire, infatti, che in esso ogni parola designa qualcosa è incontrovertibile, tuttavia è piuttosto vago; applicare alla parola “sta per” equivale a imporle una forma costante di rappresentazione che rischia di oscurare la funzione effettiva che essa svolge nella proposizione.17 D’altronde, che una parola non abbia un significato fisso in tutti i casi «è tanto poco pregiudizievole al suo uso quanto all’uso di un tavolo sarebbe pregiudizievole il fatto che esso poggi su quattro gambe anziché tre, e quindi qualche volta traballi».18

Quella denotazionistica, rileva perciò Wittgenstein, è una concezione che comporta un’immagine assai ristretta del linguaggio. Agostino lo descrive in ultima istanza come un calcolo, ma non tutto quello che l’Ipponate considera linguaggio è riconducibile al modello logico-matematico. Ciò che lo contraddistingue, inoltre, è il fatto che può essere impiegato per uno scopo ben determinato, quello di dare un nome a un oggetto, a una cosa. Così inteso, però, il denominare, scrive Wittgenstein, si presenta come «un singolare atto spirituale, quasi un battesimo di un oggetto»,19 del tutto simile all’attaccargli un post-it con un nome. Esso, infatti, «non è ancora una mossa nel gioco linguistico, – così come il mettere un pezzo sulla scacchiera non è ancora una mossa nel gioco degli scacchi. Si può dire: Col denominare una cosa non si è fatto ancora nulla».20 Di per sé, cioè, esso equivale a una preparazione all’uso della parola, senza però che sia specificato a quale uso.21 Nel denominare è come se fosse già dato ciò che le parole faranno in seguito; ma questo avrebbe senso, obietta Wittgenstein, se l’uomo svolgesse una sola attività, appunto quella del denominare, il che non è affatto vero, perché con le parole e le proposizioni egli svolge anche innumerevoli altre attività: si pensi alle esclamazioni, le quali rispondono a funzioni molto varie e per nulla affatto riconducibili al denominare.22 Inoltre, nel caso in cui si dà il nome a una sensazione, «si dimentica che molte cose devono essere già fornite nel linguaggio perché il puro denominare abbia un senso». Infatti, «quando diciamo che una persona dà un nome a un dolore, la grammatica della parola “dolore” è già precostituita; ci indica il posto in cui si colloca la nuova parola».23

Se poi si guarda al modo in cui, secondo Agostino, avviene l’apprendimento del linguaggio, allora il denominare si rivela come l’estensione di un concetto ancora più primitivo. Sembra che egli voglia sostenere che solo chi sa già fare qualcosa con le parole può impiegarle per dare un nome a una cosa, a un oggetto. L’Ipponate paragona, infatti, il processo dell’apprendimento del linguaggio a quello che compie un bambino che «giungesse in una terra straniera e non comprendesse la lingua del paese; vale a dire: come se possedesse una lingua, ma non questa. O anche: come se il bambino fosse già in grado di pensare, ma non ancora di parlare. E qui “pensare” vorrebbe dire qualcosa come: parlare a se stessi».24 Agostino, cioè, propone un’immagine del linguaggio che, oltre a ricondurne l’essenza al denominare, ne colloca l’origine nella mente dove suppone che avvenga un processo – il parlare a se stessi – che precede l’acquisizione della lingua con cui parliamo con gli altri. Ma così, obietta Wittgenstein, egli fa del denominare la manifestazione di un’attività mentale in se stessa inconoscibile ed esterna al linguaggio; pertanto, ne coglie la «grammatica superficiale», cioè il modo in cui le parole funzionano nella costruzione della proposizione, ma si lascia sfuggire la «grammatica profonda», ossia il loro impiego nella pratica effettiva del parlare, dove esse hanno senso. Il filosofo austriaco vede quindi agire nell’Ipponate una sorta di riduzionismo. Dipingere il linguaggio come un insieme di significati isolati, sorretto su una stretta correlazione tra parola e oggetto è, come visto, una enorme semplificazione. Tale semplificazione, tra le altre cose, ha sedotto molti filosofi nel corso della storia del pensiero e persino lo stesso Wittgenstein. In fondo, alla base del suo fascino, c’è la riduzione a un codice semplificato che ha a che fare primariamente con i nomi.25 Stando così le cose, ovvero se le parole sono pregne di significato esclusivamente in virtù di un’intima connessione tra parola e oggetto, si chiede Wittgenstein, come è possibile che la parola “Excalibur” e le frasi che la contengono permangono intellegibili anche quando l’oggetto non è presente ai sensi, è distrutto e non c’è nessuna relazione di denominazione? Secondo il filosofo austriaco questa costituisce una problematica insuperabile per Agostino. L’errore fondamentale dell’Ipponate è dunque quello di aver considerato l’identificazione di parola e oggetto come la matrice ultima di ogni significato. Non solo, egli aggiunge a questo errore la convinzione della naturalezza di ciò che Wittgenstein definisce attraverso i concetti di «definizioni ostensive» e di «ostensivo insegnamento delle parole». Nessun numero di ripetizioni di una parola, accompagnate dal gesto del puntare potranno permettere, di per se stesse, al bambino di apprendere il significato delle stesse se non si presuppone che quest’ultimo abbia una sorta di predisposizione, di anamnesi, nel connettere istintivamente la parola pronunciata con il dito puntato. Secondo Wittgenstein, questa abilità prenatale, sottointesa nel pensiero agostiniano, non esiste. La definizione ostensiva è un’attività socialmente regolata e deve essere genuinamente condotta (realmente padroneggiata) in un contesto culturale eliminando la necessità di spiegazioni che coinvolgano l’innatismo. Se così non fosse, dovremmo per forza credere che il bambino, nel momento in cui viene al mondo, possiede già un sofisticato controllo del linguaggio e della parola.

Il bambino che descrive Agostino, mostra in sostanza, una competenza innata, una predisposizione che precede l’attuale acquisizione del linguaggio. Imparare cosa significa una parola dall’attività dell’indicare è come seguire delle regole, è una consuetudine. Questo è strettamente connesso con un altro dei supposti errori agostiniani; ovvero con l’asserto che il bambino viene al mondo con una preformata capacità di pensare e di fare connessioni, con una ragione già in atto. In virtù dell’innato potere raziocinante, il bambino converte i pensieri privati in linguaggio comunicabile.

Il Wittgenstein delle Ricerche, dunque, criticando il modello denotazionistico agostiniano, vuole colpire il criterio di esattezza completa cui sembra rispondere la logica. Solo in un senso egli ritiene che sia legittimo costruire «linguaggi ideali»26 che sfuggano alla vacuità, ossia «se prendiamo l’ideale per quello che è, cioè come un termine di confronto – per così dire, come unità di misura – della nostra riflessione, e non come l’idea preconcetta cui tutto deve conformarsi. In questo, infatti, sta il dogmatismo in cui può cadere così facilmente la filosofia.

Per liberarci del condizionamento esercitato dalla «purezza cristallina» della logica, secondo Wittgenstein, occorre che facciamo ruotare tutte le nostre considerazioni su di essa «attorno al perno del nostro reale bisogno».27 Ovvero, anziché chiederci qual è l’essenza della proposizione e quindi qual è la sua forma logica, ci dobbiamo domandare come essa viene effettivamente usata nel linguaggio «nel quale ha la sua patria». Rispondendo a questa richiesta, noi evitiamo qualsiasi duplicazione, qualsivoglia dualismo e, piuttosto che creare metalinguaggio esplicativi, inutili e ridondandti, «riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano».28

Abbandonato l’idea agostiniana che riduce il linguaggio, semplicisticamente, a una sola funzione, Wittgenstein rinuncia anche a concepirlo come un calcolo, rivendicando piuttosto l’esigenza di guardare al fenomeno spazio-temporale del linguaggio e auspicando che se ne parli non come un’immagine, ma come una rappresentazione, anche perché «quale che sia l’oggetto che mi rappresento, non lo riconosco in base alla somiglianza che con esso avrebbe l’immagine mentale».29 La rappresentazione non è legata ai fatti, e quindi alle condizioni di significanza o di verità e falsità degli enunciati, bensì ai concetti e quindi al loro impiego. Perciò, non possiamo occuparcene secondo gli schemi della logica o del pensiero scientifico che guida le scienze naturali, poiché «a noi non è dato costruire alcun tipo di teoria. Nelle nostre considerazioni non può esserci nulla di ipotetico»:30 dobbiamo affidarci esclusivamente alla descrizione. Questo modo di procedere, peraltro, ha la sua giustificazione nella natura stessa dei problemi filosofici che, non essendo questioni di natura empirica, possono essere risolti mostrando i fraintendimenti linguistici che ne sono all’origine: «i problemi filosofici si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto».31 Si tratta, dunque, di attenersi non già ai criteri dell’analisi logica, ma a quelli che consentono il pacifico accertamento dei fatti linguistici. Afferma infatti Wittgenstein: «Ciò che chiamiamo “descrizioni” sono strumenti per impieghi particolari […]. C’è qualcosa di fuorviante nel pensare a una descrizione come a un quadro verbale dei fatti: Forse si pensa soltanto ai quadri appesi alle nostre pareti, che sembrano semplicemente riprodurre una cosa così come appare, com’è fatta. (Questi quadri sono, per così dire, inoperosi)».32

La critica al modello denotazionistico si manifesta così come una via per recuperare il modo in cui abitualmente impieghiamo il linguaggio; la maniera attraverso cui pragmaticamente operiamo con esso e ce lo rappresentiamo.

3. Gadamer e Wittgenstein: oltre le divergenze

Le interpretazioni del pensiero di Agostino sul linguaggio, proposte dai due autori, sono dunque molto diverse; si ha talvolta l’impressione che i due parlino quasi di due filosofi differenti. Wittgenstein considera Agostino un momento fondamentale nella storia di una concezione del linguaggio tanto influente quanto mistificatoria, laddove per Gadamer l’Ipponate dimostra una comprensione del fenomeno linguistico che anticipa le acquisizioni più profonde dell’ermeneutica.

Però, sorprendentemente, al di sotto di una simile divergenza, a un’attenta lettura paiono occhieggiare problemi simili, sembrano cioè palesarsi un nucleo di questioni che, seppure trattate da ottiche diverse, rimandano a problematicità teoreticamente vicine. Tali questioni riguardano, è questa la tesi che si intende sostenere, la necessità, comune a entrambi gli autori, di ricondurre la comprensione del linguaggio alle forme del suo utilizzo nella prassi quotidiana. In quest’ottica, se il secondo Wittgenstein pare avvicinarsi a una forma di naturalismo, Gadamer sembra sostenere un realismo che non è poi così concettualmente lontano.

L’errore iniziale del denotazionismo agostiniano consiste, per Wittgenstein, nel considerare un individuo come il solo, isolato responsabile dell’ingresso nel mondo linguistico. A bene pensare, anche in un’ottica ermeneutica tale considerazione sarebbe inaccettabile. Gadamer però non la evidenzia poiché ha di mira altri aspetti della riflessione agostiniana: l’ottica da cui Agostino viene esaminato è pertanto differente e diversi sono anche i passi che i due interpreti considerano ma, al di là di tali opzioni, si palesa una ben più profonda comunanza, almeno in alcuni intenti di massima.

Wittgenstein, tramite l’edificio dei giochi-linguistici, capovolge l’impostazione denotazionistica sottolineando come il linguaggio sia già da sempre in atto e che le descrizioni dei suoi modi di operare devono necessariamente fondarsi su questa considerazione; non di certo sui miti dell’innatismo. Con l’analogia del gioco, Wittgenstein si allontana dal tentativo di costruire una struttura di significato muovendo dalle risorse individuali del singolo parlante. La razionalità non è precostituita, si sviluppa insieme alla capacità linguistica. Per combattere l’idea che le parole non facciano altro che nominare il mondo, Wittgenstein immagina un linguaggio semplificato e pone in evidenza che, anche in questo caso, anche ammettendo l’esistenza e la funzionalità di un simile linguaggio, la parola «pietra!» non è semplicemente il nome di un oggetto, ma anche un atto linguistico, un comando se pronunciata in un certo modo e all’interno di un precostituito quadro culturale. Il tono di voce e il contesto sono anch’essi fattori che contribuiscono alle sfumature di significato. Quest’ultimo è costituito e modificato in stretta connessione con l’orizzonte generale di fondo cui la parola viene espressa, o con le numerose attività che compongono una forma di vita.

Può destare perplessità, infatti, il fatto che Wittgenstein non discuta e sottolinei adeguatamente quanto Agostino richiama, nel passo citato nel primo paragrafo delle Ricerche, riguardo alle espressioni del volto, ai cenni degli occhi, alle movenze del corpo, all’accento della voce a tutte quelle sottolineature che, in sostanza, dimostrano la presenza in Agostino di una concezione non puramente designativa del linguaggio ma anche espressivista. Tutti aspetti, questi ultimi, che invece affascinano e interessano Gadamer, che pure è maggiormente concentrato sull’esame delle nozioni teologiche. Nonostante questo, comunque, è evidente che sottolineare l’importanza delle forme di vita sottostanti al parlato e alla dimensione letterale dello stesso, conduca Wittgenstein singolarmente vicino all’ermeneutica.

A riguardo, Lawn sottolinea che è possibile rinvenire, nell’ultimo Wittgenstein, una versione specifica di naturalismo: il comandare, l’interrogare, il raccontare, il chiacchierare sono infatti concepiti, dal pensatore austriaco, come una parte della nostra storia naturale, al pari del camminare, il mangiare, il bere, il giocare. Wittgenstein vede, conseguentemente, il compito delle Ricerche nel fornire osservazioni sulla storia naturale degli uomini. Il naturalismo bilancia così l’implicito, leggero relativismo delle stesse Ricerche e dello scritto Sulla Certezza, i luoghi dove viene approfondita maggiormente la nozione di gioco linguistico; tale nozione, che rende il linguaggio un sistema chiuso e auto sussistente e che considera la verità e la certezza come dipendenti dal nient’altro che dall’arbitrarietà degli stessi giochi linguistici, si espone infatti al rischio del relativismo.

Il naturalismo, quindi, sopperisce alla perdita del legame diretto parola-mondo che l’idea stessa di gioco linguistico pone fortemente in discussione. La notissima affermazione di Wittgenstein per la quale noi non potremmo mai comprendere un leone anche qualora questo potesse parlare, sottointende proprio questo, ovvero l’idea che esiste un universale insieme di gesti, frutto dello sviluppo naturale dell’uomo, indifferenti alle specifiche culture. I gesti del leone, invece, essendo al di fuori della specificità umana, non possono assumere valore all’interno dell’unico e universale patrimonio gestuale che è comune a tutta l’umanità. In linea di massima, si può forse affermare che la comunanza gestuale e comportamentale costituisce la condizione di possibilità per tradurre un linguaggio naturale in un altro e fornisce la via per uscire dalla prigione dei giochi linguistici di una particolare cultura: il modo di comportarsi comune agli uomini è il sistema di riferimento mediante il quale interpretiamo una lingua che ci è sconosciuta.

Liberare il linguaggio dalla sua connessione diretta con il mondo, criticarne il riferimento alla logica e la funzione prettamente denotazionistica, reagendo così tanto contro il Tractatus che contro Agostino, significa camminare su di un filo sottile che implica la necessità di recuperare un terreno comune.

L’agostinianesimo di Gadamer, invece, presenta a una prima impressione, un altro tipo di difficoltà; che hanno a che fare con una sorta di realismo debole che emerge tra le pieghe delle interpretazioni del teorico dell’ermeneutica. Il significato del mondo interiore appare infatti elusivo, problematico e non è sempre pienamente catturabile nel mondo del parlato. Il problema fondamentale dell’ermeneutica si palesa così come una sorta di negoziazione tra opposte tendenze; l’universalità e la particolarità che si manifestano, in modi differenti, attraverso la polarità tra familiarità e estraneità. La familiarità delle regole linguistiche così come esse si incarnano nella tradizione e l’estraneità della sempre nuova applicazione che, ampliando le regole stesse, allarga l’orizzonte delle possibili varietà linguistiche. Tutto ciò, secondo Gadamer, è stato prefigurato dalla ripresa agostiniana della fondamentale opposizione platonica tra universale e particolare, nella dialettica tra mondo interiore e mondo esteriore. Il mondo interiore, l’ineffabile mondo di Dio, viene tramutato, attraverso i dogmi dell’incarnazione e della rivelazione, nel mondo senza voce della tradizione. Il mondo interiore, così, l’agostiniano mondo del cuore (ciò che Gadamer chiama anche il non detto) è connesso al mondo storico del parlato, come le arterie della tradizione sono connesse ai capillari del linguaggio parlato. Una delle caratteristiche principali dell’ermeneutica filosofica, la sua denigrazione della proposizione, il suo uso del dialogo e del questionare come modello dell’incompletezza e la tendenza della parola a disvelare il mondo, convergono in questa tensione dialettica tra il mondo interiore e quello esteriore.

Ma – e questo è l’elemento problematico che, in un certo senso, ci riavvicina a Wittgenstein – l’universalità della tradizione risulta essere qualcosa di più che un’arbitraria, convenzionale e nominalistica relazione con il mondo. Gadamer, non vuole con ciò abbracciare una sorta di realismo ingenuo, ma sottolineare l’inevitabile medietà del mezzo linguistico quale unico orizzonte del darsi del mondo, dell’umano essere-nel-mondo. Depurata delle questioni più espressamente teologiche, dalla discussione condotta da Gadamer in Verità e metodo sgorga la quasi wittgensteiniana necessità di descrivere le forme concrete di questo darsi. Brice Wachterhauser parla, a riguardo, di «realismo prospettico». Con questo termine, di nietzscheana memoria, vuole sottolineare che il mondo, per Gadamer, può dischiudere se stesso, ma tale apertura è sempre parziale e limitata, storicamente contingente e linguisticamente mediata. Se osservata, tale relazione, dal punto di vista inverso, si può dire che il mondo è conoscibile nonostante la nostra incapacità di sfuggire alle lusinghe del linguaggio! Secondo Wachterhauser, ci sono 4 tesi fondamentali che fondano il realismo gadameriano:

  1. esistono differenti visioni linguistiche della realtà;
  2. non c’è alcuna fondamentale incompatibilità tra queste visioni linguistiche, i qualia e la realtà;
  3. ogni visione linguistica può essere vista come una presentazione finita del reale;
  4. ogni visione linguistica contiene, potenzialmente, tutte le altre;

Contro l’idea humboldtiana della radicale differenza delle visioni del mondo, Gadamer sostiene l’esistenza di un solo mondo e di molti modi per articolarlo. Questo è coerente con la tradizione dove si presentano numerose narrazioni, interpretazioni del mondo ma non descrizioni definitive dello stesso. Esistono prospettive diverse, differenti modi di parlare del mondo, di abitare il linguaggio che ce lo disvela, ma quest’ultimo, il linguaggio appunto, è sempre rivolto a qualcosa, sempre diretto verso qual-cosa in senso fenomenologico. Il linguaggio è un’arma a doppio taglio, esso può parimenti nascondere e rivelare, come Gadamer ha appreso da Heidegger. Qui, però, c’è una distinzione da fare: Heidegger, specialmente l’ultimo Heidegger, fu costantemente vigile contro le preclusioni della modernità nel momento in cui il pensiero è frammentato e addirittura messo a tacere dal “linguaggio della metafisica”. Al contrario di Heidegger, Gadamer vede riflesso nel linguaggio ordinario l’appiglio dell’umano contro le trappole della metafisica. Se Heidegger vede nella metafisica, inclusi i nuovi linguaggi della scienza e della tecnologia, la fonte della moderna eclissi del pensiero, Gadamer invece appare speranzoso riguardo le infiltrazioni della stessa nel linguaggio ordinario.

E proprio su quest’ultimo punto, a ben vedere, si consuma forse il momento di maggiore vicinanza tra lo stesso Gadamer e l’ultimo Wittgenstein; nella differenza delle possibili letture proposte dalla nostra prassi linguistica, nella moltitudine dei giochi nei quali siamo «giocati» e forse possibile, per entrambi gli autori, rinvenire un orizzonte di senso.


  1. Cfr. C. Lawn, Wittgenstein and Gadmer: Towards a Post-Analytic Philosophy of Language, Continuum Press, London 2005. ↩︎

  2. Ivi, p. 112. ↩︎

  3. Secondo alcuni interpreti, peraltro, tale nozione sarebbe ripresa da Gadamer in modo strumentale e non del tutto rispettoso del suo autentico significato. Per Vecchio, ad esempio, l’idea di pensare il segno in maniera non convenzionale è antiagostiniana (S. Vecchio, Le parole come segni. Introduzione alla linguistica agostiniana, Novecento, Roma 1994, p. 51). Anche secondo Brachtendorf, in Agostino non è possibile rinvenire alcun elemento che possa giustificare l’assimilazione della concezione dell’Ipponate a una visione del evenienziale del linguaggio quale quella verso cui tende Gadamer (1 J. Brachtendorf, Die Struktur des menschlichen Geistes nach Augustinus. Selbstreflexion und Erkenntnis Gottes in De Trinitate, Felix Meiner, Hamburg 2000, pp. 313). Di opposta idea è invece Hennigfeld per il quale Gadamer, riabilitando l’agostiniano verbum in corde, è stato il primo a mostrare che la nozione cristiana d’incarnazione offre una valida alternativa alle concezioni strumentalistiche del linguaggio (J. Hennigfeld, Verbum-Signum. La définition du langage chez St. Augustin et Nicolas de Cues, in «Archives de philosophie», 54, (1991), p. 263). ↩︎

  4. Cfr. J. Grondin, Gadamer and Augustine: On the Origin of the Hermeneutical Claim to Universality in B. Wachterhauser(ed.), Hermeneutics and Truth, Northwestern University Press, Evanston 1994, pp. 137-148. ↩︎

  5. De doct. christ. I, 14, 13. ↩︎

  6. Per Ripanti, infatti, tramite questa teoria Agostino «coglie il nesso profondo tra parola e incarnazione nell’unità del mistero di Cristo». Il Verbo «decide di espandersi nel tempo e in sillabe, creandosi, prima del corpo carnale, un “corpo verbale”, per cui si dovrebbe dire Verbum verbum factum est prima del Verbum caro factum est» (G. Ripanti, Agostino teorico dell’interpretazione, Paideia, Brescia 1980, p. 33). ↩︎

  7. H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2004, p. 489. ↩︎

  8. Ivi, p. 490. ↩︎

  9. Ibid↩︎

  10. Ivi, p. 507. Per una trattazione più estesa di questi temi, vedi Alberto Romele, L'esperienza del verbum in corde. Ovvero l'ineffettività dell'ermeneutica, Mimesis, Roma 2013. ↩︎

  11. A. Pieretti, Le teorie del segno, in L. Alici, R. Piccolomini, A. Pieretti (a cura di), Verità e linguaggio. Agostino nella filosofia del Novecento, vol. 3, Città Nuova, Roma 2002, p. 47. Per una disamina generale dei rapporti tra Agostino e Wittgenstein si veda anche L. Perissinotto, Ludwig Wittgenstein: i limiti del linguaggio, in L. Alici, R. Piccolomini, A. Pieretti (a cura di), Verità e linguaggio. Agostino nella filosofia del Novecento, cit., pp. 22-24. Per quanto concerne invece l’assidua frequentazione, da parte di Wittgenstein, delle Confessioni, cfr. Ivi, pp. 24-26. ↩︎

  12. L. Alici, Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di Agostino, Studium, Roma 1976, p. 120. ↩︎

  13. Ibid. ↩︎

  14. N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein, tr. it., Bompiani, Milano 1988, p. 85. ↩︎

  15. Manoscritto 111, p. 15. ↩︎

  16. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995, I, §5, p. 11. ↩︎

  17. Agostino non fa menzione di una differenza tra specie di parole; è chiaro però, osserva Wittgenstein, che «con “nomi” intende parole come “albero”, “tavolo”, “pane” e, certamente, i nomi propri di persona; ma poi anche “mangiare”, “andare”, “qui”, “là”, in breve tutte le parole. Ma certo, pensa soprattutto ai sostantivi, e al resto come a qualcosa che si accomoderà da sé». Essi «descrivono, appunto, il gioco come più semplice di quanto non sia» (L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, tr. it. di M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze 1990, I, II, §19, p. 22). ↩︎

  18. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., I, §79, p. 54. ↩︎

  19. Ivi, I, §38, p. 31. ↩︎

  20. Ivi, I, §49, p. 37. ↩︎

  21. Per Wittgenstein, «il gioco che Agostino descrive è una parte del linguaggio» (ivi, I, II, §19, p. 22). ↩︎

  22. «Allo stesso modo, colui al quale do una definizione ostensiva del nome di una persona potrebbe interpretarlo come il nome di un colore, come la designazione di una razza o addirittura come il nome di un punto cardinale. Ciò vuol dire che la definizione ostensiva può in ogni caso essere interpretata in questo e in altri modi» (ivi, I, §28, p. 24). ↩︎

  23. Ivi, I, §257, p. 122. ↩︎

  24. Ivi, I¸§32, p. 27. ↩︎

  25. Cfr. C. Lawn, Wittgenstein and Gadmer: Towards a Post-Analytic Philosophy of Language, cit., p. 112. ↩︎

  26. Per Wittgenstein un pericolo si annida in questa espressione, perché «suona come se questi linguaggi fossero migliori, più completi, del nostro linguaggio quotidiano; è come se ci fosse bisogno del logico per rivelare finalmente agli uomini che aspetto ha una proposizione corretta» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, I, §81, p. 55). ↩︎

  27. Ivi, I, 108, p. 65. ↩︎

  28. Ivi, I, §116, p. 67. E poco oltre Wittgenstein sottolinea che la filosofia «non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è» (ivi, I, §124, p. 69). ↩︎

  29. L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, tr. it. di R. De Monticelli, Adelphi, Milano 1990, II, §63, p. 338. ↩︎

  30. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., I, §109, p. 66. ↩︎

  31. Ivi, I §109, p. 66. ↩︎

  32. Ivi, I, §291, p. 132. ↩︎