L’ideale ascetico come volontà del nulla in Friedrich Nietzsche

In questo scritto si cercherà di effettuare una provvisoria ricognizione, senza la pretesa dell’esaustività, sulla trattazione — che Nietzsche espone nella sua Genealogie der Moral — della nozione di ideale ascetico. Lo scopo è quello di verificare come essa viene circoscritta e analizzata da Nietzsche e come funzioni all’interno della Genealogie. Il presupposto è che il tema dell’ideale ascetico sia uno dei punti centrali della destrutturazione nietzscheana della metafisica che, nella Genealogie ha uno dei suoi momenti più fruttuosi. L’appropriazione dell’orizzonte nel quale la nozione si staglia e la sua formulazione concettuale, difatti, rappresentano il punto del suo percorso in cui il filosofare nietzscheano perviene ad una autocoscienza che smaschera il senso che lo anima (negativo nella sua cieca adesione alla ricerca di un vero assoluto e sovratemporale contro cui il transeunte viene valutato) e lascia campo libero ai successivi sviluppi della dottrina di volontà di potenza. Alla quale — non a caso — Nietzsche, proprio durante e subito dopo la redazione della Genealogie der Moral, progettava di dedicare un hauptwerk mai adempiuto dal titolo La volontà di potenza — Tentativo di transvalutazione di tutti i valori, dove egli avrebbe affrontato più radicalmente proprio «il problema del significato dell’ideale ascetico — che cosa ha esso a che fare con l’ieri e con l’oggi [corsivi miei]».1

1. Ideale ascetico come volontà del nulla

È esattamente nella prima pagina della terza dissertazione della sua Genealogie, che Nietzsche, con tono incalzante, rende immediatamente pubblici i temi trattati in essa ed il senso della loro polemica: precisamente, in quella verrà affrontato il problema del significato dell’ideale ascetico, cercando di coglierne il senso ed il valore per l’uomo, anche attraverso l’analisi particolare riguardo al suo significato per gli artisti, i filosofi e gli asceti — ma anche per gli uomini religiosi.2 Si tratta, detto altrimenti, di stabilire chi parli attraverso l’ideale ascetico — qual è il suo senso — per gli uomini che lo professano e perché essi lo tengano in gran considerazione; nonché di mostrare come esso si annidi nella maggior parte delle produzioni umane a tal punto da rappresentarne il senso che le coordina e le dà. Nietzsche, sempre in questa sede, ci comunica anche una prima provvisoria formulazione della risposta alla nostra prima domanda, riguardante il senso e la causa per cui è tenuto in gran considerazione questo ideale: si tratta di procurare una qualsiasi meta, anche solo quella del nulla, alla volontà umana, che senza una meta non riesce a vivere. Si tratta di imprimere un qualsiasi valore alla sofferenza e alla vita stessa, perché l’uomo sopporta anche il dolore più duro, ma non la sua insensatezza. In quest’orizzonte, l’ideale ascetico, manifestazione pura di una volontà del nulla, evidenzia, dunque, l’horror vacui dell’uomo, il fatto fondamentale che egli «preferisce ancora volere il nulla al non volere».3

2. L’artista, il filosofo, il santo religioso

La prima figura che viene “interrogata” alla ricerca del significato, per essa, dell’ideale ascetico, è quella dell’artista. E chi più di Richard Wagner, secondo il Nietzsche della Genealogie,4 rappresenta il caso emblematico dell’artista che “sposa” la causa dell’ideale ascetico? Egli, inizialmente fautore della massima sensualizzazione e spiritualizzazione della sua arte, nella seconda parte della sua vita diviene propugnatore — Nietzsche prende come campione l’esempio del Parsifal wagneriano — della castità, di uno zelante ascetismo dei sensi.5 Che significato ha questa svolta? E, più in generale, cosa significa per un artista aderire all’ideale ascetico?

Per Nietzsche questa adesione non significa nulla, «o tante di quelle cose che è come se non fosse nulla! »6: gli artisti, difatti, sono sempre stati asserviti ad una morale o filosofia o ad una religione, di modo che non sono mai stati indipendenti da poter considerare le loro decisioni o i loro comportamenti aventi un valore ed un senso per sé. Essi hanno sempre avuto bisogno di un appoggio, di una salvaguardia, di un’autorità già costituita: riguardo Wagner, ad esempio, egli indulse agli ideali ascetici solamente per la considerazione interessata all’appoggio che gli veniva dalla filosofia di Schopenhauer. Attraverso essa, infatti, la musica otteneva un posto a sé rispetto a tutte le altre arti; queste erano soltanto riproduzione della fenomenicità, quella invece parlava il linguaggio della Volontà stessa come la sua più propria, più originaria e diretta rivelazione. Cosicché anche la figura del musicista veniva rivalutata ed investita di un compito più alto, quasi epocale: questi, di fatto, diventava ormai un oracolo, un portavoce ed un medium dell’in sé delle cose.

Conviene perciò, secondo Nietzsche, spostare la propria attenzione sulla seconda figura prima annunciata: quella del filosofo. Che cosa significa per esso l’ideale ascetico?

Nietzsche, ri-proponendo Schopenhauer come l’esempio più eloquente in merito,7 ci mostra come sussista incontestabilmente tra i filosofi di tutte le ere una precisa e tipica irritazione e astiosità contro la sensualità: e, al contrario, come sia tipica di questi uomini una certa predilezione in relazione a tutto l’ideale ascetico. Che significa ciò? Secondo Nietzsche, ogni animale tende per istinto ad un livello ottimale di condizioni favorevoli tra le quali poter scatenare tutta la propria forza, in modo da attingere il massimo possibile sentimento di potenza: e altrettanto istintivamente, ogni animale detesta ogni sorta di impedimento che gli si frapponga o possa frapporglisi su questa via verso l’optimum.

Di conseguenza, anche l’animale filosofo, la “bête philosophe”, detesta e cerca di evitare qualsiasi impedimento che possa ostacolare il suo sviluppo ed il suo potenziamento verso un’alta spiritualità; ossia tutte quelle situazioni (matrimonio, figli, lavoro, sessualità) che non gli permettono di coltivare la propria attività in completa indipendenza:

Nell’ideale ascetico sono indicati tanti ponti verso l’indipendenza […] Che cosa significa dunque l’ideale ascetico in un filosofo? La mia risposta è — la si sarà capita da un pezzo: alla sua vista il filosofo sorride come a un optimum delle condizioni della più alta e ardita spiritualità — con esso egli non nega “l’esistenza”, in esso anzi afferma la sua esistenza e soltanto la sua esistenza.8

Nemmeno i filosofi, perciò, innanzi allo sguardo indagatore del genealogista che cerca di cogliere il senso dell’ideale ascetico, possono essere considerati come i testimoni autentici di esso: nell’adesione a quello, infatti, essi pensano a sé stessi, alla loro libertà dalla costrizione, dagli ostacoli, dal “chiasso”, dai doveri e dagli affari della vita quotidiana perché questa libertà è la condizione ideale per soddisfare e sviluppare tranquillamente la propria attività spirituale. Anzi, se si approfondisce la ricerca sull’argomento, si può constatare come il legame tra filosofia e ideale ascetico risulta ancora più stretto e rigoroso; nel senso che la filosofia si è potuta sviluppare solamente all’ombra dell’ideale ascetico, all’interno di esso per così dire.9 Per molto tempo, infatti, quello che c’è di inattivo, di rimuginante, di poco “guerriero” negli istinti contemplativi del filosofo fece scendere su di lui il disprezzo e la diffidenza degli altri uomini, esattamente nella misura in cui da questi egli non era temuto. Contro ciò, dunque, non c’era nessun altro rimedio che suscitare paura negli altri, per assicurarsi quantomeno di non essere aggrediti. Come ci riuscirono i primi filosofi? Eliminando, innanzitutto, da loro stessi quei giudizi di valore e quel disprezzo che sentivano e che gli derivava dall’appartenenza a quella primordiale umanità: e, soprattutto, cercando di annullare la diffidenza degli altri col dare uno “sfondo”, un senso alla loro esistenza, per i quali si apprese così a temerli.10 In che maniera fecero ciò? Appunto aderendo alle pratiche e agli ideali dell’ascetismo. Lo spirito filosofico, insomma, ha sempre dovuto, come prima cosa, travestirsi e trasformarsi nei tipi dell’uomo contemplativo già stabiliti; come sacerdote, come mago, indovino ed in genere uomo religioso, per essere in qualche misura anche soltanto possibile. L’ideale ascetico è servito al filosofo come forma fenomenica, come condizione di esistenza; egli dovette rappresentarlo per poter avere solamente la possibilità di essere filosofo. E dovette credervi nel proprio intimo per poterlo rappresentare. L’atteggiamento del filosofo che nega il mondo, non crede ai sensi e si “desensualizza” è dunque soprattutto una conseguenza dello stato di necessità delle condizioni tra cui la filosofia sorse e si stabilì: in quanto essa non sarebbe stata affatto possibile sulla terra senza questo involucro, questo rivestimento ascetico:

fino ai nostri tempi il prete ascetico ha fornito la […] forma larvale sotto la quale soltanto la filosofia ha potuto vivere e muoversi cautamente intorno… È ciò veramente cambiato? […] C’è oggi abbastanza fierezza, audacia, valore, sicurezza di sé, volontà dello spirito, volontà di responsabilità, libertà di volere perché il “filosofo” sia ormai realmente possibile sulla terra?11

È in questa prospettiva, dunque, che Nietzsche si chiede che cosa significhi l’ideale ascetico per l’unico vero e proprio rappresentante di esso, ossia il prete ascetico: unico e vero perché in questo ideale, secondo il filosofo tedesco, egli ha non solo la sua fede, ma anche la sua volontà ed il suo potere, nonché il significato ed il diritto stessi della sua esistenza.

Analizzando la figura del sacerdote (figura determinante nella Genealogie, proprio nel suo essere simbolo e nel suo dar voce all’ideale ascetico inteso come manifestazione più evidente di una volontà di potenza negatrice) ed il suo rapporto con quell’ideale, Nietzsche nostra inizialmente che il pensiero intorno al quale si sviluppa il valore dell’ideale ascetico per questi uomini è il giudizio sul valore della nostra vita; l’esistere, infatti, viene messo da loro in relazione con un’altra esistenza, con la quale “intrattiene” un rapporto antitetico a meno che non rinneghi se ipsum e si rivolga contro se stesso. In questo caso, quello del rinnegamento e d’una vita ascetica tout court, la vita è considerata un ponte per quell’altra esistenza: il sacerdote, più in generale, tratta la vita stessa «come un cammino sbagliato»,12 come un errore da confutare con l’azione per imporre il suo giudizio di valore su essa.

Inoltre, fa notare Nietzsche, la figura del prete ascetico non appartiene solamente ad una precisa epoca o ad un determinato popolo, ma fa la sua apparizione universalmente e regolarmente. Ciò deve far riflettere; perché significa che la sua presenza non risponde alle esigenze di una classe sociale, di un epoca o di una razza, ma ad una necessità ancor più profonda: precisamente quella di una ostilità alla vita dettata da un interesse verso la vita stessa. L’interesse di un ressentiment ed una volontà di potenza insaziati

che vorrebbero dominare non su qualcosa della vita ma sulla vita stessa, sulle sue condizioni più profonde, più forti, più sotterranee; qui viene fatto un tentativo di usare la forza per ostruire le scaturigine della forza; qui lo sguardo verde e maligno si rivolge contro la prosperità fisica stessa […] mentre si sente e si cerca un compiacimento nel fallire, nell’intristire, nel dolore, nella disgrazia, nella bruttezza, nell’espiazione volontaria, nella mortificazione, nella flagellazione e nel sacrificio di sé.13

Nella figura dell’asceta sussiste, perciò, una contraddizione in termini: esso è discordanza che si vuole discordante, perchè gode di sé stessa in questo soffrire e anzi, acquisisce maggiore “forza” e “potenza” proprio nella misura in cui diminuisce il primo presupposto della sua attività, ossia la sua vitalità fisiologica. La conclusione a cui perviene il filosofare nichilistico di questa Weltanschauung contraddittoria è chiara: immettere e sentire l’errore proprio là dove l’istinto vitale impianta la verità nella maniera più incondizionata. Verranno praticate, pertanto, la negazione della propria realtà, l’abbassamento della corporeità ad illusione, la svalutazione della molteplicità e del divenire, la creazione e contrapposizione dei concetti di “soggetto” ed “oggetto”. Nonché una dura disciplina a voler vedere diversamente che, nella prospettiva nietzscheana di una critica alla nozione di conoscenza, se da una lato presuppone una violenza ed una crudeltà inaudite verso sé stessi — vera e propria impresa e macabro trionfo dell’ascetismo — dall’altro rappresenta un’ottima preparazione dell’intelletto a quella che un giorno potrà essere la sua obiettività; pensata da Nietzsche non come la spersonalizzazione del soggetto conoscente a pura sostanza atemporale contemplativa, ma come la capacità di cogliere e gestire il maggior numero di prospettive utili ad ottenere il più completo concetto possibile della cosa da conoscere. Obiettività, cioè, come

facoltà di avere in proprio potere e di combinare e scombinare il proprio pro e contro, in modo che si riesca a utilizzare per la conoscenza proprio la diversità delle prospettive e delle interpretazioni affettive.14

Se, dunque, da una prospettiva epistemologica, la pratica dell’ideale ascetico, proprio nei suoi momenti di maggiore crudeltà e disciplina, opera in senso liberante delle forze in gioco nel processo conoscitivo, questo rivolgersi della vita contro la vita, rappresentato dall’ascetismo, risulta pure, da una prospettiva genealogica, come un sintomo assurdo e discordante di una stato di cose più profondo: deve esserci, insomma, al di sotto di questa apparente contraddizione, qualcosa di più importante in gioco perché un tale comportamento faccia continuamente la sua comparsa sulla terra. Di che cosa si tratta? Qual è il motivo per cui l’ideale ascetico entra in scena nel teatro dello scontro tra le forze che compongono il mondo? Esso — sostiene Nietzsche —

scaturisce dall’istinto di protezione e di salvezza di una vita degenerante, che cerca con tutti i mezzi di mantenersi in lotta per la sua esistenza; esso indica una parziale inibizione ed estenuazione fisiologica, contro la quale combattono incessantemente, con nuovi mezzi e invenzioni, i più profondi istinti vitali, rimasti intatti [corsivi miei].15

L’ideale ascetico è pertanto un mezzo: e, precisamente, un mezzo sorto dalla vita stessa la quale, in esso e con esso, lotta contro la morte. È insomma un accorgimento di cui la vita si serve quando, stretta in un processo irreversibile di deperimento, mira soltanto alla sua mera conservazione, ancorché ai suoi livelli minimi. Che l’ideale ascetico abbia potuto dominare e acquisire potenza sugli uomini, in particolare dove essi erano organizzati in comunità, in ciò si esprime perciò un fatto importante: la morbosità dell’uomo civilizzato, la sua lotta fisiologica contro la morte, concepita come “noia della vita”, estenuazione e desiderio della “fine”.16 In questo senso, il prete ascetico è desiderio di un essere altro, di un essere altrove; ma, appunto, l’ardore e la potenza di questo desiderare lo “incatenano” alla sua condizione “mondana”, costringendolo a divenire lo strumento per creare condizioni più favorevoli in “questo mondo”. E così con questa potenza egli trattiene nell’esistenza tutti i deboli, gli amareggiati, i sofferenti di sé, mettendosi istintivamente alla loro testa come pastore.

Il prete ascetico, pertanto, è un negatore apparente della vita, perché, a ben vedere, appartiene invece alla grandi istanze promotrici e conservatrici di essa: prodotto della morbosità dell’uomo che cerca di superare se stesso, la natura e gli dei, egli, col suo dire No alla vita, infatti, fa emergere una volontà di vivere più forte della precedente negazione:

anzi, se si ferisce, questo maestro di distruzione, di autodistruzione — poi è la ferita stessa che lo costringe a vivere.17

Alla luce di questa scoperta riguardo il significato dell’ideale ascetico, Nietzsche si pone, dunque, nuovamente il problema del destino dell’umanità nella prospettiva della domanda sul valore di quell’ideale: e ribadisce allarmato che è la volontà del nulla, il nichilismo, che nell’ascetismo trova la sua articolazione più compiuta, a rappresentare il più grande pericolo per l’uomo. Ciò perchè i più deboli, con il loro amore per la stabilità e per la sicurezza, definita appunto da Nietzsche come un istinto di conservazione spinto all’estremo,18 condannano la mutazione vista come momento di accrescimento e l’incessante divenire della differenza nella quale la vita si manifesta. E cercano di sopprimere una valutazione di essa che esalti questi aspetti — i quali, sempre secondo Nietzsche, ineriscono essenzialmente alla vita: discendendo da ciò che, se quei momenti ed aspetti di essa vengono messi in questione, in realtà è la vita stessa nelle sue manifestazioni più proprie ad essere negata e ad essere ridotta a mero ed inibito avvenimento biologico.19 In questa prospettiva interpretativa, di conseguenza, il maggiore trionfo vendicativo dei deboli sui forti sarebbe proprio quello di avvelenare la potenza di questi, di trasferire nella coscienza dei felici la loro propria miseria in modo che un giorno essi comincino a vergognarsi della loro “salute” per la troppa sofferenza che c’è nel mondo.

Con lo scopo, dunque, di evitare questa commistione fra spiriti che inficerebbe la “salute” dei forti, Nietzsche, ricercando nel fitto tessuto della storia, avverte come l’eco di quella divisione che egli auspica (la quale, piuttosto che un dividere, si materializza nel gesto sdegnoso dell’aristocratico che si apparta in solitudine rispetto alla prospettiva morale imperante): e la nota nel curioso fatto che, per contrasto, sono stati invece sempre e necessariamente i malati ad appartarsi e a “curarsi” fra di loro. E mai un sano è rimasto vicino ad essi. Che significato ha questa divisione? E quale è il senso che della figura del prete ascetico ne scaturisce? In questo prospettiva, difatti, viene a cadere sotto una luce diversa la figura del sacerdote, per come Nietzsche l’aveva caratterizzata finora: precisamente, da adesso in poi egli dovrà essere considerato non solo come pastore ma innanzitutto come il “salvatore” del gregge che egli governa; e questo sarà il suo scopo. Nella necessità che i guaritori dei “malati” siano essi stessi malati, c’è il suo destino ed il suo senso20: egli deve essere affine in tutto e per tutto ai malati per poterli comprendere e comprendere se stesso attraverso loro. Ma deve anche essere padrone di sé per padroneggiare quelli, per poter essere loro sostegno, resistenza, esempio di coraggio, maestro di disciplina e costrizione. Il prete ascetico deve, insomma, proteggere il suo “gregge” in un duplice senso; dovrà difenderlo sia dall’aggressività e dalla durezza dei valori affermativi della vita promossi in quella che Nietzsche definisce la morale aristocratica dei signori — etica dell’affermazione del differente e del molteplice. E sia dall’invidia dei malati stessi per tutto ciò che è diverso da loro. In quest’ultimo senso egli deve cioè controllare e veicolare quel grande odio, che ogni volta si rigenera e si accumula nel gregge, in maniera che esso non lo faccia “esplodere” e dissolvere; in ciò ha la sua abilità più grande e la sua massima utilità:

il prete è colui che cambia la direzione del ressentiment. Ogni sofferente cioè cerca istintivamente una causa del suo dolore; o meglio, un autore, o più precisamente, un autore colpevole, sensibile al dolore — insomma un qualunque essere vivente su cui possa […] sfogare i suoi umori, materialmente o in effigie: giacché scaricare la piena dei suoi sentimenti è il massimo tentativo di alleviamento, cioè di stordimento del sofferente, il suo narcotico involontariamente bramato contro il tormento.21

“Alleviamento”: è questo, dunque, lo scopo fisiologico che il prete vuole si concretizzi attraverso la pratica dell’ideale ascetico, per tutti i risentiti. Lo stordimento è, insomma, il fine e la modalità di soddisfazione del desiderio di riduzione del dolore perseguito mediante le costrizioni della pratica ascetica. Ora, il problema è che il malato di ressentiment ha bisogno di un qualcuno o di un qualcosa che funga da pretesto per questa passione-sfogo. «Qualcuno deve avere la colpa del fatto che mi sento male»;22 questo è il suo modo di intendere la causa del suo dolore e il destinatario del suo sfogo. A questo punto, però, secondo Nietzsche, interviene la “genialità” del prete ascetico: egli cambia la direzione di questo stordimento, muta il bersaglio del ressentiment e precisamente inverte questa direzione: invece che all’esterno, il malato dovrà trovare la colpa del suo male in sé stesso.

Si sarà facilmente compreso ciò che qui avviene: il prete ascetico, attraverso la tirannia esercitata sul gregge, responsabilizzandolo del suo male attraverso l’uso sapiente dei concetti di “colpa”, “peccato”, “corruzione” e “dannazione”, cerca di rendere inoffensivi fino ad un certo grado i malati, aiuta gli inguaribili a distruggersi da sé stessi, spinge i malati “lievi” a veicolare il ressentiment verso sé allo scopo di sfruttare questi loro cattivi istinti vendicativi nel raggiungimento dell’autodisciplina, dell’autosorveglianza e del annullamento/superamento di sé stessi. Con rimedi del genere, ovviamente, il prete non perverrà alla “guarigione” completa dei componenti del suo gregge: e, ad uno sguardo più attento, egli nemmeno desidera ciò. Il suo scopo primario, infatti, non è curare per guarire, ma curare per governare; il gregge è innanzitutto non un luogo di redenzione spirituale e riabilitazione fisiologica, ma un meccanismo di potere e coercizione con il quale si tiene a bada una massa di “animali” potenzialmente offensivi per sé e per gli altri; nonché si tratta di un’organizzazione di esseri frustrati dalla vita e per questo “deboli”, che ha come scopo neutralizzare gli uomini forti, i cosiddetti “benriusciti”.23

In questa ottica, dunque, il prete ascetico non può essere definito un vero e proprio “medico”, egli non combatterà la “malattia” e la causa di essa; ma la sofferenza stessa, lo scoramento e l’abbattimento del sofferente. Dobbiamo infatti ricordare ciò che avevamo affermato qualche riga più su: la sua missione è quella di “consolare” i malati. In che maniera? Con quali mezzi?

In primo luogo si combatte lo scoramento dominante con mezzi che abbassano il sentimento della vita al suo punto più infimo. Possibilmente, nessuno desiderio, più nessuna volontà; evitare tutto ciò che può “aizzare” passioni; nessun odio e nessun amore; nessun lavoro, e sessualità ridotta al minimo o addirittura annullata. Si comprende quali siano gli scopi di queste inibizioni; mortificazione e santificazione, nonché un certa ipnosi di sé stessi, insomma si tratta di ridurre le funzioni fisiologiche al minimo indispensabile a che la vita continui a sussistere. Lo stato supremo, la redenzione stessa è questa ipnosi e pace totale finalmente raggiunta che questi uomini identificano con il “sapere”, con “l’essere”, con l’essenza della realtà, qualcosa che immaginano al di là del bene e del male. Si noti come questa redenzione non è raggiungibile con il solo esercizio della virtù in vista di una dismissione dei difetti comportati dalla mondanità umana, ma è essa stessa proprio l’annullamento totale di questa dimensione:

Ciò nonostante anche qui […] dobbiamo tener presente che con ciò si esprime in fondo […] nient’altro che quella valutazione che fu del lucido, freddo, grecamente freddo ma sofferente Epicureo: il senso ipnotico del nulla, la pace del sonno più profondo, l’assenza di dolore insomma — ciò può valere, per i sofferenti e i radicalmente amareggiati, come sommo bene, come valore dei valori, ciò deve essere da loro apprezzato come positivo, sentito come il positivo stesso (secondo la stessa logica del sentimento, in tutte le religioni pessimistiche il nulla si chiama Dio).24

In secondo luogo — e molto più spesso di un tale ipnotico ottundimento dei sensi, che presuppone un coraggio ed un disponibilità alla costrizione di sé stessi certamente non presente in tutti gli uomini — dal prete ascetico viene utilizzato un altro mezzo, un altro esercizio comportamentale per lenire le sofferenze dei malati: Nietzsche lo chiama attività meccanica. Egli si riferisce alla moderna “benedizione del lavoro”; l’alleviamento consiste nel fatto che l’interesse del sofferente viene stornato attraverso il continuo esercizio meccanico del “fare” lavorativo in maniera che la coscienza sia talmente presa da questo esercizio da identificarsi quasi con esso e non possa pensare più ad altro:

L’alleviamento consiste nel fatto che […] nella coscienza entra costantemente un fare e di nuovo soltanto un fare, e quindi vi resta poco posto per il soffrire: giacché è stretta, questa camera della coscienza umana! L’attività meccanica e quanto vi si connette — come l’assoluta regolarità, l’obbedienza puntuale automatica, l’adozione una volta per tutte di un certo modo di vivere, il riempimento del tempo, una certa autorizzazione, anzi una certa disciplina all’“impersonalità”, all’oblio di sé, all’“incuria sui”.25

Un altro mezzo ancora più apprezzato dal prete nella lotta contro la depressione è la prescrizione dell’amore verso il prossimo, del provare gioia nel procurarne anche una piccola agli altri. Attraverso questo espediente, il prete ascetico per prima cosa prescrive un’eccitazione della volontà di potenza dei malati — perché nel procurare gioia, spiega Nietzsche, questi uomini provano per un attimo un sentimento di potenza, di superamento di un ostacolo, verso i beneficiari del loro gesto: e questo, anzi, è l’unico esercizio comportamentale attraverso cui questi uomini possono aspirare a provare tale sentimento26 di superiorità. Ma soprattutto egli, con il prescrivere l’amore verso il prossimo, fa un passo essenziale verso la sua vittoria; con esso crea un nuovo interesse nel gregge dei malati e malriusciti. D’ora in poi essi, infatti, cercheranno istintivamente, nella nuova e suscitata “volontà di reciprocità”, di stringersi in comunità ed organizzazioni gregali in modo tale che la preoccupazione di quelle li faccia sollevare al di sopra di ciò che è più personale nel loro malcontento, nel loro aborrire di sé. In questo piacere per la congregazione, insomma, in essi si risveglia il sentimento di potenza collettivo, in conseguenza del quale la noia di sé dell’individuo viene soverchiata dal suo piacere per il prosperare della comunità.27

Tuttavia, secondo Nietzsche, i mezzi finora descritti per lenire le sofferenze dei deboli risultano secondari fra quelli usati dal prete ascetico: il principale, ed il più interessante da osservare, è invece quello che utilizza, come mezzo di stordimento efficace contro questa oscuro dolore paralizzante, una perversione del sentimento; oppure, detto con le parole di Nietzsche, «l’ideale ascetico al servizio di una intenzionata esorbitanza del sentimento».28 Attraverso, cioè, una amplificazione dei moti interiori, attraverso lo stordimento conseguente all’azione che “sconquassa” di una grande passione suscitata, il prete ascetico cerca di affrancare l’uomo debole da ogni piccolezza e meschinità, e come avevamo visto prima, cerca di cancellare per un poco lo scoramento, la cupezza e l’amarezza che affliggono quest’uomo; per risvegliarlo dalla tristezza e dalla noia per la vita e concedergli un attimo di pace e lenimento nell’oblio del sordo dolore che lo stringe. Come è facile intuire i risultati cui questo rimedio conduce saranno peggiori della malattia stessa che esso combatte: nell’esorbitanza e nell’acutizzazione del sentimento, infatti, essa sarà a sua volta aizzata. Il rimedio, insomma, renderà “più malati” i malati.29 Ma d’altronde, come avevamo osservato prima, il prete ascetico mirava non alla guarigione da questa malattia, quanto al combattimento della depressione che essa ingenera, nel più grande obiettivo di incitare il malato alla vita — seppure meschina e ridotta alle sue funzioni minime.

Soprattutto, nella prospettiva di questo rimedio basato sull’esorbitanza del sentimento e di incitamento in direzione d’una vita “reattiva” dominata da una volontà nichilista, il momento più importante e decisivo per la vittoria dell’ideale ascetico è, secondo Nietzsche, sicuramente rappresentato dalla strumentalizzazione, da parte del prete, del sentimento di colpa. Come Nietzsche spiega nel seconda dissertazione della Genealogie30, la coscienza di colpa infatti è un frammento della psicologia animale — coscienza del debito verso gli antenati che, sospinta nell’abisso della paura, si tramuta in debito e colpa irrimediabile verso il proprio dio: ma è con il prete ascetico che essa assume la forma che noi comunemente conosciamo. Precisamente, con la reintepretazione sacerdotale il sentimento di colpa viene trasformato in peccato.

Per Nietzsche l’uomo che soffre dell’essere ricondotto dall’esterno in sé stesso, come in una gabbia senza saperne la causa, è avido di ragioni e di rimedi che pongano freno al dolore che da dentro lo corrode: ed in questa prospettiva si inserisce il prete ascetico che, rivolgendosi in termini di superiorità e saggezza di cose occulte, “rivela” al malato la “causa” della sua sofferenza. Egli deve cercarla in sé, in una colpa appartenente al passato, deve intendere il suo dolore come un castigo per questa colpa. È da questo momento in poi che fa la sua comparsa nel mondo la figura del “peccatore”:

il “peccatore” — ce ne libereremo mai? Ovunque si guardi dappertutto lo sguardo ipnotico del peccatore, che si muove sempre nella stessa direzione (nella direzione della “colpa” come unica causalità del soffrire); dappertutto la cattiva coscienza […]; dappertutto il passato rimasticato, l’azione distorta, “l’occhio verde” per ogni fare; dappertutto il voler fraintendere la sofferenza fatto contenuto di vita, la reintepretazione di quella come sentimento di colpa, di paura e di castigo […]; dappertutto il peccatore che sottopone se stesso al supplizio della ruota, della ruota crudele di una coscienza inquieta, morbosamente lasciva; dappertutto il muto tormento, l’estrema paura, l’agonia del cuore martoriato, gli spasimi di una felicità ignota, il grido che invoca “redenzione”.31

Sebbene, perciò, il sentimento del peccato rende ancora più “malati” coloro i quali divennero presto dei “peccatori”, in realtà con questo sistema di procedimenti l’antica depressione e stanchezza per la vita vengono radicalmente superate: la vita, anzi, diviene di nuovo molto interessante, perché si è riusciti infatti a darle un senso. E all’uomo è stata assegnata una destinazione ed una collocazione nel mondo. Con l’espediente della moralizzazione del concetto di colpa, il prete ascetico ha chiaramente vinto la sua battaglia; poiché ormai non è più avvertita l’assurdità del dolore che lo rende insopportabile, il dolore anzi diviene — in questa nuova visione del mondo e della vita — qualcosa di sempre più agognato. Esso, precisamente, ora è interpretato allo stesso tempo come conseguenza di una colpa originaria e mezzo di salvezza da quella; «si guarisce dal dolore producendo ancor più dolore, interiorizzandolo sempre di più» come ha osservato Gilles Deleuze.32 Ogni esorbitanza del sentimento che faceva male, tutto ciò che sconvolgeva, trascinava ed estasiava, dal mistero dei luoghi di tortura fino all’ingegnosità dell’inferno come luogo di supplizio eterno, tutto ciò ormai fa parte degli strumenti dell’ideale ascetico, strumenti esiziali di eccitazione della vita amati e venerati nella prospettiva di una redenzione totale che in realtà è irraggiungibile.33

Abbiamo usato il termine “esiziali” perché le conseguenze negative apportate dall’ideale ascetico e dalle sue pratiche di vita, che Nietzsche si sforza a questo punto di elencare, sono appunto rovinose: dal punto di vista fisiologico, una morbosità accresciuta ed un sistema nervoso scosso e sovraeccitato; dal punto di vista del destino dell’uomo, invece, il finale “immeschinimento” di esso, la radicalizzazione di quell’iniziale processo di “indebolimento” e “ammansimento” sorto e cresciuto dalla costrizione imposta con il nascere delle prime comunità, delle prime società umane.34

3. Alternative all’ideale ascetico: filosofia e scienza

In questo scenario desolante, in questa landa ovunque cosparsa di mediocrità e malattia, dove a regnare è un sistema di interpretazione chiuso che nega ogni altro scopo e visione del mondo, contro un sistema interpretativo che afferma soltanto se stesso e crede all’assoluta preminenza del suo diritto su ogni potere, si chiede Nietzsche, quale può essere l’alternativa? Dove e in cosa consisterebbe la possibilità di qualcosa di contrario?

Il filosofo tedesco, in apparenza onorando lo spirito del tempo, pone sotto la sua attenzione quelli che nell’epoca attuale, orgogliosi di noi stessi, tendiamo ad identificare quali sistemi contrari all’ideale ascetico e alla religione in generale: ossia “l’idealismo” filosofico e la cosiddetta “scienza moderna”. Che siano dunque questi i “controideali” che possono combattere, o che secondo alcuni già l’hanno fatto uscendone vincitori nel loro razionalismo ateo, la battaglia contro l’ideale ascetico e la religione come manifestazione di una volontà del nulla? Secondo Nietzsche no: la verità sta, anzi, esattamente all’opposto di quanto oggi viene creduto.35

Per esempio, riguardo gli idealisti presenti oggi tra filosofi e dotti egli sostiene che piuttosto sono essi stessi, nella pretesa di pulizia intellettuale, nel perseguimento dell’imparzialità e della durezza e nell’adesione al rigore e all’indipendenza da ogni dogma con cui perseguono le loro ricerche, che incarnano proprio questo ideale. Essi stessi sono il prodotto più intellettualizzato, la forma più avanzata di quello. Tutto ciò è dimostrato attraverso il fatto che, al di là dell’apparente contrarietà, questi illusori “spiriti liberi” pongono come criterio imprescindibile del loro lavoro di ricerca proprio la fede su cui riposa tutto l’ideale ascetico; ossia la fede nell’assolutezza della verità vista come ideale sovratemporale innanzi al quale anche la vita con le sue contraddizioni va giudicata ed adeguata. Anzi, la loro ricerca altro non è che manifestazione concreta di questa fede, di quella volontà di verità che è alla radice dell’ideale ascetico. Per comprendere l’importanza del passaggio, occorre leggere il seguente lungo frammento nel quale Nietzsche stesso ci dà la descrizione esaustiva di questa sua decisiva scoperta:

Conosco tutto ciò forse troppo da vicino: quella veneranda moderazione filosofica a cui una tale credenza obbliga, quello stoicismo dell’intelletto, che alla fine si proibisce il No altrettanto rigorosamente del Sì, quel voler arrestarsi davanti alla fattualità, al factum brutum, […] quella rinunzia all’interpretazione in genere (al far violenza, aggiustare, abbreviare, tralasciare, imbottire, escogitare, falsificare e quant’altro appartiene all’essenza di ogni interpretare) — ciò esprime in linea di massima ascetismo della virtù allo stesso modo di qualsiasi negazione della sensualità […] Ma ciò che costringe ad esso, quell’assoluta volontà di verità è la fede nell’ideale ascetico stesso, anche se come suo imperativo inconscio, non ci si inganni al riguardo — è la fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità, quale soltanto in quell’ideale è garantito e avallato (sta e cade con quell’ideale).36

Dove la volontà di verità è, perciò, il senso che anima la ricerca filosofica, in quest’ultima — se vogliamo essere completamente onesti con questa stessa volontà che coordina il nostro discorso — non possiamo non riconoscere, dice Nietzsche, che è proprio una “fede in un valore metafisico” a manifestarsi; fede garantita e affermata, nella sua tensione verso il sovratemporale, proprio dall’ideale ascetico inteso come volontà di pervenire ai valori metafisici dell’Assoluto e dell’Essenza attraverso la negazione decisa di tutto ciò che è immerso nel tempo, ossia dell’intera sfera del transeunte. Si sarà, dunque, intuito per quale motivo nel presente lavoro si cerca di mostrare come questo sia uno dei momenti di maggiore importanza della Genealogie e del percorso filosofico nietzscheano: in queste frasi assistiamo, infatti, come al pervenire di un’autocoscienza, quella dell’autosoppressione della morale per moralità. Qui assistiamo, in altri termini, a quel processo soltanto partendo dal quale è possibile nella filosofia di Nietzsche pervenire alla nozione di volontà di potenza e, attraverso questa e l’intuizione “selettiva” dell’eterno ritorno, alla transvalutazione di tutti i valori. In quest’autocoscienza, precisamente, le considerazioni e le analisi dissolutrici sulla morale si saldano indissolubilmente con le critiche all’epistemologia e alla metafisica e con le osservazioni sul destino dell’uomo e sull’oltreuomo. Qui il metodo genealogico si scopre e si riconosce (“Conosco tutto ciò forse troppo da vicino”): il suo ricercare ed i suoi strumenti finora utilizzati inesorabilmente conducono la genealogia a genealogizzare se stessa. Il metodo decostruttivo, inaugurato con Umano, Troppo Umano ed utilizzato per dissolvere la morale come dominio e riutilizzarla come memoria storica da contemplare, giunge cioè a scoprire la verità ed il senso della verità e di se stesso. Se da una lato, difatti, rivela che la volontà di morte soggiacente alla fede in una verità metafisica ed assoluta, è la base su cui è cresciuta e si rafforza la fede nella morale-metafisica, dall’altro deve riconoscere anche che questa stessa volontà è la causa di questa sua scoperta; perché la genealogia e il metodo decostruttivo stessi sono animati dalla fede nell’adesione e della esistenza di una unica ed assoluta verità, essi stessi e le loro ricerche sono il prodotto orientato nell’orizzonte di quella fede ascetica alla ricerca del “vero in sé”. Emblematiche, in questo senso, sono le parole che Nietzsche scrive nell’aforisma § 344 della Fröhliche Wissenschaft:

È pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza — anche noi uomini della conoscenza di oggi, noi senzadio e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio acceso da una fede millenaria, quella fede dei Cristiani che fu anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divina… Ma che succede, se proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino, salvo l’errore, la cecità, la menzogna — se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?37

L’errore finora più grande commesso dai filosofi — e soprattutto dagli idealisti attuali — riguarda la loro mancanza della coscienza del fatto che la volontà di verità stessa ha bisogno di essere giustificata; ciò non è avvenuto perché finora l’ideale ascetico ha dominato ogni filosofia e la verità conseguentemente è stata posta come essere, come Dio, come istanza suprema che non doveva essere per nulla messa in questione. Dal momento, però, in cui la fede nel Dio dell’ideale ascetico è negata, si dà anche un nuovo problema: quello circa il valore della verità. Affrontare questo problema — si comprenderà — nell’orizzonte dell’autosoppressione della morale, diviene uno dei compiti primari sempre riproponentesi di ogni filosofia futura, e di quella nietzscheana.38

Alla luce di queste riflessioni sull’idealismo filosofico va da sé che nemmeno la scienza moderna viene considerata da Nietzsche come antagonista dell’ideale ascetico. Se, infatti, quell’idealismo non può aspirare al ruolo di istanza promotrice della vita intesa come volontà di potenza affermativa, ancor meno potrà farlo la scienza moderna che manca appunto di un ideale-valore, di una potenza creatrice di valori al servizio della quale poter credere in se stessa — e che ha trovato questa potenza e guida proprio in quell’idealismo inteso come manifestazione compiuta di una volontà del nulla. La scienza moderna, insomma, piuttosto che indicare all’umanità una nuova meta, che vada al di là del puro soddisfacimento del suo mero istinto di sicurezza e al di là di ogni nichilistica inquietudine, per Nietzsche rappresenta al contrario proprio «un nascondiglio per ogni sorta di malumore, di incredulità, […] di cattiva coscienza».39 Anche in essa, arpionata alla plumbea fede nel “fatto” e all’assolutezza di una verità universale e disincarnata, Nietzsche scorge dunque la manifestazione evidente di una volontà che cerca di negare l’incessante divenire temporale della differenza nel quale la vita continuamente ed inevitabilmente si manifesta. La dimostrazione di ciò sta, secondo Nietzsche, nel fatto che se si osserva con maggiore attenzione il rapporto della scienza moderna con l’ideale ascetico, si può notare che esso non è di tipo antagonistico. Anzi, la scienza moderna, a ben vedere, rappresenta addirittura la forza propulsiva all’interno di quello; difatti il suo contraddire e combattere l’ideale ascetico non si riferiscono affatto all’ideale stesso, bensì alle cristallizzazioni di questo. La scienza moderna, insomma, proprio quando crede di essere la sola antagonista capace di vincere sull’ideale ascetico attaccando le dogmatizzazioni in cui esso si fa legnoso, in realtà non fa altro che negare solo la componente essoterica di questo, affermandone e sprigionandone così il senso ed il fine recondito; quello della fede nella verità e della credenza nella sua assolutezza e bontà:

Queste due cose, scienza e ideale ascetico, sorgono sullo stesso terreno — l’ho già fatto intendere — cioè sulla stessa sopravvalutazione della verità (più precisamente: sulla stessa credenza nell’inestimabilità, nell’incriticabilità della verità), e con ciò appunto sono tra loro necessariamente alleate.40

Come, dunque, erano stati smascherati nella presunta libertà dell’idealismo filosofico, così pure nelle famose “conquiste” e “vittorie” scientifiche — al di là di quanto la scienza moderna crede — vanno rintracciati i segni della vittoria dell’ideale ascetico: perché è precisamente in quelle scoperte e in generale nel movimento della scienza tout court che il senso di quello è stato reso più pregnante ed efficace rispetto ai rozzi irrigidimenti dogmatici che ne inficiavano la forza propulsiva e la capacità di incidere.41

E ancora più in generale, è possibile affermare che ovunque lo spirito sia in opera in modo rigoroso, esso può anche fare a meno di quell’ideale, ma non della sua volontà di verità, rappresentandone così il senso profondo. Esempio emblematico di questo atteggiamento è l’ateismo, ovvero la forma che dovrebbe in apparenza combattere per definizione e vincere l’ideale ascetico, se intendiamo con questo la manifestazione d’un ideale religioso. Nell’ateismo quella volontà di verità è, certo, l’ultimo residuo di quell’antico ideale; ma, anche in questo caso, quel residuo non è altro che l’’ideale ascetico stesso — come nel caso della filosofia e della scienza — nella sua formulazione più rigorosa e significativa.42

Pure l’ateismo assoluto quindi non sta in contrasto con quell’ideale, come sembra all’apparenza: ma anzi è solo una delle sue forme conclusive, una delle sue ultime fasi di sviluppo, la decisiva fra le necessarie conseguenze di quello. Nell’ateismo, insomma, invece che sconfitto, l’ideale ascetico si manifesta nella sua forma più compiuta. Ossia nel nichilismo:

è la catastrofe, che comanda rispetto, di una bimillenaria educazione alla verità che alla fine si vieta la menzogna della fede in Dio.43

Ecco, dunque, che cosa ha realmente trionfato sulla credenza nel Dio cristiano:

la stessa moralità cristiana, il concetto della veridicità preso con sempre maggior rigore, la sottigliezza da padri confessori della coscienza cristiana, tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, nella pulizia intellettuale a qualsiasi prezzo.44

Guardare la storia come se fosse guidata da una ragione divina, venerare nella natura e nel mondo la bontà di Dio e l’ordine etico che egli ha impresso alle cose e alle azioni degli uomini: tutto ciò appartiene al passato ed appare alla volontà di verità della coscienza moderna guidata dall’ideale ascetico come la più grande menzogna mai proferita, indice di debolezza e scarsità di “salute”, intese come viltà e mancanza di coraggio.45 Il nichilismo è la catastrofe di questa scoperta, la necessaria conseguenza della rigorosa veridicità dell’ideale ascetico. In tal modo il cristianesimo come dogma è crollato, ad opera della sua stessa morale; e, Nietzsche aggiunge, anche il cristianesimo come morale — volontà di verità, onestà intellettuale — è destinato a crollare. Dopo aver, infatti, tratto la conclusione sui suoi dogmi, la veridicità cristiana necessariamente trae alla fine la conclusione più drastica, quella contro sé stessa: e ciò accade, come in Nietzsche, quando essa si chiede il significato della volontà di verità46.

In questa prospettiva, quindi, avevamo ragione di affermare in precedenza come qui si pervenga ad una autocoscienza: Nietzsche stesso riconosce che, giunti a questo punto, il suo essere — ed il nostro, per conseguenza — è definibile solamente come quello della volontà di verità che «è divenuta cosciente a se stessa come problema».47 Sarà a causa di questa autocoscienza problematica, di questa problematizzazione di sé nell’autocoscienza della propria menzogna, che crolla d’ora in poi la morale, lasciando posto alla dottrina della volontà di potenza.

4. Conclusione

Si chiude il cerchio: prescindendo dall’ideale ascetico, l’animale-uomo non ha mai avuto alcun senso nel mondo, la sua esistenza non indicava alcuna meta. Questo appunto significa quell’ideale: che l’uomo e la sua esistenza nel mondo erano insensate, e che egli soffriva nel non saper giustificare ciò, nel non poter giustificarsi ed affermare se stesso.48 In questo scenario di assurda gratuità, inoltre, la stessa sofferenza era insopportabile: ma non il soffrire in sè, quanto la mancanza di senso del soffrire rendevano questo suo dolore insopportabile. L’ideale ascetico, così, ha colmato questo vuoto offrendo a questo dolore un significato: in esso la sofferenza era interpretata ed era sventato ogni nichilismo suicida. Questa interpretazione certo portò sofferenze più atroci, profonde e corrosive; portò il soffrire stesso sotto il sistema interpretativo del concetto di colpa. Ma ciò nonostante da allora in poi l’uomo era stato salvato in quanto si era riusciti a dargli un senso.49 Egli non era più un qualcosa in balia dell’insensatezza, ormai poteva perfino volere qualcosa: era stata salvata con ciò la sua volontà stessa. Il problema è però che, in questa “redenzione” dall’assurdità del dolore, l’indirizzo dell’ideale ascetico e lo scopo della volontà da cui esso è animato portano l’umanità a sporgersi su un baratro ancor più pericoloso e privo di senso: difatti, nell’ascetismo parla l’odio per tutto ciò che è terreno, e soprattutto per tutto quanto è transeunte e in perpetuo divenire. E ancora odio per la dimensione del corporeo, e ribrezzo per i sensi, e paura della felicità e della bellezza, e condanna dell’apparenza e del divenire, e orrore per la morte che è orrore per la condizione necessaria di ogni vita; insomma, in esso a parlare è una ancor più pericolosa

volontà del nulla, un avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti più fondamentali della vita, ma essa è e rimane una volontà! … E, per ripetere in conclusione quello che ho detto all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla al non volere… .50

Lo scopo di questa volontà attraverso l’ideale ascetico sarà, precisamente, quello di promuovere una vita inibita e negativa; ossia nel favorire una vita degenerante che

contro la stanchezza, reagisce, traendo la sua forza da questa stanchezza stessa che non cessa allora di crescere, e volgendosi verso di essa per abbatterla ancora di più, le imporrà limiti supplizi e macerazioni, l’agghinderà di un alto valore morale e così a sua volta riprenderà vigore.51

Cerchiamo di inquadrare meglio questo asserzioni: esse da un lato ci dicono che l’uomo è l’animale che ha ideato la “cattiva coscienza” e altri sistemi di dominio per salvarsi nel più profondo tormento — ivi compreso l’ideale ascetico. Dall’altro, però, con questo rivolgersi di una specie animale contro di sé, contrario ad ogni istinto e principio di conservazione, non è solo nata una nuova crudeltà più profonda e spirituale, ma anche una possibilità di trasformazione del tutto inedita. L’ascesi così, come tutti gli elementi che compongono la visione morale-metafisica del mondo, si rovescia infine nel suo opposto autosuperandosi. E in questo nuovo scenario di un nichilismo più duro, “grave” e spietato, come Dio muore a causa della religiosità dei suoi fedeli, così l’ascesi, che nasce e si propaga dalla morale del risentimento, diventa anche una promessa di avvenire, opera nella direzione della liberazione dell’uomo proprio dalla pura volontà di salute, sopravvivenza e sicurezza che l’ideale ascetico aveva fornito colmando il primo vuoto nel quale l’umanità era piombata.

Solo, pertanto, attraverso la radicalizzazione di quell’ideale, della volontà di verità che ne è alla base — dall’interno della quale, ricordiamolo, sebbene sia stata promossa da un istinto di conservazione d’una vita degenerante, èuna volontà di mortea parlarci; solo perché l’uomo è divenuto, anche attraverso l’ascesi, capace di guardare al di là dei suoi interessi di conservazione, è ora, per Nietzsche, possibile la volontà di potenza affermativa, l’oltreuomo, la “grande salute”.

Quella radicalizzazione, passando attraverso la distruzione di ogni ragnatela teleologica e divina e di ogni metafisica del soggetto e dell’io, conduce alla scoperta che il mondo è volontà di potenza e che la volontà di potenza è arte, ossia pura apparenza, sopraffazione, appropriazione e rielaborazione delle apparenze (ovvero del senso e del valore di questo senso): e che il “disinteresse” radicale dell’animale-uomo è l’unico che a Nietzsche appare adeguato a caratterizzare l’esistenza, in un mondo dove non esistono fondamenti ed essenze, ma l’essere è “ridotto” a puro accadimento interpretativo:

Quando i Crociati cristiani si scontrarono in Oriente con quell’invincibile ordine degli Assassini, quell’ordine degli spiriti liberi par excellence, i cui infimi gradi vivevano in un obbedienza quale non fu mai raggiunta da alcun ordine monastico, ricevettero non si sa per quale via anche un accenno su quel simbolo, su quella parola d’ordine intagliata nel legno, che era riservata in esclusività ai gradi più alti, come loro secretum: “Niente è vero, tutto è permesso”… Ebbene, questa era libertà di spirito, con ciò era congedata la fede nella verità stessa… Si è mai già uno spirito europeo, cristiano, smarrito in questa affermazione e nelle sue labirintiche conseguenze? … conosce egli per esperienza il Minotauro di questo antro? … .52


  1. Cfr. Friedrich W. Nietzsche, Genealogia della Morale, trad. di Sossio Giametta, Bur, Milano 1997, dissert. III, cap. 27, pp. 211-212. ↩︎

  2. A queste figure Nietzsche aveva già fatto appello nella terza Inattuale intitolata Schopenhauer come educatore — lì si trattava, precisamente, del poeta, del filosofo e del santo. Ci è parso opportuno, nel presente lavoro, far notare questo “recupero” per comprendere meglio la decisiva torsione avvenuta nel percorso filosofico nietzscheano. In quello scritto, infatti, le suddette figure venivano esaltate — soprattutto il filosofo — come forze e momenti dialettici di un ipotetico percorso progressivo di potenziamento della capacità critica contro l’esistente, intesa quest’ultima — dal Nietzsche della Terza Inattuale — come l’ideale filosofico da perseguire in sé nella sua rigorosa volontà di ricerca e devozione alla verità. Completa dipendenza e amore per la verità che nella Genealogia, saranno al contrario viste come manifestazioni proprie dell’ideale ascetico nell’attività umana, che la filosofia dovrebbe piuttosto sempre di nuovo smascherare negli interstizi del suo discorso, proprio perché in esse è una volontà critica contro l’esistente a parlare — volontà di verità intesa come inesorabile giudizio negativo proiettato sul movimento della vita, di per sé invece sempre affermantesi in tutte le sue pur contraddittorie e dolorose manifestazioni. ↩︎

  3. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 1 p. 143. ↩︎

  4. È necessario indicare come le considerazioni e le valutazioni che seguono, sono state elaborate da Nietzsche molti anni dopo la composizione del libro-omaggio Richard Wagner a Bayreuth. E comunque, rispetto a quel libro, in un clima del tutto opposto poiché successivo al distacco da Wagner, all’inizio materializzatosi con l’abbandono di Nietzsche del festival di inaugurazione del teatro di Bayreuth fortemente voluto dal musicista tedesco: e poi proceduto in maniera sempre più rapida ed irrimediabile man mano che il suo filosofare porta Nietzsche su posizioni del tutto opposte rispetto a quelle del suo amico d’un tempo. ↩︎

  5. Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 3 p. 144: inoltre, per approfondire le considerazioni nietzscheane rivolte all’ideale ascetico in R.Wagner, anche alla luce di altre svolte sul concetto di redenzione nell’artista tedesco cfr. Friedrich W. Nietzsche, Il caso Wagner in Scritti su Wagner, trad. di Sossio Giametta e Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1998, p. 167-173. ↩︎

  6. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 1 p. 143. ↩︎

  7. Nietzsche al proposito ci regala delle interessanti variazioni sulla ripresa di Schopenhauer della teoria kantiana del bello, come oggetto di un piacere disinteressato, presente nella Critica del Giudizio: con ciò egli vuole mostrarci come in quel disinteresse Schopenhauer interpretò e vide quello che per lui era il più grande vantaggio e beneficio dell’esperienza estetica, ossia la possibilità per un attimo di staccarsi dalla Volontà, di liberarsi dalla tortura della sensualità e, più in generale, dalla volontà di vita; insomma, vuole mostrarci la volontà schopenhaueriana di indulgere all’ideale ascetico. Per la intera trattazione kantiana della teoria del bello cfr. Immanuel Kant, Critica del Giudizio, trad. di A. Gargiulo, rev. di V. Verra, intr. di P. D’Angelo, Laterza, Bari 2002 pp. 43-86. Per le idee estetiche di Schopenhauer cfr. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. di P. Savj Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari 2004, pp. 248-257. Per le “variazioni” nietzscheane cfr. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, pp. 149-153. ↩︎

  8. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 7 p. 155. ↩︎

  9. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 9 p. 160. ↩︎

  10. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 10 p. 163. ↩︎

  11. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 10 pp. 164-165. ↩︎

  12. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 11 p. 166. ↩︎

  13. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 11 p. 167, corsivo mio. ↩︎

  14. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 12 p. 168, corsivo mio. ↩︎

  15. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 13 p. 169. ↩︎

  16. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 13 p. 170. ↩︎

  17. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 14 p. 171. ↩︎

  18. Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 13 p. 169 dove l’ideale ascetico è definito come qualcosa che «scaturisce dall’istinto di protezione e di salvezza di una vita degenerante». ↩︎

  19. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 11 p. 167. ↩︎

  20. Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 15 p. 175 dove egli afferma «il governo dei sofferenti è il suo regno, a esso lo indirizza il suo istinto, in esso egli ha la sua arte più personale». ↩︎

  21. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 15 p. 177. ↩︎

  22. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 15 p. 178. ↩︎

  23. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 16 p. 179. ↩︎

  24. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 17 p. 185. ↩︎

  25. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 18 pp. 185-186. ↩︎

  26. E’ necessario porre in evidenza come Nietzsche, negli ultimi scritti e nei frammenti postumi dove con più rigore formula la nozione di volontà di potenza, la definisce come “affectio”, affettività; ossia come sensibilità della forza nella quale la volontà di potenza si manifesta. Cfr. Frammenti postumi 1888-89, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1974, vol. VIII, tomo III, p. 90, dove si afferma che la volontà di potenza «è la forma affettiva primitiva» e che «non è un essere, non un divenire, ma un pathos» (ibid., p. 50). Oppure cfr. Frammenti postumi 1884-85, in Opere, cit., nt. 26, vol. VII, tomo III, p. 180, dove Nietzsche annota che «il fatto fondamentale è questo […] — per manifestarsi, questa volontà di potenza deve percepire le cose da essa attirate […] essa sente, quando qualcosa le si avvicina, che ciò è a essa assimilabile». ↩︎

  27. Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 18 p. 187. ↩︎

  28. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 20 p. 191. ↩︎

  29. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 20 p. 191. ↩︎

  30. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. II, pp. 125-136. ↩︎

  31. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 20 p. 193. ↩︎

  32. Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, trad. di Fabio Polidori, Feltrinelli, Milano 1992, p. 196. Cfr. anche ibid., p. 212, dove Deleuze conclude la sua analisi della moralizzazione del concetto di colpa osservando come «l’idea cristiana di “remissione” non implica una liberazione dal debito bensì un sua radicalizzazione; il dolore non paga altro che gli interessi del debito, incatenandoci ad esso e facendoci sentire debitori in eterno: il dolore è interiorizzato, la responsabilità-debito è diventata responsabilità-colpa». ↩︎

  33. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 20 p. 193. ↩︎

  34. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 21 pp. 194-195. ↩︎

  35. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 23-24 pp. 200-202. ↩︎

  36. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 24 p. 203. ↩︎

  37. Friedrich W. Nietzsche, La Gaia scienza e Idilli di Messina, trad. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 2001, Libro V, § 344, p. 255, corsivi miei. ↩︎

  38. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 24 p. 204. ↩︎

  39. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 23 p. 200. ↩︎

  40. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 25 p. 205. ↩︎

  41. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 25 pp. 206-207. ↩︎

  42. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 25 pp. 212. ↩︎

  43. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 27 p. 212. ↩︎

  44. F. Nietzsche, La Gaia scienza e Idilli di Messina, cit., nt. 37, libro V, § 357, p. 280-281. ↩︎

  45. Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, in Opere, cit., nt. 26, vol. VII, tomo II, p. 132, corsivi miei: «La suprema misura di vigore è data da quanto uno può continuare a vivere sulla base di ipotesi, lanciandosi per così dire su di un mare infinito, invece che sulla base di una “fede”. Tutti gli spiriti inferiori periscono». ↩︎

  46. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 27 p. 213. ↩︎

  47. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 27 p. 213. ↩︎

  48. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 28 p. 214. ↩︎

  49. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 28 p. 214. ↩︎

  50. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 28 p. 215. ↩︎

  51. Micheal Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia in M. Foucault, Microfisica del potere: interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 51. ↩︎

  52. F. Nietzsche, Genealogia della Morale, cit., nt. 1, dissert. III, cap. 24 p. 202. ↩︎