Alla riscoperta di Vladimir Jankélévitch: un filosofo davanti al male

Il nostro breve saggio si propone di ricordare la figura di Vladimir Jankélévitch, un filosofo che, pur avendo scritto molto e pur essendo stato ammirato dai suoi contemporanei (colleghi e studenti), è stato, a torto, quasi completamente dimenticato.

È molto difficile inserire il pensatore all’interno di una corrente filosofica del Novecento, la sua produzione infatti, con i suoi concetti e le sue categorie, non è catalogabile in nessun movimento. Ad ogni modo, come vedremo, abbiamo considerato Jankélévitch (anche se quest’ultimo non avrebbe probabilmente gradito né questa né nessun’altra etichetta) un esistenzialista nel senso più generale del termine, poiché la sua ricerca è indiscutibilmente e profondamente umana: senza avere la pretesa di affermare delle verità assolute sull’uomo, egli si è proposto da sempre di approfondirne la natura e la condizione.

Ci sembra interessante fare un parallelismo con Heidegger, i due filosofi infatti, pur approdando a conclusioni differenti, partono da una stessa premessa, vale a dire la morte. Jankélévitch pertanto accoglie gli esistenziali del pensatore tedesco, ma ne fa un uso diverso: l’esperienza e la consapevolezza della morte (la decisione anticipatrice) non è la possibilità attraverso la quale l’Esserci (Dasein) decide di se stesso e si apre al suo poter-essere autentico (si sottrae alla deiezione, alla dispersione nel “si” impersonale, si sottrae all’esistenza inautentica), ma è la possibilità attraverso la quale si apre al prossimo ed assume su di sé la responsabilità; l’essere-per-la-morte diventa dunque l’essere-per-l’altro, l’essere-per-l’amore. In definitiva l’analitica esistenziale di Jankélévitch non è la premessa ad una analitica dell’essere, ossia ad una ontologia, ma è la premessa ad un’etica, un’etica incentrata sul valore assoluto ed irriducibile della persona, un’etica lontana dal nichilismo e dal solipsismo, in cui la libertà non è un gioco gratuito, non è fine a se stessa, ma si traduce, al contrario, in una trama di relazioni sociali concrete.1

1. La morte

Per tutti i motivi suddetti la morte va affrontata con serietà. Chi è serio, afferma il filosofo, non si lascia prendere di fronte ad essa dal terrore che blocca e paralizza l’azione condannando l’uomo ad un’esistenza priva di passioni, e non si abbandona nemmeno ad una speranza chimerica, come se essa non lo riguardasse (il sogno dell’immortalità) o rappresentasse l’inizio di un’altra vita (la fede nell’eternità). Egli si tiene ugualmente distante sia dalla paura sia da una folle consolazione e vive tutto il dinamismo dell’avventura: sa cogliere la bellezza delle cose senza aspettare che esse siano scomparse; sa percepire il momento, l’attimo, vederne la pienezza e goderne l’intensità fino in fondo e, soprattutto, sa mostrare vero interesse per il suo prossimo, ed in questo modo riesce a dare un senso alla propria vita.

A questo punto, se la formula della disperazione è “Mors certa, hora certa”; quella dell’angoscia è “Mors certa, hora certa sed ignota” e quella della speranza è “Mors incerta, hora incerta”, quella di una coscienza seria, al contrario, è “Mors certa, hora incerta”. In quest’ultimo caso, la disparità tra una certezza (la necessità della morte) ed una incertezza (la data della morte) è ciò che dona alla nostra esistenza l’impeto, lo scatto, l’impulso necessari per agire: è proprio l’ignoranza in cui ci troviamo rispetto al giorno della dipartita a far respirare la vita e a rendere più lieve la preoccupazione della fine inevitabile; se la necessità immobilizza l’uomo, l’incertezza stimola e muove la sua iniziativa. Mentre il fatto di morire è una verità conosciuta ma fuori dal nostro potere, la data, al contrario, è sconosciuta ma nelle nostre mani, ossia dipende da noi, dalla nostra alimentazione, dall’igiene, dalla moderatezza, in altre parole, da uno stile di vita salutare. Da una parte quindi abbiamo una conoscenza impotente, dall’altra un potere ignorante, e tutto ciò esprime e rappresenta la finitudine umana. La morte, quindi, si configura come l’organo-ostacolo dell’essere, vale a dire è allo stesso tempo il mezzo per essere e l’impedimento ad essere; essa determina e definisce la vita e contemporaneamente la finisce e nega. Una negazione pertanto che paradossalmente afferma la vita: il non-senso (la morte) dà senso all’esistenza negando questo senso.

Jankélévitch, dunque, contro una cultura che, in nome di una presunta eternità, di una presunta rivincita e di un presunto riscatto in un’altra vita, ci ha abituati a vedere gli esseri come essenze ideali, imperiture, immortali, e proprio per questo manipolabili, ossia ci arroghiamo il diritto di aggredirli e di distruggerli, egli, al contrario, ci indica un’altra prospettiva, quella della morte: nel momento in cui scompare ogni Aldilà, ogni speranza e consolazione, ossia nel momento in cui comprendiamo che gli uomini sono irrimediabilmente precari, allora ai nostri occhi essi diventano infinitamente preziosi, si apre così la possibilità di una vera cura e protezione dell’altro. Da questo punto di vista la persona è semelfattiva,2 cioè unica ed irripetibile, pertanto se l’essere muore, il fatto-di-essere-stato è ineliminabile, inalienabile: ciò significa che se da una parte l’irreversibilità della morte impedisce la sua resurrezione, la sua rinascita, dall’altra impedisce la sua nichilizzazione.3

2. La morte come apertura all’amore

La morte quindi apre la strada ad una morale basata su un principio chiaro: la preferibilità dell’essere. Questo principio, ed in generale la virtù, non si riduce però all’attimo, ad un solo momento, ma richiede costanza, sforzo, impegno, in una parola richiede dovere. Ad esempio, quando si discute di un uomo coraggioso, non si discute di un uomo che ha compiuto un singolo atto di eroismo, ma di uno stile, di un’attitudine spirituale che lo fa essere coraggioso sempre. Per questo motivo Jankélévitch non parla tanto di morale, intesa come concetto, idea, sistema filosofico, ma parla più che altro di moralità, di esperienza vissuta: la filosofia deve unire il sapere ed il fare e perciò la morale deve essere detta ed allo stesso tempo fatta. Pertanto la moralità jankélévitchiana non è pura esteriorità, non è vuota e formale enunciazione di imperativi ed obblighi precostituiti, ma, al contrario, essa è una scelta di vita intensamente e profondamente vissuta; è dono di sé, eroico sacrificio, bontà, generosità senza ricompensa, in sostanza è amore senza la preoccupazione di essere ricambiato.4

L’amore è proprio il secondo tema che vogliamo affrontare. Esso esclude quella che Jankélévitch chiama prosopolessia, ossia l’inganno che consiste nel dare importanza alla maschera, all’apparenza superficiale, all’aspetto, in altre parole al personaggio. In virtù di ciò l’amore deve essere immotivato ed incondizionato, ossia deve tener conto solo dell’essenza, della sostanza, dell’umanità: non si ama l’uomo in quanto questo o quello, ma si ama l’uomo puro e semplice, senza nessuna caratteristica o particolarità, senza quatenus (in-quanto-che). Il paradosso dell’amore e dell’etica consiste pertanto in un’abnegazione totale che non ha né causa, né motivazione razionale ed utilitaristica: se per il senso comune è normale amare il prossimo per i suoi meriti e per i suoi titoli, è invece paradossale amarlo spogliato di tutto ciò, nella sua nudità. Questo amore, dunque, ama l’ominità dell’uomo, ama il genere umano, la persona in generale, ed è veramente tale solo a patto di non tollerare la minima eccezione: un’unica e minuscola anomalia basta ad aprire una crepa attraverso la quale può insinuarsi il razzismo, in principio in maniera moderata e spesso ambigua, per poi degenerare in segregazione razziale. La più piccola eccezione quindi, va “respinta come assurda e contro-natura; essa è un grave insulto all’uomo, una minaccia mortale per tutti gli uomini”.5

L’amore inoltre prevede un ulteriore paradosso, ossia esso richiede, se necessario, il sacrificio della propria vita. Se il primo consiste nell’amare l’altro senza una ragione ed un perché, il secondo consiste nell’amare fino allo sradicamento di se stesso, rifiutando ed ignorando l’avverbio hactenus, che significa: fin qui, ma non oltre; fino a questo punto, ma non più lontano. In altre parole, il sacrificio cancella i confini, l’amante rompe gli argini del proprio essere e va al di là di se stesso: attraverso un gesto di per sé incomprensibile, egli realizza la sua suprema libertà, ossia affronta la morte senza paura. Va detto comunque che l’amante pur assumendo su di sé la possibilità del sacrificio tende a rimanere in vita per dedicarsi ancora all’esistenza degli altri e tutto ciò, contrariamente ad ogni nichilismo suicida, presuppone dei valori e delle ragioni di vita più sublimi della vita stessa; egli “rinuncia all’essere per accedere, nella luce dell’amore, a un super-essere”.6 In questo modo l’amante raggiunge un equilibrio ottimale tra il proprio amore ed il proprio essere, essere che coincide con il suo ego ed il suo egoismo: al di là dell’amore senza essere, ossia dell’amore puro che dilegua in fumo,7 ed al di là dell’essere senza amore, ossia dell’essere puro che non è altro che un mostro, un cadavere, egli riesce a far coincidere gli opposti, vale a dire il massimo etico (l’amore) ed il minimo ontico (l’essere), ed arriva ad affermare questa formula: «il più amore possibile per il meno essere possibile».8

Infine ricordiamo che quest’amore teorizzato da Jankélévitch è alla base del perdono, un perdono pertanto assoluto che arriva a perdonare anche l’odio più cieco ed ostinato. Questa posizione però, come vedremo, sarà abbandonata di fronte all’orrore indicibile della Shoah.

3. Il male

Il terzo argomento che vogliamo affrontare è il male. Jankélévitch afferma che l’uomo è una creatura intermedia incline alla mediocrità poiché si trova ad innescare la legge della valanga che comporta il reciproco alimentarsi di due mali: il male dovuto alla volontà umana, il male dello scandalo, si unisce infatti al male dell’imperfezione metafisica, ossia il male dell’assurdo.

La malvagità umana, dunque, si aggiunge al disordine universale ed allo stesso tempo lo moltiplica e lo accresce. Il mal volere dell’uomo, o se preferiamo la sua cattiveria, dipende dall’egoismo, dall’avidità, dalla pleonessia, vale a dire dal desiderio che spinge ad accumulare beni, a porre l’avere al di sopra dell’essere, e soprattutto dipende dal desiderio e dalla volontà di far soffrire il prossimo. Quest’ultimo aspetto caratterizza la malvagità pura che non ha mai cause empiriche, ossia non è mai fondata, giustificata e motivata: il malvagio odia qualcuno non perché questo qualcuno lo ha offeso od infastidito, ma odia l’altro perché è lui, il suo odio si rivolge all’essenza, all’ipseità dell’altro. Il problema è che il malvagio, pensiamo ai nazisti, non vuole riconoscersi come tale e quindi cerca di dare delle ragioni ideologiche al suo odio colpevolizzando la persona odiata: si arriva così all’atroce paradosso secondo cui il colpevole non è colui che odia, senza una benché minima motivazione reale e razionale, ma colui che è odiato e magari perseguitato sadicamente.

Il male dello scandalo pertanto non fa altro che amplificare e raddoppiare il male già esistente, cioè quello che precede la volontà. Ad esempio le guerre, frutto della malvagità umana, si aggiungono ai mali fatali, ai doni indesiderabili del destino, come le malattie e le catastrofi naturali, e l’ironia, il paradosso sta in questo: il male dello scandalo spesso corrompe quel che il male dell’assurdo non ha corrotto; gli uomini distruggono ciò che i terremoti ed i virus avrebbero casualmente risparmiato.

Ma esiste una via d’uscita? Senz’altro. L’uomo può intraprendere la via dell’innocenza, l’unica che lo sottrae alla confusione e alla mediocrità. L’innocenza non accetta il dialogo con la tentazione (l’apparenza e la vanità delle cose) e con la possibilità della colpa; rifiuta la cattiva volontà che vuole il male e sceglie di volere il bene. Se il malvagio è tanto vile da prendere a pretesto la necessità del male (il male dell’assurdo), ossia se è tanto vile da peccare sentendosi autorizzato dal destino, l’innocente, al contrario, pur conoscendo la necessità, non si sente affatto legittimato a peccare. La saggezza, quindi, ci indica chiaramente la strada: bisogna rassegnarsi all’Assurdo, ma contro lo Scandalo bisogna invece protestare e combattere.

Poi Jankélévitch sottolinea che colui che cade in tentazione, colui che sceglie il male, lo sceglie liberamente senza nessun tipo di costrizione. Il filosofo rifiuta la concezione secondo la quale il male sarebbe qualcosa di essente, un principio eterno, una sostanza, un demone esterno all’uomo (il male non è mai esogeno), esso, al contrario, è sempre interno all’uomo (il male è sempre endogeno), dipende unicamente dalle libere e molto spesso scandalose intenzioni umane (la cattiva volontà). In definitiva il mito dell’invincibilità della tentazione si rivela totalmente falso, è semplicemente il frutto della debolezza, della capitolazione, della deresponsabilizzazione e della rinuncia alla lotta. L’uomo può sempre tutto contro la tentazione e può sempre vincerla.

Ad ogni modo colui che compie il male, afferma Jankélévitch, è privo di amore, quindi, in lui, si apre una frattura tra l’io e la coscienza, ossia tra l’io e gli imperativi morali (il legame invece implica l’innocenza). Quando la frattura è radicale il colpevole si compiace di se stesso e della propria cattiveria, quando invece essa non è totale allora quest’ultimo prova rimorso, emerge pertanto la cattiva coscienza, o se preferiamo la coscienza morale. Nel momento in cui il soggetto prova senso di colpa deve affrontare un grosso problema, vale a dire l’irrevocabilità dell’azione malvagia. Egli, attraverso una vera espiazione, contrizione e disperazione (non deve intravedere la possibilità del perdono!), può annichilire, annullare gli effetti e le conseguenze della propria colpa, ma non può nichilizzare la sua essenza; può cancellare la cosa fatta, ma non il fatto-di-aver-fatto, il suo aver-avuto-luogo. Nel primo caso siamo nel campo del possibile, del probabile, nel secondo, invece, siamo nel campo dell’impossibile, della pretesa metafisica, della grazia divina, del miracolo soprannaturale. Pertanto le colpe, anche se riparate e compensate, si iscrivono in caratteri indelebili nella coscienza individuale. Per i carnefici ed i persecutori la verità del principio di non-contraddizione è tragica: non si può allo stesso tempo aver fatto e non aver fatto, non si può contemporaneamente affermare l’essere e il non-essere.

Comunque è proprio dalla sofferenza che deriva dall’incancellabilità della colpa che l’uomo può intraprendere un processo di redenzione e di rinascita: rifiutando la degenerazione e l’anestesia morale, ossia le occasioni del male, egli può aprirsi alle ragioni del bene, alla pratica delle virtù. La pratica delle virtù, però, richiede costanza e sforzo incessante, infinito, e richiede dinamismo. La moralità infatti, come accennavamo all’inizio, non deve immobilizzarsi e cristallizzarsi nel formalismo dei codici etici: la fedeltà ad un imperativo non può essere grammaticale, ossia aderente alla lettera e perciò statica ed immodificabile, ma deve essere pneumatica, vale a dire spirituale, una fedeltà capace di evolvere e cambiare in base alle necessità ed alle situazioni che di volta in volta si presentano davanti a noi mettendoci alla prova.9

4. Di fronte all’orrore dei campi di sterminio

In quest’ultima parte ci teniamo ad affrontare l’esperienza del filosofo di fronte al nazismo. Nel 1964 il parlamento francese votò a favore dell’imprescrittibilità dei crimini hitleriani e la decisione accese un dibattito tra chi era a favore e chi era contro la risoluzione. In questa discussione entrò anche Jankélévitch il quale prese fin da subito una posizione netta contro qualsiasi tipo di prescrizione, una posizione che confermerà con forza nel 1971 nel suo scritto Perdonare?.

Jankélévitch afferma che i crimini nazisti sono crimini eccezionali sotto tutti i punti di vista, eccezionali per la loro enormità e per il loro incredibile sadismo. Essi sono stati crimini contro l’umanità, ossia crimini contro l’essenza umana, contro quella che il filosofo chiama l’ominità dell’uomo in generale. I tedeschi, alimentati da un cieco antisemitismo, hanno colpito l’ebreo non in quanto avversario politico o ideologico, in quanto comunista o massone, a causa della sua fede o delle sue opinioni, ma hanno colpito l’ebreo in quanto uomo, perché ebreo; i tedeschi non hanno

voluto distruggere, per essere esatti, delle credenze giudicate erronee né delle dottrine considerate perniciose: è l’essere stesso dell’uomo, l’Esse, che il genocidio razzista ha tentato di annichilire nella carne dolente di questi milioni di martiri. […] Non si rimproverava loro [agli ebrei] di professare una particolare idea, si rimproverava loro di essere.10

I nazisti, quindi, mossi da una malvagità puramente gratuita, una malvagità che non ha pari nella storia, si sono macchiati di un crimine contro natura, un crimine ontologico perché diretto contro l’essere stesso dell’uomo. Prescrivere o addirittura perdonare questa tragedia senza precedenti in nome della morale significherebbe contraddire ed insultare la morale stessa. La Shoah, pertanto, è imperdonabile, irreparabile ed inespiabile, non si può infatti nemmeno punire il criminale con una punizione proporzionata, adeguata al suo crimine: in questo caso la punizione diventa quasi indifferente.

Jankélévitch poi tuona con rabbia contro chi paragona l’Olocausto agli orrori della guerra in generale, ad un caso particolare della barbarie umana, tentando in questo modo di banalizzare perversamente il carattere eccezionale ed unico del genocidio. Ma Auschwitz, dice il filosofo, non si paragona a niente: non solo perché niente equivale a niente, ma soprattutto perché nessun evento equivale ad Auschwitz; lo sterminio è un abominio incommensurabile. Bisogna essere chiari: Auschwitz non è un’atrocità di guerra, ma è un’opera di odio, un odio inconcepibile ed inesplicabile. Nulla ha mai avuto il suo carattere sistematico, metodico, selettivo, razionale, scientifico e burocratico. Lo sterminio degli ebrei non fu, come altri massacri, una fiammata di violenza: esso è stato dottrinalmente giustificato, filosoficamente spiegato, sistematicamente preparato e perpetrato; esso è l’applicazione di una teoria dogmatica che esiste ancora e che si chiama antisemitismo. La carneficina di sei milioni di ebrei, quindi, è un crimine studiato nei suoi minimi particolari e dettagli, un crimine di cui gran parte del popolo tedesco è più o meno responsabile. L’industria della tortura e della morte, infatti, non avrebbe mai potuto funzionare senza lo zelo, la complicità ed il silenzio compiacente di migliaia di tedeschi comuni.

Ma agli occhi di Jankélévitch i tedeschi si sono macchiati di una seconda colpa: quella di non aver mai chiesto perdono. Il loro pentimento è semplicemente un pentimento militare per gli errori commessi in guerra che hanno portato alla sconfitta, o un pentimento economico in nome degli affari, oppure un pentimento politico in nome della ragion di Stato. In questo caso la vera contrizione non c’entra affatto, in questo caso il carnefice non riesce a suscitare compassione poiché egli non è mai stato capace di riconoscersi e dichiararsi colpevole senza se e senza ma, senza riserve e senza circostanze attenuanti.

Noi — dice il filosofo con forte coinvolgimento personale — abbiamo aspettato a lungo una parola di comprensione e di simpatia… L’abbiamo sperata questa parola fraterna! Certo, non ci aspettavamo che si implorasse il nostro perdono… Ma una parola di comprensione l’avremmo accolta con gratitudine, con le lacrime agli occhi.11

Il dito viene poi puntato su tutti quegli intellettuali tedeschi rei di non aver mai compiuto un gesto solenne di riparazione o di condanna verso un passato esecrabile segnato dall’indegnità e dall’infamia morale. La sua invettiva è ancora categorica:

tutta la Germania, la sua gioventù, i suoi pensatori, hanno tutti sfiorato la più orribile tragedia della storia; non hanno nessun rapporto con i milioni di sterminati senza sepoltura, nessun modo di pensare questa catastrofe; non si sentono affatto colpevoli, né si riconoscono alcun torto. Evidentemente il loro «esistenzialismo», come dicono, non arriva fin qui. Perché dovremmo perdonare coloro che si pentono così poco e così raramente dei loro misfatti?12

Lo sfogo si rivolge infine a tutti gli ex collaborazionisti in cattiva fede che in maniera viscida ed ipocrita sollecitano i sopravvissuti a concedere un perdono che gli assassini non hanno mai chiesto. Ma perché, si chiede Jankélévitch, dovrebbero essere i sopravvissuti a perdonare al posto delle vittime e dei loro familiari? Il dovere di chi è rimasto in vita non è quello di perdonare in nome dei milioni di innocenti trucidati, ma è quello di risentire in maniera inesauribile. Risentire, però, non vuol dire risentimento, rancore e desiderio di vendetta, come affermano vergognosamente e volgarmente gli avvocati della prescrizione e dell’oblio, ma vuol dire provare orrore, orrore insormontabile per quello che è successo, per coloro che hanno prodotto e perpetrato il male, per coloro che lo hanno accettato con zelo od ignorato vigliaccamente. Risentire, in definitiva, significa combattere per non dimenticare mai l’indicibile tragedia della Shoah. Cancellare la memoria infatti, significherebbe insultare ed uccidere una seconda volta le vittime torturate ed assassinate per mano della furia nazista.

Vogliamo ricordare le toccanti parole di Jankélévitch che dovrebbero emozionare e riecheggiare nella coscienza di ogni uomo degno di questo nome:

il ricordo di ciò che è accaduto è in noi indelebile, indelebile come il tatuaggio che i reduci dai campi portano ancora sul braccio. Ogni primavera gli alberi fioriscono ad Auschwitz, come dappertutto; perché l’erba non è stanca di crescere in queste campagne maledette; la primavera non distingue fra i nostri giardini e questi luoghi di inesprimibile miseria. Oggi, quando i sofisti ci raccomandano l’oblio, noi mostreremo con forza il nostro muto e impotente orrore davanti ai cani dell’odio; penseremo intensamente all’agonia dei deportati senza sepoltura e dei bambini che non sono tornati. Perché questa agonia durerà fino alla fine del mondo.13

A questo scritto appassionato ed a tratti feroce rispose Jacques Derrida.14 Se Jankélévitch afferma che il perdono è impossibile quando il crimine supera i limiti umani,15 Derrida, al contrario, ritiene che il perdono è tale solo se perdona l’impossibile: rifacendosi al primo Jankélévitch egli parla di un’etica iperbolica, un’etica al di là dell’etica. Il perdono, dunque, va concesso laddove questo non è né domandato né meritato, senza pentimento e redenzione, va concesso addirittura per il peggiore dei mali radicali. In definitiva per il filosofo francese, da una parte vi è il perdono puro, incondizionato, gratuito, totale ed unilaterale, senza reciprocità e senza nessuna forma di contrizione e riparazione; dall’altra vi è il perdono impuro e condizionato tramandato dalla tradizione, accordato solo se domandato in seguito al riconoscimento della colpa. Da un lato pertanto il perdono viene concesso al colpevole in quanto colpevole, dall’altro, invece, in virtù dell’espiazione, il peccatore subisce una trasformazione e perciò non è più il colpevole ma già un altro, migliore del colpevole. In questo modo non si perdona più il criminale in quanto tale, ma una persona assolutamente diversa. Il vero perdono, sostiene Derrida, deve perdonare la colpa ed il colpevole in quanto tali, laddove entrambi restano come un male capace di ripetersi senza trasformazione e senza miglioramento, in definitiva, un perdono degno di questo nome deve perdonare l’imperdonabile.

Possiamo dire che la posizione di Derrida è senz’altro corretta ed inappuntabile da un punto di vista teoretico e concettuale, egli infatti afferma che il perdono è realmente tale solo se perdona l’impossibile. Quest’ultimo, però, non sembra tener conto del caso concreto, la Shoah, finendo così per generalizzare ed universalizzare un evento di tale portata, un evento senza precedenti. Siamo convinti che lo sterminio pensato, studiato, attuato e perpetrato dalla Germania nazista abbia abbattuto tutti i limiti umani, quei limiti che, a nostro avviso, vanno proprio a definire l’umanità dell’uomo. Al di là di essi infatti non esiste nessuna presunta superominità capace di trasformare e creare, ma solo una disumanità in grado solo di distruggere, e di fronte alla sua devastazione e desolazione ogni perdono si fa, parafrasando Jankélévitch, moralmente inaccettabile.

In conclusione vogliamo esprimere la convinzione che sarebbe opportuno riscoprire, conoscere e studiare un filosofo assolutamente affascinante e profondo, la cui voce, crediamo, rappresenta ancora oggi un monito morale essenziale per affrontare i tempi presenti e quelli che verranno.


  1. Per un approfondimento vedere: G. Battista Vaccaro Ontologia e etica in Vladimir Jankélévitch, Longo Editore Ravenna, Ravenna 1995. ↩︎

  2. Termine coniato da Jankélévitch che sta ad indicare che l’essere è, esiste una sola volta (dal latino semel, “una sola volta”). ↩︎

  3. Per un approfondimento vedere: Vladimir Jankélévitch La morte, Einaudi, Torino 2009 e Vladimir Jankélévitch Pensare la morte?, RaffaelloCortinaEditore, Milano, 1995. ↩︎

  4. Vedere Antonio Delogu Jankélévitch, un grande moralista introduzione al testo di Vladimir Jankélévitch Corso di filosofia morale 1962-1963, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007. ↩︎

  5. Vladimir Jankélévitch Il paradosso della morale, Hopefulmonster, Firenze 1987, pag. 62. ↩︎

  6. Ivi, pag. 171. ↩︎

  7. “L’amante purissimo muore di purezza, e la sua stessa purezza lo rende incapace di amare” (Ivi, pag. 153). ↩︎

  8. Ivi, pag. 108. ↩︎

  9. Per un approfondimento vedere: Vladimir Jankélévitch Il male, Marietti, Genova-Milano 2003 e Vladimir Jankélévitch La cattiva coscienza, Dedalo, Bari 2000. ↩︎

  10. Vladimir Jankélévitch Perdonare?, La Giuntina, Firenze 2004, pag. 16. ↩︎

  11. Ivi, pag. 41. ↩︎

  12. Ibidem. ↩︎

  13. Ivi, pag. 50. ↩︎

  14. Per un approfondimento vedere: Jacques Derrida Perdonare, RaffaelloCortinaEditore, Milano 2004 e Jacques Derrida Il secolo e il perdono in Bruno Moroncini La lingua del perdono, Filema, Napoli 2007. ↩︎

  15. Hannah Arendt sostiene la stessa tesi: “quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire. Come le vittime delle fabbriche della morte o degli antri dell’oblio non sono più << umane >> agli occhi dei loro carnefici, così questa nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana”. Hannah Arendt Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1991, pag. 178.La Shoah pertanto è un crimine al di fuori di ciò che è umano e di conseguenza non può essere né punito né perdonato. In sostanza sia la filosofa che Jankélévitch sottolineano la correlazione, la simmetria, la proporzionalità tra la possibilità di punire e la possibilità di perdonare. ↩︎