La Rivolta secondo Camus

Ricordare Camus vuol dire ricordare una delle figure più influenti della cultura del Novecento. Il Camus che vogliamo prendere in esame non è però quello più noto, ossia lo scrittore de Lo straniero o de La peste, bensì il filosofo, il pensatore ed il commentatore politico. Mezzo secolo fa le sue posizioni suscitarono numerose polemiche ed attirarono le antipatie e le critiche di gran parte del mondo culturale francese ed europeo. Oggi però, a distanza di tempo, si può, rileggendo i suoi testi, affermare la grande attualità e l’assoluta lungimiranza delle sue idee e delle sue tesi filosofiche e politiche.

L’opera più avversata e discussa ma allo stesso tempo maggiormente dimenticata, più o meno consciamente, è L’uomo in rivolta (1951), il suo secondo saggio filosofico dopo Il mito di Sisifo. Questa è un’opera che, con grande passione, riflette e cerca di comprendere la tragedia del suo tempo. La prima metà del Novecento infatti è un’epoca che schiavizza, disumanizza ed uccide settanta milioni di esseri umani, un’epoca che non può semplicemente essere giudicata, essa va compresa in tutta la sua colpevolezza, nella sua follia, a volte lucida e razionale, altre volte obnubilata ed irrazionale.

Se nei tempi passati in cui il tiranno metteva a ferro e fuoco una città per la sua gloria, in cui il nemico veniva gettato alle belve davanti ad un popolo assetato di sangue, festante per spettacoli macabri e raccapriccianti, il giudizio era fermo e saldo, nei tempi dei campi di concentramento, dei campi di schiavi sotto la bandiera della libertà in cui i massacri vengono giustificati dall’«amore» per l’uomo o dal sogno di una super-umanità, il giudizio perde la propria fermezza, perde le proprie coordinate; nell’epoca dei pazzi esso è confuso, semplicemente disarmato. Se nel Mito di Sisifo l’assurdo appartiene alla dimensione individuale, ora esso si espande fino ad abbracciare la collettività, tutta la società.

Ma il senso dell’assurdo non può essere passivo, poiché, quando esso si traduce nell’inazione, rende l’omicidio indifferente e quindi possibile. Se non si crede in nulla e nulla ha senso, non si può affermare alcun valore, tutto allora è giustificato e l’assassino non ha né torto né ragione. Non vi è più alcuna differenza tra l’atto che porta ad accendere i forni crematori o ad aprire le bombole dello Zyklon B e quello che porta alla cura dei malati e dei sofferenti, «malizia e virtù sono caso o capriccio».1

In questo universo contraddittorio si può criticare l’imperfezione degli uomini ed allo stesso tempo accettare l’omicidio altrui; in questo universo privo di un valore superiore che orienti l’azione, non è possibile distinguere tra ciò che è vero e falso, tra ciò che è buono e cattivo, l’unica norma vigente è quella dell’efficacia, ossia la legge del più forte. Gli uomini a questo punto non si dividono più in giusti ed ingiusti, ma in padroni e servi e l’omicidio trova un posto privilegiato.

Tutto ciò è inaccettabile, ed è per questo motivo che il senso dell’assurdo deve essere attivo. Nel momento in cui una persona grida di non credere in nulla, non può dubitare del suo grido, non può dubitare della sua protesta, della sua rivolta, la prima e sola evidenza all’interno dell’esperienza assurda.

Di fronte al caos, allo spettacolo dell’irragionevolezza, ad una condizione ingiusta ed incomprensibile, la rivolta nel suo generoso slancio rivendica l’ordine, l’unità. A questo punto subentra l’azione, un’azione che può anche portare ad uccidere, allora il tentativo di Camus è cercare di capire se, senza aspirare ad un’impossibile innocenza, «essa possa scoprire il principio di una colpevolezza ragionevole».2

1. Il senso della rivolta

Ma chi è l’uomo in rivolta? Qual è il senso del suo rivoltarsi? L’uomo in rivolta è l’oppresso che ad un certo punto respinge l’ordine umiliante del suo superiore, è colui che tenta di liberarsi dal giogo che lo tiene in stato di schiavitù. Lo schiavo rifiutando la propria mortificante condizione, esige rispetto, un rispetto che per lui diviene il sommo bene, preferibile alla vita stessa.

Se prima egli era adagiato in un compromesso, ora si getta di colpo e senza esitazione nel Tutto o Niente. A questo punto l’uomo in rivolta vuole essere tutto, ossia identificarsi totalmente con quel bene di cui ha preso coscienza, essere riconosciuto e considerato nella propria persona, o niente, ossia perire sotto la dominazione che lo tiene soggiogato. Alla propria libertà negata preferisce di gran lunga la morte. «Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio».3

Se l’uomo in rivolta accetta questo supremo sacrificio è perché crede in un bene trascendente il proprio destino, difende un diritto, negato, che egli pone al di sopra di sé. «Agisce dunque in nome di un valore, ancora confuso, ma che avverte, almeno, di avere in comune con tutti gli uomini».4

E questo valore preesistente ad ogni azione si scontra e contraddice le filosofie puramente storicistiche che pongono il valore alla fine della storia, senza avere la certezza del suo raggiungimento. L’analisi della rivolta conduce, secondo Camus, al sospetto che esista una natura umana, come pensavano i Greci, e contrariamente ai postulati del pensiero contemporaneo. Se ci si rivolta infatti è per preservare qualcosa che è in noi, per preservare l’essere nella sua permanenza e determinatezza: il ribelle cerca di difendere ciò che l’uomo ed il mondo sono. Lo schiavo quindi insorge per tutte le esistenze, nel momento in cui esige per sé rispetto, lo esige nella misura in cui s’identifica con una comunità naturale.

Inoltre la rivolta non nasce soltanto nello schiavo, essa può nascere anche in colui che osserva l’oppressione, in questo caso vi è un’identificazione con la vittima. Ma questa identificazione non è necessariamente una immedesimazione psicologica, attraverso la quale lo spettatore si mette e si sente al posto dell’oppresso, essa può significare che lo spettatore non tollera offese che lui stesso ha ricevuto senza rivoltarsi. Nella rivolta dunque «l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica».5 E soltanto in nome di questa solidarietà la rivolta è autorizzata e giustificata, qualora quest’ultima andasse a distruggere il legame tra gli uomini, non sarebbe più degna di questo nome e finirebbe per coincidere con l’assassinio cieco. La rivolta pertanto deve rimanere fedele alla sua primitiva nobiltà, al limite che scopre in sé stessa, non deve per stanchezza o pazzia trasformarsi in tirannia.

In definitiva, se nella sua solitudine l’uomo è straniero e soffre individualmente, nella rivolta egli trova il primo valore, la solidarietà, si sente parte di un noi, si sente parte della realtà umana. Camus dà allora alla rivolta un’interpretazione ontologica: per essere l’uomo deve rivoltarsi, senza la rivolta egli non è. Da ciò Camus trae un nuovo cogito, «mi rivolto, dunque siamo».6

Ma cosa distingue la rivolta dalla rivoluzione? Non si può rispondere a questo interrogativo senza prima aver introdotto la rivoluzione contemporanea per eccellenza: quella del 1917. Lo «scandalo» de L’uomo in rivolta sta proprio nel fatto che un uomo di sinistra e antifascista come Camus abbia denunciato senza ipocrisie e senza mezze parole le devianze della Rivoluzione Russa e i crimini del comunismo sovietico.

L’analisi del filosofo francese parte da Marx, passa per Lenin ed arriva a Stalin. Ma, si badi bene, egli non vuole e non pretende di dimostrare, come gli rimproverarono alcuni, che la dottrina di Marx conduca logicamente al regime stalinista. Al contrario Camus vuole mostrare come Lenin prima e Stalin dopo abbiano distorto il pensiero di Marx piegandolo per scopi che hanno assunto sembianze atroci e disumane: essi rinnegando Marx hanno portato al terrore ed al totalitarismo; essi non hanno liberato l’uomo, bensì lo hanno imprigionato all’interno di una necessità storica senza via d’uscita.

L’utopia marxista è stata quindi messa da parte a favore della lotta nichilista per il potere e la supremazia. Essa voleva dominare la storia ma è divenuta a sua volta un fatto storico; voleva controllare ed asservire tutti i mezzi ma è stata essa stessa ridotta a mezzo per il più cruento dei fini. La rivoluzione del 1917 ha rappresentato secondo Camus l’alba della libertà reale, la più grande speranza che il mondo abbia mai visto. Ma questa rivoluzione è stata tragicamente tradita, essa armandosi e dotandosi di una polizia si è trasformata nella dittatura più efficiente.

Lenin ha cancellato la morale dalla rivoluzione poiché riteneva che essa non potesse nascere ed evolversi rispettando certi imperativi etici: egli si pone al comando di una rivoluzione che è innanzitutto militare. Se per Marx la dittatura del proletariato è provvisoria, con Lenin rischia di non avere fine. Dice Camus: «Marx non immaginava così terrificante apoteosi».7 Con Lenin siamo di fronte a quello che Camus chiama imperialismo della giustizia, poiché la giustizia si realizzerà solo nel momento in cui il capitalismo sarà abbattuto in ogni luogo della terra. Fino ad allora l’oppressione, il delitto e la mistificazione vengono legittimati e giustificati in nome di un fine che non è più, vicino e raggiungibile, bensì posto alla fine della storia. Lenin, dunque, non ha dato vita alla vera dittatura del proletariato, quella provvisoria, che deve rispettare, come già aveva affermato Rosa Luxemburg,8 quelle libertà democratiche che permettono la reale partecipazione di tutto il popolo, ma ha dato vita alla dittatura feroce e durevole della cricca, dei capi, una tirannia che non ha fatto altro che consolidarsi e rafforzarsi con Stalin, il quale ha creato l’Impero non degli uomini bensì delle cose. All’interno di esso non vi è più spazio per l’amicizia, non si può amare l’amico o l’amica nel presente, si deve solo amare l’uomo che verrà, l’uomo nuovo di cui si aspetta l’avvento. Se nel regno delle persone gli uomini si legano grazie all’affetto, nel regno delle cose gli uomini si uniscono tramite la delazione: la città che si immaginava fraterna si rivela un assembramento di uomini soli, atomizzati. La legge del totalitarismo si può sintetizzare in questa frase: chi combatte il regime è un traditore, chi non lo sostiene con zelo è sospetto.

Per una giustizia lontana viene legittimata e giustificata l’ingiustizia per tutta la durata della storia; viene accettato il delitto e la mistificazione con la promessa del miracolo. Arriverà il giorno in cui il potere autoritario, la produzione sempre maggiore, il lavoro ed il dolore ininterrotto avranno fine e l’Impero si trasformerà nella repubblica universale degli svaghi e della creazione:

La manifestazione pseudo-rivoluzionaria possiede ora la sua formula: bisogna uccidere ogni libertà. Il cammino dell’unità passa allora per la totalità.9

Questa analisi permette a Camus di distinguere molto lucidamente la rivolta, concetto a lui caro, dalla rivoluzione. La rivolta è nell’uomo il rifiuto di essere trattato come cosa. È l’affermazione di una natura comune a tutti gli uomini: laddove la dignità umana viene minacciata e calpestata occorre rivoltarsi. La rivolta agisce nell’immediato, nel presente, non agisce in funzione di un futuro: il cogito camusiano Mi rivolto, dunque siamo ci dice che dobbiamo vivere e far vivere per creare quello che siamo, non dobbiamo uccidere e morire per creare quello che saremo. L’uomo in rivolta pone dunque un limite e da questo limite nasce la promessa di un valore: la solidarietà.

La rivoluzione invece supera questo limite, essa rappresenta la corruzione ed il tradimento della rivolta, con la sua violenza disumana e spersonalizzante afferma che non esiste una natura umana. La rivoluzione è completamente sottomessa alla storia e si convince che l’uomo non è ma sarà, e dovrà essere con qualsiasi mezzo: essa rigettando ogni norma morale e producendo il terrore mira a creare l’uomo nuovo. In definitiva se la rivolta poggia su un sì ed un no, ossia rifiuta una parte dell’esistenza in nome di un’altra parte che viene esaltata, la rivoluzione rappresenta la negazione assoluta che, in vista di un sì alla fine dei tempi, giustifica la schiavitù ed i campi di concentramento. Se la rivolta pertanto rivendica l’unità ed è creatrice, ossia crea per essere qui ed ora, la rivoluzione rivendica la totalità ed è nichilista, ossia distrugge per essere un giorno.

Tutto ciò non significa però che la rivolta debba fare a meno della violenza qualora necessaria. La violenza può essere utilizzata a condizione che sia limitata e virtuosa. E questo limite virtuoso è rappresentato dall’omicidio-suicidio. L’uomo in rivolta che decide di uccidere il tiranno oppressore rifiuta di coinvolgere gli innocenti ed accetta alla fine di morire. Uccide e muore per far comprendere che l’omicidio è impossibile, si sacrifica per far capire che l’omicidio se pur necessario è ingiustificabile; si sacrifica dunque per urlare al mondo il valore supremo della vita umana.

Quando Camus teorizza il limite della rivolta non ha in mente una splendida astrattezza, ma ha in mente l’azione concreta dei terroristi russi del 1905. Questi ultimi guidati dal capo Kiliayev accettano, dopo aver ucciso il granduca Sergio Romanov (uno dei massimi rappresentanti dello zarismo), di andare alla forca, indicando in maniera limpida al mondo, il limite esatto in cui ha inizio e termine l’onore degli uomini.10

L’importanza di questa posizione camusiana sarà poi rivalutata nel tempo da quello che fu il maggior critico di Camus, l’amico-nemico Jean-Paul Sartre. Il «rivoluzionario» Sartre, che pur denunciando i gulag aveva tollerato lo stalinismo in nome del comunismo, di fronte al quale si considerava eretico ma non apostata, arriverà ad avvicinarsi molto alle idee camusiane. Ne I quaderni per una morale Sartre parlerà della violenza come un Male assoluto che però rappresenta spesso la mediazione indispensabile per ottenere la libertà. Se la violenza è necessaria per raggiungere uno scopo concreto e finito, essa deve essere limitata e deve essere considerata ingiustificabile. Se invece il fine è lontano e fuori portata il rischio è quello di non avere una giusta relazione tra scopo e mezzi, è quello di ammettere e giustificare qualsiasi mezzo, anche il più abietto, pur di raggiungere l’obiettivo. Facendo riferimento diretto al progetto comunista, Sartre sottolinea che se gli operai, gli schiavi vengono sacrificati ed usati come mezzi per pervenire al fine supremo, allora quest’ultimo viene distrutto, annullato. Afferma Sartre:

Creando l’universo degli uomini-mezzo io alieno l’uomo al fine assoluto (anche se esso è l’umanità o la città dei fini) e siccome esso aveva senso solo in quanto era voluto liberamente, scompare. Quello che rimane è la sua caricatura.11

È lecito dunque affermare che Sartre e Camus riescono a trovare un punto di convergenza. Abbandonate certe posizioni estreme, Sartre sembra essere d’accordo con Camus circa l’idea di un socialismo in divenire, un socialismo lontano da certi dogmi, pronto a rimettersi sempre in discussione, pronto a conciliare universale e particolare, libertà individuale e politica sociale, pronto in definitiva a conciliare le istanze di libertà e giustizia, poiché esse rappresentano insieme un’unica nobiltà; quando invece vengono separate, la dignità dell’uomo è sempre in pericolo, la dittatura e la barbarie sono sempre dietro l’angolo.

2. Il pensiero meridiano

È dunque sul concetto di limite che Camus fonda il suo pensiero meridiano. Egli, lontano dalle ideologie nullificanti del Novecento ribadisce a gran voce il rispetto per l’essere umano laddove la sua dignità viene calpestata e degradata. Riconosce l’imperfezione dell’uomo, i vincoli imposti dalla natura, e di conseguenza trova abominevole e senza senso il tentativo, folle o lucido che sia, di creare l’uomo nuovo, l’uomo perfetto, annullando l’uomo già esistente con strumenti e mezzi di distruzione fisica, psichica e morale.

Il senso del limite è quindi necessario sempre, e soprattutto in quei tempi bui in cui è la dismisura a farla da padrone; esso è indispensabile per contrastare qualsiasi dottrina o ideologia che voglia ancora farci credere che tutto sia possibile. Da questo punto di vista il pensiero meridiano osserva e studia attentamente la tecnica, affinché quest’ultima, da sostegno ed aiuto per gli uomini non si trasformi in strumento di controllo e di oppressione di alcuni uomini su altri. All’utile e all’efficace del pensiero scientifico e tecnologico occorre pertanto avvicinare la grandezza della creazione artistica, che può fungere da limite a qualsiasi volontà di potenza.

In generale il pensiero meridiano può farci comprendere che non è possibile raggiungere una felicità piena, è possibile altresì raggiungere una felicità moderata, relativa; esso può farci rendere conto che l’uomo non è destinato ad appagare sempre e comunque tutte le sue passioni e tutti i suoi desideri. Il limite è un concetto che Camus ha ereditato dai Greci. Il pensiero greco:

non ha spinto nulla all’estremo, né il sacro, né la ragione, perché non ha negato nulla, né il sacro, né la ragione. Ha tenuto conto di tutto, equilibrando l’ombra con la luce.12

L’Europa dimenticando quest’insegnamento è stata accecata dal sogno malato della totalità, dal sogno di un impero futuro della ragione e si è gettata tra le braccia di una attraente quanto spietata dismisura. È perciò indecente, afferma Camus, che l’Europa si dichiari figlia della Grecia, al massimo può considerarsi una figlia rinnegata. Essa, sostituendo Dio con la storia è andata incontro a quella teocrazia persiana che i Greci hanno combattuto e vinto nelle acque di Salamina.

Questi ultimi erano convinti che i valori dovessero fungere da limite all’azione, la filosofia moderna al contrario pone i valori al termine dell’azione: «i valori non sono, divengono, e li conosceremo interamente solo al compiersi della storia».13 Da qui la differenza tra l’artista e lo storico: il primo è fedele alla natura ed ai suoi limiti, la sua passione è la libertà; il secondo disconosce questi limiti, la sua passione è la tirannia:

Nell’isola di Calipso, Ulisse può scegliere fra l’immortalità e la terra della patria. Sceglie la terra, e insieme la morte. Oggi una grandezza così semplice ci è estranea […], noi manchiamo di quella fierezza dell’uomo che è fedeltà ai propri limiti, amore chiaroveggente della propria condizione.14

Solo ammettendo la nostra ignoranza, solo rifiutando il fanatismo potremo ricongiungerci ai Greci.

3. La rivolta spagnola

A far discutere non fu soltanto L’uomo in rivolta, furono anche le idee politiche che Camus espresse circa la questione spagnola e la questione algerina. Riguardo alla prima il filosofo francese denunciò, prima e dopo la seconda guerra mondiale, il silenzio e la viltà dell’Occidente che sembrava essersi dimenticato che la Spagna era vittima di una spietata dittatura fascista. L’Occidente giustificò la propria «neutralità» attraverso due argomentazioni: la prima, reazionaria, rivalutò Franco, considerandolo un baluardo contro il comunismo sovietico (siamo nel pieno della Guerra Fredda); la seconda, «progressista», parlò di non-ingerenza all’interno di uno Stato sovrano.

Entrambe le argomentazioni erano per Camus indegne. Come si pretende infatti di combattere chi uccide la libertà (Stalin) al fianco di chi fa altrettanto (Franco)? Come si fa ad opporsi al comunismo sovietico in nome della libertà e cercare nel regime franchista un possibile alleato? È una contraddizione questa così perversa che all’epoca nessuno voleva affrontare e tentare di risolvere.

Non giustificherò questa peste orrenda nell’Europa dell’Ovest solo perché a Est essa compie devastazioni su territori più vasti. […] Il mondo in cui vivo mi ripugna, ma mi sento solidale con le persone che vi soffrono. Esistono ambizioni che non sono le mie e mi sentirei a disagio se dovessi percorrere la mia strada basandomi sui meschini privilegi che si riservano a chi si adatta all’esistente. Ma mi sembra che un’altra dovrebbe essere l’ambizione di tutti gli scrittori: testimoniare ed elevare un grido, ogni volta che sia possibile, nei limiti del nostro talento, a favore di coloro che, come noi, sono asserviti.15

A chi invece innalzava la bandiera del non-intervento, Camus rispondeva che questo atteggiamento era proprio di coloro che volevano essere complici del fascismo, di coloro che erano pronti a sporcarsi le mani e a fare affari con il dittatore. Intervenire, al contrario, significava isolare e lasciare solo Franco: chi non interveniva incoraggiava il crimine e si trasformava in un carnefice doppiamente colpevole.

In altri termini il bravo democratico è colui che se ne resta a casa propria. Questo principio sembra inattaccabile, ma se è realmente tale vi è un inconveniente, poiché esso sarebbe dovuto paradossalmente valere anche per Hitler, in fin dei conti, l’ascesa di quest’ultimo riguardava soltanto la Germania ed i primi internati nei campi di concentramento, ebrei e comunisti, erano effettivamente tedeschi. No, questo principio non può essere accettato tout court, e Camus fa l’esempio del vicino di casa: se sappiamo con certezza che il nostro dirimpettaio picchia moglie e figli, noi possiamo avvertire le autorità competenti le quali toglieranno all’uomo i bambini affidandoli ad un ente di pubblica assistenza. Ma supponiamo di non poter far niente, di aver le mani legate, come agire in queste condizioni? A questo punto possiamo isolare il nostro vicino, nessuno infatti ci costringe ad avere rapporti con lui, a prestargli soldi, ad andare a pranzo con lui. Possiamo insomma, senza intervenire nelle sue faccende, voltargli le spalle. Questo sarebbe un autentico non intervento, questo sarebbe il comportamento da tenere con Franco. Se invece gli si offrono i mezzi per rimanere al potere e gli si offre anche una buona coscienza, allora si pratica un intervento, ma contro le vittime.

Allora eccoci diventati delinquenti peggiori di lui, e doppiamente criminali perché incoraggiamo il crimine e lo chiamiamo virtù.16

Nel silenzio assordante di un’Europa imbelle ed inetta, il grido di Camus ricordava al mondo che con i tiranni non si viene a patti e ricordava il dramma di un Paese che pur combattendo per la libertà aveva dovuto soccombere di fronte ad un generale ribelle aiutato dalle bombe di Hitler e Mussolini.

4. La rivolta algerina

Per quanto riguarda la questione algerina, la situazione era più complessa e problematica: Camus, infatti, francese nato in Algeria da coloni poveri, vive la lotta per l’indipendenza sulla propria pelle. Prima dello scoppio della guerra (1945) Camus si era battuto con forza contro la Francia imperialista: chiedeva pari dignità e pari diritti per gli algerini. Ma questi appelli rimarranno purtroppo inascoltati.

Quando poi la lotta d’indipendenza fu presa in mano dal Fronte di Liberazione Nazionale, Camus non si schierò né con l’una né con l’altra parte, atteggiamento questo, che gli procurò critiche feroci. Egli denunciò tutte le atrocità della guerra: sia i metodi e la tortura delle truppe francesi, sia la strategia del FNL, pronto a far saltare in aria anche donne e bambini. A suo avviso il comportamento di coloro che condannavano la tortura e giustificavano gli attentati o che al contrario condannavano gli attentati e giustificavano la tortura, era assolutamente ignobile ed indegno.

In più Camus se la prese con quella stampa metropolitana che non faceva altro che gettare fango sui coloni, ricordando che i tre quarti dei coloni (come del resto la sua famiglia) erano poveri ed umili, e non avevano mai sfruttato nessuno: l’immagine del colono in Cadillac e con il sigaro in bocca era falsa e strumentale. Camus, dunque, non prese posizione ma si batté con tutto se stesso affinché si potesse arrivare ad una soluzione pacifica. Egli immaginava la creazione di una società multietnica e multiculturale che potesse garantire i diritti di tutti, un’idea che all’epoca doveva sembrare assurda, ma che oggi, come ben sappiamo, è assolutamente attuale. Questa idea gli appariva la più ragionevole contro chi da una parte pensava in maniera malsana che si potesse continuare ad imporre un regime coloniale, e contro chi dall’altra, pensava in maniera irresponsabile che bisognasse portare tutti i coloni in Francia, strappando di netto, da un giorno all’altro, le loro radici. Abbandonare l’Algeria a se stessa avrebbe significato gettare il Paese nel caos più assoluto: alla miseria si sarebbe aggiunta altra miseria.

In definitiva Camus, dopo aver individuato nella Francia colonialista ed imperialista la principale responsabile della situazione poiché aveva sempre impedito ogni tentativo di riforma democratica, cercò di affrontare la situazione nel modo meno ideologico e più pragmatico possibile. E propose una soluzione che, pur rendendo giustizia al popolo arabo per la colonizzazione subita, non condannava ed emarginava in blocco la comunità algerina d’origine europea. La presenza francese non era eliminabile in Algeria: «il sogno che la Francia scompaia da un momento all’altro è semplicemente puerile».17 Se da una parte era delirante credere che nove milioni di arabi potessero vivere asserviti, ridotti al silenzio nella propria terra, dall’altra era crudele pensare che si potessero tagliare, come se nulla fosse, le radici che i coloni avevano in Algeria. Dice tristemente Camus:

Per tutta la vita ho difeso l’idea che da noi erano indispensabili riforme ampie e profonde. Non hanno voluto darmi retta, hanno insistito nel sogno di potenza che sempre si crede eterno e che dimentica che la storia continua a procedere, e le riforme sono diventate sempre più necessarie.18

Camus propose alla fine una soluzione sul modello del Commonwealth inglese, che avrebbe garantito una decolonizzazione radicale ma non traumatica: solo l’instaurazione di un sistema federale rispettoso delle diverse identità che componevano il Paese avrebbe messo fine al folle conflitto ed assicurato l’emancipazione sociale.

Posizioni agli antipodi di questa saranno quelle di Fanon19 e Sartre.20 Fanon non vide a differenza di Camus la possibilità di un dialogo e di un compromesso, ed arrivò a giustificare la violenza anticolonialista poiché essa rappresentava la logica reazione a quella colonialista, l’unico mezzo per porre fine ad un regime che si era imposto con la forza e l’arroganza in nome della sua «missione civilizzatrice». Il colonialismo infatti non ha fatto altro che esportare i propri valori ed il proprio stile di vita, trattando i colonizzati alla stregua di animali, sotto-uomini nullapensanti incapaci di sviluppare senso estetico e senso etico. Di fronte a queste enormi infamità, i colonizzati hanno il diritto di ribellarsi e di autodeterminarsi dopo secoli o decenni di oppressione fisica, morale e culturale. E sbaglia, magari in buona fede (come Camus), chi pensa che sia possibile la convivenza tra il colonizzato liberato ed il colono, poiché quest’ultimo non ha interesse a coesistere quando il contesto coloniale scompare.

Ancora più dura fu la posizione di Sartre, il quale affermò che l’umanesimo europeo era un’ideologia mistificatrice, pronta a legittimare il dominio e lo sfruttamento. Sartre si scagliò in maniera feroce ed infuocata contro «le anime belle», dichiarando: «Bella figura, i nonviolenti: né vittime né carnefici!»21 Il riferimento era a Camus e a tutti coloro che la pensavano come lui. Parlare di nonviolenza sarebbe accettabile e nobile se la violenza non ci fosse mai stata sulla terra, ma dal momento che non è così, la nonviolenza rischia seriamente di favorire un dominio millenario, si diventa in questo modo complici degli oppressori. Ma guardando alla storia chi ha avuto ragione?

Dopo l’indipendenza del 1962, la repubblica algerina cercherà di portare avanti e incoraggiare una politica di stampo socialista, una politica però destinata a fallire a causa dell’assenza dei capitali e dei quadri tecnici francesi. L’Algeria così cadrà in una crisi profonda che raggiungerà il suo momento più basso con la presa del potere da parte dei militari guidati dal generale Boumedienne, i quali cancelleranno le istituzioni democratiche. Guardando a ciò che è successo possiamo affermare che Camus aveva visto lontano e non si era sbagliato. Alla fine bisogna constatare che tutte le sue più profonde paure si sono concretizzate, aveva infatti scritto:

Un’Algeria costituita da insediamenti federati e legati alla Francia mi sembra preferibile, senza confronto possibile rispetto alla semplice giustizia, ad un’Algeria legata ad un impero islamico che per i popoli arabi non farebbe che sommare miserie alle miserie, sofferenze alle sofferenze, e che strapperebbe i francesi d’Algeria dalla loro patria naturale. Se l’Algeria che io spero conserva ancora una possibilità di realizzarsi, desidero aiutarla con tutte le mie forze. Ritengo invece di non dover sostenere nemmeno per un istante e in alcun modo la costituzione dell’altra Algeria. Se invece si formasse […] questa sarebbe per me un’immensa disgrazia,22 e ne dovrei trarre tutte le conseguenze, io come milioni di francesi. Ecco, molto sinceramente, come la penso. […] Nel caso in cui svanissero le ragionevoli speranze che è ancora possibile coltivare, davanti ai gravi fatti che in questo caso ne seguirebbero […] ognuno di noi dovrà testimoniare quello che ha fatto e quello che ha detto. La mia testimonianza è questa e a essa non ho niente da aggiungere.23

Questa è la sua dolorosa testimonianza che nonostante gli inconsci tentativi di rimozione da parte di molti, è ancora viva nella storia. Parte di quella sinistra che sposò le sorti del FLN con tutta la sua violenza, oggi, a distanza di anni, si trova a doversi interrogare sulla crudeltà di un regime che essa ha contribuito ad insediare. Se Camus fosse sopravvissuto al tragico incidente del 1960 avrebbe potuto prendersi una rivincita sia sul piano politico e sia sul piano morale, dopo essere stato oggetto di insulti ingenerosi ed ottusi.

Chissà poi come Camus avrebbe affrontato i vari eventi che si sono susseguiti nella storia, e cosa penserebbe oggi della nostra attuale società globalizzata, una società ed un mondo in cui la rivolta che egli ci ha insegnato sembra ancora necessaria. Ci troviamo di fronte ad un’economia sempre più imperante che non esita a dominare una politica asservita ed inetta. Laddove l’ingiustizia prevale non s’interviene, s’interviene invece solo quando ad ordinarlo è la logica del mercato, quella che in maniera azzardata si potrebbe definire la dittatura della borsa.

E l’informazione, che dovrebbe fungere da cane da guardia della democrazia, salvo le dovute eccezioni, sembra inginocchiarsi davanti ai ricatti della pubblicità dell’audience e del consenso, generando in questo modo un cattivo giornalismo che occulta le malefatte e la tracotanza del potere. Quando la democrazia si appiattisce su stessa e diventa pura esteriorità, vuota e formale enunciazione di diritti e doveri, c’è bisogno di teste pensanti che riescano a far uscire le maggioranze consenzienti dall’ottenebramento dei cervelli ed a liberarle così dal controllo delle coscienze.

Oggi, ne siamo quasi certi, Camus avrebbe combattuto contro le mistificazioni e le manipolazioni della comunicazione di massa, contro i soprusi del mercato e dei poteri forti; avrebbe ragionato sui problemi e proposto soluzioni, schierandosi sempre dalla parte di chi subisce la violenza e mai dalla parte di chi la fa. Avrebbe in definitiva scelto di essere una voce fuori dal coro in contrasto con una maggioranza piatta e stereotipata, che nulla pensa e nulla crea, ma che tutto distrugge. La sfida nel mondo attuale sta proprio nel gridare la nostra indignazione laddove necessaria e nel far nostro il sempre vivo imperativo camusiano: Mi rivolto, dunque siamo.


  1. Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2002, p. 7. ↩︎

  2. Ibidem, p. 13. ↩︎

  3. Ibidem, p. 19. ↩︎

  4. Ibidem, p. 20. ↩︎

  5. Ibidem, p. 21. ↩︎

  6. Ibidem, p. 27. ↩︎

  7. Ibidem, p. 247. ↩︎

  8. «La libertà solo per i seguaci del governo, solo per i membri di un partito, per numerosi che possano essere, non è libertà. La libertà è sempre unicamente la libertà di chi la pensa diversamente» (Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, Massari, Bolsena 2004, p. 79). ↩︎

  9. Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2002, p. 254. ↩︎

  10. Per un maggior approfondimento è possibile leggere il testo teatrale di Camus I giusti in Tutto il teatro (Il malinteso, Caligola, I giusti, Lo stato d’assedio), Bompiani, Milano 2003. ↩︎

  11. Jean-Paul Sartre, Quaderni per una morale, Edizioni associate, Roma 1991, p. 203. ↩︎

  12. Albert Camus, L’estate e altri saggi solari, ed. Bompiani, Milano 2003, p. 79. ↩︎

  13. Ibidem, p. 82. ↩︎

  14. Ibidem, p. 83. ↩︎

  15. Albert Camus, La rivolta libertaria, Elèuthera, Milano 1998, pp. 97-100. ↩︎

  16. Ibidem, p. 125. ↩︎

  17. Ibidem, p. 160. ↩︎

  18. Ibidem, p. 160. ↩︎

  19. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. ↩︎

  20. Prefazione di Jean-Paul Sartre a I dannati della terra di Frantz Fanon, Einaudi, Torino 2007. ↩︎

  21. Ibidem, p. LV. ↩︎

  22. Corsivo mio. ↩︎

  23. Albert Camus, La rivolta libertaria, Elèuthera, Milano 1998 p. 150. ↩︎