La tecnologia: nature artificielle dell’umano

Ma tu Callicle disprezzi lui e la sua arte, e oltraggiosamente lo chiameresti “un costruttore di macchine”, né daresti una tua figliuola in moglie a suo figlio, né vorresti che tuo figlio sposasse una tua figliuola.

—Platone, Gorgia

1. Antropologia della tecnica vs cultura della tecnologia?

La separazione fra sapere tecnico e cultura accademica è fortemente radicata già nella tradizione classica. Sebbene nella filosofia greca la tecnica rivestisse un ruolo di importanza non marginale la sua condizione era sempre e comunque subordinata al sapere puro, al sapere speculativo, al sapere dell’essere in quanto essere: alla metafisica. Già nelle filosofia classica, dunque, il sapere puro (la metafisica o filosofia prima) e il sapere pratico (la tecnica) sono formalmente e logicamente distinti e godono di diverse posizioni gerarchiche: la metafisica è prima di ogni altra conoscenza e il sapere pratico ha un valore conoscitivo nettamente inferiore, tanto da essere collocato da Aristotele al terzo ed ultimo posto nel quadro complessivo delle scienze perché è un sapere ad esclusivo vantaggio dell’oggetto stesso e non della filosofia o dell’agire etico.1

La tecnica, in greco téchne e in latino ars, pur essendo «una disposizione creativa accompagnata da ragione vera […] intorno a quelle cose che possono essere diversamente da come sono»,2 era volta alla produzione di un bene, di un prodotto, è un sapere poietico il cui fine ultimo è la creazione, fosse anche di un brano musicale o di un mirabile discorso.

Per molto tempo il sapere tecnico e la conseguente attività di produzione sono stati considerati subordinati ad una cultura “alta” in cui risiedeva la riflessione sull’indirizzo di questo saper fare, sui valori intrinseci (o meno) all’agire pratico-produttivo. Contemporaneamente, le professioni di chi provvedeva alla produzione di beni utili a terzi, alla loro manutenzione e gestione sono state considerate umili e, comunque, inferiori a quelle di coloro i quali non “producevano” fisicamente un bene materiale, né lo dovevano gestire e controllare per determinarne un corretto uso e una giusta conservazione. Già Platone, nel suo ordinamento del governo ideale, distingue nettamente tra gli artigiani e i commercianti che lavorano per soddisfare i bisogni primordiali della collettività e i migliori fra i “custodi”, i sapienti, sui quali ricade l’onere di governare, proprio in virtù della loro caratteristica “di classe”: la sapienza. Anche Aristotele, nel delineare la sua politica, riconosce l’importanza degli agricoltori e degli artigiani e dei commercianti per il buon andamento della città, ma proprio in virtù del loro operare li esclude dalla condizione di cittadini; queste attività saranno proprie degli schiavi e non degli uomini liberi che per essere veramente tali devono poter godere di sufficiente tempo utile all’esercizio della virtù.

Eppure, non sempre il rapporto tra sapere e saper fare è stato soggetto a questa interpretazione; al contrario, lunghi periodi storici hanno decantato le doti, le qualità, le possibilità offerte da una visione tecnica della realtà. A partire da Bacone, unanimemente riconosciuto come filosofo dell’età industriale, il segno della riflessione cambia radicalmente. Nel Novum Organum, l’Autore individua nella stampa, nella polvere da sparo e nella bussola i tre elementi che hanno mutato definitivamente l’assetto del mondo e, in piena polemica con l’opera di Aristotele, avvia una riflessione sul metodo come strumento di scoperta e ricerca per opere vantaggiose per la vita umana e non come mezzo buono soltanto per le dispute e le controversie intellettuali. Lo scopo dell’uomo, per Bacone, risiede nel generare e introdurre in un corpo dato una nuova natura o più nature diverse, cioè nell’intervenire artificialmente sulla natura per orientarla al soddisfacimento efficace dei bisogni umani operando attraverso un metodo, almeno in parte, di natura sperimentale nel senso moderno del termine.

E nonostante ciò, ancora oggi, nelle scuole l’approccio più diffuso è quello di una “separazione della carriera” fra istituti tecnici, in cui la formazione generale e la cultura così detta di base hanno un valore inferiore rispetto alla professionalizzazione, e i licei, in cui — al contrario — le materie tecnico-produttive non sono oggetto di studio, sostituite in toto dalle discipline umanistico-scientifiche, “astratte”. Ben diversa la situazione nel periodo rinascimentale in cui l’istruzione e l’educazione passavano, anche e mirabilmente, nelle botteghe in cui il maestro affiancava l’allievo nell’attività pratica, “facendo” insieme a lui e praticando un’attività di tutoring il cui valore, oggi, sta tornando molto in auge, almeno all’interno della letteratura scientifica, quando non nella pratica quotidiana.

Il saper fare con arte (la tecnica) è sempre stato uno snodo importante della riflessione teorica e della cultura tout court. Passando per apologie, ma anche per accuse aspre (come quelle luddiste), la tecnica ha sempre rivestito un ruolo di fondamentale importanza. Ciò che nel tempo si è modificato è l’immagine che in ogni determinato periodo storico si è avuta della tecnica stessa. Si è andata modificando la cultura della tecnologia, composta da tre ambiti distinti eppure intimamente collegati fra di loro: il sapere tecnologico, le immagini e i valori della tecnologia, il contesto sociale della tecnologia.3

A nostro avviso le immagini e i valori attribuiti alla tecnologia ne determinano gli usi e anche gli abusi, e contemporaneamente riescono a fornire “letture” teleologiche del saper fare dell’umano. Queste letture sono essenzialmente visioni sociologiche della tecnica e della tecnologia. Visioni, contemporaneamente, anche antropologiche.

Pertanto l’opposizione tra antropologia della tecnica e cultura della tecnologa, verosimilmente, non è realistica: entrambe le locuzioni includono una visione dell’uomo che, per essere tale, deve confrontarsi tecnologicamente con la natura che lo circonda. Frutto di questo confronto è il “dominio” sull’imprevedibilità della natura; è il “controllo” delle variabili; è la produzione di arnesi, utensili, strumenti utili al sopravvivere e al vivere; è — in altri termini — la cultura.

Per dirla con Gehlen: «anche l’uomo è così come la tecnica nature artificielle».4 L’ossimoro natura artificiale sta ad indicare il come e il quanto l’agire tecnologico (e non solo tecnico) sia connaturato all’essere umano. Nonostante questa sostanziale intimità, l’opposizione natura-cultura non può essere persa di vista: infatti, se da un lato l’agire umano è naturalmente artificiale, il suo scopo ultimo è proprio quello di distinguere se stesso dal resto del mondo, distinguere ciò che è frutto della cultura da ciò che invece ricade nella natura. L’opposizione natura-cultura, cara all’antropologia di segno strutturalista, indica perfettamente lo scopo dell’agire culturale: separare da sé ciò che ricade nella sfera dell’inconoscibile, dell’imprevedibile, del totalmente fuori controllo. E questo agire culturale di fatto è veicolato da un fare tecnico.

Il termine cultura, con i diversi significati che ha assunto via via all’interno delle diverse teorie facenti capo all’antropologia come scienza umana, può esser fatto risalire al 1871, con la pubblicazione del volume Primitive Culture di Tylor,5 in cui erano inclusi il sapere scientifico, le credenze religiose, le manifestazioni artistico-letterarie, il diritto, la morale, i costumi e tutti i modi di comportamento acquisiti in virtù dell’appartenenza ad una determinata società. Il termine assume fin da subito un significato totale, all’interno del quale rientrano tutte le manifestazioni dell’uomo in quanto appartenente ad un determinato gruppo sociale e non in quanto essere naturale6 perché «l’uomo di natura, il Naturmensch, non esiste».7

Il passaggio dal singolare “cultura” al plurale “culture” si deve ai successivi lavori di Boas e Malinowski, che abbandonando definitivamente l’interpretazione positivistica dell’evoluzione cominciano a distinguere — seppur nelle profonde differenze — tra cultura e civiltà ipotizzando che la cultura è espressione di ogni aggregazione sociale e in quanto tale si manifesta in una pluralità di forme, la civiltà, invece, è la forma più avanzata e moderna di alcune culture. All’interno della cultura rientrano a pieno titolo anche i saperi tecnologici e gli artefatti che sono, inevitabilmente, relazionati all’ambiente esterno, circostante, naturale e interpretati come risposta ad esso:

In tutti i punti di contatto con il mondo esterno egli [l’uomo] crea un ambiente artificiale, secondario: costruisce case o fabbrica rifugi, prepara il cibo in maniera più o meno elaborata procurandoselo per mezzo di armi e di attrezzi, costruisce strade e si serve di mezzi di trasporto. Se l’uomo dovesse contare solo sui suoi strumenti fisici sarebbe in breve tempo distrutto o soccomberebbe per la fame e per l’esposizione alle intemperie. La difesa, la nutrizione, il movimento nello spazio tutti i bisogni fisiologici e spirituali vengono soddisfatti indirettamente per mezzo di artefatti perfino nelle forme più primitive della vita umana. […] Gli artefatti, le imbarcazioni, gli attrezzi e le armi, gli accessori liturgici della magia e della religione — in una parola: il corredo materiale dell’uomo — costituiscono nel loro complesso gli aspetti più evidenti e più tangibili della cultura.8

Il pensiero tecnologico e il fare tecnico sono, dunque, antropologicamente connaturati all’umano, la cui attività precipua è di natura culturale, pertanto nessuna opposizione esiste fra una visione antropologica della tecnica e una cultura della tecnologia. Nessun dualismo, se non artificioso e interpretativo, separa il fare dalla speculazione sul fare stesso. Questi due aspetti, infatti, sono legati reciprocamente all’interno dell’orizzonte culturale, anche se — di norma — vengono distinti per motivi scientifici e conoscitivi. Popitz, che pure identifica la tecnica in primis con la produzione di artefatti, contestualizza il dualismo tra téchne ed epistéme in Aristotele sottolineando come questo sia dovuto all’influenza del periodo storico e mettendo in rilievo come, con l’evoluzione tecnologica, i saperi fondamentali, fra cui le convinzioni matematiche ed astronomiche, siano sempre più inclusi all’interno dell’agire tecnico e del pensare tecnologico, «ciò significa che la produzione intermedia che Aristotele assegnò al sapere produttivo si è dimostrata un’attribuzione storicamente condizionata. La moderna tecnica basata sulle scienze della natura collega la conoscenza, formulabile matematicamente, dell’immutabile, delle leggi della natura, con le strategie del produrre. Il sapere produttivo è diventato un caso particolare di questo sapere fondamentale».9

2. Tecnica: mancanza organica o capacità umana?

Nella visione antropologica proposta da Gehlen, la tecnica è il frutto di una mancanza originaria dell’uomo, di uno stato di privazione. La tecnica è un organo esosomatico10 dell’uomo atto a integrare organi fisici poco adatti alla sopravvivenza perché niente affatto specializzati; a intensificare la forza dell’agire umano sull’ambiente; e ad agevolare il lavoro rendendolo meno faticoso. «Chi viaggia in aereo ha i tre principi riuniti in uno: l’aereo sostituisce le ali che non ci sono spuntate, batte in modo assoluto tutte le capacità organiche di volo e risparmia le fatiche a chi vuole recarsi in posti lontani.»11

Nonostante ciò, per l’Autore «sostenere che l’atteggiamento tecnico sia “soltanto razionale e volto a conseguire obiettivi” è un pregiudizio molto diffuso e di evidente origine accademica».12 La classica definizione di tecnica quale procedimento volto al raggiungimento di uno scopo e caratterizzato da elementi di efficacia ed efficienza, in questo caso non corrisponde alla visione antropologica che Gehlen ha dell’atteggiamento tecnico. All’interno di questo orizzonte, infatti, rientra anche la magia, quale tecnica soprannaturale, distinta dalla tecnica del naturale, eppure unita a questa dalle medesime aspirazioni umane: il controllo sulla natura e sugli eventi esterni a sé e la ripetibilità controllabile dell’agire. Ciò che Gehlen definisce il fascino dell’automatismo che «costituisce l’impulso pre-razionale meta-pratico della tecnica, il quale dapprima, e per molti millenni, si esplicò nella magia — la tecnica del soprasensibile — fino a trovare solo in epoca molto recente la sua completa espressione in orologi, motori e meccanismi ruotanti di ogni genere».13

E sul valore della ripetizione quale tecnica per arginare il rischio della perdita della presenza individuale o collettiva si sofferma De Martino in buona parte della sua produzione teorica intorno all’analisi del nesso tra mito e rito. In particolare, la iterazione rituale «non è pensabile senza l’orizzonte mitico in cui si inquadra, senza un simbolo di risoluzione che appartiene all’ordine metastorico, e che risolve ora perché riassorbe l’ora nella parola di sempre».14 Il nesso mitico-rituale risolve la crisi perché attua una tecnica di riproduzione artificiale e “protetta” della crisi stessa, arginando i rischi individuali o collettivi di perdita dell’orizzonte culturale: «il rapporto mitico-rituale comporta pertanto un regime di esistenza protetta, uno stare nella storia “come se” non ci si stesse, un piano metastorico di rifugio, che ridischiude i valori minacciati dalla crisi»15 evitando così il rischio delle apocalissi culturali e psicopatologiche16 di un agire de-contestualizzato culturalmente di fronte alle crisi della presenza e dell’esistenza.

L’agire umano è, pertanto, stimolato da fattori pre-razionali, da bisogni inconsci che ne determinano la direzione e risponde — contemporaneamente — alle esigenze antropologicamente innate e alle condizioni esterne dettate dalla natura, interpretata come “altro da sé” e, pertanto, potenzialmente pericoloso. L’unione di queste diverse istanze ha condotto e conduce l’uomo ad agire tecnologicamente con l’obiettivo di oggettivare la natura, distinguendola da sé e contemporaneamente oggettivare il proprio lavoro (utensile) alla ricerca di un crescente esonero dell’uomo capace di condurlo all’automazione di prassi, procedure, fenomeni. In questa aspirazione alla consuetudine, alla routine e alla normalizzazione risiede la natura inconfessata delle tecniche.

«L’uomo è un essere predisposto all’azione, alla modificazione dell’ambiente esterno. Il circolo dell’azione, vale a dire il movimento plastico, guidato, corretto, in base all’avvertimento dell’esito positivo o negativo, e infine automatizzato dalla consuetudine, è una delle sue caratteristiche essenziali.»17 L’umano è, pertanto, naturalmente predisposto ad agire tecnologicamente: da un lato è un essere manchevole di specializzazioni biologiche capaci di renderlo sicuro nel suo habitat naturale; dall’altro è deputato ad agire nel mondo secondo regole che obbediscono a bisogni inconsci di sicurezza. Sono questi i motivi dell’agire tecnico, secondo la visione antropologica proposta da Gehlen. Come a dire che natura e cultura concorrono all’agire tecnico in pari misura ma allo scopo di dividere e differenziare sempre più la condizione naturale dalla produzione culturale. D’altra parte le apparecchiature tecniche umane si differenziano da quelle animali per il valore d’uso che l’uomo ne fa, per il rapporto che l’utensile intrattiene con il proprio utente e pertanto per la sovrastruttura tecnologica propria della cultura umana che investe l’oggetto stesso di valori a lui esterni.

Nell’uso, gli utensili intrattengono rapporti specifici con i loro utenti. A rigore, questo rapporto e non l’utensile in sé è la qualità storicamente determinata di una tecnologia. Nessuna differenza puramente fisica tra le trappole di certi ragni e quelle di certi cacciatori, o tra l’arnia delle api e quella bantu, è storicamente significativa quanto la differenza del rapporto strumento utente.18

Perché è nello scopo ultimo della tecnologia che si differenzia l’uso: l’essere umano progetta uno strumento in vista di un risultato, di un valore intrinseco allo strumento stesso che è un valore di natura teleologica e che risponde a bisogni antropologicamente connaturati all’umano.

Di segno diametralmente opposto il presupposto che Popitz rintraccia nell’agire tecnico.19 Questo Autore opera una rivoluzione copernicana rispetto al suo predecessore: non da una condizione di manchevolezza biologica nasce la tecnica, quanto piuttosto dal possesso di specifiche capacità, di cui la mano è il punto focale. L’uomo non è un essere manchevole e bisognoso di compensazione, la tecnica non bilancia una insufficienza organica ma, al contrario, sfrutta una specifica capacità organica perché «la capacità di agire tecnologicamente è già presente nella costruzione organica fondamentale dell’uomo».20

L’evoluzione tecnica è stata possibile perché è andata rafforzando le specificità biologiche proprie degli esseri umani, e — almeno inizialmente — l’evoluzione tecnologica è stata consequenziale all’evoluzione biologica. Solo in un successivo momento, e con l’affinarsi delle abilità superiori dell’uomo (il linguaggio, la memoria, il pensiero speculativo) l’evoluzione tecnologica ritorna sulle caratteristiche psico-fisiche dell’uomo, influenzandole a sua volta.

Popitz muove contro le tesi di Gehlen accuse di inconsistenza e propone a sua volta una contro-tesi che, nella sua pars costruens è un inno alla mano.21

Naturalmente non sappiamo se un essere simile all’uomo ma privo di tecnologia sarebbe in grado di sopravvivere oppure no. Ma sappiamo con certezza che la tecnologia degli utensili è da attribuirsi ad una specifica idoneità organica dell’uomo. Non da una deficienza organica, ma al contrario, da questa specificità organica, scaturisce la caratteristica connessione tra agire tecnologico e organismo umano.

La versatilità e l’intensità del contatto con gli oggetti, che caratterizzano la mano umana, non temono confronti nel mondo degli organismi viventi. Pressappoco tutto ciò che è afferrabile l’uomo lo può maneggiare e può asservirlo ai propri scopi. Questo si vede già nella morfologia della mano. Decisiva è però la coordinazione tra mano, occhi e cervello, come si vede considerando qualsiasi manipolazione di oggetti coll’intenzione di plasmarli. Una coordinazione nella quale coagiscono a mo’di circuito di regolazione dati ricavati, segnali guida, informazioni di ritorno e correzioni. Inserita in un “circuito di regolazione tecnico-organico”, la mano fa i suoi giochi di prestigio. Ne emerge una capacità di fare esperienza che — pervadendo tutto il corpo — sbocca nella specifica intelligenza produttiva dell’uomo.22

La tecnica è perciò una forma di intelligenza produttiva il cui epicentro è da rintracciarsi nella mano, così come già in Aristotele che nel De anima definisce la mano lo strumento degli strumenti e nel De Partibus animalium afferma: «a colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. […] All’uomo, invece, sono concessi molti mezzi di difesa, ed egli può sempre mutarli, adottando inoltre l’arma che vuole e quando vuole. La mano infatti può diventare artiglio, chela, corno, o anche lancia, spada e ogni altra arma o strumento: tutto ciò può essere perché tutto può afferrare e impugnare».23

Con il progressivo miglioramento della coordinazione mano-occhio-cervello l’agire tecnico si è evoluto fino a determinare una condizione “di ritorno” sulle caratteristiche umane. Di conseguenza, se è vero che le capacità e le possibilità psico-fisiche dell’uomo sono state il motore primo dell’agire tecnologico è parimenti vero che, da un certo momento in poi, l’agire tecnologico ha influito su quelle stesse capacità psico-fisiche che ne erano state il motore primo. E la mano, oltre ad essere strumento di intervento nel mondo è, per l’uomo, anche strumento di conoscenza di se medesimo: solo attraverso quest’arto, infatti, l’uomo tocca se stesso e nel toccarsi si conosce; solo attraverso la mano l’uomo tocca altri uomini instaurando una relazione di tipo conoscitivo e comunicativo.

La mano, infine, consente l’oggettivazione del mondo attraverso l’uso di utensili che mediano il rapporto tra il mondo esterno e l’uomo, modificandolo profondamente. In questa prospettiva gli artefatti tecnologici non sono per nulla sostitutivi e compensativi di una manchevolezza, ma protesi che amplificano caratteristiche già possedute in potenza.

Della teoria di Gehlen, in Popitz, rimane solo l’idea di rafforzamento dell’organo, e ne vengono — invece — escluse le ipotesi di sostituzione ed esonero: «la lancia non ha esonerato dalla caccia agli orsi ma l’ha resa al contrario possibile, e questo con grande sforzo degli organi».24

Insomma, non ci spostiamo in aereo perché non abbiamo le ali; lo utilizziamo perché siamo stati in grado di pensarlo, progettarlo, costruirlo, farlo funzionare; e l’aereo non sostituisce un organo di cui eravamo privi, ma apre nuove possibilità di confronto con il mondo esterno.

L’agire tecnologico è, pertanto, una trasformazione antropocentrica di ciò che è naturalmente dato fino alla creazione delle macchine che, quasi avessero una capacità tecnologica al quadrato, conducono ad una eterodeterminazione sull’uomo che le ha create: «l’effetto antropocentrico dei processi tecnologici si interrompe con la tecnologia delle macchine. L’opera della costruzione delle macchine è elevata espressione della capacità umana di riplasmare il dato a misura d’uomo […] e nel contempo, proprio con questa creazione, viene messa al mondo una nuova entità, un nuovo processo in modo definitivo e prima inimmaginabile, espone l’uomo a una eterodeterminazione per mezzo di ciò che ha creato».25

E in questa complessa visione circolare di prodotti che influiscono sui processi Popitz ricostruisce una storia della tecnica scandita da sette tecnologie fondamentali:

  1. Tecnologia degli utensili: i primi mezzi di produzione. L’uomo lavora “qualcosa” allo scopo di rendere più adatta la natura di “qualcos’altro”. «La produzione di mezzi di produzione è la prima e veracemente fondamentale idea della storia della tecnologia.»26
  2. Prima rivoluzione tecnologica: Tecnologia dell’agricoltura (8 000 a.C.): l’uomo diventa produttore dei suoi mezzi di sussistenza, mettendo al proprio servizio processi vitali che riguardano altre creature; plasma la natura organica. «Il contadino lavora la natura in modo tale che la natura lavori per lui — e questa è l’idea fondamentale della nuova tecnologia»27
  3. Tecnologia della ceramica e metallurgia (6 000 a.C.): l’uomo produce direttamente il materiale tecnico di cui necessita; forgia la natura inorganica. «L’agire tecnologico produce d’ora in poi non solo la forma degli artefatti ma anche la natura del materiale di cui quelli sono fatti.»28
  4. Tecnologia dell’edilizia urbana (3 000 a.C.): l’organizzazione orizzontale e verticale delle città determina cambiamenti sociali di enorme portata: l’architettura della città è un’architettura del potere, cui si vanno affiancando attività sempre più specializzate di produzione, immagazzinamento e scambio di merci. L’uomo acquista il potere di modificare tecnologicamente se stesso.
  5. Seconda rivoluzione industriale: Tecnologia delle macchine (a partire dalla seconda metà del XVIII secolo): con la produzione delle macchine si innescano due tendenze principali: l’aspirazione sempre più marcata all’efficienza e l’autopoiesi delle macchine stesse.
  6. Tecnologia della chimica (prima metà del XIX secolo).
  7. Tecnologia dell’elettricità (seconda metà del XIX secolo).

Considerata complessivamente, questa evoluzione è una sequenza di attività atte a trasformare antropocentricamente la realtà. Ogni innovazione tecnologica, per l’Autore, non determina solo un salto quantitativo nella capacità produttiva dell’essere umano, genera anche un salto di natura qualitativa: ogni innovazione tecnologica cambia il posto dell’uomo nel mondo: «la storia della tecnica è la storia della atropo-centrizzazione della Terra».29

Sebbene la ricostruzione storica proposta, tanto dal punto di vista cronologico quanto a livello interpretativo,30 possa essere opinabile, essa offre un’utile prospettiva di lettura intorno al ruolo della tecnologia vista non come strumentale all’evoluzione umana, ma come sostanziale. La tecnologia è il cuore del progressivo accomodamento culturale dell’uomo, della sua capacità di organizzarsi culturalmente nel mondo trovando via via nuovi assetti, di trovare la propria specifica posizione in un mondo che è sempre più capace di controllare e prevedere, dotandolo di un senso e di un significato.

Dunque, nonostante le differenze, anche per Popitz così come per Gehlen la storia della tecnica è storia dell’uomo stesso e della sua cultura e, contemporaneamente, è espressione di una connaturata predisposizione ad agire, perseguendo lo scopo di razionalizzare il mondo e la propria posizione in esso, anche producendo ciò che in natura non è dato: l’artefatto. Eppure, le interpretazioni che costringono l’agire tecnico nel solo campo produttivo sono riduttive, sia che si consideri l’innovazione tecnologica quale il motore dei cambiamenti socio-economici, sia che si interpreti — di contro — come una conseguenza di un radicale cambiamento sociale ed economico, l’agire tecnico è intimamente legato all’organizzazione sociale ed economica e alla rappresentazione che un determinato gruppo umano ha di se stesso.

Pare perciò plausibile poter affermare che l’opposizione natura-cultura trovi nell’agire tecnologico il canale di comunicazione, di scambio e di reciproca influenza.

3. Le tecnologie culturali

Tanto è complessa la trattazione antropologica della tecnologia che Haudricourt preferisce definirla “scienza umana”, auspicando che possa determinarsi una disciplina autonoma a cavallo tra storia ed etnologia all’interno della quale ricostruire storicamente lo sviluppo degli oggetti materiali e del loro utilizzo.31 Prospettiva, questa, che conforta l’ipotesi iniziale secondo cui il “sapere puro” e il “sapere pratico” sono distinguibili formalmente a scopo conoscitivo, ma non sostanzialmente come capacità metodologiche, potenzialità euristiche e contenuti valoriali. Al contrario, “sapere puro” e “sapere pratico” sono così profondamente e intimamente inter-connessi da aver trovato nelle tecnologie della parola uno dei nodi comuni più pervasivi della produzione culturale umana.

Platone, padre di tutti gli idealismi, intendeva difendere il percorso conoscitivo che conduceva alla Verità dalle false opportunità offerte dalla scrittura tanto da far dire al “suo” Socrate, nel Fedro:

Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi.32

Sicché, per Platone, la scrittura non era in grado di poter sostenere il peso della Verità; non poteva in alcun modo condurre ad essa, come invece potevano fare i discorsi e i dialoghi sostenuti da una logica dialettica. Eppure, oggi, mentre non si può citare Socrate si può invece riportare il pensiero platonico: contraddizione insita nell’opera del grande maestro che mentre denigrava la scrittura la utilizzava per i propri dialoghi, al contrario di Socrate del quale nulla ci è pervenuto. Ma al di là dell’atteggiamento contraddittorio, importante è valutare come uno strumento tecnologico, un mezzo di comunicazione — il discorso orale o il discorso scritto — venga considerato da un filosofo classico come influente sulla correttezza del metodo da utilizzare nella ricerca della verità. Per Platone, la parola orale poteva condurre alla sapienza, al contrario della parola scritta, perché colui che ha intenzione di trattare di cose d’impegno «non le scriverà con intenzioni serie nell’acqua nera, seminandole mediante la penna con parole che non possano parlare a propria difesa, né possono insegnare in modo sufficiente il vero».33 La scrittura, dunque, per Platone non è strumento di verità. E nonostante ciò l’Autore, a sua insaputa, ne individua una condizione valoriale importante: la verità può dipendere dalla tecnologia che si utilizza per la sua ricerca, trasmissione, diffusione; lo strumento comunicativo ha “qualcosa” a che fare con l’idea di verità, è ad essa collegata al punto che ne può determinare la procedura e l’esito. La parola orale dà forma alla Verità, la sostanzia; cosa a cui il discorso scritto non può accedere, che gli è preclusa. Platone pensava alla parola scritta come ad un artificio esterno all’uomo e alla sua connaturata aspirazione e capacità conoscitiva, mentre — con tutta probabilità — pensava alla parola orale come strumento naturale del metodo dialettico, metodo conoscitivo per eccellenza.

Esiste da sempre, quindi, una opposizione fra oralità e scrittura di natura non solo strumentale, ma — per così dire — gnoseologica: legata all’idea di verità conoscibile e di organizzazione culturale della stessa. Questa opposizione è stata mirabilmente descritta da Ong come segue: «pensare alla tradizione orale o a un’eredità di forme, generi e stili orali come a una “letteratura orale” è lo stesso che pensare ai cavalli come a delle automobili senza ruote».34

Anche la parola scritta, dunque, è una tecnologia che al pari degli utensili, dell’agricoltura e della chimica ha determinato profondi cambiamenti di natura socio-culturale ma anche di tipo gnoseologico e cognitivo. Per Ong, la parola, al pari delle altre tecnologie, è contemporaneamente naturale e artificiale: «le tecnologie sono artificiali, ma — di nuovo il paradosso — l’artificialità è naturale per gli essere umani».35 Ancora una volta, l’ossimoro nature artificielle pare ben adattarsi a sintetizzare l’essenza antropologica dell’umano. Ma proprio perché così legate alla natura umana, le tecnologie, e in specie quelle della parola, non sono solo aiuti esterni e neutri, ma comportano cambiamenti che, da questo Autore, vengono identificati in trasformazioni delle strutture mentali.

Fino ad ora, con Gehlen e Popitz, è stato evidenziato il rapporto di reciprocità tra innovazione tecnologia e innovazione socio-culturale-economica, così da poter dimostrare un certo grado di reciprocità tra struttura tecnologica e sovrastruttura culturale. Seguendo le ipotesi e le dimostrazioni di Ong possiamo aggiungere anche il fattore cognitivo. Non che Popitz lo avesse escluso totalmente, ed infatti rintraccia nel circuito mano-cervello-occhi un dispositivo regolatore della capacità tecnico-organica, al punto da affermare che il cervello e il corpo degli ominidi hanno sudato gli utensili prodotti innescando un circolo così strutturato: «quanti più utensili l’uomo produceva […] tanti più modelli di forme doveva ricordare […]. Quanto più difficili sono diventate le forme degli utensili, tanto più gli occhi dovevano imparare a vedere anche piccole differenze e a guidare corrispondentemente il movimento della mano. […] Quanto più complesso diventava il movimento della mano nell’utilizzare arnesi, tanto più bisognava dominare le capacità motorie della mano e collegare l’uno con l’altro i singoli movimenti arbitrari».36 Anche in Popitz, perciò, è presente un’attenzione allo sviluppo delle capacità cognitive e senso-motorie in relazione all’utilizzo di artefatti tecnici. Ma Ong va oltre: non solo l’artefatto innesca, sollecita e sviluppa capacità e abilità nuove da un punto di vista fisiologico; anche il pensiero tecnologico modifica cognitivamente l’umano determinando nuove forme di organizzazione del sapere. Tanto ha potuto l’introduzione della parola scritta, tanto ha potuto l’introduzione della stampa.

In concomitanza con l’esordio della scrittura si ha un cambiamento cosmologico, non è una nuova tecnologia che si affianca alla precedente migliorandone alcuni aspetti quanto piuttosto una nuova tecnologia che smantella l’ordine costituito intorno alla precedente. Le culture orali e quelle chirografiche, infatti, sono tra loro — per dirla con Feyerabend — incommensurabili, non hanno cioè punti in comune sulla base dei quali poter operare una comprensione per analogia o similitudine. Piuttosto, è un “nuovo mondo” che sostituisce quasi per intero il precedente, una psicodinamicità diversa e non complementare, una nuova organizzazione del pensiero. La tecnologia della scrittura, non considerata né da Gehlen né da Popitz, costituisce — invece — per Ong l’invenzione che più di tutte le altre ha trasformato la mente umana perché «non si tratta di una semplice appendice del discorso orale, poiché trasportando il discorso dal mondo orale-aurale a una nuova dimensione del sensorio, quella della vista, la scrittura trasforma al tempo stesso discorso e pensiero».37

Forme del linguaggio e forme del pensiero, dunque, si modificano reciprocamente, così come già Platone aveva intuito; l’oralità delega il significato al contesto e alla riproduzione mnemonica di se stessa e della propria cultura; la scrittura, invece, affida il significato al linguaggio stesso, puntando sulla precisione e puntualità terminologica.

Con l’avvento della stampa, altra tecnologia della parola, si giunge alla nascita dei grandi bacini culturali in cui si deposita il passato, la tradizione, la storia: nascono i saperi “enciclopedici”, nascono i cataloghi, gli indici e i vocabolari. La stampa presuppone che le parole siano “cose” ancor più di quanto non abbia fatto la scrittura amanuense, che siano infinitamente riproducibili uguali a se stesse. In questa caratteristica, nella riproducibilità tecnica della scrittura, Ong individua uno dei fattori che contribuirono alla nascita della scienza moderna:

Una delle conseguenze di questa esatta riproducibilità fu la nascita della scienza moderna. Non che prima non si praticasse l’osservazione esatta: per secoli essa era stata essenziale alla sopravvivenza, ad esempio fra i cacciatori e gli artigiani. Ma, carattere distintivo della scienza moderna, è l’unione tra osservazione esatta e verbalizzazione esatta, vale a dire, una descrizione verbalmente formulata in modo preciso degli oggetti e dei complessi processi osservati […] Le tecniche della stampa e della verbalizzazione esatta si dettero vicendevole impulso: il mondo poetico ipervisualizzato che ne derivò, fu qualcosa di completamente nuovo. Gli scrittori dell’antichità e del Medioevo non erano affatto in grado di descrivere con esattezza oggetti complessi, come avverrà invece dopo l’invenzione della stampa, e ancor più in epoca romantica, cioè nell’età della rivoluzione industriale.38

E sulla reciproca influenza tra tecnica di comunicazione, capacità cognitive e struttura del sapere insiste Ong anche quando, descrivendo i caratteri propri delle culture orali in opposizione con quelle chirografiche, affronta l’analisi dell’Odissea sulle tracce delle osservazione proposte da studiosi precedenti e allorché riporta i racconti di esperienze etnografiche, definendo così le caratteristiche psicodinamiche dell’oralità. Fra i dati di maggior interesse, riportati con dovizia di particolari e attinti dalle ricerche di Lurija,39 l’incompetenza dei soggetti illetterati (orali) a riconoscere categorie logiche formali: «una cultura orale semplicemente non riesce a pensare in termini di figure geometriche, categorie astratte, logica formale, definizioni, o anche descrizioni inclusive o auto-analisi articolate che derivano tutte non semplicemente dal pensiero in sé ma dal pensiero condizionato dalla scrittura».40

4. Pensare criticamente le tecnologie

Gehlen, Popitz e Ong confermano l’idea di partenza secondo cui l’agire tecnico ed il pensiero tecnologico sono fatti totali, che — come ebbe a dire Haudricourt a proposito degli oggetti materiali — se studiati correttamente si trascinano dietro l’intera società. Non che, a nostro avviso, siano necessariamente il punto privilegiato da cui guardare l’evolversi dei modelli di pensiero e sociali, ma certamente guardando l’oggetto si può intravedere il valore culturale dello stesso, contestualizzandolo nella triplice relazione citata in apertura tra sapere tecnologico, valore della tecnologia e contesto sociale che è il modello interpretativo proposta dal tecnologo Pacey per definire la cultura della tecnologia.41 Operazione, questa, tanto più importante nella contemporaneità in cui gli artefatti tecnici sono estremamente diffusi ed il loro carattere di apparente naturalità è ancora perfettamente integro, seppur — come dimostrato — palesemente improbabile. Diversamente, decontestualizzare la tecnologia assumendola come neutra, come un compartimento stagno di un più ampio quadro culturale con il quale non sussistono relazioni e scambi se non di natura strumentale è un errore interpretativo che svilisce tanto il ruolo della tecnologia quanto l’orizzonte culturale, paventando il danno di non saper guardare oltre il fatto tecnologico in sé e per sé escludendolo, così, dal movimento dialettico che lo vede in costante relazione con i fatti sociali, inclusi quelli di portata etica e politica. Lo stesso Popitz, nel volume Fenomenologia del potere, ha incluso il rapporto tra tecnica e potere dedicandovi un intero capitolo (L’agire tecnico) e sebbene la sua riflessione fosse esplicitamente dedicata agli artefatti materiali e agli strumenti di violenza e controllo la sua affermazione secondo cui «in linea di principio ogni modificazione tecnica può diventare un atto di esercizio del potere»42 a noi pare la conferma che il nesso rilevato sia estensibile anche ad altri campi dell’agire tecnologico tanto nella fase propriamente creativa quanto nell’uso finalizzato della tecnologia.

In particolare, in questa sede ci interessa riflettere sulle tecnologie della comunicazione perché offrono l’occasione di affrontare il portato politico dell’agire e del pensare tecnologico. Se è vero, come affermiamo, che la tecnologia influenza l’individuo nel proprio agire individuale e collettivo, nella rappresentazione di sé, degli altri e del mondo ciò non può essere disgiunto dalla organizzazione e dalla gestione del potere, tanto più all’interno del campo delle tecnologie della comunicazione che possono essere affrontate a partire da un assunto interpretativo rintracciabile nel pensiero filosofico da Bacone in poi secondo cui sapere è potere.

Non c’è dubbio che le tecnologie della comunicazione, da sempre, influenzano la fenomenologia del potere e ne determinano le forme; ciò nonostante non esiste una relazione univoca, deterministica fra tecnologia e potere, così come non esiste un nesso deterministico fra tecnologia e organizzazione sociale, disposizione cognitiva, organizzazione culturale. In conclusione: nonostante il valore centrale dell’agire tecnologico questo non è soggetto a corrispondenze deterministiche fra cause ed effetti perché la tecnologia può essere motivo dello sviluppo umano, ma certamente ne è anche effetto; perché i processi influiscono sui prodotti, ma anche i prodotti influiscono sui processi.

Il determinismo tecnologico, insomma, non è un utile paradigma interpretativo perché non esiste un nesso causale fra i tre ambiti di cui è composta la cultura tecnologica; anche la visione forte di Braudel, per cui «tutto è tecnica» è contestualizzata dall’Autore stesso come segue: «un’innovazione ha significato soltanto in relazione alla spinta sociale che la sostiene e la impone»43 che ne amplifica i fattori di indeterminatezza e le possibilità di evoluzione non predeterminata. Anche Bloch lega il fattore tecnologico alla reazione sociale in cui e da cui è determinato perché «l’invenzione non è tutto. È necessario che la collettività l’accetti e la propaghi»44 e, aggiungiamo noi, concorra a determinarne gli esiti.

Dunque, sebbene le relazioni siano sempre più complesse rispetto a quelle pensate all’interno di una visione deterministica della realtà, esiste un nesso innegabile tra tecnologie della comunicazione, potere ed etica. Seguendo un semplice ragionamento non è pretestuoso affermare che se il sapere è potere e le tecnologie sono, come dimostrato, forma pratica e teorica del sapere, le tecnologie sono potere. Zavoli, nella sua Lectio Magistralis presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata così si esprime in proposito alle tecnologie della comunicazione: «è diffusa l’idea secondo cui, oggi, l’informazione non è più il “quarto potere” dei tempi andati, ma quello che, per la sua globalizzazione e velocità, condiziona le cose del mondo allo stesso modo, ormai, dell’economia. E il fatto d’essere un nuovo sapere, implica, per ciò stesso, l’acquisizione di un nuovo potere. Talché, azzarda qualcuno, oggi si vincono più battaglie usando i media, che tessendo diplomazie politiche e finanziarie».45

E l’analisi della relazione tra tecnologia e potere è solo apparentemente una questione ideologica, dimostrandosi, al contrario, un aspetto fondamentale per la comprensione dei legami fra tecnologia e cultura dell’umano da cui siamo partiti. Non a caso la ricostruzione storica della società dell’informazione proposta da Mattelart dimostra come le tecnologie della comunicazione e dell’informazione siano tecnologie del potere e come ne determinino gli esiti, la fenomenologia, gli usi e gli abusi.46 Tutte le tecno-utopie sottendono più o meno implicitamente una visione dell’uomo e del suo intrinseco “valore” a partire dal quale si pratica una particolare forma di tecnologia finalizzata (anche) alla gestione del potere. Così è stato, per esempio, con Bacone e Leibniz che avevano visto nella costituzione e condivisione di una lingua universale la possibilità di crescita di tutto il genere umano. Bacone aspirava alla composizione di una lingua filosofica, a priori, capace di liberare la scienza dagli idola di cui era intrisa, rifondandola così sulla base di un alfabeto del pensiero umano in grado di render conto dell’oggettività della ricerca empirica. Leibniz, in una prospettiva diversa, espressamente religiosa, tesa ad un ecumenico cosmopolitismo, desiderava la medesima condivisione di una lingua capace di far intendere tutto il genere umano.

La lingua, dunque, come tecnologia della parola capace di far progredire l’umanità nella conoscenza, nella pace, nella concordia, insomma in una storia ormai accettata come progressiva e migliorista.

E così è, oggi, con l’ideale di intelligenza collettiva che è: «un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze»47 perché è democraticamente costituita in una comunità, in un collettivo spontaneo il cui progetto comporta ed aspira ad un nuovo umanesimo in cui si passa dal cogito cartesiano al cogitamus, ma che «lungi dal fondere le intelligenze individuali in una sorta di magma indistinto» è un processo di crescita di differenziazione e di reciproco rilancio delle individuali specificità.48 Così la democrazia diretta è praticabile a partire dalle tecnologie che la consentono: «la democrazia rappresentativa può essere considerata come una soluzione tecnica alla difficoltà di coordinamento. Ma nel momento in cui si presentano soluzioni tecniche migliori, non c’è alcuna ragione per non prenderle seriamente in considerazione».49 E fa un certo effetto paragonare questa affermazione a quella di Vandermonde che non poco tempo prima, nel 1795, scriveva: «molti uomini rispettabili, tra i quali va annoverato Jean-Jacques Rousseau, hanno ritenuto che l’istituzione della democrazia fosse impossibile presso i grandi popoli. Come infatti il popolo potrebbe decidere tutto insieme? […] L’invenzione del telegrafo è un elemento nuovo di cui Rousseau non ha potuto tener conto nei suoi calcoli. Esso può servire a parlare a grandi distanza tanto speditamente e tanto distintamente come in una sala»;50 seguendo esattamente lo stesso ragionamento del suo successore e considerando, al suo pari, lo strumento tecnologico come portatore autonomo di valori intrinseci.

Una credenza molto diffusa è che la tecnologia, di per sé, sia neutra e che il valore positivo o negativo non risieda mai nella tecnologia stessa, ma nella contestualizzazione del suo uso. Questa credenza è solo parzialmente vera, infatti l’invenzione, l’innovazione tecnologica non è mai il frutto isolato del lavoro geniale di un individuo ma è il risultato di una stratificazione anche non lineare di saperi che la rendono possibile. Quale frutto del suo tempo e del suo spazio la tecnologia ne eredita i valori e, contemporaneamente, tende a modificarli attraverso processi lunghi e, per lo più, imprevedibili. Sicché la tecnologia non è neutra, ha un proprio orizzonte valoriale che, come detto, riflette e determina una visione particolare dell’uomo e del suo posto nel mondo e nel cosmo. Insomma, un medesimo strumento può determinare effetti diversi in dipendenza dalle variabili proprie della specifica cultura tecnologica.

Ed in questo senso è interpretabile la polemica serrata di Mattelart alle tecno-utopie figlie del determinismo tecnologico che viene così giudicato dall’Autore:

Il determinismo tecnomercantile genera una modernità amnesica e priva di progetto sociale. La comunicazione senza fine e senza limiti si autonomina erede del progresso senza fine e senza limiti. Se la memoria non ci inganna, assistiamo al ritorno in auge di un’escatologia di carattere religioso che trae ispirazione dalle profezie sull’avvento della noosfera. […] La società delle reti è dunque ben lontana dall’aver posto fine all’etnocentrismo delle età imperiali. Più che risolvere il problema, la tecnologia lo sposta. Mentre rimane sul tappeto la questione più lacerante: come concepire e rendere operanti altri modelli di sviluppo?51

La tecnologia, perciò, non è di per sé un sapere neutro ma non è neppure intrinsecamente determinato, tanto più se intorno all’uso della tecnologia, e nello specifico delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, le riflessioni di più ampio respiro cercano anche un indirizzo di natura etica, come nel caso di Mattelart che afferma in apertura del suo volume che una diversa società dell’informazione è possibile; o come nel caso del citato giornalista Zavoli che, distinguendo fra informazione e comunicazione, auspica che una riflessione sugli strumenti mediatici e, specificatamente, sul giornalismo non si riveli sempre più povera di attenzione alle conseguenze etiche e ai principi deontologici perché «non è solo questione di essere culturalmente pronti a ciò che cambia, ma anche eticamente capaci di adeguare le scelte ai principi. […] Non saranno le parvenze a farci diversi, ma la percezione e la coscienza di ciò che, cambiando, ci cambia; e sapendo che domani si potrà ancora cambiare questo mondo cambiato. Cambiato anche da noi, i cosiddetti comunicatori».52

Il carattere “partigiano” della tecnologia è legato, perciò, al contesto culturale in cui viene pensata e alle modificazioni che produce nel medesimo contesto culturale in conseguenza al suo uso, alle sue interpretazioni e alle conseguenze sociali e cognitive che comporta. Ancora, la tecnologia non è neutra perché è intimamente legata alla trasmissione del sapere, come afferma Mauss, che è connessa alla trasmissione del potere. «Non esiste tecnica né trasmissione, se non c’è tradizione. È in questo che l’uomo si distingue, prima di tutto, dagli animali: per la trasmissione delle sue tecniche […].»53

Inevitabilmente la trasmissione del sapere sposta la riflessione su temi più squisitamente pedagogici ed educativi.

5. Conclusioni

Tentare conclusioni su temi di così vasta portata è sempre un’impresa ardua, di necessità soggetta al monito crociano del dire ciò che si sa e si può. Come tale, è sempre un’operazione provvisoria e settoriale, in mutamento e soggetta ai cambiamenti interni al proprio tempo.

Fino ad ora si è tentato di dimostrare come l’agire tecnologico sia naturalmente connaturato all’essenza dell’umano, tanto che si guardi a questa relazione come a una mancanza organica, tanto che vi si guardi come a una specifica capacità umana si può giungere alla conclusione che l’agire tecnico è uno dei veicoli principali delle determinazioni culturali dell’umano, per il quale nulla è più naturale della tecnica. Ovviamente, in questa affermazione si cela il paradosso di considerare la natura umana come qualcosa di artificiale per definizione; di culturale per precostituita determinazione. Antropologia della tecnica e cultura della tecnologia non sono, perciò, alternative l’una all’altra, piuttosto si è dimostrato come siano complementari: l’uomo è antropologicamente determinato nel suo stare nel mondo attraverso l’agire tecnico e questo comporta una progressiva costruzione di una cultura tecnologica, intendendo con ciò una complessità di aspetti (di cui si è detto) che la fanno progressivamente coincidere con una cultura della tecnologia. Non dualismo, dunque, ma funzionalità reciproca capace di risanare anche la spaccatura, dimostrata inconsistente, fra sapere puro e sapere tecnico. La distinzione fra téchne ed epistéme non trova oggi, almeno a nostro avviso, argomentazioni valide per la sua perpetrazione.

Insomma, la tecnologia è una forma di conoscenza e di sapere che non può essere compresa a partire da una gerarchizzazione disciplinare proprio perché si è dimostrata connaturata alla natura dell’uomo, trasversale ai diversi saperi e in reciproco rapporto con le costruzioni culturali storicamente determinate; e proprio nel riconoscerla legittima detentrice di capacità conoscitive e, perciò stesso, legata alle molteplici determinazioni culturali dell’umano, la tecnologia mostra il suo legame con il potere, proprio in quanto forma di sapere. Per ciò stesso la tecnologia non è neutra e una riflessione sulla sua natura non può prescindere da considerazioni valoriali, quando non etiche.

Come affrontare, dunque, il ruolo delle tecnologie all’interno dei processi formativi se non a partire da questa complessità? In primis perché il sapere tecnologico, nella formazione, è tanto oggetto quanto soggetto di istruzione ed educazione: si tramanda sia l’essenza del sapere tecnologico sia la sua forma, cioè tramandare la cultura è tramandare forme di sapere organizzate tecnologicamente (la sostanza) attraverso apparecchiature tecniche (la forma).

Eliminare tale complessità dai processi di formazione è certamente una scelta pericolosa perché depriva i “tecnici” del valore propriamente più culturale del loro sapere e — contemporaneamente — depriva i “teorici” della possibilità di orientare i processi tecnologici intervenendo nella pratica.

Per tutto ciò, e davvero in conclusione, sposiamo la posizione “formativa” di Fieri che afferma:

La tesi che vogliamo sostenere è piuttosto forte: tutti, anche le persone più distanti dalla produzione e dall’utilizzazione di oggetti tecnici, dovrebbero possedere, in qualche misura, una cultura della tecnologia con tutte e tre le sue dimensioni.

[…] Un alto livello di intellettualità dei tecnici non è solo un elemento di civiltà, ma la condizione per agire in modo più efficace e, probabilmente, più innovativo.

I fruitori hanno bisogno, come è ovvio, di buone competenze d’uso, specialmente se sono utilizzatori di utensili sofisticati. In qualche misura debbono conoscere anche i paradigmi di base della scienza tecnologica. Ma hanno soprattutto bisogno di dare un senso all’uso degli oggetti tecnici, e questo richiede una forte consapevolezza del contesto e del valore della tecnologia, almeno in relazione al proprio raggio d’azione.

Quale che sia il rapporto dei singoli con le tecnologie, essi sono cittadini, che debbono partecipare nel modo più attivo e consapevole possibile alle scelte della loro comunità, e persone che hanno bisogno, per sviluppare le proprie potenzialità culturali, di comprendere tutti gli aspetti rilevanti del mondo che li circonda. Questa è la ragione per cui, oltre a una forte consapevolezza del contesto e dei valori, tutti dovrebbero conoscere i principi di base delle tecnologie e sviluppare almeno la voglia di scoprire come funzionano gli oggetti tecnici.54

6. Bibliografia

  • Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 1990
  • Aristotele, Parti degli animali, Laterza, Roma-Bari 1990
  • Braudel F., Civiltà materiale, economia, capitalismo, Einaudi, Torino 1976
  • Daumas M., Le grandi tappe del pensiero tecnico, Armando, Roma 1983
  • De Martino E., Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, Argo, Lecce 1997
  • De Martino E., Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995
  • Diamond J., Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 2000
  • Febvre L., Réflexions sur l’Histoire des techniques, PUF, Paris 1962
  • Fierli M., La cultura della tecnologia, in TD — Tecnologie didattiche, n. 1, 2005
  • Gehlen A., L’uomo nell’era della tecnica, Armando Editore, Roma 2003
  • Haudricourt A. G., La Technologie science humaine, Éditions de la Maison des science de l’homme, Paris 1987
  • Lévi-Strauss C., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1975
  • Lévy P., L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1998
  • Lurija A. R., Storia sociale dei processi cognitivi, Giunti Barbera, Firenze 1976
  • Bloch M., Technique et évolution sociale : réflexions d’un historien, in Mélanges historiques, Sevpen, Paris 1963
  • Malinowski B., Voce: Cultura dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali, in P. Rossi (a c. di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, Einaudi, Torino 1970
  • Mattelart A., Storia della società dell’informazione, Einaudi, Torino 2002
  • Mauss M., Teoria generale della magia, Einaudi, Torino 1991
  • Ong W. J., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986
  • Pacey A., The Culture of Technology, MIT Press, Cambridge, MA, USA 1992
  • Papi F., Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Liguori, Napoli 2006
  • Platone, Fedro, Laterza, Roma-Bari, 1991
  • Popitz H., Fenomenologia del potere, il Mulino, Bologna 1990
  • Rossi P., Introduzione, in P. Rossi (a c. di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, Einaudi, Torino 1970
  • Sahlins M., L’economia dell’età della pietra, scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980
  • Tylor E. B., Primitive Culture, J. Murray, London 1871
  • Zavoli S., Lectio Magistralis: Un sapere e un potere nuovi, 26 marzo 2007, Università degli studi di Roma Tor Vergata, Facoltà di Lettere e Filosofia

  1. Etimologicamente il termine metafisica deriva da metà tà physiká: ciò che sta oltre il mondo della realtà sensibile, fisica. Il termine venne coniato non da Aristotele ma da Andronico di Rodi, suo editore, per indicare i libri che venivano dopo la Fisica. Con il tempo però il termine assunse un valore metaforico fino ad indicare il tema dell’essere in quanto essere, di cui trattavano i volumi in oggetto, ed il suo utilizzo si diffuse con tale significato. ↩︎

  2. Aristotele, Etica Nicomachea, VI (Ζ), 4-5, 1140a, 20, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 144. ↩︎

  3. Cfr. A. Pacey, The Culture of Technology, MIT Press, Cambridge, MA, USA 1992; in Italia M. Fierli, La cultura della tecnologia, in TD — Tecnologie didattiche, n. 1, 2005, pp. 13 - 21. ↩︎

  4. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando Editore, Roma 2003, p. 33. ↩︎

  5. E. B. Tylor, Primitive Culture, J. Murray, London 1871. ↩︎

  6. Cfr. P. Rossi, Introduzione, in P. Rossi (a c. di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, Einaudi, Torino 1970, pp. VII-XXXI. ↩︎

  7. B. Malinowski, Voce: Cultura dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali, in P. Rossi (a c. di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, op. cit., p. 136. Pur nelle differenze di pensiero una posizione simile è espressa da Mauss che afferma, con riferimento alle tecniche del corpo: «era un modo acquisito, non un modo naturale di camminare. Insomma, nell’adulto, non esiste forse un “modo naturale”». M. Mauss, Teoria generale della magia, Einaudi, Torino 1991, p.390. ↩︎

  8. Ibidem. ↩︎

  9. H. Popitz, Fenomenologia del potere, il Mulino, Bologna 1990, p. 104. ↩︎

  10. Letteralmente “al di fuori del corpo”, in questa sede indica un organo “esterno” all’uomo che risponde alle sue mancanze organiche attraverso la costruzione di artefatti tecnici. Il termine si contrappone a endosomatico. ↩︎

  11. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, op. cit., p. 33. ↩︎

  12. Ivi, p. 41. ↩︎

  13. Ivi, p. 40. ↩︎

  14. E. De Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995, p. 147. ↩︎

  15. Ivi, p. 163. ↩︎

  16. Cfr. E. De Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, Argo, Lecce 1997. ↩︎

  17. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, op. cit., p. 42. ↩︎

  18. M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980, p. 88. ↩︎

  19. H. Popitz, Verso una società artificiale, Editori Riuniti, Roma, 1996 ↩︎

  20. Ivi, p. 42. ↩︎

  21. Cfr. F. Ferrarotti, Prefazione, a H. Popitz, Verso una società artificiale, op. cit., pp. IX-XV. ↩︎

  22. H. Popitz, Verso una società artificiale, op. cit., p. 5. ↩︎

  23. Aristotele, Parti degli animali, IV (Δ), 10, 687a-b, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 128. Per un confronto in merito fra i filosofi classici fino a Giordano Bruno cfr. F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Liguori, Napoli 2006, pp. 214-221. ↩︎

  24. H. Popitz, Verso una società artificiale, op. cit., p. 41. ↩︎

  25. Ivi, p. 23. ↩︎

  26. Ivi, p. 13. ↩︎

  27. Ivi, p. 16. ↩︎

  28. Ibidem. ↩︎

  29. Ivi, p. 9. ↩︎

  30. Per esempio, sullo stesso tema si confrontino le opinioni alternative di J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 2000. Specificatamente, con riguardo all’organizzazione dello spazio umano pre-urbanistico cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1975 in cui l’Autore mostra come una tecnologia “del potere” e dell’autorappresentazione di sé fosse gia presente nelle strutture dei villaggi di molti popoli etnografici. Ancor prima, diversi autori si sono confrontati sulla storia della tecnica, specificatamente M. Daumas, Le grandi tappe del pensiero tecnico, Armando, Roma 1983 propone una storia “interna” della tecnica come un insieme coerente di tappe evolutive sulle quali nessuna, o poca, influenza hanno avuto le condizioni socio-economiche. Di contro, L. Febvre, Réflexions sur l’Histoire des techniques, PUF, Paris 1962 sostiene nella sua ricostruzione della storia del mondo materiale che lo spirito dell’epoca influisce notevolmente sull’evoluzione tecnica e viceversa. Ciò nonostante, fra gli storici della tecnica, ha prevalso l’idea che la storia della tecnica possa essere ricostruita da una prospettiva interna alla tecnica stessa in un’ottica di “autosufficienza” rispetto alla storia generale per passare, solo in un secondo momento ed eventualmente ad una ricerca comparativa tra evoluzione tecnica ed evoluzione storica complessivamente intesa. ↩︎

  31. André-Georges Haudricourt, La Technologie science humaine, Éditions de la Maison des science de l’homme, Paris 1987 ↩︎

  32. Platone, Fedro, 275d-e, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 275-276. ↩︎

  33. Ivi, 276d, p. 277. ↩︎

  34. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986, p. 31. ↩︎

  35. Ivi, p. 124. ↩︎

  36. H. Popitz, Verso una società artificiale, op. cit., p. 53-54. Corsivi nel testo. ↩︎

  37. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, op. cit., p. 126-127. ↩︎

  38. Ivi, p. 180-181. ↩︎

  39. A. R. Lurija, Storia sociale dei processi cognitivi, Giunti Barbera, Firenze 1976. ↩︎

  40. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, op. cit., p. 86. ↩︎

  41. Cfr. nota n. 3. ↩︎

  42. H. Popitz, Fenomenologia del potere, op. cit., p. 110. ↩︎

  43. F. Braudel, Civiltà materiale, economia, capitalismo, Einaudi, Torino 1976, p. 253. ↩︎

  44. M. Bloch, Technique et évolution sociale : réflexions d’un historien, in Mélanges historiques, Sevpen, Paris 1963, p. 837. ↩︎

  45. S. Zavoli, Lectio Magistralis: Un sapere e un potere nuovi, 26 marzo 2007, Università degli studi di Roma Tor Vergata, Facoltà di Lettere e Filosofia. ↩︎

  46. A. Mattelart, Storia della società dell’informazione, Einaudi, Torino 2002. ↩︎

  47. P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1998, p. 34. ↩︎

  48. Ivi, p. 37. ↩︎

  49. Ivi, p. 77. ↩︎

  50. A. Mattelart, Storia della società dell’informazione, op. cit., p. 24. ↩︎

  51. Ivi, p. 145. ↩︎

  52. S. Zavoli, Lectio Magistralis: Un sapere e un potere nuovi, op. cit., p. 31. ↩︎

  53. M. Mauss, Teoria generale della magia, op. cit., p. 392. ↩︎

  54. M. Fierli, La cultura della tecnologia, op. cit., p. 21. ↩︎