Antropocentrismo e antispecismo: per un superamento cristiano della dicotomia

1. Introduzione

Il terzo millennio ha visto avanzare uno scontro culturale e filosofico di cui però ancora poco si occupa la filosofia, così come poco se ne occupa la teologia: quello tra antropocentrismo e antispecismo. Una contrapposizione costituita da aspetti molteplici, da quello etico e bioetico a quello religioso, da quello morale a quello socioculturale, economico, ecologico. Tale discussione, pur non essendo allo stato attuale troppo rilevante nel dibattito filosofico, dovrebbe invece essere tenuta in maggiore considerazione per le tante ricadute che può avere. Viviamo in un’epoca strana. Un’epoca in cui i diritti degli animali non umani sono stati finalmente presi in maggior considerazione, sebbene il percorso verso un totale riconoscimento sia al di là da venire, ma in cui si assiste anche al paradosso di mettere tali diritti al di sopra di quelli umani. L’ecologia non viene più considerata, in molti casi, un modo per gestire in armonia l’ambiente e la natura, ma un necessario dover prevalere degli animali sull’uomo. Una risposta estrema, esagerata, che ha però in sé una ratio: tanto sono stati bistrattati i nostri fratelli minori nei secoli, tanto è montato il senso di impotenza o anche di rabbia per la violazione del sacro diritto alla vita e al benessere verso costoro. Si tratta di un male del nostro tempo confuso: laddove si rende necessario un maggior rispetto verso determinati diritti non riconosciuti, si arriva al superamento di essi, fino a giungere all’aberrazione del diritto stesso.

2. Antropocentrismo e antispecismo

Dunque, che cosa si intende per antropocentrismo, cosa per antispecismo? L’antropocentrismo, lo dice la parola stessa, è una idea filosofica secondo la quale l’uomo è al centro dell’universo e del creato e tutto esiste per lui e in sua funzione, vuoi come “dominatore” di quanto esiste, vuoi ontologicamente, come colui al quale spetta di diritto per filiazione divina. A torto si ritiene l’antropocentrismo un prodotto della visione cristiana. Esso si trova già negli scritti degli antichi filosofi greci. Certamente sono stati i grandi pensatori cristiani, come Agostino o l’Aquinate, a rafforzare nella società occidentale l’idea che tutto esista per l’uomo perché così ha decretato Dio. Non dobbiamo dimenticare però quanta parte in questa teoria abbia avuto l’Umanesimo, con il suo mettere al centro l’uomo, con un definitivo trionfo della visione antropocentrica rispetto a quella teocentrica medievale. Se è vero che il progresso scientifico ha in un certo senso contribuito a indebolire l’antropocentrismo (si pensi a Darwin e all’evoluzionismo, per i quali in fondo non saremmo che evoluzioni di primati, discendenti delle scimmie) inserendo così l’essere umano in una concatenazione di eventi biologici e naturali, non si può non notare come la visione antropocentrica sia stata d’altro canto rafforzata proprio con questo stesso progresso scientifico e tecnologico: gli animali diventano cavie per la sperimentazione, l’ambiente sempre più urbanizzato e antropizzato, il contatto con la natura nuda viene meno, e viviamo in un mondo sempre più a misura di umano e sempre meno di animale o di vegetale, chiusi nelle nostre gabbie di cemento cittadine. Consumiamo senza troppo curarci dell’impatto che tutto questo ha sul pianeta, sulle altre forme di vita o addirittura sui nostri stessi simili, salvo poi preoccuparci di fare la raccolta differenziata o di raccogliere un gattino sperduto per strada (gesti assolutamente nobilissimi e da continuare a compiere). Proprio questo livello di consumo, giudicato ormai anche dalla scienza insostenibile per il pianeta, e tutto il carico di sfruttamento che ne consegue ai danni di tante creature, ha fatto sorgere già dalla seconda metà del secolo scorso filosofie volte a rimettere l’uomo in pari con la natura; filosofie che vanno oltre l’ecologismo o l’ambientalismo ma che hanno come obiettivo il superamento della distinzione di specie, raccolte appunto sotto l’etichetta di antispecismo. Parliamo di filosofie e non di filosofia perché all’interno della corrente antispecista vi sono diverse scuole di pensiero, accomunate tuttavia da alcuni assunti che invitano sicuramente l’uomo comune, e non solo il filosofo, a riflettere: ogni creatura, anche non umana, ha dei sentimenti e delle sensazioni, può provare sofferenza, avverte il dolore e presenta prerogative non esclusive della specie umana come interazione sociale, volontà, elaborazione del pensiero. È chiaro che il prendere atto di ciò mette di fronte a una nuova concezione dello status degli animali non umani e dei loro diritti, con notevoli ricadute, lo dicevamo, sul piano etico e morale, ma anche su quello giuridico. Probabilmente l’interrogativo fondamentale, in tempi moderni, lo pone Jeremy Bentham, il quale dice: «La domanda non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”». Quali scenari apre questa riflessione! Già nell’antichità pensatori come Plutarco1 avevano fatto ragionamenti simili ma è solo in età contemporanea che filosofi come Singer o Reagan approdano a un vero e proprio sistema di pensiero.

3. Riflessione animalista nel pensiero cristiano-cattolico

Vogliamo però in questa sede soffermarci sulla grande assente nella riflessione sul tema: la Chiesa cattolica. Colei che ha gettato le fondamenta del pensiero moderno occidentale, i cui pastori hanno curato anime e corpi, deputati a prendersi cura dei più deboli e poveri, sembra ignorare questo dibattito, salvo le recenti considerazioni di Papa Francesco esternate in quella “enciclica ambientalista” che è Laudato si’. Criticata dai cattolici più intransigenti, accolta sicuramente come un’apertura dai credenti – e non – più sensibili a queste istanze, essa non ha tuttavia risolto un nodo fondamentale della questione: il rapporto etico tra uomo e animale. Si potrebbe obiettare che la Chiesa al momento ha problemi più importanti da affrontare, ma non è del tutto così: sempre più di questo dibattito si stanno appropriando settori della società costituiti da non credenti, anticlericali, “anticonformisti” a vario titolo, e – al di là della fede posseduta o meno dal singolo – ciò è da considerarsi paradossale, se si pensa che nella prospettiva di chi crede tutto ciò che esiste, il mondo con le sue creature, l’universo e quanto contiene, sono stati creati da Dio. Se la Chiesa ignora o relega tale riflessione in un angolo, si potrebbe dire che sta ignorando il proprio stesso Creatore. Si tratta peraltro di un tema a vocazione fortemente sociale, viste le notevoli ricadute che ha sulle persone e sulla loro qualità di vita in ogni parte del globo.

Viene da chiedersi se quello rappresentato nella Bibbia sia un Dio antropocentrista o antispecista: Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, a differenza di quanto fa con tutto il resto dei viventi, e lo pone a dominare sulla terra e sulle altre creature. Sembrerebbe un Dio quasi accecato dalla sua creatura umana: Egli crea l’universo intero e poi lo pone ai piedi di una creatura tutto sommato fatta d’argilla. Ma vediamo meglio questo passaggio:

E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra». (Genesi 1, 26-28)

L’uomo deve, dunque, dominare. Una parola che forse ci riporta a qualcosa di violento, a una sottomissione dove il più debole non ha diritto di replica, per un bizzarro spostamento semantico. Dominus, da cui il vocabolo, è invece il signore, colui che regge, guida e governa ma lo fa custodendo, rispettando, amando ciò che è sotto la sua tutela. Il dominus, appunto, tutela, il dominus è più che padrone, è custode. L’uomo deve condurre le altre creature viventi, deve custodirle, deve dominarle nel senso che viene posto in una posizione di responsabilità rispetto ad esse. Egli è il capo, ma non il tiranno, non il despota, non lo sfruttatore. Andiamo avanti su questo passo della Genesi:

Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. (Genesi 1,29-31)

Come non notare la delicatezza di Dio, che offre agli animali come cibo «ogni erba verde» (e non dice che il pesce grande deve mangiare il più piccolo o che il leone debba mangiare la gazzella!), e all’uomo semi e frutti: finanche le piante vengono risparmiate dall’essere cibo, finanche la loro vita silenziosa viene rispettata da un Creatore che ama tutte le sue creature chiamate all’esistenza. È solo dopo l’entrata nel mondo del peccato e della morte che la creazione, ferita, entra in guerra con sé stessa e gli animali si dividono in prede e predatori. Si tratta dunque di un Dio antispecista? Certamente no, non nel senso attuale del termine. In una prospettiva teologica e dottrinale è ovvio che uomo e animale non possono essere messi sullo stesso piano. Possono esserlo sul piano biologico, perché appunto fatti della stessa carne e capaci di provare piaceri e sofferenze. Ma il sacrificio del Cristo riguarda solo l’uomo, per quanto redentivo di tutta la creazione corrotta dal peccato umano, poiché solo l’uomo è creatura dotata di libero arbitrio, che non è la mera facoltà di scegliere fra un’opzione e un’altra (anche gli animali lo fanno), ma di scegliere tra il bene e il male; concetti che gli animali non conoscono, non quanto meno al livello intellettuale e simbolico, semiotico, morale e filosofico con cui l’essere umano li ha elaborati o con cui sono stati scritti da Dio nel cuore dell’uomo.

Ovviamente che la Chiesa entri nel dibattito sulla questione animale non è necessità dettata dal fatto che altrimenti se ne approprierebbero definitivamente certune scuole di pensiero; è dettata dal fatto che una seria riflessione sull’uomo, che sia anche attuale, passa anche per questa via. Peraltro non si può negare che la teologia in tal senso presenta una grande lacuna che andrebbe colmata, e non perché la dottrina cattolica debba dare dettami di pensiero ai fedeli ma per non cadere nell’errore di trascurare ciò che è più caro al Signore: la vita, di tutte le creature, e la creazione, primo moto d’Amore di questo mondo materiale, nato appunto da quello stesso Amore. Finanche tra i credenti di fede cristiana vi è una errata interpretazione del rapporto con la natura, di cui è emblema, secondo una certa agiografia, San Francesco: è lui il santo che parlava con gli animali, con l’erba e con i prati, con il Sole e la Luna e ad essi cantava. L’autore del Cantico delle creature è visto, secondo un cliché da santino, come un ecologista ante litteram. Per la verità sappiamo che si tratta di una lettura non si vuol dire errata, ma quanto meno riduttiva di una personalità come quella di Francesco e peraltro mal traslata ai giorni nostri. Certamente Francesco non era – e dati i tempi non poteva esserlo – un sostenitore dell’ecologia e la visione del credente in armonia con la natura ricalcata su questo stereotipo non è propriamente esaustiva di una seria riflessione sul rapporto dell’uomo con le altre specie viventi.

Allo stato dell’arte sembra che la visione cristiana (cattolica, in particolare) e quella antispecista siano agli antipodi. Ma ci si deve porre un quesito: è possibile conciliarle? È possibile ricreare almeno sul piano dottrinale quell’armonia perduta con l’ingresso del male nel mondo? Ultimamente anche i teologi se ne stanno occupando; ma ancora non si giunge all’elaborazione di un sistema in tale direzione, men che meno di una pastorale. Anzi, sembra quasi che fra i principali nemici degli animalisti vi siano proprio i credenti. Probabilmente questa avversione nasce dal timore di una sovversione dei termini di relazione Dio-uomo-animale, o da un attaccamento a una dottrina che, per quanto autorevole e parte del patrimonio del pensiero cristiano, non è un dogma e deve necessariamente – in questo come in tutti i campi del vivere umano – agganciarsi (attenzione: non adeguarsi) ai tempi. Questo, lo si ripete, è necessario per la riscoperta di un sano rapporto uomo-animale che non sfoci in estremismi come quello denunciato recentemente dal pontefice del considerare più gli animali domestici che le persone, finanche i famigliari o, al contrario, quello di considerare le creature non umane come non degne dello stesso rispetto per la vita che a tutti dovrebbe essere dovuto. Purtroppo anche quello di considerare gli animali strumenti per il benessere umano – cibo, cavie, giocattoli e così via – è un estremismo di cui una società evoluta ed elevata deve prendere atto.

4. Implicazioni etiche del rapporto uomo-animale per il credente

Se questo implica una ridefinizione del soggetto animale sul piano giuridico (una sorta di habeas corpus), lo necessita anche sul piano teologico. Al di là dei dibattiti sull’esistenza dell’anima degli animali (i quali non avendo peccato e non avendo libero arbitrio non hanno un’anima intesa come quella dell’uomo, così preziosa da aver richiesto il sacrificio della Croce) occorre capire se è ancora lecito, per un credente, considerare l’animale, anche e soprattutto quello non domestico, alla stregua di un oggetto di consumo. C’è da domandarsi: è cristiano tutto questo? Le condizioni di vita sono cambiate per gran parte del genere umano in Occidente: non ci sono più famiglie contadine che allevano pochi capi di bestiame, ma allevamenti intensivi ove gli animali sono considerati alla stregua di merci o di macchine da produzione, tenuti in situazioni che non avremmo torto dicendo che richiamano quelle dei lager. L’informazione è alla portata di tutti e tutti sanno quel che succede: è dunque possibile, per un credente, essere colluso con un sistema di sfruttamento dei più deboli, quali gli animali sono? La domanda è retorica. Certamente tutto questo pone di fronte a una scelta fondamentale: continuare a utilizzare gli animali a fini umani, o rispettarli nella loro vita di creature, ristabilendo anche una omeostasi nel numero di individui e nella loro riproduzione che certamente non è quello necessario all’industria della carne. La scelta più ovvia e di cuore parrebbe la seconda. Ma come fare a convincere migliaia di fedeli ad abbandonare un regime alimentare ormai radicato da secoli? Probabilmente si assisterebbe a una diminuzione drastica del numero dei credenti. Viene alla mente quel momento in cui al Cristo viene contestata la fedeltà matrimoniale con la scusa che la legge mosaica consente il divorzio e il ripudio. «Per la durezza del vostro cuore» dice Cristo «Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19,8). Sembra di poter vedere una stessa idea di fondo riguardo al cibarsi di animali, se consideriamo di nuovo il passo della Genesi sopra citato: da principio non fu così. Non sembra un caso, alla luce di questo, il parallelismo tra Gesù e l’agnello sacrificale: non solo un’immagine adeguata a una società pastorale, non solo una metafora per definire l’innocenza condannata ingiustamente, ma una vera e propria sostituzione a sostegno di quanto è scritto nell’Antico Testamento: «Misericordia voglio, e non sacrifici» (Os 6,6). Gesù è il solo agnello, non serve sacrificarne altri. Così anche l’Eucarestia, che nel mangiare il corpo di Cristo non ricalca un atto di cannibalismo ma ricorda come partecipando al banchetto della redenzione non vi è bisogno di commettere atti di violenza su altre creature: Cristo ha già offerto tutto. Ancora, c’è chi obietta che lo stesso Gesù mangiasse pesce. Non bisogna dimenticare che il Figlio di Dio si è fatto carne per la redenzione umana e non ha mai interferito con quelle che erano le usanze del popolo ebraico dell’epoca: «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mt 22,21). Veniamo ora a un’altra questione cruciale, quella dell’impatto che la produzione di carne a scopi alimentari ha sul pianeta e su altri esseri umani. Come sappiamo, la stragrande maggioranza delle risorse alimentari del pianeta non sfama che una percentuale bassissima della popolazione mondiale. Quasi tutti sul pianeta muoiono di fame o hanno regimi alimentari assolutamente non paragonabili per quantità, qualità e varietà a quelli del ricco Occidente. Molte delle produzioni agricole vengono destinate a sfamare gli animali che poi saranno macellati e che andranno sulle tavole dei pochi popoli ricchi del pianeta, i cui scarti saranno trasformati in alimenti per animali o destinati a cosmetici, saponi e eccipienti. Si usano terre per produrre cibo per animali da macellare piuttosto che colture proteiche da destinare all’alimentazione umana distribuendole sull’intero pianeta. È cristiano tutto ciò? E, prima ancora, è etico tutto ciò? Anche in questo caso, il punto interrogativo è pleonastico. Quanto, poi, gli allevamenti inquinano? Senza perderci in numeri, essi sono responsabili della gran parte dell’inquinamento atmosferico del pianeta, persino più dei mezzi di trasporto con carburante. Evidentemente non è questo il modo di prendersi cura della nostra casa comune. Ma per quale motivo vi è tanta difficoltà per la Chiesa nel parlare di questo argomento? Per quale motivo l’alimentazione vegetariana o ancor più vegana per i figli di Pietro è un tabù, nonostante le evidenze etiche e morali? Addirittura ci sono frange di cattolici che vedono nel vegetarianesimo una dottrina satanica. Certamente si tratta di uno stile di vita che riporta a movimenti new age, a esoterismi se non a vere a proprie eresie, e questo è uno dei motivi per cui esso viene combattuto. Ma dovrebbe diventare anche uno dei motivi per i quali la filosofia cattolica dovrebbe interessarsi maggiormente all’argomento, attualmente ancora di nicchia nell’ambito della teologia cristiana. Fin quando il Magistero e il Catechismo riterranno lecito l’uso di animali alla stregua di oggetti, è chiaro che nessun fedele (o, nell’accezione cattolica, nessun essere umano) è tenuto a porsi questo problema. Ripensare lo stile alimentare significa ripensare radicalmente il rapporto uomo-animale. La Chiesa non è probabilmente pronta per farlo e in questo momento storico preferisce non occuparsene se non marginalmente, commettendo però un peccato di omissione di fronte all’emergere di nuove e contrapposte metafisiche.

5. Chi è l’animale?

Riflettere sulla relazione uomo-animale e ridefinirla in termini non tanto di antispecismo, quanto di rispetto verso il vivente, non significa soltanto dare all’animale uno stato giuridico, etico, filosofico, biologico nuovo: significa anche ripensare il criterio di responsabilità per l’animale chiamato uomo. Anche se fortunatamente atti di violenza gratuita e sevizie verso gli animali sono puniti dalla legge, non si può ignorare che la macellazione sia essa stessa un atto di sevizia e violenza. Oltre a questo esempio pratico, la responsabilità che l’uomo ha verso gli animali di altre specie attualmente è molto limitata. Si apre un discorso ontologico: cosa è l’animale? Non è un oggetto. È esso stesso vita, respiro, capacità di sentire e reagire, finanche di ragionare. Cosa è l’animale rispetto all’uomo? Se non è un oggetto, ma nemmeno un essere da poter considerare al pari dell’uomo (non essendo co-specifico), è evidentemente un soggetto posto in una posizione di subalternità; ma questa subalternità non è da intendersi come un invito a fare dell’animale ciò che si vuole, bensì ci pone davanti alla responsabilità di custodire e davanti alla fragilità e al mistero della vita, sia essa intesa come zoè, sia come biòs. Sostiene Husserl:

«Gli animali, gli esseri animali, sono come noi soggetti di una vita di coscienza in cui, in un certo modo, è dato anche un “mondo ambiente” come il “loro”, sulla base di una certezza d’essere. L’essere-soggetto si riferisce all’anima di tali esseri. La loro vita di coscienza, intesa in un senso puramente animale, è centrata, e l’espressione “soggetto per una coscienza”, dotato di coscienza, indica qualcosa di analogo o di più generale dell’ego umano delle cogitationes di questi o quei cogitata: per questo non abbiamo nessun termine che sia adeguato. Anche l’animale possiede qualcosa come una struttura egologica».

Il filosofo della fenomenologia sottolinea quindi come gli animali abbiano una soggettività che permette loro una comprensione nell’ambito del proprio contesto di vita2. Pur non essendo possibile parlare dell’animale in quanto “persona”, poiché come rimarca Husserl manca della capacità di produrre un universo simbolico e storico, l’animale non è però da ritenersi inferiore al punto tale da divenire mero oggetto d’uso e consumo. Alla base di questa visione vi è molto di più di un discorso puramente animalista, che permette di entrare veramente in dialogo con l’intimo dell’uomo e con ogni persona a prescindere dal suo credo, dalla sua collocazione politica e ideologica, dalle sue inclinazioni e sensibilità: vi è una visione dell’esistenza basata sul rifiuto dello sfruttamento del forte sul debole che si estrinseca a tutti i livelli e non solo da parte dell’uomo sull’animale. Stiamo parlando dell’acquisizione di una coscienza etica sociale che passa anche attraverso la relazione uomo-animale ma non si ferma e non si deve fermare ad essa. Abbiamo bisogno, e bisogno urgente, di rivedere il nostro sistema di vita come ormai voci autorevoli dei più svariati campi del sapere dicono. La filosofia, dal canto suo, è chiamata a contribuire a questa rivoluzione di pensiero e di costumi, di usanze e di consumi. E deve farlo anche e forse soprattutto in quegli ambiti più vicini alla spiritualità dell’uomo, sebbene restino importanti le motivazioni economiche ed ecologiche. Una vera rivoluzione parte però solo e sempre dal centro dell’uomo, il suo cuore e il suo spirito. Riuscire a vedere nell’altro-da-sé una creatura che ha comunque diritto ad esistere e a non essere trattata alla stregua di oggetto, poiché non solo oggetto non è ma anche perché con l’uomo ha una comune base biologica e sensibile, fa parte dell’acquisizione di una forma mentis di rispetto esteso all’intera creazione. Questo induce a superare anche quanto teorizzato dal sopracitato Bentham, il quale non si oppone all’uccisione degli animali, ritenendola anzi più indolore e veloce della morte naturale, condannando ovviamente torture e altri atti di violenza nei loro confronti3. La filosofia utilitarista di Bentham vede nel bene una utilità e anzi definisce il bene e l’etica come ciò che è in grado di apportare il massimo piacere e il massimo utile a chiunque risentirà di una data situazione o a chiunque sarà sottoposto all’azione di un qualsivoglia agente. Certamente Bentham in questo non fa distinzioni tra animali e esseri umani, potendo peraltro queste distinzioni venire usate persino tra gli stessi uomini:

C’è stato un giorno, mi rattrista dire che in certi luoghi non è ancora passato, in cui la maggior parte delle specie umane, sotto il nome di schiavi, veniva trattata dalla legge esattamente come lo sono ancora oggi, in Inghilterra per esempio, le razze inferiori degli animali. Può arrivare il giorno in cui il resto degli animali del creato potrà acquisire quei diritti di cui non si sarebbe mai potuto privarli, se non per mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il nero della pelle non è una ragione per cui un essere umano debba essere abbandonato senza rimedio al capriccio del carnefice. Può arrivare il giorno in cui si riconoscerà che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’os sacrum sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare un essere senziente allo stesso destino? Quale attributo dovrebbe tracciare l’insuperabile confine? La facoltà della ragione o, forse, quella del discorso? Ma un cavallo o un cane adulto è un essere incomparabilmente più razionale, e più socievole, di un neonato di un giorno o di una settimana, o anche di un mese. Ma anche ponendo che le cose stiano diversamente: a che servirebbe? La domanda da porre non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”4

Purtroppo quanto asserito da Bentham in questo passaggio ha avuto anche le sue distorsioni, laddove qualcuno ha ravvisato davvero in un cavallo o in un cane un essere superiore a un neonato. È evidente che ciò che il filosofo qui vuol sottolineare è come anche un cavallo o un cane siano esseri dotati di un certo grado di razionalità e che se anche non lo fossero, non devono essere maltrattati in quanto comunque capaci di provare sofferenza. È lo stesso principio per il quale non si deve maltrattare nessun essere vivente per quanto non dotato di “coscienza” secondo gli standard che permettono di parlare di “normalità”, dal neonato all’embrione, dal disabile psichico alla persona con patologie mentali, fino ad arrivare all’animale. Dicevamo che la filosofia è chiamata a una urgente riflessione circa il rapporto tra uomo e animale per definire un nuovo e più sostenibile sistema di vita; ma abbiamo aperto questa breve dissertazione con la necessità di chiamare in causa in tale riflessione anche la religione cristiana e cristiano-cattolica in particolare. Ultimamente ci sono stati sporadici tentativi in tal senso; si ricordi il convegno di Ancona dell’Associazione Cattolici Vegetariani tenutosi nel settembre 2013 da cui è scaturita una serie di Spunti biblici e teologici per un’etica cristiana vegetariana, come recita il sottotitolo della raccolta degli atti del convegno, Il grido della creazione. È proprio nella prefazione, a cura di G. Bormolini, L. Lorenzetti e P. Trianni, che si legge: «Il nostro tempo vive una grave crisi ecologica. … È in questo quadro che la scelta vegetariana ritorna a essere attuale e acquista un senso teologico ulteriore che va ad aggiungersi a quello, più propriamente ascetico e spirituale, che da sempre l’accompagna.»; e anche qui si legge che

L’abitudine a mangiare carni, del resto, è ormai radicata da secoli, e il vegetarismo, essendo ancora sganciato da una base concettuale e teorica che gli garantisca una stabile fondazione teologica, rimane ai margini della riflessione cattolica. Tale decisione, infatti, è un tema largamente ignorato nei dibattiti universitari, nei documenti episcopali e negli interessi delle varie Congregazioni.5

Diverse sono tuttavia le iniziative, editoriali e di ricerca, intraprese in questa direzione dopo quel convegno nell’ambito di un pensiero di matrice spirituale e teologica anche se probabilmente non abbastanza numerose o non ancora abbastanza incisive tali da dare inizio non solo a una vera e propria teologia ma anche a una pastorale del vegetarismo e dell’ecologia.

6. Educarsi al rispetto della creazione

È evidente, dunque, che l’importante “nuovo corso” che dovrebbe essere intrapreso in ambito cristiano-cattolico non è soltanto legato all’alimentazione, ma a una più profonda comunione con la creazione opera di Dio, rispettando il comandamento del “non uccidere”, che non fa distinzioni di specie e non ordina di “non uccidere uomini”, ma di non togliere la vita in generale, esattamente come era nel disegno primigenio del giardino edenico. Inoltre questa profonda comunione che si estende a tutto il creato significa entrare in sintonia con la Terra, la nostra casa così maltrattata da stili di vita ormai assolutamente insostenibili, da una globalizzazione selvaggia e da quello che Giovanni Paolo II definiva come «materialismo crasso». La Terra non più come luogo di passaggio del quale non prendersi cura, ma come vero e proprio essere vivente, che ci ospita e che ci è stato dato in dono, e come tale da amare e custodire. In questo solco si muove l’esperienza di pensatori come Raimon Panikkar, un vegetariano non filosofico ma politico («contro lo sfruttamento degli animali»6) che parla di una Ecosofia: una sapienza, non un logos, un discorso sulla Terra come invece è l’ecologia. Non serve ragionare sulla Terra e su come sfruttare le sue risorse in maniera più razionale e in modo tale da non esaurirle, né ragionare su come intervenire con meno impatto possibile sull’ambiente: serve invece riapprocciarsi al pianeta in modo equo, sano e sapienziale, con un atteggiamento di sacrale rispetto e spirituale e totale comunione. Lontano comunque dall’animalismo, dall’antispecismo come dall’antropocentrismo: ciascun essere della natura è in quanto tale e come tale deve comportarsi; l’uomo è uomo, il leone è leone e in generale l’animale, animale. Dal canto suo Morin parla di una Terra-patria, in cui l’uomo deve abitare nella condivisione e nella cooperazione con uno stile di vita improntato alla riduzione dei consumi fino a una vera e propria metamorfosi del nostro sistema7. E in effetti trasferendo questo pensiero in ambito religioso occorre ricordare che Dio non ha consegnato all’uomo un mondo immobile usando la scusante del dire che si è sempre fatto così per lasciare le cose uguali a sé stesse nel perpetrarsi di situazioni di sfruttamento e ingiustizia. Quando Cristo si è incarnato nel mondo le donne non votavano ed esisteva la schiavitù, eppure le cose fortunatamente da allora sono cambiate. Perché per gli animali invece la schiavitù deve essere ancora attuata in nome di una immutabilità non scritta né prescritta?

7. Conclusioni

Diventa dunque un imperativo etico che anche i cristiani si avvicinino maggiormente a queste tematiche e che il pensiero cristiano diventi sempre più consapevole di esse; avverrà inevitabilmente, e anzi già sta avvenendo, che questa nuova coscienza etica si faccia strada fra le masse in modo sempre più pregnante ed è necessario che l’Assoluto non resti estraneo a queste istanze di evoluzione. Laddove c’è un bisogno profondo dell’uomo anche e soprattutto religione, fede, filosofia e teologia devono saper rispondere e evitare ancora a lungo questo tipo di argomentazioni da parte di chi in un certo senso è preposto all’Assoluto, si potrebbe dire per mestiere, significa abbandonare l’uomo stesso oltre che il fedele in un vuoto spirituale. Molti fedeli oggi non si spiegano come mai la Chiesa poco si occupi della sorte degli animali, ma ancora tanti e anzi in maggioranza sono quelli che non se ne preoccupano o che ritengono normale lo sfruttamento ai loro danni causato dai pur tanto aborriti allevamenti intensivi – discorso che potrebbe e dovrebbe estendersi a molte altre forme di consumo i cui danni ricadono su tanti esseri umani nelle aree meno sviluppate del pianeta. Un paradosso, se si pensa che essendo loro figli riconosciuti di quell’Amore creatore, dovrebbero esserne anzi i primi paladini e custodi. Tutto ciò anche superando il divario e l’opposizione tra antropocentrismo e antispecismo, riportando tutto su un piano di universale umanità e di universale rispetto per ogni creatura, nonché per il pianeta, nel segno di un rapporto di comunione con quanto Dio vide essere «cosa molto buona» all’atto della creazione. Dunque, facendo tornare prepotentemente il cristianesimo a essere la fede nel Dio della tenerezza e della compassione.


  1. Plutarco, Moralia XII, 66. 993a-999b, De esu carnium↩︎

  2. Cfr. Carmine De Martino, Husserl e la questione uomo/animale, in Nòema, numero 3, 2012. ↩︎

  3. Sergio Marini, Filosofi, animali, questione animale. Appunti per una storia, EDUCatt, Milano 2012, p. 123. ↩︎

  4. Jeremy Bentham, cit. in Sergio Marini, Ivi, p. 124. ↩︎

  5. Guidalberto Bormiolini, Luigi Lorenzetti, Paolo Trianni, a cura di, Il grido della creazione. Spunti biblici e teologici per un’etica cristiana vegetariana, Lindau, Torino 2015, pp. 9-10. ↩︎

  6. Raimon Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella, Assisi 1993, p. 122. ↩︎

  7. Edgar Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaello Cortina, Milano 2012. ↩︎