Dalla verità alla post-verità

1. Premessa

Le riflessioni sul concetto di post-verità ci permettono di indicare una via per così dire profetica del pensiero di Luigi Pareyson. Questo indimenticabile pensatore italiano nella sua lunga attività di ricerca e di insegnamento ha attraversato dei significativi sentieri interrotti per dirla con Heidegger che hanno percorso una via filosofica, la quale partendo dal pensiero esistenziale, attraverso la fenomenologia, è giunta alla filosofia ermeneutica. In questo ampio quadro di riferimento la riflessione metafisica si è aperta a quella post-metafisica così come l’esame della persona è giunto a tematizzare le strade poliedriche e complesse della verità e dell’interpretazione per approfondire le questioni ontologiche in un doppio riferimento filosofico e teologico che ha condotto il filosofo torinese ad affrontare problemi complessi e spinosi, quali ad esempio la presenza del male in Dio. È ovvio che la post-verità che occupa oggi la filosofa contemporanea in un impegno a pensare nel frammento e a riflettere sul carattere proteiforme delle istanze comunicative è particolarmente importante per comprendere le istanze filosofiche del mondo di domani che sicuramente sarebbero state un oggetto prezioso di riflessione per il nostro filosofo italiano. Le pagine che seguono dunque illustrano un problema attuale e futuro che vogliamo dedicare al ricordo e soprattutto alla memoria di un filosofo militante quale è stato sempre Pareyson.

2. Considerazioni introduttive

Il tema della verità, pur essendo complesso e pur presentando una semantica plurale è stato e, in certo senso, è ancora, un argomento centrale della filosofia e delle espressioni religiose. Tuttavia, a partire dallo storicismo per giungere al postmoderno è arrivato ad acquistare un senso e un valore per così dire sostanzialmente diverso rispetto alla precedente tradizione culturale. In particolare, alle due tematiche, quella della conoscenza e quella dell’etica se ne è aggiunta una terza di natura essenzialmente linguistica nella quale la verità stessa ha finito per perdere i suoi aspetti privilegiati nel duplice ambito ontologico e morale. Così, la verità è finita per caratterizzarsi come post-verità, evidenziando le sue codificazioni semiologiche proprie della teoria della comunicazione. Di fatto, si determina un passaggio dal momento semantico che incide sulla rappresentazione al momento pratico che concerne l’efficacia della comunicazione ritenuta dai riceventi come vera. Anche in tal caso l’appartenenza della verità al mondo culturale dei post indica una rivoluzione copernicana del senso e del significato capace di connotare l’uso pragmatico dei codici linguistici. Perciò, la post-verità più che rappresentare una caduta semantica della verità stessa costituisce il tentativo di evidenziare un aspetto totalmente diverso della rappresentazione vera che, da un punto di vista contenutistico, la tradizione assegnava alle forme distorte, per non dire negative, della verità medesima. Si pensi, ad esempio, all’uso della menzogna o alla presenza del malinteso nei giochi di lingua della propaganda commerciale o della dialogicità persuasiva della politica. Pertanto, nell’orizzonte delle teorie della comunicazione si costruisce concettualmente la post-verità che viene ad assumere un valore e un senso di natura filosofica.

In modo del tutto introduttivo va inizialmente precisato che in senso strettamente filosofico la post-verità, da un punto di vista contenutistico della semantica dell’espressione, indica una problematica appartenente alla crisi della filosofia che si colloca nel passaggio da un atteggiamento metafisico della conoscenza ad un atteggiamento post-metafisico. Per dirla con M. Heidegger la questione riguarda essenzialmente il superamento delle età delle visioni del mondo a favore di una situazione esistenziale che evidenzia il passaggio dall’autenticità della relazione idealogica agli espedienti relazionali delle tecnologie comunicative. Possiamo dire sostanzialmente che, riferendoci ai livelli comunicativi di C. W. Morris ci troviamo oltre la grammatica e la sintassi del discorso ma anche oltre la semantica delle espressioni linguistiche per potenziare l’effetto pragmatico dei codici comunicativi. In questo senso dunque la post-verità assume una funzione di natura pratica. È chiaro che nell’ambito strettamente teoretico dell’indagine filosofica, la questione che stiamo esaminando è senz’altro propria di una riflessione del pensiero dipendente dalla critica delle teorie del fondamento in una situazione in cui il pensiero indebolisce la potenzialità conoscitiva per favorire il coinvolgimento partico dei comportamenti linguistici. Ciò si risolve in un contesto discorsivo che pone in primo piano gli effetti comunicativi in senso relazionale del discorso in tutte le sue forme. È evidente che dal punto di vista speculativo della precedente tradizione filosofia, la nuova area semantica della post-verità costituisce indubbiamente una caduta del senso e del significato attribuiti al concetto di verità nei periodi che prendono il post-moderno. Siamo quindi di fronte a quella rivoluzione filosofica connotata da T. Adorno e da M. Horkheimer con l’idea della rivoluzione essenzialmente critica della ragione illuministica, la quale ultima finirebbe per perdere la sua dimostratività e semanticità univoca delle espressioni linguistiche stesse.

3. Il problema della verità

Nella direzione analitico-semantica sottolineata nel paragrafo precedente la post-verità diventa un vero e proprio problema che si colloca nel superamento e nell’integrazione del concetto tradizionale di verità nei suoi diversi significati consolidati nella cultura filosofica. Si tratta perciò di sostenere l’idea che si possa formulare semanticamente la presenza di una vera e propria verità sovversiva di tipo ribelle rispetto alle regole tassonomiche e inviolabili della verità oggettiva costruita dai modelli filosofici tradizionali. Questo è l’aspetto che ci può far parlare di una funzione rivoluzionaria del concetto di post-verità naturalmente in modo relativo al concetto consolidato nel passato di verità, considerato in quei tempi univoco ed indiscutibile. In questo quadro, è il caso di far riferimento alle definizioni semantiche del concetto in verità per poter constatare come la post-verità finisca per aggiungersi e discostarsi rispetto a queste definizioni.

La prima definizione di verità è quella gnoseologica ed ontologica di corrispondenza espressa sinteticamente dall’ adagio latino adaeguatio rei intellectus. Nel senso che il concetto è vero quando la parola utilizzata per significarlo sia capace di corrispondere univocamente all’oggetto cui si riferisce, determinando così una vera e propria corrispondenza tra il fatto e la sua esposizione linguistica. La definizione di questo senso e significato è come noto propria della scolastica medievale presente nel realismo della filosofia cristiana. La seconda definizione è quella heideggeriana nella quale la verità appare come svelamento che si accompagna ovviamente all’occultamento nella dinamica espressiva di cui il termine aleteia è portatore nell’analisi etimologica indicata dal filosofo esistenziale ora ricordato. La terza definizione abbandona il senso e il significato nella sua oggettività conoscitiva per affidarsi all’idea di consenso nella quale la funzione del discorso argomentativo è quella di favorire la persuasione e la convinzione dell’interlocutore. Ciò ovviamente sposta l’interesse filosofico dal momento teoretico e dal momento morale a quello politico. Un quarto significato è quello della verità-testimonianza utilizzato nel duplice ambito morale e religioso in cui la persona garantisce l’oggettività della verità senza bisogno di alcuna dimostrazione. L’esempio specifico è quello evangelico del processo di Gesù di fronte a Pilato che sintetizza nella nota domanda Quid est veritas? (Gv. 18,38). Una quinta ed ultima definizione della verità è quella prospettica nella quale la situazione esistenziale della finitezza obbliga ogni essere umano a filosofare nel frammento, quindi ad una verità parziale suscettibile di essere integrata nello spazio e nel tempo da altre rappresentazioni ugualmente parziali che si affiancano ad un insieme in cui la pluralità delle immagini relative completa l’immagine vera nella sua ineludibile poliedricità semantica. È chiaro che, da un punto di vista epistemologico, il concetto di verità per i suoi aspetti in qualche modo parziali e relativi si inquadra nell’idea popperiana espressa dal duplice concetto di oggettività tendenziale e di falsificabilità. È ovvio però che questa rassegna di posizione filosofiche, da un lato, è soltanto esemplificativa quindi non esauriente, dall’altro invece, evidenzia la sostanziale diversità dei due concetti di verità e di post-verità.

Un ultimo significato sposta la nostra attenzione dall’ambito filosofico a quello teologico, quindi da quello critico e razionale a quello ermeneutico e fondato sulla fede. Si tratta dell’idea presente nelle religioni del libro nelle quali i testi sacri comunicano in qualche modo la parola di Dio, dunque esprimono una forma di verità-rivelata. Quest’ultima è garantita dall’autorità dell’ente divino considerato superiore ad ogni altra forma di autorità, perciò separata radicalmente da ogni intervento umano di natura critica. È facile dunque vedere anche da questa sintesi dei principali significati di verità come il concetto stesso di verità, sostenuto dalla tradizione culturale, filosofica e religiosa, possiede in sé una molteplicità di rappresentazioni semantiche che ne determinano il pluralismo del senso e del significato.

4. Critiche al concetto di verità

È evidente che, se il concetto di verità comporta una pluralità di definizioni semantiche, è vero che queste connotazioni hanno fra loro un legame e le critiche al concetto di verità, in certo senso, fungono da momenti preparativi per il passaggio al concetto di post-verità. Ciò comporta che in una certa misura quest’ultimo sia capace di rappresentare il superamento del primo. Per lo meno ciò accade metodologicamente attraverso l’esercizio critico esercitato dalla razionalità analitica. Questa conseguenza è sempre di più avvalorata nella cultura contemporanea in cui ci troviamo di fronte ad una situazione caratterizzata dal pluralismo dei valori e delle visioni del reale. A questo punto dobbiamo precisare che il passaggio dalla verità alla post-verità, come già osservato, appartiene alle teorie della comunicazione, ma ciò accade sia per quelle espresse dalle comunicazioni di massa sia per quelle tradizionali per cui possiamo dire che all’oggettività del vero, rivendicata dal realismo filosofico, si affianca una soggettività collettiva, quindi in certo senso oggettivata, rappresentata dall’opinione pubblica per cui il momento stesso della rappresentazione assume sul piano ideologico una funzione di realismo intersoggettivo. Così, la critica epistemologica della conoscenza degli oggetti trova un ulteriore livello nell’oggettivazione rappresentata dall’intersoggettività dell’opinione pubblica, ma è chiaro che i due livelli qui ricordati connotano forme differenziate di oggettivazione, perciò criteri di verità, o, meglio di verifica, abbastanza diversi.

Rispetto a queste considerazioni la post-verità trova una sua legittimazione nel mondo intersoggettivo della comunicazione, ma tale constatazione ci obbliga ad un ulteriore passo avanti verso la post-verità. Infatti, quest’ultima è separata dal concetto di verità da una fragilità della ragione che risulterebbe incapace di giustificare l’oggettività del vero in tutte le sue implicazioni. Su tale itinerario analitico emerge e soprattutto si consolida la crisi del discorso filosofico che finirebbe per legittimare in senso epistemologico la validità di un’antifilosofia da intendersi come nuovo modo di riflettere filosoficamente. Quanto detto dà luogo ad un argomentare filosofico che rinuncia al discorso dimostrativo a favore degli appunti di meditazione, degli algoritmi, delle poesie e comunque delle espressioni definibili in senso popperiano come oracolari. Ci troviamo di fronte ad una serie di tentativi diretti a stabilire le vie nuove percorribili allo scopo di superare le difficoltà dell’antifilosofia. Di fatto, mentre il concetto di verità è legato al tentativo di fornire un’immagine oggettiva delal definitività e dell’assoluto, il concetto di post-verità invece prende atto del relativismo prospettico a favore di un concetto di finitezza che, evitando lo scetticismo, ridimensiona la critica razionale riconducendola alle condizioni delle situazioni specifiche. A questo punto è appena il caso di ricordare che già la tradizione faceva uso di metodologie espressive di tal genere, si pensi a Marco Aurelio a Pascal o, in qualche misura, a Kierkegaard anche se la filosofia contemporanea con Nietzsche e con Cioran, per rimanere agli autori più noti, è andata senz’altro molto oltre. Comunque al di là di queste che potremmo definire come posizioni limite, la filosofia, anche nei nostri giorni, ha ripreso il metodo socratico del dialogo nel quale l’attenzione alla persuasione coinvolge una verità a favore del suo superamento realizzato con la post-verità. Ciò accade in particolare con il porre in primo piano l’attenzione al discorso persuasivo. Queste sono delle vere e proprie critiche alla razionalità dimostrativa per cui la filosofia dei nostri giorni, ad esempio attraverso l’enfatizzazione del momento esistenziale o la valorizzazione del momento ermeneutico si avventura nel non dicibile, orizzonte per altro vietato da L. Wittgenstein che limitava, per lo meno nella sua fase positivista, il filosofare all’oggettività dimostrativa del dicibile in senso scientifico. In questo senso emerge nel postmoderno il pensiero debole che in una certa misura incoraggia la dinamica filosofica verso l’orizzonte comunicativo della post-verità. È chiaro che su tale linea l’oggettività intersoggettiva di tipo linguistico della filosofia incoraggia il passaggio da un realismo rappresentato dal mondo degli oggetti esterni ad una situazione che consolida il mondo del criticismo kantiano a favore di una conoscenza capace di porre tra parentesi l’oggettività della cosa in sé, privilegiando il mondo fenomenico costruito attraverso l’idealità linguistica dell’orizzonte rappresentativo. Infatti, il piano profondo del numeno non appartiene al conoscere bensì assume un valore che si colloca nell’ambito del pensabile.

5. Analisi del concetto di post-verità

A questo punto è opportuno precisare l’area semantica del concetto di post-verità che, da un lato, si colloca nell’attuale enfatizzazione del momento intersoggettivo della attività di comunicazione e dall’altro indica il superamento del concetto stesso di verità secondo i significati che quest’ultimo assume nella tradizione filosofica del pensiero occidentale. Il problema prende le mosse da un discorso che nel quadro dell’ermeneutica inclusa nelle filosofie italiane del pensiero debole trova nel libro Addio alla verità di G. Vattimo (Meltemi, Roma 2009) una proposta filosofica particolarmente significativa. Tornando al problema fondamentale occorre far presente che nel quadro delle teorie della comunicazione la post-verità sottolinea una rivoluzione copernicana rappresentata dalla situazione in cui è la notizia trasmessa nella sua formulazione specifica a determinare il superamento del concetto di verità che eventualmente la riguarda. Si tratta di far prevalere la notizia comunicata alla verità del fatto a cui la notizia medesima si riferisce. In tal modo accade che l’efficacia della comunicazione prevale sull’attendibilità della notizia. Ciò sposta l’attenzione dal contenuto del messaggio all’effetto che il messaggio nella sua forma e nella sua modalità espressiva comporta. L’esempio specifico è rappresentato, sul piano degli eventi che hanno caratterizzato gli anni ’90 del Novecento, dalla giustificazione, presentata come vera, dell’iniziativa statunitense della guerra del Golfo, il che ha realizzato una vera e propria rivoluzione politico-sociale nei paesi del Medio Oriente in grado di determinare cambiamenti storici di rilievo anche se poi a posteriori la notizia giustificativa della guerra è apparsa non attendibile. In tal caso è la falsa notizia a prevalere sulla verità, il che spesso non dipende da un errore sui fatti o sulla comunicazione dei medesimi, bensì dipende essenzialmente da una strategia dell’azione sociale in cui i protagonisti del cambiamento storico confezionano la notizia e il modo di comunicarne il messaggio per porre in atto un comportamento idoneo a produrre il cambiamento con eventi congeniati allo scopo. Tale situazione, evidente nell’ambito politico e reperibile nel campo economico attraverso le strategie occulte o perlomeno implicite delle forme commerciali di concorrenza sleale sono presenti anche nel mondo estetico. Si pensi all’esempio presente negli ultimi decenni del mercato dell’arte del Novecento in cui i falsi hanno finito per essere più importanti delle opere vere e hanno dato luogo ad una super valutazione, per certi aspetti anche paradossale, dei cosiddetti falsi d’autore. È chiaro che anche in tutti questi casi non è in gioco una dialettica tra verità e falsità, o, tra verità e menzogna, o, ancora tra l’ermeneutica del vero e quella del malinteso, ma piuttosto un giuoco comunicativo di una semantica apparente che adeguatamente enfatizzata, diviene capace di ottenere dei risultati più efficaci di una comunicazione autenticamente aderente ad una verità sostanziale. In tal caso si verifica una situazione attraverso la quale la comunicazione trionfa rispetto alla verità dell’evento.

6. I corollari della post-truth

La situazione delineata nei paragrafi precedenti comporta l’emergenza di alcuni corollari significativi della post-verità che riconducono il discorso ad una tradizione precedente e per certi aspetti anche più antica dell’attuale enfatizzazione della comunicazione rispetto alla verità. In questo quadro prospettico, rientrano alcune strategie tradizionali che specie nell’ambito etico-politico utilizzano la distorsione della verità come espediente fondativo di strategia, di manipolazione degli eventi e delle notizie in modo da renderne la comunicazione efficacie ad ottenere gli scopi voluti per la gestione del potere e per il controllo dell’opinione pubblica. Ciò nella tradizione del pensiero occidentale era espresso dal concetto di macchiavellismo che giustificava il potere del principe e la ragion di stato. È chiaro che tutto ciò nella tradizione filosofica precedente veniva effettuato giocando sul carattere polisemantico della parola, o, sugli espedienti legati ai giochi di lingua propri delle figure retoriche della scrittura, anche se per certi aspetti alcuni effetti si potevano già ottenere intervenendo sia sulle immagini fotografiche sia sulle immagini filmiche. È comunque evidente che le nuove forme, tanto delle comunicazioni di massa, quanto delle codificazioni informatiche capaci di coinvolgere il reale e il virtuale riescono ad ottenere dei risultati notevolmente superiori a quelli realizzabili con le espressioni linguistiche e culturali precedenti. Così possiamo senz’altro riconoscere che nell’ambito linguistico le filosofiche analitiche insieme alle teorie della comunicazione costruiscono il concetto di post-verità oltre il realismo e l’idealismo filosofici. Ciò, è senz’altro ulteriormente enfatizzato attraverso la valorizzazione del momento comunicativo proprio della rappresentazione. In definitiva quest’ultima indica la forma più adeguata al nostro tempo per evidenziare l’importanza già riconosciuta da I. Kant del livello fenomenico che costituisce l’essenza del momento artificiale delle espressioni culturali sulle quali si concentrano le strategie espressive e comunicative dei linguaggi.

Su questo piano si trasformano i modi di manipolazione della verità. Infatti, la cultura odierna dispone di modalità sofisticate spesso ignorate dalle culture precedenti. Ciò poiché mentre il passato, ispirandosi storicisticamente al principio per cui la verità è figlia del tempo, o, sul piano giuridico all’idea giurisprudenziale già ammessa dal diritto romano. Infatti, sul piano giuridico si costruisce il concetto strumentale diretto a garantire l’oggettività e la certezza della decisione giurisprudenziale in base al quale di fronte alla verità la sentenza definitiva del giudice costituiva una fictio iuris. Questo è espresso da una definizione solo in apparenza paradossale per cui res iudicata pro veritate habetur, in quanto la sentenza non esprimerebbe la verità ma sul piano formale del diritto sarebbe tenuta in conto di verità. Un passo avanti rispetto alla consapevolezza che la verità potesse essere oggetto di manipolazione lo possiamo trovare nella dialettica storica delle strategie politiche dei regimi comunisti del socialismo reale, nei quali la verità viene sostituita e sommersa da una verità apparente utile al trionfo del regime. Si pensi ad esempio ai processi di Mosca compiuti dal regime staliniano all’epoca del secondo conflitto mondiale e nel periodo immediatamente successivo a quest’ultimo. In tal caso troviamo delle false confessioni ottenute con qualsiasi scopo al fine di difendere il trionfo storico della rivoluzione comunista rispetto alla verità degli eventi accaduti che, secondo la loro sostanza avrebbero potuto mettere a repentaglio il successo della rivoluzione stessa. Si tratta in tal caso di una verità subordinata, o meglio, sacrificata ai risultati perseguiti secondo l’ideologia marxista della dialettica della storia. Tale principio filosoficamente viene esposto e difeso, ad esempio, da M. Merleau-Ponty nel suo significativo volume dal titolo Umanesimo e terrore (Editori, Roma 1978). Principi analoghi li troviamo anche nella seconda metà dell’Ottocento in cui le culture rivoluzionarie e spesso terroriste del comunismo estremo hanno cinicamente ideologizzato le strategie di amministrazione del potere rivoluzionario sacrificando la verità a favore delle strategie rivoluzionariamente efficaci dell’oppressione e del terrorismo organizzato. È evidente che rispetto a questa meccanica grossonala di demolizione della verità le odierne strategie audiovisive ed informatiche appaiono meno violente e più capaci di anestetizzare la sofferenza ma rappresentano la messa tra parentesi radicale del conetto di verità a favore di una post-verità comunicativa che, secondo il linguaggio dei post inaugurato dal post-moderno si ribella al controllo logico della ragione a favore di una irrazionalità narcisistica, nella quale il potere viene amministrato spostando l’attenzione dalle ideologie alle strategie occulte di controllo del consenso sociale. In questo senso il concetto di post-verità diviene una categoria capace di rappresentare il pieno superamento del concetto di verità trascinando quest’ultimo in una cultura scettica di un relativismo trionfante. È evidente però che questa rappresenta una tendenza estrema che legittima il rischio di trasformare nel mondo globalizzato dei grandi numeri la democrazia sociale in una dittatura occulta che risponde alla tendenza ad un impero unico mondiale di tipo autoritario. In effetti questo pericolo era già presente nella filosofia classica tradizionale, si pensi ad esempio a Platone, il quale vedeva nella crisi valoriale della democrazia ateniese un pericolo aperto ad un governo autoritario capace dei negare il valore critico della democrazia stessa. Del resto il trionfo della sofistica, da un lato, e il processo a Socrate, nonché l’affermarsi dopo alcuni decenni del potere macedone, dall’altro, indicavano già il pericolo di un potere autoritario, in certo senso universale nella cultura dell’epoca.

7. Conclusione

Questa esposizione sulla semantica del concetto di post-verità si propone di fare il punto sull’emergenza di questa nuova questione filosofica delineandone i caratteri fondamentali ed evidenziandone i rischi, nonché gli slittamenti ai quali il concetto stesso può dar luogo. Ci proponiamo comunque di fornire un primo materiale al dibattito senza pretendere un’esposizione esauriente del concetto stesso. In quanto nella situazione evocata da questo concetto ci si trova di fronte ad una questione filosofica per certi aspetti nuova e per altri che appare tale se vengono ignorati alcuni presupposti già presenti nella tradizione filosofica precedente, il che forse incoraggia ad assumere un atteggiamento provvisorio dando spazio ad un dialogo nel quale si auspica la precisazione più obiettiva e puntuale delle questioni e soprattutto l’esercizio di una critica che, accogliendo con prudenza le accettazioni delle mode culturali, ci si ponga invece in una riflessione capace di suscitare delle critiche obiettive adatte ad eliminare i rischi del dogmatismo unilaterale delle posizioni estreme. A nostro avviso infatti è senz’altro rischioso considerare la post-verità come il superamento definitivo della verità, anche se è opportuno tener conto dell’importanza, nonché dei pericoli insiti in ogni atto comunicativo che, dando spazio alle strategie, dimentichi gli eventi nel loro realismo e nella loro essenza valoriale. È questa una prudenza che non maschera la paura ma che piuttosto pone in primo piano l’etica di un dialogo rispettoso delle diversità e dei diritti inviolabili della persona umana. In questo senso l’obiettività storica ci potrebbe far osservare che la post-verità, in luogo di rappresentare una rinuncia alla verità, potrebbe piuttosto costituire un avvertimento capace di renderci attenti a ciò che in una certa misura compia il tentativo di andare oltre la verità come semplificazione o come dogmatismo a favore di ciò che appare in un’efficacia di risultati e merita da parte nostra un’attenzione per approfondire la verità ma anche per difenderci dalle non verità. A questo punto la post-verità non deve essere né verità parziale né accoglimento di una verità intesa come emergenza narcisistica di una verità soggettiva. La post-verità può essere intesa come un tentativo critico per renderci conto dell’inseparabilità di tutti gli aspetti che la verità assume nella presenza prospettica dell’evento, per cui la post-verità stessa potrebbe venire a rappresentare una ricerca autentica di integrazione di natura tanto cognitiva quanto etica di una vera e propria immanentizzazione della verità. A questo punto ci troviamo di fronte ad una verità post-fattuale che integra, completa e talvolta trasforma la verità post-fattuale includendo in essa un’ermeneutica che procede al di là del senso e del significato apparente del fatto in questione. Così, possiamo concludere questo discorso procedendo al di là dei momenti ontologico, gnoseologico, epistemologico, etico e politico per evidenziare come la post-verità finisca per aprire questa volta un orizzonte nuovo a proposito del quale possiamo senz’altro affermare che nella politica della comunicazione si colloca la gestione del potere di un regime politico definibile come post-democrazia.