Simone Weil e Francesco d’Assisi: anarchici o mistici?

1. Una testimonianza di vita

La filosofa e mistica francese Simone Weil, la sua visione dell’universo, il significato che Ella conferisce all’esistenza, si traduce in un percorso di vita che, partendo da premesse agnostiche, approda al misticismo a seguito di una lunga maturazione, di un graduale itinerario verso l’ascesi il quale, tramite il contatto intenso e prolungato con la sventura, la conduce ad una sorta di incarnazione totale: la ferita, o meglio la profonda lacerazione prodotta nella sua anima dalla completa condivisione della sorte degli oppressi, dei reietti, degli strati sociali più disagiati, e degli operai in particolare, le sconvolge la vita, segnandola per sempre: sarà, la sua, un’immolazione totale cui si offrirà volontariamente, con scelta consapevole, una scelta desiderata e accolta con gioia che ne farà una quieta vittima sacrificale, che le spalancherà le porte del soprannaturale.

Il suo «Diario di fabbrica» è una delle sue opere più commoventi, testimonianza personale indimenticabile di una sventura condivisa che avrebbe distrutto i suoi venticinque anni, le avrebbe oppresso l’anima e l’avrebbe segnata per tutta la vita. Una sventura che neanche le rivendicazioni sindacali e la promozione della cultura tra i lavoratori, pur sacrosante, avrebbero mai potuto superare. «Per avere la forza di contemplare la sventura quando si è sventurati, ci vuole il pane soprannaturale» affermerà la Weil, aggiungendo le seguenti considerazioni: «laggiù — in fabbrica — ho ricevuto, per sempre, il marchio della schiavitù, come il marchio che i Romani imprimevano col ferro rovente sulla fronte degli schiavi più abbietti. Da allora mi sono sempre considerata una schiava»1. Il contatto prolungato e intenso con la disgrazia è per lei indimenticabile e forse è proprio questa esperienza, o meglio, questa sorta di incarnazione totale che la porterà successivamente a scoprire il Cristo, colui che ha abbracciato la sventura per salvare gli sventurati. Quando si interessa delle vicende dei minatori e degli operai la Weil è lontana dall’esperienza del soprannaturale, ne ignora l’esistenza, proveniendo peraltro da una famiglia che ha professato l’agnosticismo. Tuttavia la profonda lacerazione avvenuta nella sua anima dopo il contatto con tale sofferenza produce i germi che l’avrebbero poi portata ad avvicinarsi alla figura del Cristo ‘reietto tra i reietti’, capace di portare su di sé il dolore dell’umanità.

Sempre presente dove ci sono dolore, oppressione, ingiustizia sociale, la Weil non si identifica però mai né con un partito, pur lottando per le rivendicazioni operaie e pur partecipando alla guerra civile spagnola nelle file dei rossi, né con la Chiesa Cattolica nella quale rifiuterà di entrare, pur desiderando intensamente ricevere il Battesimo. Si chiede riguardo a lei Augusto Del Noce: » è un’«anarchica», nel senso di «un’amante dell’impossibile»che deve perciò rompere con ogni ordine che prenda la forma di società, prima col comunismo, poi con la Chiesa cattolica? Esprime invece le condizioni di rinnovamento della Chiesa e incarna in questa richiesta lo spirito della Resistenza nel senso più puro, che domanda alla Chiesa l’abbandono di tutti quegli aspetti per cui è potuta sembrare il modello degli stati totalitari? … Offre il tipo esemplare della conversione religiosa quale è possibile, in piena probità intellettuale, oggi, in modo che il suo mancato compimento determini per il pensiero religioso i problemi che deve affrontare al presente? … I suoi scritti devono essere letti in chiave mistica o invece in chiave estetica? Dispongono cioè ad una conversione religiosa, o suscitano invece un’ammirazione estetica, in modo che il religioso sia totalmente assorbito dall’estetico? Sono cioè il compimento mistico del «miracolo greco» di Valery o della ricerca del tempo perduto di Proust? »^[1]

Riteniamo di poter condividere gli interrogativi posti da Del Noce e pensiamo in particolare che, rimanendo fisse le considerazioni suddette circa le tante possibili chiavi interpretative del pensiero weiliano, anche opposte o contraddittorie, l’autrice possa ritenersi ‘anarchica’ nel senso appunto di ‘amante dell’impossibile’, fautrice della rottura dei vecchi ordini che incarnano l’etica di potenza, lo spirito di sopraffazione e di violenza che contraddistingue la società e la politica, per disegnare un nuovo ordine, quello della verità e della giustizia, che si esprime nella centralità della concezione antropologica e nell’amore senza limiti per i reietti e gli oppressi, quell’amore di cui il Cristo costituisce la massima espressione, l’unica completa e compiuta.

In questo senso riteniamo di poter suggerire un singolare parallelo tra Simone Weil e Francesco d’Assisi che, al di là del primo comprensibile sbigottimento, pensiamo possa essere sostenuto e confermato da numerose e significative affinità tra i due personaggi, a cominciare proprio dalla definizione del nociana di ‘anarchico’come ‘amante dell’impossibile’ che molto bene si attaglia al Poverello d’Assisi.

Non era forse un rinnovamento profondo della Chiesa quello che auspicava Francesco, in un momento in cui il potere temporale e le preoccupazioni mondane sembrano aver deviato la «sposa di Cristo» dal suo percorso originario? Il sogno di Innocenzo III che vede le mura del palazzo pontificio vacillare per essere sorrette dal Poverello esprime molto bene la preoccupazione del Papa riguardo al percorso seguito dalla Chiesa dei suoi tempi e l’esigenza di un ritorno alla evangelica purezza dei costumi.

Simone, come Francesco, incarna lo spirito di Resistenza più puro, una Resistenza alla penetrazione nell’animo umano e nell’assetto sociale dei falsi idoli mondani che non si esprime nella violenza o nel rifiuto del mondo, ma che abbraccia il mondo, le sue miserie, le sue debolezze, con infinito amore, quell’amore di chi è vicino all’uomo senza porre limiti all’umana dedizione e che, in quell’uomo, vede l’immagine del Cristo povero e sofferente.

2. La centralità antropologica in Simone e in Francesco

Simone e Francesco, a sette secoli di distanza, vissuti in realtà storico-politiche assolutamente diverse, mostrano però singolari e straordinarie affinità.

Dicevamo che essi sono entrambi ‘anarchici’ nel suddetto senso del nociano di ‘amanti dell’impossibile’; confermiamo tale tesi riflettendo sulle loro scelte e sui loro itinerari di vita vissuta chi più del Poverello d’Assisi e della filosofa francese, ha impresso al proprio vissuto un’immagine fedelmente corrispondente ai propri ideali, ideali che non sono rimasti saggi consigli o sapienti esortazioni ma che sono divenuti modelli di vita, sperimentati totalmente nella quotidiana esperienza? Francesco non si è accontentato di seguire i dettami della Chiesa, rimanendo all’interno della sua comoda casa, né di entrare in un ordine religioso. Egli prende il Vangelo alla lettera e lo segue, parola per parola, fino in fondo con assoluta fedeltà, rasentando appunto l’impossibile, tanto da essere ritenuto ‘pazzo’ dai suoi contemporanei. Simone lotta per le classi più deboli, ma non si accontenta di produrre esortazioni, di dare saggi suggerimenti, di impegnarsi per una riforma delle loro condizioni di vita, non si limita, come aveva fatto Engels, ad osservare da lontano e a suggerire: ella sperimenta su se stessa la durezza di una vita, la pesantezza di una condizione che minerà per sempre la sua salute: entrambi, il santo e la filosofa, morranno in giovane età. Entrambi non rifiutano la vita, non si rinchiudono in una solitudine ispirata, pur essendo profondamente mistici, perché amano troppo l’uomo e vogliono sostenere i più deboli, gli oppressi come afferma Del Noce riguardo alla Weil: non abbandonano il mondo, ma lottano con esso fino alla fine. Simone abbraccia gli operai, Francesco abbraccia il lebbroso: Si tratta in ogni caso dei reietti, di coloro che la società ha abbandonato, ma che la giustizia impone di sostenere. La giustizia o ancora di più l’amore, un amore che è condivisione totale col fratello sventurato fino alla totale incarnazione, al sacrificio estremo, quello di se stessi e della vita.

Ecco l’altro fondamentale aspetto che unisce i due mistici: l’amore per l’umanità, per la giustizia e per la verità, senza compromessi né limiti, fino all’impossibile, cioè fino a quella misura senza confini che per la maggior parte di noi sarebbe appunto inimmaginabile, o quantomeno irrealizzabile. L’obbedienza a Dio è virtù essenziale sia per la Weil che per Francesco d’Assisi; per Simone tale obbedienza costituisce peraltro il punto di congiunzione tra platonismo (ella sarà profondamente attratta dalle epopee dell’antica Grecia e dalla filosofia platonica in particolare) e cristianesimo. Obbedienza e amore sono dunque temi ricorrenti nella spiritualità dei due mistici: si tratta di un amore pieno, copioso, che non conosce limiti che non innalza muri di difesa dell’io.

Questo amore fino all’impossibile può essere raggiunto solo mediante l’annullamento di sé, del proprio egocentrismo, delle proprie esigenze, in una parola mediante la dimensione mistica che costituisce il punto di arrivo del processo di formazione intellettuale e spirituale dei due autori.

Si tratta cioè, per dirla con le parole di Simone di ‘essere nulla per essere al proprio vero posto nel tutto’. Questo divenire nulla è possibile all’uomo che ‘vorrebbe essere egoista e non può. È questo il carattere più impressionante della sua miseria e l’origine della sua grandezza’.1 Afferma in tal senso Del Noce: «È in questo atteggiamento, in cui si è assolutamente eliminata la pretesa di fare delle nostre esigenze la misura dell’essere, in cui si è raggiunta la massima mortificazione dell’io, che la verità può rivelarsi. Siamo al punto limite in cui si può giungere nell’antiprammatismo, nell’antisoggettivismo e nell’antistoricismo; diciamo pure nell’antimoderno. »^[3]

Il misticismo dei due autori che si esprime nella totale mortificazione dell’Io, per abbracciare l’altro uomo in un atto di condivisione estrema, supera ogni dimensione storica e ogni contingenza e temporaneità per sfociare nella filosofia, in quella filosofia che non ha storia o nella quale l’unico senso della storia consiste nel riaffermare le verità potenziali della tradizione. In questa ottica Simone Weil e Francesco d’Assisi sono filosofi, si interrogano sul senso e sul significato della vita per riscoprirne il valore in una dimensione che supera ogni mondanità che vede nei miti della società a loro contemporanea, il danaro, il potere, la ricchezza — paradossalmente sempre gli stessi nella sostanza, nonostante il salto di settecento anni, — dei falsi idoli e che trova la sua risposta ultima nel metafisicismo, nella spiritualità, nella contemplazione.

Tali valori non cambiano nel tempo perché operano «sul piano intemporale delle essenze», come sostiene Del Noce, parlando del Cristo weiliano.

La finalità che ci proponiamo nel presente studio e nel singolare parallelo proposto tra la Weil e Francesco d’Assisi è, in ultima analisi, la dimostrazione della validità della tesi del nociana suesposta circa la continuità della filosofia nel tempo. Come infatti egli sostiene: «… la vera filosofia, in quanto muove dall’essere, dalla verità, non ha storia o, se ha storia, è l’esplicitamento di verità potenziali della tradizione, come risposta a sempre nuove sfide».2 In questo senso va inteso il significato dell’antimodernismo weiliano, un antimoderno che si esprime nella opposizione ad un quadro metafisico vuoto e scontato, entro il quale i filosofi si muovono senza saperlo e, quindi, senza pensarlo, cioè ad una modernità intesa nell’ottica del nociana di «inglobante non problematizzato». Tuttavia, in un diverso senso, relativo alla capacità critica e profetica di percepire le problematiche odierne nelle loro reali dimensioni, di analizzarle ed esprimerle compiutamente nella loro evoluzione prospettica e nelle innate contraddizioni, le riflessioni poste dalla Weil e dal Poverello sono estremamente moderne, in quanto espressione di questioni e problemi esistenziali attuali e scottanti, avvertiti oggi più che mai. Francesco è il padre di una spiritualità feconda e copiosa, vissuta nell’attualità dai numerosi religiosi, anche dell’ordine secolare, che seguono la via da lui tracciata, ma chiaramente sentita anche da chi, pure solo occasionalmente, si trovi a transitare o a sostare lungo le vie di Assisi o si spinga fino al santo monte di ‘La Verna’ o segua comunque, pur con altri percorsi, il cammino francescano. La Weil rivela uno spirito profetico quando, già nel 1932, preconizza la vittoria di Hitler in Germania. Le considerazioni di Simone esprimono drammaticamente il problema dell’uomo moderno alla ricerca della giustizia e della verità, anche se superano la finitezza della dimensione contingente in quanto palesano la «critica di questa obbligazione dello spirito dei tempi; esse vanno oltre l’orizzonte circoscritto della dimensione modernista nel suddetto senso del nociano di quadro metafisico scontato: tracciano» la forma dell’itinerario ideale dell’uomo di oggi verso la fede (che) è rappresentato dall’esperienza della Weil, così per la conoscenza vissuta nel mondo moderno, come per l’assoluta purezza».

3. La modernità di Francesco d’Assisi e di Simone Weil

Francesco e Simone: entrambi moderni perché attuali nella loro esigenza di rinnovamento, vuoi della Chiesa, vuoi della società politica, vuoi di entrambi (non dimentichiamo che nello Stato teocratico in cui si trovò a vivere Francesco, la Chiesa era parte essenziale della realtà politica); moderni perché predicano un cambiamento che si fa all’interno della società, mediante il proprio impegno personale totale, senza mezze misure, mettendosi in gioco e non isolandosi dal mondo; moderni perché denunciano i falsi idoli, ma nel tempo sono essi stessi portatori di valori esistenziali che vanno al di là della contingenza in quanto aspirano all’eterno e costituiscono la vera filosofia nel senso suddetto, quella che è al di fuori del tempo.

Come può risultare già intuibile da quanto detto finora, la personalità di Simone Weil è estremamente affascinante: essa costituisce nel contempo l’espressione vivente di una purezza adamantina, di una totale coerenza di vita condotta senza mezzi termini né mediazioni fino alle estreme conseguenze, nonché la testimonianza di contraddizioni profonde e insanabili, ricche di significato e dai forti contenuti esistenziali. La straordinaria ricchezza dei temi affrontati la inducono a riflettere sui perché e sulle modalità dell’esistenza, sul significato della vita e del dolore, sulla società e sulla storia con ampie e profonde considerazioni che spaziano dalla politica, alla filosofia, alla mistica.

Meraviglia e terrore, gioia e sofferenza, luce e buio, ombra e grazia, aspetti salienti dell’essere uomo, sono tutti temi presenti nelle sue meditazioni, contrastanti, certo, di segno opposto, eppure pieni di significato e di valore in quanto capaci di esprimere la vita che è, essa stessa, contraddizione, contemporanea presenza di poli opposti, contrastanti eppure fondamentali, in quanto costituiscono rivelazione dell’esistenza stessa.

Le contraddizioni sono, in Simone Weil, essenziali alla formazione del pensiero, intimamente connesse alle riflessioni filosofiche. Ella stessa sostiene infatti: «Quanto alle contraddizioni interne alle dottrine ogni pensiero filosofico ne contiene, ma ciò non è una imperfezione del pensiero filosofico, ne è anzi una caratteristica essenziale, senza la quale non vi è che una falsa apparenza della filosofia, perché la filosofia non costruisce niente, il progetto è già dato e sono i nostri pensieri, essa ne fa soltanto l’inventario. Se nel corso dell’inventario trova contraddizioni non dipende da lei sopprimerle, le contraddizioni che la riflessione trova nel pensiero, quando ne fa l’inventario, sono essenziali al pensiero, si farebbe un progresso decisivo se si decidesse di esporre direttamente le contraddizioni essenziali, invece di cercare inutilmente di evitarle»3 La figura di Simone Weil emerge luminosa da tali contrasti, è messa meglio in evidenza dai chiaro-scuri della vita e del pensiero, in modo da risaltarne a tutto tondo e tuttavia è difficile catalogarla, incanalarne le concezioni, facendole rientrare nell’una o nell’altra corrente di pensiero. Eppure, nella grande varietà, ricchezza e complessità delle sue riflessioni un dato emerge con chiarezza tale da poterlo ritenere incontestabile: l’estrema coerenza di pensiero e di azione che la caratterizza, l’effettuazione di scelte di vita, spesso scomode e terribilmente difficili, consequenziali alle sue idee fino alle estreme conseguenze, senza cercare soluzioni di comodo, né mediazioni o compromessi. Una cosa è certa e costituisce elemento costante delle intere sue riflessioni, di più, è il fulcro centrale intorno a cui ruota tutto il suo pensiero, ne esprime l’essenza, il significato: l’uomo è nel cuore delle sue concezioni e la profonda consapevolezza della dignità dell’essere umano, la totale compenetrazione con la sua sorte e con la sua realtà permeano tutta la filosofia, la politica e la mistica weiliana. Ma la sua concezione fortemente antropologica non si esaurisce nelle teorie, nell’esame distaccato dello studioso che osserva i fatti da lontano e ne trae conclusioni e generalizzazioni. La singolarità e il fascino dell’autrice è invece nella sua scelta di totale condivisione, nel vissuto di un’esistenza che, senza tregua e fino alla morte, ha trovato e mantenuto la coerenza delle scelte scomode e l’impegno assoluto nel difficile. C’è un dato costante nelle contraddizioni espresse dal suo pensiero, un elemento incontestabile, fuori di ogni possibile discussione: consiste appunto nel suo essere sempre dalla parte degli oppressi, dei deboli, dei sofferenti, di coloro che sono lasciati ai margini della società. Simone Weil ricerca la verità e la giustizia, e verità e giustizia non possono stare dalla parte dei potenti e dei vittoriosi perché la vittoria confonde il senso della giustizia.

L’originalità della sua posizione è appunto nella sua scelta di totale condivisione della sorte degli oppressi, di coloro che sono perseguitati, che sono oggetto di violenza, che subiscono lo ‘spirito di potenza’: Simone non si limita ad esaminare e studiare, pur con estrema attenzione ed accuratezza, i problemi umani e sociali, ma vuole condividere, partecipare, sentire essa stessa il peso della sofferenza e dell’ingiustizia, perché solo attraverso la compartecipazione può capire ed alleviare il dolore degli altri, portandolo su di sé, può proporre soluzioni concrete e valide perché scaturite da una completa immedesimazione.

È dalla parte degli oppressi, l’autrice, e lo è fino in fondo, coerente con le sue convinzioni fino alla morte. I grandi problemi dei suoi tempi, la fatica estrema dei minatori e degli operai, i rapporti tra capitale e lavoro che ella intende penetrare intimamente, il problema dell’alienazione del lavoro, le precarie e disagiate condizioni di vita imposte dalla rivoluzione industriale e dal capitalismo sono per lei oggetto di profonda riflessione, ma non solo: la fame, la fatica, l’oppressione del lavoro a catena, i rimproveri e le umiliazioni, ella intende viverle sulla sua pelle, farne un’esperienza personale, anzi, molto di più; la volontà di condividere la sorte degli operai diventa per lei l’occasione di una dedizione e di una donazione vera e propria, totale: è un dare interamente se stessa all’amore per l’umanità.

Ferite, lacerazioni, si producono continuamente in Lei nella vicinanza al dolore, nel contatto con la sofferenza, nella condivisione della sorte degli ultimi. Strappi, certo, lacerazioni, ma non scissioni dicotomiche ed insanabili perché sia Simone che Francesco ricompongono la frattura che la sedimentate incrostazioni del tempo e la contingenza, l’accidentalità delle circostanze producono tra anima e corpo. Spirito e materia trovano adeguata composizione ed espressione nell’armonia della bellezza universale.

L’uomo stesso è parte integrante del cosmo, non realtà fine a se stessa ed isolata dal mondo circostante. Si palesa in ciò una valenza pedagogica che ci induce a superare il concetto di centralità assoluta del nostro ‘io’, l’orgoglio dei nostri atteggiamenti che tendono all’autoaffermazione, l’egoismo delle nostre pretese. È, in fondo, un cambiamento del cuore, una’metanoia’ quella che ci propongono Francesco e Simone per riscoprire la bellezza dei rapporti umani: oggi invece la realtà, isolandoci dalla dimensione comunitaria, diviene sempre più alienante e sancisce la condanna dell’io all’isolamento. Anche in questi termini si chiarisce l’attualità del loro messaggio che va oltre il tempo.

Ritorna qui il tema della scissione orfica e diviene di peculiare interesse l’esame della soluzione offerta al problema dai due mistici. Separata dall’ambiente, spesso irreparabilmente deturpato dal progresso, scissa dalla comunità sociale, l’anima dimentica la sua centralità. Essa, infatti, sostiene Simone, «si trova nel punto di intersezione tra creazione e Creatore: questo punto d’intersezione è il punto di incrocio dei due bracci della Croce»4

L’afflato mistico di Simone e di Francesco si apre al mondo come testimonianza d’amore del Cristo crocifisso. Il Dio che si avvicina ai due mistici è un mendicante d’amore che si arresta sulla soglia del cuore dell’uomo, in attesa del suo sì.

Scrive Simone: «Viene il giorno in cui l’anima appartiene a Dio; quel giorno l’anima non solo acconsente all’amore, ma amerà veramente, effettivamente. Allora lei dovrà a sua volta attraversare l’universo per andare a Dio. L’anima non ama Dio come una creatura, con un amore creato. In lei quest’amore è divino, increato, poiché è l’amore di Dio per Dio che passa attraverso di lei. Dio solo è capace di amare Dio. Noi possiamo solo acconsentire a perdere i nostri sentimenti personali per lasciare nella nostra anima il passaggio libero a questo amore. Questo significa rinnegare noi stessi. Non siamo stati creati che per questo consenso»5

La solidarietà che Simone e Francesco propongono e che si esprime anche mediante una rinuncia alle orgogliose pretese della propria individualità, si colloca oltre gli schemi del tempo e dello spazio, è un messaggio di perenne validità, rivolto all’uomo di oggi come lo era a quello del passato e lo sarà a quello del futuro, è cioè diretto all’uomo universale: ricalca «l’amore divino (che) ha attraversato l’infinità dello spazio e del tempo per andare da Dio a noi»6

A proposito di questa discussa scissione tra corpo e anima, tra realtà spirituale e materiale, tra trascendenza e immanenza, tra Dio e l’uomo, Van Doornik ricorda l’occasione di un convegno svoltosi a Perugia sull’avvenire del Cristianesimo: c’era chi proponeva lo ‘sganciamento’ del cosmo da Dio, sostenendo che ‘non possiamo più parlare di Dio’e che quindi dobbiamo smettere ‘di farlo’, che la religione, pertanto, si deve sviluppare in senso orizzontale, cioè verso l’uomo, più che volare dritta verso l’alto. Osservavano: «La religione non deve più volare dritta verso l’alto, ma svilupparsi orizzontalmente, vale a dire volgersi all’altro, all’uomo. La comunità dei vivi e del morti dobbiamo realizzarla essendo ciascuno responsabile per tutti e tutti per ciascuno. Dobbiamo abolire la gerarchia, il mito, l’autorità.

La vita religiosa è un dare senza chiedere (nemmeno l’immortalità), è un essere disposti a rendere testimonianza per mezzo del sacrificio. Gesù Cristo può essere una fonte (se si vuole la più profonda per molti), ma allora fonte di quest’unica disposizione interiore, l’unica veramente ecumenica. Svilupparsi in senso di tale disposizione è l’unica resurrezione che possiamo accettare».7

La testimonianza di pensiero ed azione di Francesco e Simone hanno dimostrato chiaramente che non occorre scegliere tra elevazione verso la verticalità di Dio e prolungamento orizzontale verso l’uomo: i due termini non sono alternativi, ma complementari, integrandosi vicendevolmente: come si può amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che ci è dinanzi? Peraltro la contemplazione dell’amore illimitato del Cristo che non si arresta dinanzi ai limiti dell’umana ragionevolezza ma arriva al sacrificio supremo e culmina nello scandalo della Croce irradia l’umana generosità, elevandola alla dimensione dell’assoluta gratuità.

Ebbene, possiamo sostenere che con molta semplicità, già Francesco nel Medioevo, come Simone sette secoli più in là, avevano trovato una soluzione che pensiamo valida per l’uomo di ogni tempo, in quanto consona al suo modo di essere, a quelle esigenze profonde che non mutano nelle contingenze temporali poiché appartengono alla sua essenza più profonda.

Essi hanno realizzato con le loro idee, ma soprattutto con la loro vita, una perfetta armonia tra i due bracci della croce — l’orizzontale e il verticale — che, comprendendo il mondo, s’innalzano fino al Cielo. La stessa incarnazione e passione di Cristo leniscono la sanguinante e dolorosa ferita prodotta da tale netta separazione che isola terra e cielo sistemandoli in due realtà che sembrano essere impermeabili, proiettate verso l’assoluta incomunicabilità; è il Cristo fatto uomo a sanare la ferita, a ricomporre la frattura unendo alla sua divinità l’assunta umanità. L’anima, posta al centro della creazione, — punto d’intersezione tra i due bracci della Croce — abbraccia il mondo e lo porta a Dio.

La spiritualità di Francesco e Simone non è circoscritta, non accetta limitazioni, ma si espande in ogni direzione, verso Dio, verso l’universo, verso l’uomo, irradiando ovunque la sua luce, velata d’eternità. L’uomo rimane, insieme a Dio, il termine di paragone costante di Simone e di Francesco: ogni loro scelta, ogni loro testimonianza non prescinderà mai dalla considerazione dell’individuo come valore essenziale a cui rapportare ogni intervento sociale: l’amore compreso nel messaggio francescano e in quello weliano è amore per l’uomo, rispetto della sua dignità, manifestazione di una carità piena, volta non solo al sostegno, ma alla lotta per il riconoscimento del valore assoluto di ogni individuo, portatore di una dignità cui egli ha diritto per natura, che non gli può, in nessun caso, essere negata; essa prescinde dalle gerarchie mondane, mette al primo posto il lebbroso — come Francesco — o l’operaio — come Simone — capovolgendo l’ordine piramidale degli assetti sociali.

La dignità dell’uomo, un valore che si proietta oltre le contingenze, è un’aspirazione che va al di là della finitezza della dimensione temporale e che, perciò, è costante anelito in ogni realtà di tempo e di spazio. La bellezza del cosmo, contemplata sia da Simone che da Francesco ed accettata in tutte le sue manifestazioni sia di gioia che di dolore e indica il profondo amore che entrambi nutrono per l’universo, opera di Dio, accettato nella sua integrità.

Abbiamo già avuto modo di far notare la sorprendente continuità del pensiero weliano e di quello francescano. Tuttavia tale considerazione è emersa nel corso di valutazioni di carattere diverso, riferite ad aspetti peculiari delle riflessioni in questione.

4. «Anarchismo» e «rivoluzione» nelle testimonianze dell’Assisiate e della Weil

Appare ora di particolare interesse l’approfondimento degli specifici elementi di continuità presenti nelle concezioni della Weil e in quelle di Francesco d’Assisi . Il primo aspetto che potremmo esaminare in tale contesto è l’espressione di una profonda istanza di rinnovamento manifestata dal pensiero in questione sia sul piano sociale che su quello religioso; tale istanza è fortemente legata sia alle tematiche weliane che a quelle francescane, tanto da consentirci di avallare l’ipotesi che entrambi le teorie possano considerarsi fautrici di una sorta di rivoluzione, che appare evidente dapprima nell’ambito dell’organizzazione sociale per poi giungere a compimento nel settore ad essa più proprio, quello religioso: è, potremmo dire, una rivoluzione che nasce, in germe, ‘anarchica’, palesandosi agli occhi di tutti come rottura violenta rispetto agli schemi dell’ordinamento politico-sociale per poi rivelarsi, nella sua essenza più vera e profonda, di carattere mistico. Molto si è detto nella pagine precedenti su questo aspetto in relazione alle riflessioni weliane; anche le concezioni francescane hanno però tale valenza, al punto tale che il loro successo e la loro attualità nei tempi attuali può essere attribuita proprio alla loro incredibile modernità e alla loro capacità di esprimere le esigenze di coerenza, di purezza, di rinnovamento sociale connesse alle società di ogni tempo. Se il filosofo Augusto Del Noce esamina le teorie della Weil quali eccellenti interpreti del pensiero moderno, delle problematiche essenziali e delle crisi potenziali connesse al mondo di oggi, attribuendogli financo delle caratteristiche profetiche, un discorso analogo può essere intrapreso riguardo al percorso francescano.

Una delle questioni principali affrontate dalla filosofa francese riguarda la trattazione sul piano ontologico del tema del potere e del suo ruolo nella società e nella storia. Violenza e sopraffazione finiscono con lo svilire l’io dell’uomo, sia del carnefice che della vittima, privandolo della sua dignità esistenziale e riducendolo al rango di cosa. Il problema di fondo sta nel trovare un sistema in grado di sconfiggere l’etica della potenza, il dominio delle forme di potere cristallizzate nella società per consentire all’uomo di riacquistare la pienezza del rango che gli compete come partecipe dell’armonia universale.

Quella di Francesco e di Simone è una lotta radicale contro le idolatrie sociali del benessere, della ricchezza del prestigio per essere sempre e solo dalla parte degli ultimi. Il percorso prescelto è quello di fare di se stessi, nel corpo e nell’anima, un fertile terreno di prova, un esperimento progressivo di sottrazione fino all’integralità: la Weil e l’Assisiate rinunciano dapprima ai privilegi tipici delle loro classi di appartenenza, poi si fanno, nella condivisione estrema, compagni di sorte degli oppressi e dei reietti, giungono infine a perdere la salute e la vita per le privazioni subite e le rinunce imposte a se stessi.

Il Sabatier, autore di un testo dedicato al Santo d’Assisi di grande successo, mette in evidenza questa peculiarità della testimonianza di vita del Poverello, esaminandola dal punto di vita del rinnovamento religioso e sociale suscitato dal suo pensiero piuttosto che da quello dell’aspetto mistico espresso dalla sua spiritualità.

Sabatier, pastore protestante, scrivendo agli studenti della Facoltà teologica di Parigi sottolineò infatti che «la storia di S. Francesco è una delle più potenti armi nelle nostre mani per combatter lo spirito d’autorità della Chiesa».8 In realtà la revisione delle fonti francescane, che evidenziava lo spirito ‘rivoluzionario’più autentico compreso nella esperienza del Poverello, favorì il diffondersi di quel movimento culturale noto come modernismo agli albori del ’900. Il successo dell’opera è da attribuirsi anche alla coincidenza storica con il declino del positivismo filosofico e lo sviluppo di un romanticismo di carattere spirituale, comprensivo di temi liberali, venati di toni critici nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. Scrive al riguardo Lorenzo Bedeschi nell’introduzione all’opera succitata: «Altra coincidenza, e questa di carattere politico, l’offriva fra l’altro quel diffuso bisogno di pace sociale durante l’ultimo quarto di secolo, pace che i ceti borghesi allora dominanti vedevano minacciata e dai movimenti operai e dagli appetiti nazionalisti che già si manifestavano. Vero è che prendeva piede in una certa ala moderata l’iniziativa del Comitato per la pace e l’arbitrato internazionale — di cui anche a Milano si costituiva una sezione — con l’utilizzo di specifici elementi tradizionali prevalentemente ideologico-religiosi e non c’è dubbio che la tradizione francescana e la figura del Poverello si prestavano meravigliosamente allo scopo. Del resto non passava molto tempo che proprio da Assisi sarebbe partito il progetto per un Comitato internazionale per la pace universale, mentre la Democrazia cristiana murriana eleggeva a suo protettore S. Francesco e Giulio Salvadori lo interpretava come promotore della pace sociale tra le classi in lotta all’inizio del secolo»9

In un contesto di profondo mutamento sociale, ove il cambiamento economico si riflette sulle ideologie e sull’organizzazione sociale, l’esempio di Francesco è fulgido e suscettibile di richiamare numerosi seguaci, di incoraggiare la riscoperta del valore dell’uomo, la centralità della sua dignità dinanzi ai tentativi di oppressione sociale e di gerarchizzazione spinta. Aggiunge il Bedeschi che «S. Francesco veniva presentato come un anticipatore dell’opposizione al clericalismo curiale in nome della libertà di coscienza»10 Pur consapevoli che la testimonianza del Santo d’Assisi non può essere ricondotta né ridotta all’espressione dell’anticlericalismo, tanto più che la vita del Santo attesta con chiarezza che egli rimase sempre nell’ambito della Chiesa stessa ed in completa obbedienza al magistero ecclesiastico, tuttavia la sua valenza sul piano sociale — politico come su quello religioso non può certo essere messa in discussione: direi anzi che tali piani si sovrappongono e si immedesimano in una più ampia concezione che abbraccia entrambi nella sua pienezza: la concezione antropologica che esprime la centralità dell’uomo e del suo valore nelle testimonianze francescane.

Ebbene in tali temi non può ignorarsi la singolare e sorprendente coincidenza tra il pensiero weliano e quello francescano, sia riguardo alla rivendicazione del primato dell’uomo e della sua profonda dignità che nell’opposizione ad ogni forma sociale che a tale centralità si opponga, finendo col creare gerarchie e poteri costruiti su valori mondani; tali valori assurgono ad emblematiche incarnazioni di quell’etica di potenza che un messaggio di profondo rinnovamento religioso e umano come quello di Simone e di Francesco non poteva che combattere con le armi della coerenza ferrea, della purezza, della totale dedizione all’altro, immagine terrena dell’amore divino.

Il Sabatier mette in particolare evidenza questo aspetto di Francesco presentato quale precursore di un movimento che rivendica la libertà di coscienza, puntando il dito avverso le autorità costituite e il clericalismo curiale: questa prospettiva è forse evidenziata eccessivamente a dispetto di altre possibili interpretazioni del pensiero francescano, pur tuttavia esso, in tale ottica, viene a coincidere totalmente con quell’avversione allo spirito di sopraffazione, nemico di ogni uomo, strumento di oppressione sociale nei confronti degli umili, di coloro che, come il lebbroso di francescana memoria, vivono ai margini della società.

L’autore sottolinea la radicalità della testimonianza di Francesco che esprime un vero e proprio cambiamento rispetto ai tradizionali canoni di pratica religiosa: il suo messaggio porta il cristianesimo nel mondo, ne fa una dottrina aperta all’uomo universale, destinata ad avverarsi nella quotidianità del vivere sociale: la chiesa quale luogo di culto o la ricerca dell’isolamento e la fuga dal mondo proposta dagli eremiti non sono più gli ambiti preferenziali di attuazione del cattolicesimo; d’altra parte il proposito di adesione al Vangelo, nella integralità del suo dettato, vissuto alla lettera, è l’essenza della rivoluzione francescana: vivere di elemosina, indossare abiti logori, non avere ‘una casa dove posare il capo’, professare il Cristo in una esperienza che fa di ogni momento di vita una preghiera, mantenere un contatto armonico con la natura, in una unione mistica che si estende dal cosmo a Dio, significa avere il coraggio di proporre una testimonianza rigorosa e di assoluta coerenza rispetto alla ‘buona novella’.

5. Universalismo religioso e condanna dell’etica di potenza

In ciò rileviamo la vicinanza all’universalismo religioso invocato dalla Weil, un universalismo che non esclude nessun uomo ‘di buona volontà’e che ad ognuno — e soprattutto al più misero — riconosce la dignità di figlio di Dio. È questo un altro aspetto del pensiero weiliano che non è stato adeguatamente esplorato sul piano teologico. Il Dio di Simone è, insieme ‘personale e impersonale’: ne discende che la dimensione del divino si estende a chiunque agisca ricercando verità e giustizia, a colui che custodisca, cioè, un retto pensiero sul mondo (la verità) e una retta azione in esso (la giustizia). Il rifiuto di Dio in quanto persona non comporta di per sé il rifiuto della salvezza eterna e dell’accesso alla dimensione del trascendente. Scrive: «Quelli che posseggono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo, compresa la sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono in apparenza atei».11

Ricordiamo che la Chiesa cattolica ci insegna che non è possibile amare Dio se non si ama il fratello che soffre e che la fede, senza le opere, è cieca. Ciò che Simone e Francesco rifiutano è l’assetto del potere temporale, la gerarchia fine a se stessa, l’esercizio di un’autorità che non sa parlare all’intelligenza dell’uomo, ma la svilisce e la opprime. Sabatier fa notare come, nel XIII secolo, «vi fu un autentico tentativo di rivoluzione religiosa che, se fosse riuscito, sarebbe giunto al sacerdozio universale, alla proclamazione dei diritti della coscienza individuale.

Lo sforzo è andato a vuoto e se più tardi la rivoluzione ha fatto di tutti noi dei re, né il XIII secolo, né la Riforma hanno potuto fare di tutti noi altrettanti sacerdoti. . . Emancipati politicamente non lo siamo né moralmente né dal punto di vista religioso»12

Da tali osservazione sembra potersi dedurre che il Sabatier non sia riuscito ad afferrare il significato rivoluzionario del pensiero e della vita di Francesco: riteniamo che l’aspirazione al rinnovamento della Chiesa, l’esigenza del ritorno alla purezza dei costumi evangelici, la riscoperta nella sua totalità e completezza del messaggio di Cristo, siano perfettamente incarnati nella testimonianza francescana, autentica ed ancora attuale espressione di un vissuto aderente al Vangelo, maestro di umiltà, di amore e di letizia. Possiamo pertanto sostenere, al contrario, che una rivoluzione, tesa a far di noi dei seguaci di Cristo, dei sacerdoti, come nota l’autore suddetto, è stata compiuta nel campo religioso proprio ad opera del Poverello.

Il Sabatier è, comunque, un grande estimatore del francescanesimo, tanto da prenderlo a modello dello stile di vita italiano. Scrive al riguardo il pastore protestante al deputato liberale di Perugia: «Che l’Italia prenda coscienza del suo valore, che che sia fedele a se stessa, al suo genio e al suo cuore; non ascolti né la Germania che vorrebbe farle credere esser grandi solo quelle nazioni che hanno maggiori quantità di fucili e di cannoni, né la Francia che vorrebbe farle credere esser grandi solo quelle nazioni che dispongono di più lingotti d’oro. Il popolo italiano conservi invece la sua gaiezza. Alla sua meravigliosa anima tra non molto gli altri popoli, delusi dalla follia militare e dall’oro, verranno a chiedere non già lezioni artistiche o scientifiche, ma di etica e di libertà»5.13

Tali parole potrebbero prettamente adattarsi a Simone, tanto da poter essere attribuite a lei. La sua accorata lotta per la pace coincide con la testimonianza di Francesco, il cui contenuto è stato ben recepito dalle autorità di Assisi, tanto da far della capitale francescana, il simbolo della pace universale. L’impegno profuso da Simone in favore della pace, in un momento storico drammatico in cui la famigerata etica di potenza portava invece alla guerra e alla morte in nome di un imperialismo diffuso, di una ricerca di affermazione della propria potenza egocentrica da parte dei Paesi, nemica di ogni solidarietà, è perfettamente coerente con il messaggio del santo di Assisi.

Avversa alla guerra ella ha condiviso il pensiero del suo maestro convinta, certamente, con Alain, che ‘l’etica di potenza disonora anche Dio’, condannando sia la politica estera della Francia che quella della Germania, tese a riaffermare il loro predominio, piuttosto che a difendere la pace e, con essa, la dignità dell’uomo.

Le parole di Sabatier riecheggiano perfettamente nelle sue accorate difese della pace, negli scritti e nelle testimonianze riportate nel testo, tese ad evitare il conflitto mondiale. La sua opposizione a Marx, tanto amato nelle sue giovanili aspirazioni verso la giustizia sociale, derivano appunto dal determinismo del suo pensiero, che riduce in termini economici ogni realtà, creando una nuova etica materialistica, quella delle strutture produttive e dell’economia, idolatria della odierna società.

Il profetismo presente sia nel pensiero di Simone che in quello di Francesco si palesa nella loro capacità di interpretare i tempi moderni, di cogliere le contraddizioni tra materia e spirito in essa drammaticamente presenti, di riuscire ad incarnare un profondo anelito di rinnovamento che sappia conciliare i valori umani con quelli trascendenti.

Lontano dall’analisi cattedratica e astratta del neokantismo, l’intero percorso terreno della Weil sarà tracciato all’insegna della lacerazione tra conoscenza e azione, tra ragion teoretica e ragion pratica, tra regno della necessità e regno della libertà: l’opzione prescelta dalla filosofa, come dall’Assisiate, è per la testimonianza concreta, la vita vissuta nell’umiltà e in profonda coerenza con il proprio credo. Una lacerazione persistente, dunque, che caratterizza l’intero itinerario evolutivo del pensiero weliano e che si riallaccia mirabilmente al tema della scissione orfica e dell’intima consapevolezza con cui tale’ferita’ è vissuta dalla studiosa francese e, in generale, dalla riflessione filosofica femminile che a tale tema è particolarmente vicina, perchè lo avverte con una sensibilità del tutto peculiare.

Questo aspetto connesso alla lacerazione del vissuto, alla separazione tra pensiero e attività concreta, ai dubbi e alle amarezze che l’uomo avverte dinanzi alle difficoltà della vita, alla caducità e umana fragilità, è stato messo in ombra da quelle ricostruzioni agiografiche relative a Francesco che si preoccupavano di fornire un’immagine della santità, della soprannaturalità, dell’ineffabilità della grazia presenti nel Poverello, ignorando lo spessore dell’uomo e la radicalità del suo atteggiamento verso le forme sociali cristallizzate e rigidamente piramidali che dimenticano la grandezza della dignità umana.

Scrive S. da Campagnola, riguardo alle concezioni del Sabatier, che esse hanno due grandi meriti oggettivi: «l’individuazione di quel contrasto religioso e sociale esistente attorno a Francesco, già intuito e additato ma non determinato nelle sue componenti e nella sua intensità, e uno spostamento radicale nelle valutazioni delle fonti, che vedeva ora in primo piano, scoperta e rivalutata, la tradizione dei compagni del Santo, in opposizione a quella ufficiale».14 Lo sviluppo della ricerca documentale, di indubbio merito sul piano scientifico, ha altresì il grande valore di riportare all’attenzione degli studiosi, ‘fonti non ancora manipolate da ricostruzioni posteriori’,15 nelle quali l’immagine di Francesco, risulta a tutto tondo, accentuando la sua umanità, rendendola più vicina e comprensibile alla nostra quotidiana realtà. Altre biografie francescane, preoccupate di evidenziare la chiamata divina nella sua vita e di metterne in evidenza la prodigiosità, finivano proprio col trascurare l’aspetto della caratterizzazione di Francesco, egli ne risultava così privo di profilo psicologico, lontano dal mondo, difficile da capire agli occhi dell’uomo comune. Il Sabatier, invece, scrive: «La novità da me apportata nel 1893 agli studi francescani è stata d’una semplicità quasi infantile. Partiva dall’idea che per conoscere San Francesco, bisognava prima di tutto interpellare l’interessato. Fortunatamente noi si possedeva una parte dei suoi scritti, per giunta carichi d’emozione e d’originalità. Perciò non altro che questa poteva essere la base della storia francescana».16 Ne risulta un’immagine del santo, calcata nella sua realtà umana, nel profondo anelito al rinnovamento sociale e religioso, nell’adesione completa ai valori evangelici. Una vita, come quella di Simone, vissuta nella quotidianità dell’impegno difficile, nella tensione verso l’Assoluto, nella radicalità della coerenza estrema, quasi a rasentare l’impossibile, nella dedizione esclusiva e totale alla missione da compiere.

La tematica del rispetto e della tutela dell’ambiente, attualmente così sentita da tutti noi che prendiamo drammaticamente atto dei rischi connessi alla sua progressiva degradazione, è talmente presente nelle tematiche francescane e weiliane da giungere alla dimensione della sacralità: ogni creatura dell’universo è sacra ed ha diritto alla massima considerazione. Oggi, dopo aver deturpato e svilito l’ambiente in nome delle nostre esigenze materiali — da quella edilizia, a quella tecnica, tecnologica e informatica — percepiamo forse troppo tardi la sua importanza per la nostra stessa sopravvivenza. Ebbene Francesco e Simone, in questo, sono stati maestri e i loro insegnamenti si proiettano nel futuro.

La considerazioni fatte hanno mostrato molti tratti di continuità tra il pensiero francescano e quello weiliano, una continuità che appare quasi prodigiosa, tenendo conto dei sette secoli che intercorrono tra la nascita di Francesco e quella di Simone. L’attualità delle riflessioni dei due contemplativi, poi, appare veramente sconcertante, sia per quanto riguarda le problematiche di carattere sociale che quelle più specificatamente religiose o filosofiche circa la natura e la condizione dell’uomo.

Il movimento francescano è, oggi, uno dei frutti più fecondi della religiosità cattolica, costituisce un forte richiamo per chi vuole seguire le orme di Francesco, un richiamo avvertito, nella sua sorprendente attualità, da molti giovani. Se ci si reca alla Verna, il monte ove Francesco ha ricevuto le stimmate, si rimane colpiti dalla presenza di tantissimi giovani tra i frati francescani, pur in un momento in cui le vocazioni scarseggiano.

Sul carattere profetico delle osservazioni weiliane Del Noce, in un saggio del 1968, «Simone Weil, interprete del mondo di oggi»evidenzia la capacità della scrittrice di precorrere i tempi riuscendo ad intuire l’andamento del «destino dell’Europa, del processo irreversibile del laicismo verso lo scientismo e il sociologismo, del neomodernismo, della presente situazione morale».17

6. Gli amanti dell’impossibile

L’attualità dei messaggi di Francesco e Simone risiede, a nostro avviso, nella capacità che li accomuna di parlare al cuore dell’uomo che, in quanto tale, non può essere confinato in una dimensione temporale precisa: le sue esigenze corrispondono infatti alle aspirazioni della natura umana e perciò si pongono al di fuori del tempo. Merito dei due contemplativi è stato quello di liberare il pensiero dalle pastoie sociali, culturali, politiche e di potere, dalle convenzioni e dai costumi che lo imprigionano, riuscendo così ad esprimere liberamente i bisogni fondamentali dell’uomo nella sua relazione con l’universo e con la dimensione del soprannaturale.

In questo senso le riflessioni che essi presentano hanno carattere ‘anarchico’, come più volte abbiamo avuto modo di accennare nell’ambito della trattazione. Vorremmo ora precisare la portata di tali osservazioni, definire il campo di applicazione di tale termine e i limiti semantici che intendiamo riconoscere loro. Per far ciò prendiamo spunto dalle osservazioni di Del Noce riguardo al pensiero della Weil. Egli si interroga sul senso del pensiero weiliano che, luminoso, lungimirante e sorprendentemente lucido, è ricco di contraddizioni che arricchiscono il suo fascino. Si chiede quale tra le tante possibili interpretazioni delle sue concezioni debba condividersi. Avanza tante ipotesi e osserva: «È un’’anarchica’nel senso di un’«amante dell’impossibile», che deve perciò rompere con ogni ordine che prenda la forma di società, prima col comunismo, poi con la Chiesa Cattolica? »18

A questa domanda vorremmo tentare di dare una risposta: è questo uno degli scopi di questo scritto. Per poterlo fare, però, occorre precisare ulteriormente il senso che intendiamo riconoscere al termine ‘anarchico’. È ‘anarchico’ il pensiero weiliano e, a nostro avviso, anche quello francescano perché si palesa amante dell’impossibile: accogliamo quindi il senso che Del Noce intende attribuire alla parola in questione.

Nel panorama delle riflessioni filosofiche e religiose non è facile trovare un pensiero più radicale di quello di Francesco e Simone, un pensiero di assoluta purezza, di coerenza estrema che si propone obiettivi quasi irraggiungibili per i ‘comuni mortali’ — in questo senso impossibili — ; l’aspetto straordinario è però soprattutto nel fatto che i due contemplativi non si limitano a profetare, ad indicare al mondo la strada da percorrere, anzi diremmo quasi che essi non vogliono tracciare un percorso destinato ad altri, semplicemente mettono in pratica ciò in cui credono. Le loro idee, i loro consigli, il loro pensiero non intendono forgiare modelli da seguire, ma vogliono tradursi, puntualmente e scrupolosamente, in testimonianze dirette di vita vissuta. Sicuramente essi sono amanti dell’impossibile, nel senso suddetto, ma questo ‘impossibile’ intendono sperimentarlo sulla loro persona, farne esperienza di vita.

Francesco rimane stupito quando si rende conto che molti altri intendono seguire il suo esempio, si chiede, turbato, come può organizzare una vita comunitaria. Non era suo intendimento, infatti, creare un nuovo ordine religioso, egli voleva solo e semplicemente, con tutta la radicalità e la genuinità del suo pensiero, essere fedele imitatore del Vangelo, senza mediazioni, trasformazioni o adattamenti ai tempi: voleva vivere, fin nel profondo della sua anima, il messaggio cristiano, con totale aderenza alle parole di Gesù, un’aderenza che diveniva stile di vita.

Simone, con atteggiamento umile, di totale apertura verso l’uomo, non pontifica sulle possibile soluzioni della ‘questione operaia’, non dà consigli dall’esterno, rimanendo confinata nel mondo degli intellettuali che studiano e propongono teorie risolutive, ma senza aver vissuto, in prima persona, il problema, senza aver provato, sulla loro pelle, gli effetti dello ‘sfruttamento del proletariato’. Lenin teorizza la società senza classi, propone la dittatura del proletariato sulla scia di Marx, ma non è mai stato egli stesso operaio.

Simone dimostra un atteggiamento di apertura donativa verso l’uomo, certo, ma dà anche prova di rigore scientifico nel momento in cui, volendo studiare un fenomeno, intende prima maturarne una conoscenza effettiva, da raggiungere mediante l’osservazione diretta.

È anche lei un’amante dell’impossibile: chi, come lei, per conoscere e condividere la sorte delle classi sociali più povere, si sarebbe sottoposto ad ore, mesi di lavoro massacrante in fabbrica, tanto da minare la salute e perdere la vita in giovane età? In una lettera scritta a Padre Perrin Simone osserva che quell’esperienza, sconvolgente, l’aveva segnata per sempre nell’anima, aveva impresso a fuoco su di lei il ‘marchio perenne della schiavitù’. Ma anche il corpo ne uscirà segnato, stremato dalla fatica: la sua volontà di condividere la sorte degli umili la porterà a privazioni anche fisiche, la condurrà a ridurre il cibo per solidarietà con i soldati in guerra, a stremarsi con un impegno duro e incessante fino a morire di stenti.

7. L’anarchismo come rifiuto radicale degli idoli mondani

Il contenuto ‘anarchico’ dello stile di vita e del pensiero di Simone e di Francesco può essere esteso anche ad altre accezioni del termine. L’’anarchia’ di Simone e di Francesco implica la cesura netta con i comuni stili di vita, con gli assetti di potere e le gerarchie sociali precostituite.

Può una rottura con i consueti modelli sociali essere più radicale e plateale di quella del Poverello sulla Piazza del Vescovado di Assisi? Egli, dinanzi al popolo lì riunito, rinuncia ai beni paterni e solo la protezione del Vescovo riesce a sottrarlo alla dimostrazione tangibile dell’ira del padre Pietro. Osserva al riguardo Van

Doornik, autore di un bel libro sulla vita e il messaggio di Francesco, in cui ne sottolinea l’attualità e la capacità profetica per i tempi odierni: «Francesco vedeva in suo padre il simbolo del mondo che egli cominciava a detestare. È questo un conflitto di tutti i tempi che assume però in ogni tempo un suo particolare aspetto. Quando un giovane protesta contro l’ordine stabilito nel quale, a suo modo di vedere, il padre è arrugginito, ha dalla sua il proprio tempo e la generazione dei coetanei. Quando però una data società si sente forte e sana e fiuta nell’aria l’avvento di una nuova primavera, come era il caso in quel primo avvio verso il futuro rinascimento, allora qualsiasi protesta contro la società vigente è stoltezza, nei giovani come negli anziani. Occorre allora un immenso coraggio per volgere le spalle a quel mondo e ai benefici che offre. Per Francesco suo padre era appunto un esponente di quella società, uno che aveva esaltato gli ideali del benessere, della carriera, dell’influenza e del prestigio… Due Bernardone, l’uno contro l’altro. Il risultato della tensione sarà radicale come i loro due caratteri. Tutto convogliava verso la rottura».19

Francesco si rivela quindi certamente ‘anarchico’ nel senso suddetto, di rottura con l’ordine precostituito, con le gerarchie sociali: a lui non manca certo il coraggio di opporsi e di rifiutare i suddetti modelli: dispone di quella immensa audacia necessaria per tagliare i ponti, da solo, senza conforto alcuno di amici e parenti, con una società che gli offre benessere e sicurezza.

Al riguardo, in un interessante articolo, composto in occasione dell’ottavo centenario della fondazione dell’ordine francescano Fortunato scrive: «[Francesco pone] al centro della propria esistenza un itinerario che non è fatto di ascesa, ma di discesa. Nella tradizione greca l’amore era inteso come un partire dal basso verso l’alto, dall’informe alla forma, dall’imperfetto al perfetto.

Invece l’amore cristiano e francescano si manifesta e si rivela nel discendere di Gesù verso l’umanità: il nobile si abbassa all’ignobile, il bello al brutto, il sano al malato senza la paura di perdere qualcosa di sé. Ed è in questo che possiamo comprendere lo scendere da cavallo di Francesco per abbracciare, ma prima ancora guardare negli occhi, il lebbroso. Anche l’indicazione sociologica che emerge dall’avventura francescana è capace di regalarci una nobile suggestione. Non una società gerarchizzata dove l’uno è sopra l’altro, ma una società circolare dove l’uomo è accanto all’altro condividendo la più bella delle esperienze, quella che non lascia l’amaro in bocca: essere l’uno per l’altro. Ecco perché l’Assisiate non desiderava che vi fossero dei superiori, ma dei fratelli maggiori, dei guardiani, chiamati a custodire più che a comandare, chiamati ad essere madri l’uno per l’altro»20

Simone, come Francesco, si oppone alle gerarchie, a quello spirito di Potenza che, nel corso dei secoli, si è servito del potere politico e sociale per soverchiare l’uomo, privarlo di quella dignità cui ha diritto, si rifiuta di entrare in un partito perché in esso vede la possibilità di riproporre gerarchie, schemi, modelli che ricorrendo all’uso della forza, finiscono col mortificare l’uomo. Ella è d’accordo col maestro Alain nel condannare senza riserve l’esercizio arbitrario del potere, con tutti i suoi attributi che esprimono, in modo vario e mediante diverse contingenze, l’etica della forza. Condivide le parole del filosofo:

«La potenza disonora anche Dio… l’attributo di potenza deve esser visto come la parte più vergognosa della religione dello Spirito»21 Rifiuta gli idoli sociali, la ricchezza, il progressismo, lo scientismo, insomma tutte quelle idolatrie create dalla società, quei miti sociali che finiscono col confondere l’uomo, creandogli false illusioni e imponendo il loro dominio in un mondo governato dalla necessità.

Francesco, dinanzi alla gerarchizzazione spinta del potere ecclesiastico medioevale, si presenta, con i suoi, come uno straccione, deriso e umiliato persino dai servi che prestano la propria opera presso la struttura pontificia: costituisce, anche nel vigore plastico dell’immagine, la più radicale negazione di un potere che si carica di pesanti orpelli e mere forme esteriori, finendo col soffocare proprio la sua ragione d’essere: l’uomo e la divinità che in lui alberga. Propone, col suo silenzioso ma eloquente modello, una drastica inversione di tendenza, indica con umiltà e forza al tempo stesso, il percorso da compiere. Mostra, nell’assoluto anonimato e nella povertà delle sue vesti, la più preziosa testimonianza di Dio.

L’opposizione avverso la gerarchizzazione e, di conseguenza, avverso una concezione piramidale della società e dei rapporti intercollettivi, ma anche della visione della vita nella sua globalità, si esprime chiaramente nel percorso francescano e weiliano che può essere inteso, nel senso precisato sopra dal Fortunato, come un percorso in discesa: sulla base dell’immagine divina che si avvicina all’uomo, che scende a lui per condividere la sua miseria e farne proprie le pene, mediante l’incarnazione del Figlio, i due mistici percorrono un cammino in discesa: scendono dall’alto del loro ceto sociale verso i poveri, si fanno umili e misconosciuti per confondersi con l’umanità sofferente: Francesco scende da cavallo dirigendosi verso il lebbroso, ma la sua è anche, e soprattutto, una discesa interiore, un abbassamento del suo ego che limita se stesso, si annulla per aprirsi all’altro.

Simone scende dalla cattedra e, anonima, si mescola tra gli operai, prova sul suo essere la cieca brutalità della macchina, la durezza di un mondo dove conta solo il profitto e nessun spazio è lasciato alla dignità umana. Queste osservazioni ci portano ad intuire che c’è ancora un altro modo di concepire l’’anarchismo’ francescano e weiliano.

8. Il rifiuto della divinizzazione dell’io

C’è un’altra accezione che amplia la portata del concetto finora illustrato: si tratta di comprendere, nella concezione ‘anarchica’, il radicale rifiuto di ogni divinizzazione dell’io. Sforzo costante di Francesco e di Simone consiste, potremmo dire, nel «cancellare dalla propria anima quella parte che dice io»^[24]

Certo cancellare l’io, significa negarne l’idolatria, dar vita ad un mondo nuovo in cui, come dice Simone, la nozione di obbligo indicante l’apertura verso l’alterità, superi quella diritto, ispirata dall’affermazione orgogliosa dell’io. In tale mondo il sogno ‘anarchico’costruisce rapporti radicalmente diversi da quelle tradizionali, rapporti tesi a riaffermare la centralità dell’uomo nel cosmo e il suo rapporto privilegiato con Dio. È quella che Simone definisce la follia d’amore e che ispira l’intero pensiero francescano e weiliano. Quando pensiamo all’immagine di Francesco tramandata dagli agiografi che ce lo mostra mentre, vestito di cenci, sulla piazza di S. Rufino, distribuisce i suoi beni ai poveri e induce i suoi seguaci a fare altrettanto, beffeggiato dai compaesani e dai fratelli — che gli offrono la ‘biada’, cibo destinato agli animali — non possiamo celare ai nostri occhi lo spettro della follia, una follia che si manifesta proprio nella radicalità di una scelta assoluta e definitiva.

Francesco, risponde all’invito del Cardinal Ugolino (potrebbe però trattarsi di Raniero Capocci), futuro papa Gregorio IX, di consentire ad «esser guidato da loro», di seguire il «consiglio di frati istruiti», alla richiesta, cioè, di accettare di aderire alla Regola di S. Benedetto o a quella di Agostino o a quella di Bernardo con le seguenti parole: «Fratelli miei, fratelli miei! Il Signore mi ha chiamato per la via della semplicità e dell’umiltà, e questa via mi mostrò veramente per me e per quelli che intendono credermi e imitarmi. Di conseguenza, voglio che non mi si parli di nessuna Regola né di San Benedetto, né di Sant’Agostino, né di S. Bernardo, né di alcun altro ideale e maniera di vita diverso da quello che dal Signore mi è stato misericordiosamente rivelato e concesso. Il Signore mi ha detto che io dovevo essere come un novello pazzo in questo mondo, e non ci ha voluto condurre per altra via che quella di questa scienza»

Il ‘novello pazzo’è colui che intraprende una via completamente nuova, una via di così assoluta fedeltà al dettato evangelico da apparire irrealizzabile sul piano pratico: chi, prima di Francesco, pur nei propositi di santità, aveva mai pensato di poter tradurre le raccomandazioni di Gesù alla lettera, in uno stile di vita totalmente povero, ove il seguace di Cristo, veramente, non avesse ‘dove posare il capo’né di che vivere, ridotto all’elemosina e al buon cuore di chi volesse usargli misericordia?

Non è un sapiente né un teologo, Francesco, i suoi studi non hanno raggiunto un grado molto elevato: ha studiato un po’ di latino, lingua che, nel XIII secolo, tutti capivano: era la lingua delle omelie e delle deliberazioni degli organi politici. Sa anche scrivere, ma non ha particolare familiarità con l’uso della penna: «L’autografo del Sacro Convento testimonia un impaccio notevole; il più delle volte dettava e si limitava a firmare le lettere con una semplice T, simbolo della Croce di Gesù»22

Il Santo, tuttavia, non ha bisogno della penna per dare una testimonianza forte, la cui valenza, appunto, è proprio nella spontaneità, nell’assoluta autenticità e nella radicalità di un percorso di vita vissuta, fatto di umiltà ed esempi, un percorso che non necessita di parole, ma si esprime nella concretezza di un’azione perennemente rivolta a Dio. «È ben viva in Francesco la consapevolezza di una chiamata che lo rivela nel mondo, come lui stesso si definisce, un novello pazzo. Ma è in questa pazzia la vera scienza. L’esperienza stessa di Francesco, fin dagli esordi, appare agli occhi della sua famiglia, dei suoi amici e della sua città, come espressione di questa ‘follia’ che sovverte ogni logica, ogni criterio del comune sentire, pensare, desiderare. Ma è solo in questa follia che si attua la possibilità di un incontro non nell’utopia, ma nell’amore».^[26]

9. Il misticismo come apertura donativa verso Dio e verso il mondo

L’annullamento dell’io implica perciò l’apertura al mondo e a Dio, ma si palesa, ancora una volta in una dimensione ‘anarchica’, ‘anarchica’ pure nelle forme totalmente nuove in cui si realizza il processo mistico di Francesco e Simone, un processo che coinvolge il corpo in questo sentire armonioso il contatto con la natura, che vince gli schemi comuni, che si svolge in assoluta libertà a contatto con il cosmo e col lavoro: il misticismo di Simone e quello di Francesco non rifiuta il mondo, ma ne fa il teatro della sua azione: il Santo non trascura l’impegno pastorale, dà testimonianza di vita vissuta, abbandona la vita eremitica quando si sente chiamato all’apostolato, spingendosi sin nei lidi egizi. La filosofa vede nel lavoro in fabbrica, tra gli operai, un mezzo elettivo di contemplazione, di partecipazione al gran respiro dell’universo. Scrive: «Associare il ritmo della vita del corpo (respirazione che vi misura in tempo) a quello del mondo (rotazione delle stelle), sentire costantemente tale associazione e sentire anche lo scambio perpetuo di materia tramite il quale l’uomo sta immerso nel mondo»23

In questo anelito di partecipazione alla vita universale il lavoro funge da tramite. Infatti «colui che ha le membra spezzate dalla fatica di una giornata in cui è stato sottomesso alla materia, porta nella sua carne la realtà dell’universo come una spina. La difficoltà per lui è di guardare e amare; se ci arriva, ama il reale»24

Il contatto con la realtà del mondo del lavoro viene attuato con modalità originali, nuove, ispirate dalla concezione antropologica che permea l’intera vita della Weil; esso rifiuta i luoghi comuni, gli schemi abituali è, in qualche modo, una ulteriore manifestazione di quella tendenza ‘anarchica’ che sottintende le concezioni weiliane. Scrive al riguardo Augusto Del Noce, riferendosi a Simone:

«’Anarchica’? In un certo senso sì, ma come ribelle contro ogni forma di divinizzazione dell’uomo (e l’’anarchismo’, nel suo senso autentico, è anche questo); dunque di un ‘anarchismo’ che deve continuarsi in misticismo; e non già in una forma di mistica irrazionale, ma di una mistica fondata sull’idea dell’Ordine cosmico, come principio della verità, della bellezza e della moralità»25

Una tale interpretazione non può non applicarsi anche al Santo di Assisi che mostra, durante tutta la sua vita, un cammino costantemente orientato alla mortificazione di se stesso, fino a raggiungere quella perfezione che gli fa esclamare, rivolto a frate Leone, dinanzi all’umiliazione più grande, quella di essere rifiutato nella casa da lui fondata, la Porziuncola, «O frate Lione iscrivi che qui è perfetta letizia»26

Contrari, Francesco e Simone, all’idolatria dell’io, certamente, ma, prima ancora, nella fase iniziale delle formazione del loro pensiero, tradottosi poi in concreta testimonianza di vita, contrari alle gerarchizzazioni, a quegli ordini costituiti che soffocano e opprimono l’uomo, a quelle società che, ispirate al benessere, al prestigio, alla carriera, oggi aggiungeremmo al consumismo, non danno ragione della profonda dignità umana: essa risiede anche nei più piccoli e negli umili. Le parole di Gesù nel Vangelo: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché tu hai nascosto queste cose ai sagge e agli intelligenti e lei hai rivelate ai piccoli» (Lc, 10, 1), divengono un vero e proprio comandamento divino, costituiscono per i due mistici un modello da imitare nella propria vita, alla ricerca della perfezione che si può raggiungere solo mediante la via dell’umiltà.

10. La rivoluzione mistica

Quella del Poverello di Assisi e della Weil è una vera e propria rivoluzione rispetto ai canoni tradizionali e agli schemi comuni nelle loro rispettive società, una rivoluzione che potremmo definire ‘anarchica’ nella fase iniziale di rottura col mondo di appartenenza, destinata poi, successivamente, a tradursi in mistica, a esprimere cioè il rinnegamento dell’io per volgersi verso l’unione armonica con la bellezza dell’universo.

Simone, nella fase primitiva del suo pensiero, concepisce, quale soluzione del problema dell’ingiustizia e dell’oppressione sull’uomo, una rivoluzione che potremmo ritenere ‘anarchica’ piuttosto che proletaria; ella non vorrà infatti mai iscriversi al Partito comunista e sarà osteggiata per le critiche fatte alle correnti leniniste. Infatti la Weil sarà sempre avversa allo stalinismo, anche nel suo periodo rivoluzionario. Scrive in merito Augusto Del Noce: «… l’interpretazione ‘anarchica’ ha una certa parte di verità, nel senso che si deve ravvisare la continuità tra la sua esperienza politica, che fu di tipo ‘anarchico’ piuttosto che comunista e la successiva esperienza religiosa. Ad ogni modo la seconda esperienza rende manifesto quel platonismo, come primato dell’Idea del Bene che è già implicito nella prima. Se la Weil ruppe con l’Università e si dedicò all’azione rivoluzionaria e, per qualche tempo, alla vita di officina, fu perché giudicò che l’ideale dell’esistenza filosofica le imponesse di stabilire dei contatti con coloro che, privati della giustizia, erano in condizioni di desiderarla. Nel momento successivo si accorse che questa rivolta, motivata dal platonismo connaturale allo spirito umano, non poteva determinarsi che come rivolta contro il mondo ‘moderno’»27

La rivolta contro il mondo moderno di Simone è, appunto, una protesta contro gli idoli di tale mondo, contro la sete di potere, lo scientismo, il sociologismo, lo sfruttamento operaio e il primato della tecnica che consente quella che Simone chiama ‘l’oppressione mediante la funzione’, contro una falsa società del benessere che cela, dietro le sue strutture politiche e sociali, l’ingiustizia e la menzogna. È una rivolta che finisce col vestirsi di abiti mistici nella maturazione del suo pensiero.

Riassumendo la vita di Francesco abbiamo fatto menzione di vari episodi in cui traspare l’aspetto mistico di Francesco, a partire dalla festa in cui gli amici lo avevano eletto ‘re’ — egli, preda di una dolcezza mai provata, non riusciva più a muoversi né a parlare — fino all’incontro con il Crocifisso di S. Damiano ove il Santo fu rapito dall’estasi e al momento in cui, sul Monte della Verna, ricevette le stimmate, coronamento di una vita tesa ardentemente verso l’imitazione di Cristo.

Anche Simone vive, nella sua breve vita, esperienze mistiche. Il primo episodio importante al riguardo avvenne proprio in Italia, in occasione di un viaggio che ella compie attraversando il bel Paese. Visita Firenze, Roma, rimane colpita dalla basilica di S. Pietro, ma il fascino dell’Umbria le fa dimenticare ogni altra bellezza fino ad allora incontrata. Scrive ai suoi: «Quando ho visto Perugia ed Assisi, tutto il resto dell’Italia si è cancellato per me. Mai avrei immaginato una simile campagna, una razza d’uomini. così splendida e degli oratorii così commoventi. Avete rischiato per poco di perdermi per sempre, perché sopra Assisi, a un ora e un quarto di strada, c’è un oratorio sulla montagna (parla dell’Eremo delle Carceri) antico eremitaggio di S. Francesco, dove un giovane francescano, raggiante di fede, fa da giuda… San Francesco sapeva scegliere i luoghi delle sue dimore. Non ho mai visto nulla di così dolce, sereno, felice, come la campagna umbra, vista da lassù»28 13. Anche nella lettera scritta a Posternak, manifesta la stessa emozione: «Ad Assisi sono sono scomparsi dal mio ricordo Milano, Firenze, Roma e il resto, tanto sono rimasta abbagliata dalle campagne così soavi, così miracolosamente evangeliche e francescane… È francescano tutto ciò che ha preceduto Francesco. C’è da credere che la Provvidenza abbia creato campi ridenti, umili e toccanti oratori per preparare la sua venuta. Ha notato che la cappella dove egli pregava, a Santa Maria degli Angeli… è una piccola meraviglia di architettura? Ed è superiore alle opere di tanti architetti famosi, quanto una canzone popolare lo è a quelle di tanti musicisti famosi»^[33]

Sarà appunto nella piccola cappella della Porziuncola che Simone avrà un incontro sconvolgente con il soprannaturale. Nel 1942, in una lettera a Padre Perrin scriverà infatti: «Mentre ero sola nella piccola cappella romanica del XII secolo di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove S. Francesco ha pregato molto spesso, qualcosa più forte di me mi ha obbligata, per la prima volta nella mia vita, a inginocchiarmi».29 È proprio ad Assisi, dinanzi al santuario francescano per eccellenza, che Simone inizia il suo cammino propriamente religioso, avvertendo la presenza del sacro, sentendosi partecipe al mistero dell’universo: è lì che sembra percepire per la prima volta in maniera così forte, l’incontro con Dio. La spiritualità dei luoghi, adatti, come ella stessa nota, alla preghiera e alla meditazione, hanno favorito questo incontro, che, comunque, era sulla via del compimento, vista la maturazionedel pensiero weiliano.

L’assoluta purezza del messaggio francescano colpisce Simone, la figura di Francesco la affascina: il suo animo e il suo modo di essere e di sentire, così vicini alla spiritualità francescana, probabilmente le fanno avvertire più fortemente il richiamo del Santo. Simone inizia la sua esperienza di Dio, ne avverte la presenza, «più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano inaccessibile ai sensi e all’immaginazione, analoga all’amore che traspare dal più tenero sorriso d’un volto amato».30

L’esperienza mistica di Simone la introduce alla infinita gioia avvertita a contatto con il trascendente, alla dolcezza della presenza di Dio: ricorda quella stessa sensazione provata da Francesco, quando è preso totalmente dalla percezione divina, al punto che ogni cosa svanisce intorno a lui.

La Pasqua del 1938 cadeva il 17 aprile e Simone, sempre più partecipe di una nuova dimensione spirituale, vuole ascoltare il canto gregoriano. Avendo saputo che a Solesmes la funzione accompagnata dai canti gregoriani è particolarmente suggestiva vuole recarvisi, ma assistervi non è facile perché molte persone hanno prenotato in anticipo. Tuttavia suo padre, il Dr Weil, riuscirà a procurarsi due biglietti, uno per la mamma e l’altro per Simone: esse trascorrono così dieci giorni presso l’abbazia benedettina del luogo, dalla domenica delle Palme al martedì di Pasqua. Nonostante il mal di testa continuasse a tormentarla, Simone è rapita dalla bellezza del canto.

Scriverà poi a Padre Perrin, dando prova della sua personale esperienza di adesione all’amore divino, oltre i limiti della sua umana caducità, e di partecipazione alla Passione di Cristo: «Avevo intensi mal di testa; ogni suono mi faceva male come un colpo; ma un estremo sforzo di attenzione mi consentiva di uscire fuori dalla mia miserabile carne, di lasciarla soffrire sola, rannicchiata in un angolo, e di trovare una gioia pura e perfetta nella inaudita bellezza del canto e delle parole. Quella esperienza mi ha permesso, per analogia, di comprendere meglio la possibilità di amare l’amore divino attraverso la sventura. Va da sé che, durante quelle liturgie, il pensiero della Passione di Cristo è entrato in me per sempre».31

Sempre più partecipe della dimensione sacrale percepibile nella vita dell’uomo e nella sua in particolare, Simone sperimenta per la prima volta la dolcezza della presenza di Dio, una presenza che supera anche la contingenza del suo dolore fisico per cogliere l’afflato della bellezza universale. A Solesmes vede un giovane inglese che si accosta ai sacramenti «avvolto come da uno splendore angelico dopo la comunione»^[37] Ne rimane colpita, lo definisce l’angel boy. « E, in effetti, fu per lei un angelo, cioè un messaggero, perché le fece conoscere i poeti metafisici inglesi del XVII secolo: le loro opere esercitarono infatti un’influenza determinante sulla sua vita. Si chiamava John Vernon».32 Simone comincia a leggere tali poesie ed, in particolare, la poesia Love di George Herbert (1593-1633), una delle poesie religiose raccolte in ‘The Temple’ (1633). Recita spesso questa poesia, specie nei momenti più dolorosi per lei e vi trova il conforto di un amore indomito, quello di un Dio che non abbandona mai il suo figlio diletto, ma lo cerca sempre con rinnovato ardore, con tenerezza indicibile. Ne trascrive il testo per la sua amica Simone Pètrement; dello stesso forniamo una traduzione:

«Amore, mi diede il benvenuto; ma l’anima mia si ritrasse, di polvere macchiata e di peccato. Ma Amore dal rapido sguardo, vedendomi esitante Sin dal mio primo entrare, Mi si fece vicino, dolcemente chiedendo Se di nulla mancassi.

Di un ospite, io dissi, degno di essere qui. Amore disse: Quello sarai tu Io, scortese e ingrato? O, amico mio, Non posso alzare lo sguardo su Te. Amore mi prese la mano e sorridendo rispose: E chi fece gli occhi, se non io?

È vero, Signore, ma li macchiai: se ne vada la mia vergogna Là dove merita andare. E non sai tu, disse Amore, chi portò questa colpa? Se è così, servirò, mio caro. Tu siederai, disse Amore, per gustare della mia carne. Così io sedetti e mangiai»33

Si comincia a formare, in Simone, l’idea, che fino ad allora mai l’aveva sfiorata, di una virtù soprannaturale, presente nei sacramenti. Una forza più grande di lei e del dominio razionale dei sensi, inizia a farsi sentire, fino a sopraffarla. Ripete quella che ritiene «la più bella poesia del mondo», come la definirà nella lettera alla Petrement34 Scriverà poi: «Credevo di recitarla solo come una bella poesia, ma a mia insaputa quella recita aveva la virtù di una preghiera».35 Infatti le accade, mentre la ripete, di avvertire la presenza di Cristo, di sentirlo vicino a lei, più certo, più reale di un essere umano. Dirà in seguito a Padre Perrin: «In quell’improvviso imperio del Cristo su di me, né i sensi né l’immaginazione hanno avuto alcuna parte; ho solo sentito, attraverso la sofferenza, la presenza di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un volto amato»36 Questo accadimento coglie Simone impreparata, è un evento del tutto inaspettato. Riferirà poi a Padre Perrin: «Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio, non avevo previsto la possibilità di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, fra un essere umano e Dio. Avevo vagamente sentito parlare di cose simili, ma non vi avevo mai creduto. Nei Fioretti, i racconti di apparizioni, mi infastidivano più di ogni altra cosa, come i miracoli nel Vangelo… Non avevo mai letto i mistici… Dio mi aveva misericordiosamente impedito di leggere i mistici, affinché mi fosse evidente che non l’avevo fabbricato io questo contatto del tutto inatteso»37

Simone, sorpresa da quell’evento meraviglioso e inaspettato, sorprende anche noi, ci domandiamo come ella abbia maturato l’assoluta certezza della presenza del Cristo nell’accadimento citato, una certezza che va al di là della dimensione puramente soggettiva, che non è l’illusione in funzione consolatoria, maturata dinanzi a certe sofferenze fisiche e morali, illusioni rispetto alle quali ella, con la sua lucida razionalità e la sua forza di carattere, era del tutto scevra.

Ciò ci porta ad interrogarci sul significato dell’esperienza mistica, di quella di Simone, in particolare e della questione nella sua generalità. La Petrement si pone lo stesso problema ed osserva: «È questo in verità il mistero dell’esperienza mistica in generale. Essa è accompagnato ordinariamente da un senso di certezza: la certezza di essere stati in contatto con qualcosa di reale, ad là della soggettività, al di là di se stessi; al di là, ma nell’intimo. Interior intimo meo. Si è entrati in contatto con una realtà che non si può attingere se non nell’intimo e che, tuttavia, sorpassa ciò che si ha in sé. Si è colto in se stessi qualcosa di più grande e di anteriore a sè»38

La Pètrement ritiene che il criterio di discernimento del misticismo reale, al di là delle fantasie soggettive, delle illusioni, delle mistificazioni risieda, nella qualità della vita, una qualità osservata, certamente, dal punto di vista valoriale ed etico e non materiale. Scrive ancora: «Per conto mio ciò che permette di discernere la vera mistica da ciò che a volte le assomiglia è la santità. A un amore puro che non cerca soddisfazioni egoiste, ma il bene dell’altro, … a un tale amore si può far credito, quando afferma che ha incontrato una realtà che lo sorpassa e che non è di questo mondo. Nei veri mistici, l’esperienza dell’assoluto, è accompagnata dal distacco da sè». Riguardo alla particolare esperienza della Weil, la Petrement conclude così: «La santità della vita è dunque il criterio: perché se c’è santità, essa si manifesta nella vita. La ragione per credere all’esperienza mistica di Simone Weil è la sua vita»39

Dopo questa esperienza che ha colto Simone impreparata ella inizia ad interrogarsi sul perché dell’accadimento, sulle circostanze passate e presenti che potevano darne ragione, che potevano far credere alla presenza del soprannaturale, di un Bene e di una Verità assoluti, al di là dell’animo umano. Scriverà al riguardo: «L’esperienza del trascendente: ciò sembra contraddittorio, e tuttavia il trascendente non può essere conosciuto se non mediante il contatto, poiché le nostre facoltà non possono fabbricarlo»40

A Solesmes Simone afferma di aver vissuto intensamente la partecipazione alla Passione di Cristo, di aver impresso nel suo cuore e per sempre l’immensità di quel dolore. La rilettura di Re Lear che paragona alle tragedie di Sofocle ci danno prova di una sventura che non è solo metafisica, ma che assume dimensioni reali, esattamente come è stato per la Passione di Gesù. Egli prova sulla sua carne straziata il dolore dei colpi e la trafittura dei chiodi, nel suo cuore l’onta delle beffe e dello scherno, vive fino alla fine l’agonia della Croce e solo allora può gridare al Padre il completo compimento dell’abbandono: la dimensione metafisica, perciò, si accompagna e in parte si produce dall’esperienza fisica del dolore e della sofferenza.

L’immedesimazione del Cristo con la volontà del Padre diviene, per Simone, esemplare nel suo percorso di vita teso sempre più decisamente all’annullamento di sé e dei suoi desideri per rimettersi, come il Redentore in croce, alla volontà del Padre. Anche Simone recita, con il Cristo, il suo ‘Fiat voluntas tua’. Scrive infatti in ‘La connaissance Surnaturelle’: «Padre, in nome di Cristo, concedimi che io sia fuori dalla condizione di far corrispondere a qualsiasi mia volontà un qualsiasi movimento del corpo… che questa mia intelligenza, nella pienezza della lucidità, connetta tutte le idee in conformità ininterrotta della tua volontà… che questo amore sia una fiamma assolutamente divorante d’amore di Dio per Dio… Padre, opera questa trasformazione subito, nel nome di Cristo; e benché io la domandi con fede imperfetta, esaudisci questa domanda come se fosse pronunciata con una fede perfetta. Padre, poiché tu sei il bene e io la mediocre, strappa da me questo corpo e quest’anima per farne cose tue e non lasciare sussistere di me, eternamente, che questo strappo stesso o piuttosto il niente»41

Simone e Francesco hanno esperienza della dimensione soprannaturale, assaporano la dolcezza della presenza di Dio nella loro vita; entrambi, pienamente partecipi dell’unione misteriosa con l’universo e con l’amore di Dio possono annoverarsi, come sostiene la Fiori, tra i decifratori del mistero dell’universo. Scriverà, riferita alla Weil: «La donna plurima e unificata insieme che è Simone Weil orienterà tutti gli aspetti del suo pensiero e della sua azione, senza nulla lasciare, nel senso di questo contatto. Esporrà il relativo alla luce dell’assoluto. Il soprannaturale sarà leggibile nel naturale; e avremo la riprova della fusione dei due piani attraverso la limpida concretezza con cui descriverà le vicende dell’anima. Qui penso che, in modo unico nel nostro secolo, possiamo trovare in lei il naturale del soprannaturale»42

Ancora una volta possiamo constatare come la Weil, pur nelle luminose contraddizioni che caratterizzano il suo pensiero e il suo percorso gnoselologico, o meglio che sono a suo avviso tipiche e costitutive dell’intero processo di svolgimento del pensiero filosofico, trova nel suo vissuto come nelle sue riflessioni un momento di incontro tra immanente e trascendente, tra assoluto e relativo, riesce a fondere il soprannaturale col naturale, ricomponendo in tal modo la scissione orfica tra le due anime, quella’mortale e quella ‘immortale’. È, dunque, una donna plurima, perchè molteplici sono le manifestazioni del suo pensare ed infinite le modalità del suo fare, ma, anche, unificata, perchè riesce ad esprimersi in concezioni e in forme mistiche che mai isolano l’anima dal corpo, ma che fanno anche del corpo stesso uno strumento di partecipazione all’armonia universale.

Credo che queste considerazioni della Fiori che tanto chiaramente esprimono il senso della personalità e del misticismo weiliano possano meravigliosamente adattarsi alla figura di Francesco d’Assisi: chi, come lui, seppe raggiungere le vette sublimi del misticismo, rimanendo però ancorato alla concretezza e alla semplicità, alla conduzione di una vita quotidiana che si svolge in mezzo ai fratelli, che rimane ancorata alle cose semplici e tangibili, che apprezzai piccoli dono della natura, che guarda con occhio pieno di rispetto ed attenzione agli animali, ai fiori, alle piante? Lo vediamo mirabilmente descritto dagli agiografi mentre, colmo di gioia, danza, parla e canta in lingua francese, lui, il ‘giullare di Dio’ che annuncia al mondo l’amore infinito del Padre e che intesse l’universo delle sue lodi mediante il semplice e meraviglioso’Cantico delle Creature’: la naturalità dei suoi gesti e delle sue azioni si sposa perfettamente con l’intimità del suo rapporto col divino, perché egli, come Simone, legge ‘il soprannaturale nel naturale’ e riesce a percepire, nel relativo, la luce dell’assoluto.

La vita di Francesco e di Simone riesce in effetti a far vivere la dimensione del soprannaturale nella naturalità del quotidiano, nell’amore per l’acqua limpida, la madre terra, il cielo o nella giornata in fabbrica ove il lavoro diviene oggetto di contemplazione attiva, degno della massima attenzione in sé, senza alcuna finalità. La natura e il creato sono, per Simone e Francesco, oggetto di una dedizione infinita per se stessi, senza scopi secondari, amati in tutti i loro elementi, nel bene e nel male che vengono accettati per cogliere, tramite essi, l’armonia dell’universo e l’unione con il soprannaturale. Il visitatore che entra nella basilica superiore di S. Francesco, ad Assisi, e si trova dinanzi l’affresco giottesco che raffigura Francesco a colloquio con gli uccellini, nelle vallate umbre, può farsi un’idea di come e di quanto il soprannaturale, nell’Assisiate, fosse esposto nella dimensione della naturalità, il relativo alla luce dell’assoluto.

Possiamo condividere le belle parole della Fiori, quando asserisce che, in modo unico nel nostro secolo, possiamo trovare (nella Weil), il naturale del soprannaturale», ma, percorrendo i secoli a ritroso, un esempio fulgido, una modalità elettiva di approccio al trascendente attraverso il tramite e la mediazione dell’immanente, della capacità di cogliere la dimensione metafisica dell’assoluto nella relatività della contingenza e della quotidianità, è rinvenibile nella vita e nella testimonianza di Francesco. Sia a Simone che, per certi versi, a Francesco, il cui pensiero è fonte di spunti originali per l’uomo moderno, potremmo quindi applicare le considerazioni di Del Noce: «la forma dell’itinerario ideale dell’uomo d’oggi verso la fede è rappresentata dall’esperienza della Weil, così per la conoscenza vissuta del mondo moderno, come per l’assoluta purezza»43

11. Il dolore, tramite di comunicazione con l’universo

La sofferenza viene accettata, sia da Simone che da Francesco in quanto tramite di comunicazione con l’universo, bello e risplendente d’amore nella sua interezza che comprende sia la gioia che il dolore: il profondo rispetto che Simone e Francesco nutrono per il creato, segno tangibile dell’amore di Dio per l’uomo, fa sì che nulla, in esso, venga rifiutato e, anzi, che ogni cosa divenga strumento di edificazione di sé, di cammino verso la perfezione, verso l’acquisizione di quella perfetta letizia che si conquista mediante il raggiungimento dell’imperturbabilità dinanzi alla sofferenza, all’umiliazione, all’offesa, alle privazioni. Ma la sofferenza non ha significato in sé, bensì acquista senso e si illumina della luce di Cristo.

Scrive Simone: «Ovunque c’è l’infelicità, c’è la Croce, nascosta, ma presente a chiunque sceglie la verità invece della menzogna e l’amore invece dell’odio»44 La croce, quindi va accettata perché consente il raggiungimento della verità e indica la via dell’amore. Cercare un palliativo, sfuggirla, aggirarla non ha senso, per Simone, o meglio significa scegliere la via della menzogna: acconsentire ad esso, accettarla con spirito di obbedienza, con docilità, significa aprirsi alla dimensione dell’amore, di quell’amore che non può essere percepito solo per mezzo della gioia ma che, per essere gustato in tutta la sua purezza, deve comprendere anche il dolore, tramite di partecipazione all’armonia dell’universo. «Colui che ha le membra spezzate dalla fatica di una giornata in cui è stato sottomesso alla materia, porta nella sua carne la realtà dell’universo come una spina. La difficoltà, per lui, è di guardare e amare: se ci arriva ama il reale».45

Quindi «non si deve cercare un rimedio contro la sofferenza, ma occorre indirizzarla verso il soprannaturale». «Quando la nozione di soprannaturale si perde, il bene può essere rapportato o all’uomo o alla materia. Due errori. Il materialismo almeno ha una visione giusta della debolezza umana. Ma costringe a disprezzare l’uomo. E mettendo il bene nella materia, fa trattare l’uomo alla stregua della materia, se non al di sotto»46

Il soprannaturale, quindi, non può essere eliminato dalla vita dell’uomo né dal cosmo perché ad essi conferisce significato, garantendo la profonda dignità dell’essere umano che non può essere ridotto alla materia: in lui alberga lo spirito divino, egli, pur nella sua caducità e debolezza, è al centro del mondo weiliano e di quello francescano, entrambi caratterizzati da una concezione profondamente antropologica ed ispirata al rispetto sacrale dell’ambiente, del creato, opera di Dio.

Osserva al riguardo Del Noce, parlando della Weil: «Non si tratta per lei di affermare due principi metafisici, del bene e del male; ma di chiarire, invece, la scelta tra due interpretazioni della realtà, una delle quali riconosce il soprannaturale e l’altra lo esclude; e della necessità del passaggio della seconda al materialismo». Il suo pensiero, comprende dunque due motivi, lo gnostico e il cristiano e verso quest’ultimo va evolvendosi fino ad esprimerlo più chiaramente nelle sue ultime esperienze di vita. »47

Nella Weil il Cristianesimo costituisce il naturale sviluppo dell’epopea classica, senza soluzione di continuità. Il Cristo di Simone, osserva Augusto Del Noce, è un Cristo ellenico, profondamente ancorato nella tradizione classica. Lo stesso Platone che tanto affascina Simone e che esprime sinteticamente il suo passaggio dalla filosofia dell’azione a quella della contemplazione è un Platone rivolto all’oriente, consapevole della povertà umana e capace di esprimerla. Scrive Simone: «Nessun popolo ha espresso come i greci l’amarezza della miseria umana».48

Tuttavia la consapevolezza della misera realtà della sua natura non distoglie l’uomo dall’anelito alla trascendenza che si palesa più forte, proprio nella constatazione di tale limitatezza. Infatti «tutta la civiltà greca è una ricerca di ponti da lanciare tra la miseria umana e la perfezione divina»6. Simone arriva al Cristo, con una coerente evoluzione del pensiero volto verso il mondo greco.

Osserva Augusto Del Noce: «Non si può restar sorpresi del fatto che la sua reminiscenza o conoscenza per connaturalità, di Platone, corrisponda puntualmente a quella dei Padri della Chiesa, e che ciò sia avvenuto certamente senza intenzione. Il Dio di Platone è Persona, Creatore, vi è in Platone la prefigurazione della Trinità, come unità del Bene, dell’Essere e della Verità, il martirio del giusto descritto nel secondo libro della repubblica prefigura il sacrificio di Cristo, le idee platoniche sono i pensieri o gli attributi di Dio, è impossibile all’uomo esercitare pienamente la sua conoscenza senza la carità, perché non vi è altra fonte di luce che Dio. Così la facoltà di amore soprannaturale è al di sopra dell’intelligenza e ne è la condizione»49

Nei Greci Simone constata la presenza dell’idea di mediazione, una mediazione che consente di stabilire un flusso di comunicazione tra la caducità umana e la perfezione di Dio: mediante l’arte, la scienza, la filosofia che si esprimono nella cultura orientale a livello sublime i Greci non hanno fatto altro che costruire dei ponti per colmare la distanza tra l’uomo e Dio «Essi hanno inventato l’idea di mediazione. Noi abbiamo serbato quei ponti per guardarlo. I credenti come i non credenti».50

Peraltro l’immagine dell’eroe greco, ricco di pietà e di generosità, capace di cercare la gloria non per se stesso, ma per l’altro, si evolve naturalmente verso la figura del sacrificio per eccellenza, quello di Cristo in croce. Patroclo, il giovinetto immagine dell’innocenza e della bontà che lo stesso Zeus definisce ‘bono e gagliardo’, capace di sacrificare la vita per il suo amico Achille prefigura il Cristo, la sua morte in croce. ‘Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici’afferma Gesù nel Vangelo; ebbene il comandamento divino è perfettamente praticato dall’immolazione innocente del giovane Patroclo e raggiunge il suo culmine, nelle concezioni weiliane, nella Passione e crocifissione di Cristo, il giusto che, col suo sacrificio, riscatta il peccato dell’umanità. Nessun popolo come quello greco è stato capace di comprendere che «nulla è al riparo della sorte, quindi (che occorre) non ammirare mai la forza, non odiare i nemici, non disprezzare gli sventurati»^[57]

«Non fu un caso che per la Weil la grecità termini con un’altra epopea, in cui la forza si accanì non tra guerrieri di opposti schieramenti, bensì contro un solo uomo armato soltanto della sua parola, contro Cristo. Simone riunì così l’Iliade al Vangelo, ove la cupa immagine della violenza si manifestava nei tragici versetti della Passione. Il Vangelo divenne così estremamente importante per la scrittrice, sia perché in esso vi era l’invito alla ricerca del vero regno e della giustizia del Padre, sia soprattutto perché «vi è esposta la miseria umana e questo in un essere divino e, al tempo stesso umano».51

Simone condanna l’etica di potenza e, con essa, il culto dell’antica Roma e l’immagine terribile di un «Dio degli eserciti», vendicativo nei confronti dei suoi nemici così come si palesa il Dio degli Ebrei. Roma che imponeva agli altri popolo il rispetto delle sue leggi con l’uso della forza, che disprezzava gli stranieri, che sterminava i nemici, che traduceva in schiavitù gli avversari così come Jhavè, il Dio del popolo ebraico che dava continui esempi della sua onnipotenza folgorando i nemici con terribili flagelli, incarnavano, agli occhi di Simone, quello spirito di forza che ella aborriva e che occorreva bandire dai rapporti umani, se essi dovevano ispirarsi a giustizia e verità. La logica di potere, gli schemi precostituiti che perpetuavano forme di dominio sociale, non potevano essere i cardini sui quali costruire una società più giusta: dovevano perciò essere abbattuti. ‘Anarchica’, nell’accezione che vede in tale teoria la condanna di modelli e gerarchie sociali volti a garantire l’oppressione dell’uomo, il dominio dell’uno sull’altro, la perpetuazione di forme impositive che asserviscono la giustizia ad esigenze di potere, Simone si rivolge verso l’altro con profondo rispetto, con umiltà. Nella sua concezione fortemente antropologica, quindi, la persona esprime «una necessaria apertura verso l’alterità, che le si impone come esigitiva: è solo il rapporto soggetto-oggetto che farà parlare di dovere-diritto; ma in radice c’è la nozione di obbligo, di apertura donativa e necessariamente donativa del soggetto verso l’oggetto del suo obbligo».52

L’apertura verso l’altro è tale, in Simone, da sviluppare il senso della responsabilità individuale, quell’obbligo che ognuno di noi avverte nei confronti dell’altro. I rapporti sociali non appaiono quindi fondati, giusnaturalisticamente, sul diritto e sulla sua centralità nei rapporti giuridici e collettivi, ma sulla capacità di ognuno di noi, di sentirsi vincolato nei confronti dell’altro, su una cultura ispirata all’etica della responsabilità, quell’etica che ci induce ad assumerci interamente l’impegno a rispondere nei confronti dell’altro. Il diritto, per essere garantito, deve comunque godere del riconoscimento altrui, non l’obbligo che implica l’assunzione responsabile di un dovere verso l’altro e che, perciò, appare incondizionato.

Scrive al riguardo Simone: «I diritti appaiono sempre legati a date condizioni, solo il dovere può essere incondizionato… La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti obbligati a qualcosa. L’obbligo è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto»^[60]

Il diritto, in Simone, era comunque collegato alla dimensione contingente, alla finitezza dell’esistenza, destinato ad operare sul piano oggettivo e, come tale, non poteva essere isolato dalla condizione di ‘esistenza e di realtà’. Non era così, invece, per l’obbligo che appartiene alla universale consapevolezza, alla dimensione dell’etica; esso è al di sopra della limitatezza «poiché è al di sopra di questo mondo». Esso è allora in grado di fondare i rapporti umani in un contesto ove, comunque, la persona assurge e primaria importanza e ove è lo Stato a porsi al suo servizio e non viceversa. Così «come l’uomo non è fatto per essere il trastullo di una natura cieca, non è neppure fatto per essere il trastullo di collettività cieche, che egli forma insieme ai suoi simili»53

Anche in Francesco la concezione antropologica è centrale, anche in lui è aliena ogni forma di sopraffazione mentre l’uomo prediletto è il povero, il bisognoso, il reietto: in questo individuo schernito e abbandonato c’è il Cristo che ‘aveva fame’ ed ‘ha avuto da mangiare’, ‘aveva sete ed ha avuto da bere’, ‘era prigioniero ed è stato visitato’. Francesco e Simone sono profondamente consapevoli delle parole di Gesù nel Vangelo: «ogni volta che avete fatto questo ad ognuno di questi piccoli, l’avete fatto a me» e intendono farne esperienza di vita vissuta.

Dinanzi al Crocifisso di S. Damiano, Francesco pronuncia il suo ‘sì’ perpetuo a Dio; illuminato dalla lettura del Vangelo, comprende finalmente, dopo un lungo travaglio interiore, quale sia la sua missione. Pronunciando le parole di Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non vi procurate oro, né argento, né denaro per le vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone; perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento», egli sente l’emozione salirgli alla gola: quelle parole costituiscono per lui una vera e propria folgorazione, gli illuminano finalmente con chiarezza il percorso da compiere. Ebbro di gioia, con la assolutezza tipica della sua personalità, segue alla lettera l’insegnamento del Vangelo: getta via le sue vesti, tunica, bisaccia, cintura, bastone e segue Cristo sulla via della donazione gratuita e senza misura. Forse nessuno, come lui, incarna la negazione assoluta dell’etica di potenza: vestito di cenci, si presenta al Papa, alla guida di un gruppo di ‘miserabili’: povero, smagrito, pressoché digiuno, sembra il più povero dei poveri, è l’immagine del Dio weiliano che, come un mendicante, si arresta trepidante sulla soglia del cuore dell’uomo in attesa del suo ‘sì’. Dinanzi agli occhi balza l’immagine di un contrasto netto, radicale: i fasti, il lusso, lo sfarzo, le gerarchie, il potere del palazzo papale di fronte alla miseria di uno che vuole, veramente, essere l’ultimo degli ultimi, schernito dagli stessi alti prelati residenti nella sede pontificia. La forza di Francesco non è nella ribellione ad un potere temporale che ostacola l’adesione ai precetti evangelici, non è nella violenza, né nell’eresia. Egli rimane, sempre, figlio fedele della Chiesa, sottoposto al suo magistero: eppure con il suo esempio radicale e silenzioso denuncia agli occhi di tutti la distanza infinita che si è creata tra il potere temporale ecclesiastico e i comandamenti divini, mostra con chiarezza la via da percorrere, senza parole ma con i fatti, compiendo così la sua rivoluzione. La sua forza e quella dei suoi seguaci è proprio nel rifiuto delle idolatrie mondane e di quelle dell’io, è nell’acconsentire a restare anonimi, nel privarsi di tutto per far emergere Dio: «nihil habentes, omnia possidentes».

Scrive il Sabatier riguardo all’immagine della Chiesa nel Medioevo: «Il clero era corrotto più che mai, il che rendeva impossibile ogni seria riforma. Se fra le eresie ve ne erano di pure e oneste, ne esistevano molte di assurde e perverse. Si levavano alcune voci di protesta qua e là, ma le profezie di Gioacchino da Fiore non avevano potuto arrestare il male più di quelle di Santa Ildegarda. Luca Walding, il pio annalista francescano, ha iniziato la sua opera con questo quadro spaventoso. Il progresso delle ricerche storiche consente di rifarlo con più particolari, ma la conclusione resta la stessa: senza Francesco d’Assisi, la Chiesa sarebbe forse andata a fondo e i Catari avrebbero vinto. Il Poverello, cacciato dal servitorame d’Innocenzo III, salvò la cristianità»54

Nella prospettiva francescana e weiliana anche la sofferenza assume una funzione di avvicinamento a Dio, di superamento della propria personale ed individualistica ottica, per poter partecipare alla bellezza e alla grandezza del cosmo. L’esperienza del dolore nell’uomo può indicarsi mediante una sorta di parabola ascendente che giunge al suo culmine nel sacrificio estremo portato a termine nel silenzio della donazione, lontano dal frastuono del mondo della necessità; è un dolore che fa sentire l’abbandono del mondo così come Cristo, sulla croce, sente l’abbandono del Padre ma che, proprio per questo, ci fa comunione con l’universo costringendoci ad ergerci oltre i confini angusti della nostra individualità. La passione di Cristo, il suo richiamo al Padre quando lo spirito della vita lo sta abbandonando, è l’espressione di una donazione sublime e totale che fa innamorare Simone e Francesco; essa indica ad ognuno di noi che l’esperienza della solitudine, del dolore e dello sconforto, appartenente alla condizione umana, prepara il varco per passare alla dimensione del soprannaturale.

Simone ricorda l’epopea del mondo greco e la paragona con il Libro di Giobbe, nell’Antico Testamento. Scrive: «… ogni specie di dolore e soprattutto ogni specie di sventura ben sopportata fa passare dall’altro lato di una porta, fa vedere un’armonia sotto il suo vero volto, il volto levato verso l’alto; lacera uno dei veli che ci separano dalla bellezza del mondo e da quella di Dio. Questo rivela la fine del libro di Giobbe: «Giobbe, al termine della sua miseria, che malgrado l’apparenza ha perfettamente ben sopportato, riceve la rivelazione della bellezza del mondo».55

12. Il Cristo e la Croce

Insomma il mondo, la nostra realtà quotidiana diviene il tramite necessario per carpire l’armonia dell’universo: esso, nella sua materialità, costituisce certamente un ostacolo ma, accettato e amato nel volto del fratello, nelle esperienze di gioia e di dolore, consente il passaggio verso la dimensione trascendente e la percezione di Dio. Afferma ancora Simone: «Questo mondo è la porta chiusa. È una barriera. E, al tempo stesso, è il passaggio»56

Mezzo elettivo di questo passaggio, capace di renderci conto del senso vero dell’esistenza, è la Croce: «La Croce è la nostra patria» scriveva Simone, facendo di Cristo il valore supremo della religione, e della Croce il mezzo di interpretazione della realtà e di comunicazione col divino da parte dell’anima. Scrive con parole commoventi: «L’anima si trova nel punto di intersezione fra creazione e creatore: questo punto d’intersezione è il punto d’incrocio tra i due bracci della Croce».57 Nella Croce, segno della donazione suprema e dell’amore senza limiti, troviamo la nostra gioia, una gioia che nasce dalla condivisione del dolore, dalla vicinanza alla sofferenza, dalla capacità di amare l’altro fino al punto di superare i confini dell’umana natura. «La mancanza della gioia — scrive Simone — che si ha in presenza del dolore o semplicemente della noia, è uno stato di malattia ove l’intelligenza, il coraggio e la generosità vengono a mancare completamente. È uno stato di asfissia. Il pensiero umano si nutre di gioia».^[66]

Di questa gioia e di questo amore Francesco è testimone privilegiato. Anche quello di Francesco è un amore nato dalla contemplazione della Croce. Anzi, è un amore rivelatosi in maniera del tutto esplicita dopo un lungo e travagliato processo di trasformazione interiore, proprio dinanzi alla Croce, o meglio dinanzi al Crocifisso di S. Damiano. Scrive il Celano al riguardo nella Vita Seconda: «Era già del tutto mutato nel cuore e prossimo a divenirlo anche nel corpo, quando un giorno passò accanto alla chiesa di S. Damiano, quasi in rovina e abbandonata da tutti. Condotto dallo spirito entra a pregare, si prostra supplice e devoto davanti al Crocifisso e, toccato in modo straordinario dalla grazia divina, si ritrova totalmente cambiato. Mentre egli è così profondamente commosso, all’improvviso — cosa da sempre inaudita — l’immagine di Cristo crocifisso, dal dipinto, gli parla, muovendo le labbra. Francesco -gli dice chiamandolo per nome va, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina». Francesco è tremante e pieno di stupore, e quasi perde i sensi a queste parole. Ma subito si dispone ad obbedire e si concentra su questo invito»58

Quella che è considerata la prima estasi di Francesco ha luogo proprio dinanzi al Crocifisso e lui, il Crocifisso, è il protagonista della rivelazione circa la sua futura missione. Il travaglio interiore del Santo deve essere stato sconvolgente. Egli vede svanire le sue certezze, allontanarsi quel mondo nel quale era nato e cresciuto, che pure gli aveva dato benessere e serenità: aveva una madre che l’amava teneramente e lo preferiva agli altri figli, tanti amici che lo acclamavano come ‘re’ nelle feste paesane, la prospettiva di un’ottima posizione economica come mercante, avendo già dato prova del suo acume e della sua avvedutezza nel campo commerciale. Eppure si sente sopraffatto da una nuova realtà, sente attrazione per tutte quelle cose che prima gli ripugnavano che, assieme ai suoi amici, aveva probabilmente scansato o deriso nelle scorribande per le valli intorno ad Assisi. Il sogno di divenire un valoroso cavaliere e di coprirsi di gloria che era forse la sua massima aspirazione, non lo entusiasma più: si accinge a divenire cavaliere di Dio e a sposare ‘madonna povertà’. La descrizione agiografica non tiene in nessun conto il travaglio interiore che deve averlo dilaniato. La crisi lo coglie inaspettata, una forza più grande di lui lo spinge verso scelte diverse, ma egli non sa ancora quali debbano essere. Il progettato castello con cui aveva probabilmente pianificato la sua vita si dissolve come neve al sole, ma non viene subito rimpiazzato da un altro progetto di vita. Il primo chiarimento interiore, quello che finalmente sembra tracciare l’itinerario della sua vita, o almeno i primi passi da compiere, gli si prospetta finalmente davanti a S. Damiano, di fronte a quel grande crocifisso che emerge dal buio silente della chiesetta diroccata distesa lungo la campagna di Assisi. Allora Francesco rinuncerà a tutti i suoi denari, gettandoli sulla finestra dato che l’anziano prete non voleva accettarli, preoccupato delle reazioni del padre, Pietro di Bernardone. Corre dianzi agli occhi l’immagine evangelica del giovane che avvicinandosi a Gesù, gli chiede: «Signore cosa vuoi che io faccia? ». Gesù, dinanzi a tanta buona volontà esordisce: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutti i tuoi beni e dalli ai poveri. Poi vieni e seguimi». Sappiamo dai testi biblici che il giovane si allontanò rattristato, poiché aveva molti beni. Ebbene Francesco non vuole neanche esporsi al rischio di fornire a Cristo una risposta negativa: così si disfa immediatamente e senza alcun rimpianto di tutti i suoi averi. Peraltro l’intero percorso di vita del Santo sarà ispirato, da ora in poi dalla luce di Cristo, sia nell’adesione radicale al dettato evangelico che nessuno come lui seppe incarnare, sia nell’amore per il Salvatore che sarà per lui punto di riferimento costante. Francesco ripercorre tutte le tappe della vita di Gesù, dalla nascita alla morte, rivivendole in maniera originale, volendo tradurle in esperienze di vita vissuta. Come Simone, sostenitrice degli oppressi, non è soddisfatta di predicare agli altri cosa debbono o non debbono fare per porre fine alla sfruttamento dei salariati, ma si fa essa stessa operaia per condividere la loro sorte negletta, così Francesco sente dentro di sé la realtà dell’itinerario condotto da Cristo in questo mondo e vuole riviverne l’esperienza, vuole capire cosa significa nascere in una stalla, quali sono le privazioni che un bimbo e la sua mamma possono patire in tale frangente, vuole sentire nel suo corpo la sofferenza della Croce. Certo egli, da bambino e da adolescente, aveva assistito a numerose funzioni in Chiesa, nella meravigliosa cattedrale romanica di S. Rufino, nella chiesa di S. Maria Maggiore, sulla piazza del Vescovado, ove era stato battezzato e aveva rinunciato pubblicamente ai beni paterni; aveva certamente ascoltato la lettura di brani del Vangelo: pur tuttavia ora lo apre e lo legge come se non l’avesse mai conosciuto, con un’attenzione e un fervore fino ad allora ignoti. Non si accontenta più dei commenti dei predicatori, delle interpretazioni ed attuazioni, pur devote, dei religiosi. Intende aderire totalmente alla buona novella, mettere in pratica, nel comportamento di vita, l’assoluta e fedele adesione al Vangelo. Non ci sono vie di mezzo per Francesco, non ci sono possibili accomodamenti né piccoli compromessi. Egli è radicale nelle sue scelte, le compie fino in fondo e con tutto l’entusiasmo del suo cuore conquistato dalla soavità di Cristo .

«La sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di seguire fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e il fervore del cuore l’insegnamento del Signore Nostro Gesù Cristo e di imitarne le orme».59 Gli agiografi hanno evidenziato questa peculiarità. Bonaventura parla spesso di Francesco paragonandolo a Cristo, arriva a definirlo ‘l’alter Christus’, modello perfetto di conformità al Redentore.

Già nel Capitolo I egli esordisce: «Diceva infatti più tardi, quando si era ormai perfettamente rivestito di Cristo, che già quando viveva da secolare, difficilmente riusciva a sentir nominare l’amore di Dio, senza sentirsi cambiare il cuore».60 Il Celano ce lo mostra mentre, preso dalla rievocazione della Passione di Gesù, commosso, scoppia in pianto fino a singhiozzare, né vuole essere consolato. Scrive: «Da quel momento si fissò nella sua anima santa la compassione del Crocifisso e, come si può piamente ritenere, le venerande stimmate della Passione, quantunque non ancora nella carne, gli si impressero profondamente nel cuore».61

Il percorso di Francesco verso la piena conformità a Cristo è un percorso in salita, un’ascesi rigorosa che passa sempre attraverso l’amore compassionevole per il fratello, che arriva a trovare perfetta letizia quando si sente definire ‘idiota’, al paragone con i più dotti studiosi della Chiesa e teologi, quando è scacciato e umiliato, affamato o infreddolito eppure il suo spirito rimane nella serena imperturbabilità. Può essere difficile comprendere una tale gioia, sia essa francescana o weiliana, per noi che cerchiamo il successo, che vogliamo continue conferme di stima da parte degli altri. Tuttavia la letizia di entrambi nasce appunto dalla capacità di vincere i limiti della propria natura, della propria materialità, per poter vivere, avendo superato tali circoscritti confini e con essi il proprio egoismo, nella dimensione dell’amore universale verso Dio e verso gli uomini. Questa ricerca del soprannaturale si compie in Francesco mediante un percorso ascetico spesso spietato che prostra il suo fisico; scrive il Celano, nella Vita Prima: «Era divenuto come un vaso derelitto e, libero da ogni timore e sollecitudine per il corpo, lo esponeva con prontezza alle ingiurie per non essere costretto per suo amore a desiderare alcuna cosa materiale. Da vero spregiatore di sé, egli con parole e con fatti ammaestrava utilmente gli altri a disprezzarsi. Che fare? Era magnificato da tutti e tutti ne cantavano le lodi; solo lui si riteneva vilissimo e si disprezzava cordialmente».62 L’anima, che Simone, con una bella immagine, vede posta al centro della creazione, situata tra i due bracci della croce, l’uno, orizzontale, teso verso il creato l’altro, verticale, orientato a Dio, rende conto, in maniera figurativamente plastica, dell’interscambio continuo tra il creato e il Creatore, dell’afflato tra Dio e l’universo, dell’intimo, incessante colloquio tra l’Onnipotente e il mondo. Scrive al riguardo Des Lauriers: «Non esiste altra apertura al mondo dei due bracci della Croce; se la Croce sparisce, non resterebbe che diventare noi stessi un ‘segno della Croce vivente’, un segno della Croce che vivrebbe di desiderio e di attesa. Questa verità, che aveva così profondamente colto, Simone Weil l’ha realizzata con il proprio essere concludendo la sua vita».^[72] Queste parole che Des Lauriers dedica alla Weil possono perfettamente esprimere anche il senso dell’intera vita di Francesco e forse rendere conto delle ragioni per cui il messaggio francescano è oggi, dopo otto secoli, ancora così profondamente vivo e fecondo.

Non è stato forse Francesco un ‘segno della Croce vivente’ per l’adesione profonda alla novella evangelica, per l’amore misericordioso verso i fratelli, specie quelli più miseri, per le sofferenze patite nel corpo e nell’anima, per le penitenze impostesi, per aver, infine, portato, anche nella sua carne, i segni visibili della Passione di Cristo?

I biografi non trascurano il parallelo tra Francesco e Cristo, anzi spesso lo mettono in evidenza. Scrive il Celano nella Vita Seconda: «Francesco era già morto a questo mondo ma Cristo viveva in lui. Le delizie del mondo erano per lui una croce, perché portava radicata nel cuore la croce di Cristo».63 Simone vede nell’incarnazione il segno sublime dell’amore di Dio per l’uomo. Come Francesco, che ha ricostruito a Greccio il primo presepe, guardava quel bambino posto nella mangiatoia con ineffabile amore così Simone si commuove dinanzi al mistero dell’incarnazione. Un Dio che vuole condividere la miseria della sorte umana, che si fa carne, caducità, dolore, povertà per abbracciare l’uomo è l’esempio dell’amore più grande, di quell’amore che giunge fino alla follia, che non conosce i limiti dell’umana ragionevolezza: è il Dio che si fa debolezza di Alain, che, come un piccolo bimbo appena nato, in tutto dipende dalla madre, che tutto chiede, che ‘cesserebbe di esistere senza le nostre cure’; è il Dio povero che ama incondizionatamente e nulla chiede come contropartita.

13. Il Dio-Bambino

L’Enfant-Dieu di Alain è vicino al Dio weiliano né si distacca dal ‘bambino di Betlemme, teneramente adorato da Francesco. Scrive al riguardo Tommaso da Celano: «A questo proposito dobbiamo raccontare, richiamando devotamente alla memoria, quello che realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte a Greccio, il giorno del Natale di nostro Signore Gesù Cristo… Francesco… Disse: «vorrei fare memoria di quel bambino che è nato a Betlemme, e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva nel fieno tra il bue e l’asinello». Appena l’ebbe ascoltato quell’uomo buono e fedele se ne andò sollecito e approntò, nel luogo designato, tutto secondo il disegno esposto dal Santo… Il santo di Dio è lì, estatico di fronte alla mangiatoia, lo spirito vibrante pieno di devota compunzione e pervaso di gaudio ineffabile. Poi viene celebrato sulla mangiatoia il solenne rito della messa e il sacerdote assapora una consolazione mai gustata prima. Francesco si veste da levita, perché era diacono e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora è un invito per tutti a pensare alla suprema ricompensa. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva pronunciare Cristo con il nome di ‘Gesù’, infervorato d’immenso amore, lo chiamava ‘il Bambino di Betlemme’, e quel nome ‘Betlemme’, lo pronunciava come il belato di una pecora, riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto. E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’, o ‘Gesù’, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e deglutire la dolcezza di quella parola».64

L’amore del Padre che acconsente all’incarnazione del Figlio, per andare incontro all’uomo, facendogli condividere la fragilità dell’umana natura, è un amore infinito. Dice al riguardo Tommaso da Celano, riferendosi a Francesco: «L’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria che difficilmente voleva pensare ad altro».65 Se per Alain l’amore materno costituisce l’esempio dell’amore più grande, il ‘primo in perfezione’, come lui lo definisce, per Simone l’esempio dell’amore sublime è quello del Padre nostro che è nei cieli.

Alain dice, a proposito dell’amore materno: «L’amore, in genere, vuol scegliere e crede di scegliere. La madre, al contrario, non sceglie mai ma ama incondizionatamente quel piccolo essere a cui è legata da inscindibili e indissolubili vincoli. Il suo è un legame non razionale ma naturale; la razionalità comporterebbe infatti una logica riflessiva, che esso non possiede, poiché vuol essere solo immediatezza e spontaneità».66

14. L’amore del Padre

Simone riscopre l’amore del Padre, quel Padre che, come la madre per Alain, accoglie il figlio e nulla chiede, perdona, cerca il figliolo perduto. L’immagine paterna è quella evangelica del buon pastore che lascia le novantanove pecore per andare alla ricerca dell’unica smarrita, o quella del figliol prodigo che si allontana dalla casa paterna, dopo aver preteso la sua parte, scialacqua tutti i suoi beni ed, infine, messo dinanzi ai suoi errori torna alla casa del padre. Questo genitore che già in lontananza percepisce l’arrivo del figlio, che lo abbraccia, lo perdona senza chiedergli nulla, senza rimproverargli nulla, che uccide per far festa al suo ritorno il vitello grasso, suscita scandalo nella nostra mentalità abituata a misurare, a paragonare, a soppesare. L’altro figlio infatti si ribella perché non può comprendere la grandezza dell’amore del Padre, non si dà ragione della sua smisurata generosità.

Il Padre Nostro, per Simone come per Francesco, è la preghiera più bella: bella per la forma, bella per i contenuti; una preghiera che esprime perfettamente l’amore del Padre, capace di giungere al sacrificio del figlio in Croce per salvare l’uomo.

«La ricchezza senza fine dell’amore materno diveniva per Simone la ricchezza senza fine dell’amore paterno, in una dimensione che trascendeva lo spazio e il tempo. E, questo Amore, non poteva non incontrare la Croce come sua ultima, grandiosa testimonianza. In tal modo i due momenti forti della spiritualità weiliana si incontravano dando vita a una unità inscindibile che culminava proprio nell’Amore. Il Padre amava l’uomo al punto di sacrificare il Figlio sulla Croce. Ma l’unità inscindibile tra Padre e Figlio consentiva alla Weil di vedere nell’azione del Padre non un atto di comando estraneo al divenire degli eventi, ma, al contrario, un compenetrarsi totalmente nell’atto sacrificale, divenendo Egli stesso vittima per Amore».67

L’amore di Dio commuove Francesco profondamente. Narra il Celano nella Vita Seconda: «Fra le altre parole che ricorrevano spesso nel parlare non poteva udire l’espressione ‘amore di Dio’ senza provare una certa commozione. Subito infatti, al suono di questa espressione ‘amore di Dio’ si eccitava, si commuoveva e si infiammava, come se venisse toccata con il plettro della voce, la corda interiore del cuore… Una volta un povero gli chiese la carità per amore di Dio. Siccome non aveva nulla, il santo prese di nascosto le forbici e si preparò a spartire la sua misera tonaca. E l’avrebbe certamente fatto se non fosse stato scoperto dai frati, ai quali però ordinò di provveder con un altro compenso al povero.

Diceva: «Dobbiamo amare molto l’amore di Colui che ci ha amati molto».68 Questo amore comporta l’accettazione della Croce e, quindi, del dolore. La funzione purificatrice del dolore ci mostra la realtà senza veli: nel momento in cui siamo preda della sofferenza, sperimentiamo sul nostro corpo o nella nostra anima la cieca brutalità delle circostanze, percepiamo la verità, senza orpelli o ingannevoli apparenze; siamo allora in grado di comprendere pienamente la nostra fragilità, la finitezza e la caducità dell’esistenza che non potremmo mai afferrare solo mediante la gioia, incapace, da sola, di mostrarci, tutta intera, la realtà dell’universo. Occorre assaporare, dice la Weil, sia la gioia che il dolore, non basta che la prima penetri nella nostra anima, occorre che il secondo ci entri nel corpo, se vogliamo essere partecipi del mondo della verità, ripudiare la menzogna, non celarci dietro false illusioni. È appena il caso di notare come, sia in Francesco che in Simone, la contemplazione e l’esperienza mistica non prescindono mai dal corpo che funge da mezzo di percezione del soprannaturale al pari dell’anima.

Francesco sperimenta col suo corpo la dolcezza della presenza di Dio, spesso si rivolge ad esso chiamandolo ‘frate corpo’, gli promette, sollecitato da un frate che lo rimproverava per i maltrattamenti che imponeva al suo fisico, di curarlo con maggiore attenzione. Simone usa il suo corpo nel lavoro, sia in quello nei campi che in quello in fabbrica, ed il lavoro diviene per lei oggetto di contemplazione attiva, una contemplazione che si serve, appunto, del corpo; il suo modo di sentire il contatto con l’universo non prescinde mai dal riferimento al fisico ed anzi, parlando del lavoro operaio, Simone trova molto bella l’espressione popolare ‘il mestiere gli entra nel corpo’ che indica i casi in cui gli operai si sono feriti con uno strumento o un macchinario. Il contatto col mondo passa quindi per il corpo né può prescindere da esso e tramite esso si compie l’attività contemplativa. Peraltro «l’uomo completo, veramente umano (è tale) in quanto pensatore e lavoratore manuale allo stesso tempo».^[79] Se attraverso il dolore la realtà dell’universo ci entra nel corpo in tutta la sua purezza, allora la ricerca della verità presuppone l’accettazione della sofferenza e quindi della Croce: chi accoglie tale atteggiamento e lo fa suo «partecipa alla Croce di Cristo, qualunque sia la sua fede», una «croce felice» perché «solo una cosa permette di acconsentire all’infelicità: la contemplazione della Croce di Cristo. Non c’è altro. Basta questo».^[80]


  1. S. Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 70. ↩︎

  2. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1990, p. XX. ↩︎

  3. S. Weil, Qualche riflessione sulla nozione di valore, 1941. ↩︎

  4. S. Weil, L’amore di Dio, op. cit., p. 182. ↩︎

  5. Ibidem↩︎

  6. S. Weil, L’amore di Dio, op. cit., pp. 179-180. ↩︎

  7. N.G. van Doornik, Francesco d’Assisi, profeta per il nostro tempo, Cittadella, Assisi 1979, p. 40. ↩︎

  8. P. Sabatier, Vita di S. Francesco d’Assisi, Mondadori, Cles (TN) 1978, p. 17. ↩︎

  9. Ivi, p. 18. ↩︎

  10. Ibidem↩︎

  11. S. Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1958, p. 204. ↩︎

  12. P. Sabatier, op. cit., p. 32. ↩︎

  13. Ivi, p. 18. ↩︎

  14. S. Da Campagnola, Le origini francescane come problema storiografico, Edizioni Universitarie, Perugia 1974, p. 266. ↩︎

  15. Ivi, p. 21. ↩︎

  16. Ibidem↩︎

  17. A. Del Noce, Simone Weil, op. cit., pp. 63-64. ↩︎

  18. A. Del Noce, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, op. cit., p. 9. ↩︎

  19. N.G. van Doornik, op. cit., p. 30. ↩︎

  20. San Francesco patrono d’Italia, n. 4, aprile 2009. ↩︎

  21. Alain, Les dieux, Plon, Paris 1930, pp. 363 e 328. ↩︎

  22. P. Sabatier, op. cit., p. 64. ↩︎

  23. S. Weil, Cahiers I, Plon, Paris 1951, p. 159. ↩︎

  24. S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, p. 161. ↩︎

  25. A. Del Noce, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, op. cit., p. 13. ↩︎

  26. Fioretti, in Fonti Francescane, p. 1147. ↩︎

  27. A. Del Noce, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, op. cit., p. 12-13. ↩︎

  28. S. Pétrement, La vita di S. Weil, Adelphi, Milano,1994, p. 403. ↩︎

  29. S. Weil, Attesa di Dio, op. cit., p. 75. ↩︎

  30. G. Fiori, Simone Weil, una donna assoluta, La Tartaruga, Milano 1991, p. 72. ↩︎

  31. S. Weil, Attesa di Dio, op. cit., p. 75. ↩︎

  32. Ibidem↩︎

  33. S. Pétrement, La vita di S. Weil, op. cit., p. 440. ↩︎

  34. S. Pétrement, La vita di S. Weil, op. cit., p. 431. ↩︎

  35. S. Weil, Attesa di Dio, op. cit., p. 76. ↩︎

  36. Ibidem↩︎

  37. S. Weil, Attesa di Dio, op. cit., p. 76-77. ↩︎

  38. S. Pétrement, La vita di S. Weil, op. cit., p. 442. ↩︎

  39. Ibidem↩︎

  40. S. Weil, Cahiers II, Plon, Paris 1953, p. 156. ↩︎

  41. S. Weil, La connaissance Surnaturelle, Gallimard, Paris 1958, pp. 204-205. ↩︎

  42. G. Fiori, Simone Weil. Biografia di un pensiero, Garzanti, Milano 1990, p. 227. ↩︎

  43. A. Del Noce, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, op. cit., p. 15. ↩︎

  44. S. Weil, L’amore di Dio, op. cit., p. 201. ↩︎

  45. S. Weil, Attesa di Dio, op. cit., p. 161. ↩︎

  46. S. Weil, Écrits des Londres, op. cit., p. 169. ↩︎

  47. A. Del Noce, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, op. cit., p. 30. ↩︎

  48. A. Del Noce, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, op. cit., p. 20. ↩︎

  49. A. Del Noce, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, op. cit., p. 21. ↩︎

  50. S. Weil, Intuition pre-chrétiennes, Editions de la Colombe, Paris 1951. pp. 47-48. ↩︎

  51. M.C. Laurenti, Simone Weil tra politica, filosofia e mistica, Anicia, Roma 2007, p. 36. ↩︎

  52. A. Sfamurri, L’umanesimo cristiano di Simone Weil, Japadre, L’Aquila 1970, p. 32. ↩︎

  53. S. Weil, Oppressione e libertà, Comunità, Milano 1956, p. 140. ↩︎

  54. P. Sabatier, op. cit., p. 80. ↩︎

  55. S. Weil, Intuition pre-chrétiennes, op. cit., p. 252. ↩︎

  56. S. Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 180. ↩︎

  57. S. Weil, L’amore di Dio, op. cit., p. 182. ↩︎

  58. Tommaso da Celano, Vita Seconda, in Fonti Francescane, p. 369 ↩︎

  59. Tommaso da Celano, Vita Prima, in Fonti Francescane, p. 305 ↩︎

  60. Bonaventura da Bagnoregio, Leggenda maggiore in Fonti Francescane, p. 604. ↩︎

  61. Tommaso da Celano, Vita Seconda, in Fonti Francescane, p. 369. ↩︎

  62. Tommaso da Celano, Vita Prima, in Fonti Francescane, p. 285 ↩︎

  63. Tommaso da Celano, Vita Seconda, in Fonti Francescane, p. 501. ↩︎

  64. Tommaso da Celano, Vita Prima, in Fonti Francescane, p. 306. ↩︎

  65. Tommaso da Celano, Vita Prima, in Fonti Francescane, p. 305. ↩︎

  66. Alain, Les arts e les Dieux, p. 1352. ↩︎

  67. M.C. Laurenti, op. cit., p. 76. ↩︎

  68. Tommaso da Celano, Vita Seconda, in Fonti Francescane, p. 491. ↩︎