Umanità e moralità

1. Umanità come disposizione morale

L’accostamento dei due termini: umanità e moralità, in un primo momento, può sembrare la proposta di una tautologia. Una riflessione più approfondita ci rivela invece un fecondo intreccio di problemi sottesi alla comparazione tra i due termini. Per chiarezza espositiva possiamo distinguere il plesso di questi problemi in due ordini diversi. La distinzione discende dal differente significato che si può dare alla parola «umanità» che, da un lato, indica una disposizione morale, una interiore sensibilità rivolta a informare l’azione di alti valori e di larga comprensione, dall’altro lato il termine può indicare semplicemente l’umanità come l’insieme degli uomini, l’umanità intera appunto. Nel primo caso indica una virtù, la bontà, la larga benevola disponibilità verso gli altri, nel secondo la famiglia umana nella sua interezza. Le due accezioni, diverse per la stessa natura della loro qualificazione semantica, non mancano di convergenze e di reciproche consonanze. Ne tratteremo tuttavia distintamente poiché il problema del rapporto umanità-moralità riceve così una più ampia articolazione ed è occasione di un più approfondito esame.

Cominciamo dalla prima accezione del termine: umanità come virtù, come atteggiamento, come disponibilità. Una prima configurazione del rapporto umanità e moralità, considerando l’umanità sotto il primo profilo accennato, ci si presenta come un rapporto di identità. In una armonica architettura della vita morale, secondo un modello classico, la moralità è l’espressione più alta e compiuta di umanità. L’humanitas viene a coincidere con la vita morale, quale vita secondo ragione e quindi in perfetta consonanza con le strutture ontologiche dell’uomo e del mondo in cui l’uomo vive. Anche al di fuori di un felice equilibrio empirico, nelle vicissitudini stesse dell’esistenza, l’armonia di azione razionale e valore morale non deve venir meno anche se più ardue possono diventare le scelte particolari in ordine a particolari situazioni. Tutto ciò presuppone una concezione classica della realtà e della vita, della ontologia e della antropologia; ma se tale concezione viene contestata e messa in crisi, la problematico del rapporto potrebbe ricevere configurazioni diverse. Ne accenniamo due che sembrano maggiormente rilevanti ed a cui corrispondono anche particolari posizioni storiche. Chiameremmo la prima dell’umanesimo ad oltranza, la seconda della comprensione panica; la prima potremmo situarla storicamente nell’ambito dei modelli rinascimentali di umanità, l’esemplificazione della seconda può essere ampiamente ricavata nel contesto etico e speculativo contemporaneo.

Se consideriamo l’humanitas come espressione di implicite potenzialità fino al limite del titanismo, vedremo delinearsi un ben diverso rapporto da quello delineato poco fa. La moralità, come ossequio pratico alla legge razionale, viene infatti considerata con una certa diffidenza e talvolta apertamente svalutata come remora all’espressione piena di una umanità eccezionale. Lo stesso concetto di virtù esce dall’ambito della considerazione morale per entrare in quella di un prestigioso esercizio di umanità. Esser virtuosi significa avere l’abilità e la genialità necessarie alla propria affermazione. Il nuovo criterio di valore è il successo o più precisamente l’arte di prevalere con duttile calcolo e con esteriore magnificenza. Il concetto di umanità si avvia, così, in sintonia con la sensibilità rinascimentale a configurarsi come concetto estetico e la vita dell’uomo tocca il suo vertice quando sia costruita e gestita come un’opera d’arte. Le categorie estetiche, nel senso formale di libera creatività, finiscono in tal modo per sostituirsi a quelle morali.

Il secondo tipo di rapporto cui accennavamo, nasce invece da una sostanziale sfiducia nell’attività teoretica non solo nel senso di esercizio di razionalità come lógos, ma anche come tecnica di calcolo. Nella rinuncia al giudizio nasce la comprensione partecipativa, panica, emozionale alla situazione dell’altro. Umanità diventa, in tal modo, disponibilità totale dopo la messa tra parentesi del giudizio; si risolve in un livello di emozione morale. Le differenze con il tipo di «umanità» precedentemente considerata sono evidenti: ad un attivismo costruttivo si sostituisce una panica risoluzione nel non giudicare, all’operazione succede un tipo emozionale di contemplazione irenica. Tuttavia non mancano singolari convergenze di non poco rilievo speculativo. In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad una opposizione, o comunque ad una svalutazione della moralità razionale, appunto perché è svalutata la razionalità classica. In entrambi i casi le categorie morali si risolvono a livello estetico e più precisamente estetistico. Con il termine «estetismo», infatti, ci si riferisce non già all’arte in se stessa, ma ad una estrapolazione delle categorie estetiche nel contesto globale della vita umana. L’estetismo non appartiene al mondo tipico dell’arte, ma piuttosto alla considerazione della vita come opera d’arte, ad una gestione estetica della vita. La prima concezione, quella titanica, e la seconda, quella panico-comprensiva, si collocano in un clima estetistico entrambe, seppure diano vita a due diverse forme di estetismo: nel primo caso la vita è opera d’arte nella sua poiesi costruttiva, nel secondo caso la vita è a sfondo estetistico poiché si risolve nell’emozione, a volte decadentistica, del comprendere, nel sottile godimento del dialogare senza contrapposizione polemica e nel clima soffuso della reciproca disponibilità.

Il rapporto di una «umanità», così concepita, con la moralità, si fa quindi esso stesso sfumato, talvolta si risolve in contrapposizione e talvolta in una confluenza spontanea. Quando nella situazione non esiste di per sé conflitto, l’esercizio di umanità confluisce facilmente nella moralità, ma quando questo conflitto ci fosse e la relazione interpersonale richiedesse un giudizio, una presa di posizione secondo valori morali razionali, allora l’umanità prevarrebbe sulla moralità; l’irenismo, condizione per un comprendere quale «suprema lex humanitatis», diverrebbe il criterio di umanità cui sacrificare l’esercizio del giudizio razionale. La verità da criterio oggettivo si trasformerebbe così in un rapporto di comunicazione intersoggettiva. L’umanità verrebbe in tal modo a qualificarsi sul terreno formale come struttura della comprensione, e sul piano empirico si colorirebbe del tono affettivo di tale comprensione ad esito evasivo ed estetistico.

La prospettiva della comprensione panica ha un ampio rilievo nel contesto culturale contemporaneo e si inscrive compiutamente nella crisi dei valori razionali di tipo classico e quindi tradizionali. Il clima permissivo ed irenico favorisce un risolversi della moralità in umanità. Il concetto di «umanità» viene così a caratterizzare l’atmosfera morale contemporanea. Si perviene ad una strana universalità che consiste soprattutto nel superare la singola coscienza in un abbandono ad un sentimento panico in cui si attutiscono e finiscono per risolversi i drammi delle singole soggettività. Una nuova trascendentalità assolve dai conflitti ed esercita l’ampia seduzione del superamento nel collettivo.

Ciò che è singolare in questo atteggiamento è la compresenza di partecipazione e di abbandono. Nel momento stesso in cui l’istanza partecipativa prevale sui problemi della coscienza singola, questa partecipazione sembra dissolvere i suoi contenuti, ossia ciò a cui si partecipa. Se il processo nasce intenzionalmente rivolto a particolari partecipazioni, in vista di concrete operazioni, la dinamica stessa del processo tende a dissolvere i connotati positivi dell’azione partecipativa in un atteggiamento di abbandono. Il partecipare, quando si giustifica in un concetto d’umanità, non può arrestarsi a forme particolari di partecipazione, ma urge verso un orizzonte sempre più ampio ove ogni particolarità perde la sua autonomia e finisce per dissolversi. La partecipazione di cui si parla, non ha infatti un fondamento su motivazioni particolari, su valori inscritti in un quadro articolato e quindi gerarchico dei valori stessi; il suo fondamento è in un senso diffuso e diffusivo di umanità i cui orizzonti attingono ad una universalità univoca. Ne discende che la partecipazione confluisce nell’abbandono e ciò che dovrebbe spingere ad impegni specifici, finisce per condurre ad un impegnarsi disorientato ed instabile. Non sorretto da orientamenti e mete intermedie, l’impegno si configura come disimpegno irenico oppure si risolve in una retorica dell’impegno. Anche questa nuova retorica è una nota ampiamente diffusa nella cultura e nella sensibilità morale contemporanea. Quell’amore di umanità che dovrebbe riscattare su di un piano ideale anche l’azione rivolta a rivendicazioni particolari, si riduce a sentimento panico, ad abbandono in quanto abbandono; ad un abbandono senza oggetto. Umanità, in questa prospettiva, si presenta come un assoluto e, allo stesso modo di ogni assoluto immanente, o dà luogo ad un sistema metafisico chiuso, o si configura come struttura vuota accompagnata da un contesto emotivo panico. L’umanità, divenuta un trascendentale, presenta caratteri analoghi al trascendentale formale kantiano: condizione di qualsiasi partecipazione ed insieme principio formale di ogni partecipazione. Ciò che vi è di costitutivo nelle singole partecipazioni si risolve nell’orizzonte omnicomprensivo di una umanità senza riferimenti specifici e senza mediazioni intermedie.

In una situazione come quella che siamo andati delineando «umanità» finisce per coincidere con abbandono alla dinamica della struttura. La vita secondo umanità si risolve in un vivere senza giudicare, in una rinuncia alla presa di coscienza soggettiva e all’operatività responsabile personale. Siamo di fronte alla rimozione del giudizio e con esso alla qualificazione axiologica articolata, conflittuale, almeno per quel tanto di conflittualità che ogni scelta porta con sé. L’umanità come struttura vitalistica è in sintonia con una forte tendenza contemporanea rivolta ad una comprensione permissiva, alla liberazione da ogni problematica, ad un rifluire nello spontaneismo senza mediazioni.

Potremmo riassumere la posizione esposta con i termini di «disimpegno teoretico ed impegno partecipativo», ove però l’impegno partecipativo, proprio per la chiarita natura trascendentale di un certo modo di intendere il termine umanità, finisce per diventare esso stesso disimpegno, in una nostalgia metaproblematica di una situazione iniziale. Di qui i fenomeni concomitanti di contestazione e rimozione di giudizi, di liberazione da «auctoritates» e da sistemi precostituiti.

2. Dalla simpatia alla comunicazione

Un chiarimento dei problemi impliciti nell’accezione di umanità come comprensione e panica partecipazione, ci può venire da una pagina kantiana della Critica del giudizio: l’appendice alla seconda parte e precisamente il paragrafo 60: «Della metodica del buon gusto». A differenza di ciò che è possibile nella Critica della ragion pura, non si può fondare, in sede di Critica del giudizio, la distinzione tra «dottrina trascendentale degli elementi» e «dottrina trascendentale del metodo». La «critica del gusto», infatti, non è «determinabile mediante princìpi», dato che non vi è scienza del bello. Le belle rappresentazioni hanno una loro verità, ma non è ciò che costituisce la loro natura artistica. Non vi potrebbero essere quindi norme oggettive e costanti come principi direttivi di una educazione estetica. Per «l’arte bella» vi è quindi «solo una maniera (modus), non una regola (methodus)», ove «modus» indica la dinamica di uno stile personale e «methodus» le regole di un procedimento scientifico. Ne consegue che l’educazione del gusto non può procedere dall’insegnamento di norme. Si deve ricorrere alle esemplificazioni di contenuti, ma accompagnate dal costante avvertimento della loro parzialità. Caduto il rigore di un metodo, occorre affinare la sensibilità, un «esprit de finesse» potremmo dire, accompagnato da una immaginazione creativa e disinteressata. Come efficace propedeutica a questa educazione artistica, Kant indica gli studi umanistici (humaniora studia) per mezzo dei quali la gratuità del godimento estetico si intreccia con l’impegno di liberazione morale. Non già quindi «vita estetica», ma «via estetica alla vita morale».

Ci siamo solo apparentemente allontanati dal nostro tema poiché la digressione sul testo kantiano reca un preciso contributo al nostro argomento quando, per specificare il valore di questi humaniora studia, Kant perviene ad una definizione di umanità quale gli studi umanistici, intesi più a formare una sensibilità che a trasmettere contenuti, hanno la capacità di proporre e di suscitare: «umanità significa — afferma Kant — da un lato sentimento universale della simpatia e dall’altro, la facoltà di poter comunicare intimamente e universalmente».

La simpatia viene qui connotata come «sentimento universale» e ci pare che tale espressione non sia da intendersi soltanto come un sentimento di simpatia, ossia come un sentire reciproco nell’avvenimento di una comune condizione umana. Il «patire-assieme», ove patire significa relazione con un contesto di vita, rapporto con l’ambiente e la storia, è un partecipare che nasce da una apertura e reagisce ad uno stimolo che talvolta si presenta come una provocazione. La congerie di sentimenti che sgorgano da questo incontro con la realtà, possono manifestarsi con le più svariate connotazioni e colorirsi di tutte le tonalità psicologiche del kantiano «vielfarbiges Ich»; possono anche giungere al limite della patologia. Si ricordi come Kant stesso ritenga il sentimento un fatto prevalentemente patologico, tranne nel caso del sentimento morale, e quindi del sentimento estetico che è, nella sua espressione più alta, trascendimento e quindi liberazione, catarsi morale. Ma la simpatia, come «sentimento universale», solleva i contenuti empirici dei vari sentimenti e colloca la sensibilità al livello di un trascendentale morale. La simpatia, organo della comprensione, diventa condizione universale del sentimento morale. Le due accezioni di «sentimento universale», come sentimento di tutti e come sentimento rivolto a tutti, confluiscono in un solo significato nel caso della simpatica, poiché la comprensione solidale verso gli altri nasce dalla consapevolezza che tutti ci troviamo coinvolti nelle stesse condizioni trascendentali di esistenza. Il passaggio dal contenuto alla condizione mette in luce, nella pluralità di singole irripetibili situazioni, la condizione comune e l’universalità quindi si radica nella pluralità delle singole esistenze pur allargandosi alla totalità degli uomini.

La seconda parte della definizione kantiana chiarisce ed amplia la prima, aggiungendovi la nota della «comunicazione» intima ed universale. Senza questa nota il discorso kantiano potrebbe incorrere in quelle stesse difficoltà che abbiamo rilevato a proposito dell’umanità come semplice disposizione morale. L’umanità come struttura trascendentale si risolve, si è visto, nell’abbandono alla struttura di cui la partecipazione panica è epifenomeno sul terreno del comportamento. In Kant la struttura è struttura del giudizio, non quindi disimpegno teoretico, ma dominio intellettuale. A rigore, tuttavia, si potrebbe obiettare che tale dominio intellettuale è pur sempre dell’io trascendentale, mentre alla soggettività personale non resta che l’abbandono nell’attività giudicante della soggettività oggettiva, trascendentale, impersonale. Questa considerazione non può tuttavia estendersi alla morale kantiana ove la impossibilità di una organizzazione etica del fenomeno comporta l’adesione ascetica alla struttura trascendentale dell’imperativo. Con ciò viene reintrodotta l’attività insostituibile della coscienza personale. La connotazione di «comunicazione intima ed universale» ci pare qualifichi, anche su di un piano teoretico, la nozione di umanità in termini tali da sottrarla alla partecipazione irenica e al disimpegno teoretico.

Il «poter comunicare intimamente e universalmente» (sich innigst und allgemein mitteilen zu können) è introdotto da Kant con una certa contrapposizione, o almeno diversità, da «sentimento universale della simpatia» (Teilnehmungsgefühl) tanto che i due termini sono accompagnati dalle espressioni «da un lato» (einerseits) e «dall’altro» (andererseits). La comunicazione quindi non si risolve in simpatia, nemmeno in quella simpatia per tutti gli uomini che connota di universalità il sentimento. Gli avverbi «intimamente» e «universalmente» introducono una nuova dimensione, che è la dimensione personale. La persona infatti è la singolare compresenza di un elemento di intimità ed uno di universalità; in essa l’universalità diventa esperienza interiore, connotazione estetica anche, ma di un’estetica non estetistico-evasiva, ma rivolta alla vita morale.

La comunicazione comporta una alterità tra i soggetti che entrano in comunicazione; viene esclusa quindi una risoluzione panica. Nell’abbandono trascendentale, alla struttura, al collettivo non vi è comunicazione, ma fusione. Nella fusione c’è di certo una esperienza di comunione, ma tale esperienza si situa al di là della comunicazione; è esperienza non comunicabile, non traducibile in termini teorici e non investe il pensiero riflesso. L’alterità presupposta alla comunicazione si qualifica, nel testo kantiano, come «intima» ed «universale». Non è privo di interesse notare come quella nota di «intimità» si differenzi dal sentimento di solidarietà umana (Teilnehmungsgefühl) ed indichi un rapporto che supera la disposizione naturale e la tonalità affettiva per radicarsi nel centro più profondo dell’anima umana, nella sua radice interiore. Un conto è «partecipare» emotivamente e un conto è «comunicare interiormente»: come il partecipare si precisa qualificandosi come comunicazione, così il sentire si qualifica come un interiormente sentire. Che senso acquista allora il termine «universalmente» reso nel testo con la medesima parola in tutte e due le parti distinte della frase kantiana (allgemeine Teilnehmungsgefühl e allgemein mitteilen)? L’universalità, ci sembra, trovi la sua qualificazione nella interiorità. Mentre diventa possibile partecipare ad un sentimento universale seguendo una semplice inclinazione e adeguandosi quindi ad una struttura trascendentale, la comunicazione, radicata nelle profondità interiori (ma non soggettivistiche) della coscienza, assurge ad una universalità ove la dimensione conoscitiva si fonde con l’iniziativa personale. Che ciò presenti delle difficoltà nel quadro di una concezione kantiana ed apra difficili problemi d’interpretazione è fuori dubbio, tuttavia la posizione delineata offre uno spunto di riflessione di notevole rilevanza per il nostro problema.

Pensiamo di poter delineare, a questo punto del discorso, una prima proposizione di conclusione, una proposta che poi cercheremo di approfondire e di arricchire rendendone esplicite implicanze e tematiche particolari. Questo abbozzo di conclusione potrebbe configurarsi nella espressione: «dalla simpatia alla comunicazione»; il titolo, appunto, del presente paragrafo.

In termini diversi e più articolati potremmo dire che umanità e moralità sono espressioni convergenti che, pur mantenendo la loro autonomia, confluiscono in uno stesso costume morale, indice di un identico atteggiamento interiore. Ciò tuttavia è possibile se quel sentimento morale di disponibilità, comprensione, partecipazione che sostanze di se la simpatia umana, passa attraverso il vaglio di una rigorosa verifica a livello di comunicazione. Ciò significa che la simpatia va purificata da componenti alogiche e talvolta irrazionali, va liberata dalla tendenza a risolversi in abbandono al fluire del sentimento puro e semplice. Questa purificazione e liberazione passano attraverso la capacità di tradurre la simpatia in termini di comunicazione.

La comunicazione comporta, come si è già osservato, una alterità di centri di coscienza. Costituisce quindi una garanzia di fronte alla tendenza, che talvolta la simpatia presenta, di risolversi in comprensione panica, disimpegnata teoreticamente. Comunicare con simpatia, d’altra parte, sottrae la comunicazione dal risolversi in una trasmissione di messaggi esteriori finalizzati alla pura praticità e funzionalità. La comunicazione non deve isolare il livello teoretico respingendo nell’alogico il rapporto di simpatica, ma radicare nella più profonda interiorità le radici stesse della comunicazione. L’interiorità (che non è pura soggettività, ma consistenza metafisica) media la simpatia e la universalità, rivelando nelle radici più recondite dell’umanità di ciascuno, la natura «umanistica» della morale, un umanesimo fatto di impegno e di distacco, di puntualità esistenziale ed insieme di universalità. Moralità ed umanità rivelano suggestive convergenza qualora la moralità venga valutata a livello di vita morale e l’umanità venga disciplinata mediante la verifica della comunicazione nel senso forte del termine.

«Dalla simpatia alla comunicazione» disegna un itinerario che va dalla fenomenologia del sentire al riconoscimento della condizione metafisica per l’esercizio morale di umanità.

3. L’umanità intera

Dopo quanto si è detto, l’indagine sul rapporto umanità-moralità secondo la seconda accezione del termine umanità, viene molto semplificata e quasi risolta nell’analisi già compiuta. Il concetto di umanità, nel senso di universalità del genere umano, comporta, se rapportata al concetto di moralità, la tematica della universalità del riferimento alla norma, ossia della validità erga omnes della norma stessa. Ne scaturisce una serie di problemi che tradizionalmente vengono affrontati mediante una discussione sulla relatività o meno del valore e del precetto morale, oppure investono l’ampia tematica del rapporto norma e situazione, o più semplicemente prendendo in esame l’influenza del condizionamento storico e geografico.

Il problema tuttavia può essere affrontato in modo diverso, sebbene questa diversità sia tale soltanto in parte, ossia chiarendo in forma preliminare il valore della universalità attraverso il tipo di razionalità che presuppone. Si tratta di connotare la razionalità nel senso classico del termine? La razionalità va invece intesa come espansione creativa del soggetto? Si confonde con il carattere trascendentale della disponibilità all’accoglimento entro un contesto di neutralità emotiva? La formulazione stessa di questi interrogativi indica già la convergenza dei due significati di «umanità» distinti all’inizio del discorso, e quindi la convergenza di temi e problemi nel loro rispettivo rapportarsi al termine moralità. Il richiamo al testo kantiano ha ulteriormente accentuata la convergenza stessa.

Accenniamo a come i problemi tipici del rapporto della moralità con l’umanità nella sua interezza vengono a configurarsi a seconda del tipo di razionalità che sorregge le varie concezioni di razionalità e quindi di moralità. In una prospettiva ove, ad esempio, la razionalità sia intesa in senso classico, i problemi accennati trovano una soluzione non diremmo facile, ma chiara. La norma, essenzializzata nella sua configurazione di necessità e universalità, è sottratta a qualsiasi relativizzazione. La situazione, d’altra parte, può incidere nel giudizio morale, nella applicabilità e nell’attribuzione della sfera di responsabilità, ma non modifica la norma che si definisce appunto senza alcun rapporto organico con la situazione in quanto tale. Se il discorso investisse le condizioni storiche e geografiche, si ritornerebbe a considerare il rapporto già chiarito di situazione e norma, di cui non è che un caso particolare.

Se alla razionalità dessimo il valore di una espansione creativa del soggetto ci troveremmo di fronte ad una prospettiva che richiama quella dell’idealismo trascendentale e quelle dottrine che ad esso fanno un qualche riferimento. In questo caso il criterio interno alla creatività del soggetto è la vera razionalità della norma; la sua espansione creativa il solo criterio di moralità. Tutte le varie forme di storicismo sono riconducibili a questo fondamentale criterio. La norma, quindi, va costantemente considerata in relazione alla dinamica di quel principio in divenire, creativo, e quindi è figlia del tempo: la stessa formulazione, ricca di concretezza operativa in un determinato momento, diventa poi una cristallizzazione inoperante, una divagazione retorica, un ostacolo da eliminare se considerata nel suo permanere in un tempo diverso da quello in cui era all’unisono con la creatività del soggetto. La situazione viene in tal modo a rivestire un ruolo determinante. Va però osservato che il termine situazione, nell’ambito del discorso relativo ad una razionalità come quella di cui stiamo parlando, non riveste il carattere esistenziale di puntualità alogica, ineffabile, attingibile soltanto nella diretta esperienza del vissuto, ma si qualifica come momento dialettico di un processo. Si tratta del tipico orizzonte storicistico.

Il terzo caso che abbiamo prospettato, quello di una razionalità come trascendentalità di una disponibilità all’accoglimento, in una neutralità qualificantesi soltanto emotivamente, riporta il discorso sullo stesso piano di quello che si è fatto nel primo paragrafo a proposito di una concezione della umanità come semplice disposizione morale, atteggiamento pratico privo di rilevanza teoretica. La razionalità coincide, in questo caso, con la struttura in cui si abbandona la coscienza in una voluptas onnicomprensiva. Paradossalmente, per ciò che riguarda la tematica del rapporto norma e situazione o norma e condizionamento, gli esiti si configurano analoghi a quelli che discendevano da una concezione classica della razionalità e quindi nella norma. Anche in questo caso la norma si configura in una forma razionale precisa e la rilevanza della situazione e del condizionamento è praticamente nulla. Vi sono certamente diversità fondamentali poiché la norma, nel caso della concezione classica, è espressione della natura umana colta nel suo modello intellettuale astratto, mentre per l’altra posizione la norma è l’interna struttura di un contesto concreto, immanente. Ne discende che nel primo caso il seguire la norma impegna in uno sforzo ascetico della volontà, comporta un conflitto; nel secondo invece seguire la norma è abbandonarsi ad una disposizione naturale, rimuovere ogni conflittualità.

Per i problemi tipici dei rapporto moralità e umanità, anche nel caso in cui si concepisce l’umanità nel senso di umanità intera, il discorso si sposta sulla razionalità, interno criterio qualificante la natura della norma da un lato e che, dall’altro, qualifica ciò che di comune vi può essere tra gli uomini nel loro insieme. Altrimenti l’espressione «umanità intera» non sarebbe che la descrizione di una congerie, di un aggregato di fatto.

Anche qui cercheremo di proporre una qualche linea di conclusione parziale, una considerazione in merito ai problemi affrontati che ci serva da premessa ad un ulteriore discorso. Diremmo allora che il problema del rapporto tra norma morale universale e necessaria e umanità può ricevere una configurazione adeguata se consideriamo la norma non soltanto sotto il profilo dei suoi contenuti, ma sotto quello delle modalità della sua espressione. La contestazione della norma in nome della situazione, dell’esistenza, della varietà e novità della vita è spesso la contestazione di un modo di esprimere la norma stessa, una contestazione di linguaggi prima ancora che di valori. Occorre quindi precisare come l’intima razionalità e quindi universalità della norma morale non si esaurisca in una sua espressione esemplare, privilegiando così un linguaggio in cui tale norma si è espressa, una cultura ed una civiltà di cui quel linguaggio è espressione compiuta. Così facendo, si finirebbe, in nome di una perennità, di privilegiare invece un tipo di condizionamento storico e di elevarlo a forma classica e irreformabile di universalità. Vi sono stati, di certo, dei periodi storici particolarmente felici in cui il pensiero umano, in una condizione di equilibrio e di freschezza nativa, ha saputo esprimere una formalità ideale, in cui è quasi raccolto il senso universale della sua natura. Questi periodi sono come tappe fondamentali della storia e della civiltà umana e ad essi dobbiamo fare un costante riferimento. Ciò tuttavia non conferisce un valore metafisico alla loro esemplarità, sì da sottrarre a mutamenti la stessa formula in cui si esprimono i contenuti.

Accanto a questa considerazione, e in connessione con essa, si può osservare come d’altra parte non possiamo dire che tutto il significato della natura umana, anche rigorosamente intesa come realtà metafisica, abbia finora trovato una adeguata espressione. La legge morale naturale, come il diritto naturale, per i più attenti dei loro cultori, non sono un codice formulato una volta per tutte. I principi perenni che presiedono ed informano le norme «naturali» vengono sollecitati, di volta in volta, di fronte a situazioni sempre nuove che la vita e lo stesso progresso scientifico impongono. Per progresso della legge morale non si intende necessariamente la sua storicizzazione e quindi la relativizzazione dei suoi principi, ma la esplicitazione della natura intima della realtà costitutiva umana attraverso lo spostarsi di situazioni e l’aprirsi di fronte alla coscienza morale di problematiche nuove. La maggiore conoscenza teorica e il maggiore dominio pratico della natura cosmica e della stessa realtà biologica umana aprono nuovi interrogativi e nuovi drammi nella coscienza, per cui il lavoro di riferimento analogico e di interpretazione finisce per investire la formulazione stessa della normativa morale tradizionale nel tentativo di esprimere la perennità nell’ambito dei nuovi contesti di esperienza e di vita.

Tutta la tematica che abbiamo preso in considerazione potrebbe essere rivista alla luce delle due osservazioni fatte: la distinzione tra il contenuto della legge morale ed il linguaggio in cui si esprime; la concezione dinamica della conoscenza della natura umana che è sottesa alla legge e la conseguente esplicitazione progressiva dei suoi contenuti. Le due osservazioni sono fra loro connesse poiché è proprio la non esauribilità dell’intima essenza della natura che non permette la formalizzazione definitiva della legge e quindi l’equazione tra il contenuto perenne e il linguaggio, sempre storico, con cui la legge viene formulata. L’umanità, come d’altra parte l’uomo singolo, costituisce un mistero che nessuna sua epifania può definitivamente esaurire. Con ciò non si vuole dire che il progressivo chiarimento del mistero comporti radicali contraddizioni con ciò che razionalmente era stato formulato prima, ma soltanto indicare il carattere dinamico che fa procedere la scienza morale con la «novità della vita» conferendo ad essa una agilità di puntuale presenza e di fecondo orientamento. Non pensiamo di aver indicato una facile strada poiché la distinzione tra ciò che è essenziale e quello che essenziale non è, è tutt’altro che pacifica, né è semplice separare il linguaggio che nasce, che fecondamente esprime e che poi muore nella sclerosi delle formule e nelle evasioni della retorica, da una essenzialità di contenuti perenni che chiedono una sempre nuova ed aggiornata formulazione e riferimento a condizioni nuove. Ci pare tuttavia un qualche contributo l’indicare una direzione di ricerca. L’ulteriore lavoro è eminentemente un lavoro di indagine storico-filologica e soprattutto di interpretazione. Pur nell’arduo compito delineato, ci sembra di poter in tal modo continuare a considerare valido il rapporto tra la moralità e l’umanità nella sua interezza, nonostante tante smentite della prassi e della cronaca. La presa di coscienza del carattere dinamico della ricerca morale, della precarietà e provvisorietà delle sue espressioni linguistiche ci permette di continuare in una dedizione ad ideali di umanità, capaci di dare un senso non solo momentaneo alla vita, sottraendola all’insignificanza quanto all’esaltazione episodica.

4. Una «nuova frontiera» per la vita morale

Il contesto dinamico di esperienza e l’intreccio di relazioni che definiscono, nella varietà del suo configurarsi, il rapporto umanità e moralità, danno luogo nel loro concreto esercizio a significative manifestazioni di vita morale. Passando dall’analisi concettuale e di struttura alla descrizione di esperienze, l’indagine ci può fornire contributi nuovi e illuminare con prospettive diverse i problemi già affrontati. Consideriamo, ad esempio, il salto qualitativo che si manifesta, nella concretezza dell’esperienza, tra l’ampia sfera intenzionale del vissuto e la norma etica nella sua formulazione concettuale. La tensione tra i due termini ci spiega come l’umanità, quale senso globale dell’esperienza umana, non coincida senz’altro con la moralità, ma ne ponga in questione modalità di esercizio e configurazione di norme. È in questo quadro che la moralità reperisce una sua nuova frontiera dinanzi alla norma necessariamente astratta nella sua formulazione.

Un’applicazione compiutamente umana della norma, per dar vita ad una moralità autentica deve continuamente mediare la norma stessa con concrete situazioni di esperienza. Questa mediazione è l’interpretazione. L’interpretazione verrebbe, in tal modo, ad assumere il ruolo di connessione tra moralità e umanità, essa è lo strumento di umanizzazione della morale quando la morale si presenti nel quadro astratto di una legge. L’esercizio dell’interpretazione richiede convinzioni teoriche, atteggiamenti pratici, sensibilità culturali che già abbiamo visto caratterizzare un adeguato rapporto tra moralità e umanità; l’interpretazione è la struttura, il criterio di questo rapporto. L’itinerario da seguire potrebbe essere indicato e riassunto nella formula: «umanizzare la morale mediante la interpretazione».

Per interpretare occorre innanzitutto andare al di là della lettera per attingere al centro genetico da cui scaturisce il significato della vita e della realtà. Ciò corrisponde a quanto si diceva sopra indicando come condizione di ogni possibile aggiornamento del linguaggio morale la connessione necessaria ma dinamica, con un centro di valore perenne. La compresenza di continuità e di mutamento, il carattere dinamico della moralità che si esplica attraverso il costante riferimento all’umanità, colta nelle sue espressioni storiche, ma insieme radicata nel centro di significato morale sotteso ad ogni dinamica esplicitazione, sono resi possibili dall’attività ermeneutica. Interpretare è infatti esplicitare, ridire, aggiornare, tradurre la norma nella novità della situazione. L’esercizio di questa attività interpretativa richiede proprio quell’«esprit de finesse» che gli humaniora studia, come si è visto sopra, contribuiscono così largamente a formare. L’esercizio di umanità è impegno di interpretazione. Ne discende una vita morale disciplinata ma non irrigidita nei modelli astratti, ricca di connotazioni esistenziali, rispettosa della originalità personale ma insieme sorretta da un quadro di valori perenni di cui ripropone costantemente nuove espressioni. Attraverso l’interpretazione, anche a livello morale, «in novitate vitae ambulamus».

Una concezione ermeneutica della vita morale può presentare anche quella difficoltà o produrre quei cedimenti irenici, onnicomprensivi, in ultima istanza evasivi, che abbiamo visto caratterizzare il rapporto di moralità e umanità, intesa quest’ultima come semplice disposizione o atteggiamento. Potremmo ripetere considerazioni analoghe a quelle già fatte in proposito; ci pare tuttavia opportuno aggiungere che una ulteriore garanzia di fronte alle difficoltà concrete ci può venire dalla struttura stessa della interpretazione. Per interpretare occorre un distacco, è necessario prendere le distanze: il distacco tra il contesto da interpretare e il criterio alla luce del quale compiere l’interpretazione; la distanza necessaria per scorgere, nel settore di esperienze da chiarire, i lati problematici e le questioni aperte. Tutto ciò impedisce un risolversi della coscienza nella situazione e rende impossibile un abbandono al contesto. La comprensione irenica non è interpretazione, ma riduzione del soggetto, non dà luogo ad una vita morale, ma piuttosto ad una fruizione immediata, vitalistica, estetistica della vita.

Sembra difficile oggi riproporre e portare innanzi un discorso morale. Atteggiamenti contestativi, di una contestazione a volte radicale, sembrano scoraggiare ogni discorso protreptico. L’esortazione morale viene esorcizzata. Si parla largamente di morale, ma in senso diverso da quello in cui la tradizione ci ha abituato a concepirla. Non si tratta infatti di una moralità come impegno della volontà a realizzare nella vita gli equilibri di una ontologia razionale, ma di una disincantata presa di coscienza delle situazioni in cui ci troviamo. La morale è soprattutto impegno al chiarimento critico, coraggio nell’assumere su di sé i termini di tale consapevolezza, decisione ad agire con consequenziale coerenza in base a questi dati. Non tanto la volontà quanto la conoscenza costituisce il centro della vita morale e l’oggetto della virtù; più che ravvisarsi in determinati contenuti, si risolve nelle condizioni formali come ad esempio la coerenza e la spregiudicata criticità. Nell’assenza di fondamento anche la solidarietà umana, la comunicazione interpersonale finiscono per giungere ad un irenico approdo al di qua di ogni giudizio, nella panica onnicomprensività a giustificazione semplicemente emotiva. Eppure anche in situazioni come queste è possibile attestare il discorso morale a una «nuova frontiera» che lo renda credibile.

La «nuova frontiera» passa attraverso l’interpretazione come umanizzazione della legge e attraverso la comunicazione autentica come superamento della semplice simpatia. A queste conclusioni ci sembra giungere il discorso fin qui condotto. Interpretare è comunicare, ove l’interpretazione si inserisce nelle aperture liberanti delle contestazioni di posizioni fissistiche, estrinseche alla vita spirituale e cristallizzate nella semplice ripetizione e, ove il comunicare toglie la coscienza da solitudini allucinanti, per situare i suoi drammi nella concretezza storica e nella connessione intersoggettiva. Affinché questa frontiera nuova sia la frontiera di una moralità nel senso forte del termine, la interpretazione e la comunicazione debbono ricevere una qualificazione ulteriore. Interpretare, secondo tutta un’ampia tradizione giuridica, è esercizio di giurisprudenza, applicazione della norma filtrata attraverso una sapienziale equità ed un attento lavoro di comparazione. L’umanizzazione della norma non si configura quindi come un’operazione riduttiva, nella direzione di un permissivismo irenico, ma si precisa coprendo lo spazio lasciato libero dalla essenzializzazione della norma con la dimensione umanistica, sapienziale della «prudenza» nel senso più propriamente classico del termine. Audacia critica, liberalizzazione quindi, ma accompagnata da un recupero dell’equilibrio nella vasta considerazione umana fatta di «esprit de finesse» e di cultura. Ne risulta un quadro di attività interiore ove la moralità non è presente come difesa strenua di una tradizione statica e nemmeno si risolve in un comprendere ove perde la sua identità. La vita morale è avventura, rischio, responsabilità ed insieme umanità qualificata da contenuti di valore essenzialmente indicati dalla norma e vitalmente acquisiti nella autonoma riflessione, un «vero» vichianamente calato nel «certo».

Comunicare, d’altro canto, non è una qualunque attività dedotta dalla semplice situazione intersoggettiva. Il comunicare comporta la messa in moto di una dinamica interiore ove l’acme comunicativo si raggiunge nella comunione, ossia nel riconoscimento teorico-pratico di ciò che fonda la comunicazione stessa, ossia la più intima realtà, costitutiva dell’uomo interiore. La comunicazione inizia come trasmissione di informazioni sul terreno neutrale di un rapporto chiaro e distinto. Essa, anche in questa sua forma elementare e funzionale, mette in moto un processo che ben presto supera l’aspetto teorico per addentrarsi sul terreno della comunicazione interpersonale. A questo punto gioca un ruolo notevole la simpatia. L’incontro avviene su un sentire comune, nella complessa realtà delle situazioni psicologiche, si colora di stati particolari e può, a volte, giungere fino al patologico. Se la comunicazione si fermasse qui avremmo non tanto una nuova frontiera della moralità, quanto una esigenza, un atteggiamento ove la moralità consiste soprattutto nell’esperire questa esigenza e nel porsi coerentemente in questo atteggiamento. La qualificazione della comunicazione verso l’orizzonte intenzionale della comunione costituisce un ulteriore sviluppo della dinamica intersoggettiva; il movimento non si esaurisce nel sottile piacere del calore del rapporto interpersonale, ma lo supera nella scoperta di un più profondo «vinculum unitatis» che consiste in quella presenza che Agostino ha così efficacemente descritto, ma che si può concretare anche nell’avvertimento cui, ad una rigorosa indagine fenomenologica, ciascuno di noi può pervenire: l’avvertimento di qualcosa che ci trascende e che pure è la più intima nostra radice, il punto su cui regge il nostro stesso consistere qualora ci ritiriamo dalla intensità dell’agire e ci raccogliamo nel centro locale di noi stessi.

L’orizzonte della comunicazione è certamente un elemento della sensibilità morale contemporanea, essa è richiesta come stimolo e come prova. Le parole comunicazione, comunità, comunione hanno il potere di suscitare una emozione intensa e di mobilitare energie latenti. La «nuova frontiera» della morale passa certamente attraverso l’area della comunicazione e, anche attraverso di essa, attinge una nota di umanità. La comunicazione è, come l’interpretazione, una umanizzazione della morale e incorre essa pure nelle difficoltà ireniche, prepredicative, evasive che si è visto essere concrete possibilità di una interpretazione che si arresti alla relatività dell’atto liberante. La comunicazione autentica supera però l’irenismo della simpatia, si solleva dalla sua mera funzione psicologica per attingere alle profondità cui si è accennato sopra. Il discorso morale contemporaneo nella sua più felice espressione assume la comunicazione come sua categoria e non gli è estraneo l’avvertimento di una ulteriorità interna al semplice comunicare.

5. Al di là dell’autonomia

Potremmo prendere in considerazione la situazione morale di oggi non tanto mettendo in luce gli spunti di superamento nel senso di una ripresa assiologica, ma piuttosto col delineare una situazione di fatto, facendo la diagnosi di un male che potrebbe anche rivelarsi incurabile, il «male radicale» che investe la stessa fondazione di una morale autonoma. Nelle considerazioni che seguono vorremmo partire da questa analisi ed aprire un problema che, in vero, esula dal tema specifico di queste pagine, ma che, in ultima istanza, le condiziona.

Il rilievo che il discorso morale assume nella cultura di oggi, come si è visto, non è in generale accompagnato da una sistemazione di contenuti, non è connesso ad un quadro di valori. La moralità è esigenza, rigore, protesta, sfida a situazioni empiriche, aspettativa. Al suo grande rilievo corrisponde tuttavia un’ampia povertà di realizzazioni, alla sua prepotente vitalità fa riscontro una violenta negazione. Si prende coscienza che ogni valore è travolto, che ogni significato si irretisce in una determinazione di mera soffocante funzionalità, quando non esploda, per ragioni uguali e contrarie, in violenza. La rilevanza del discorso morale oggi mostra la contemporanea fragilità di fatto della morale in se stessa. Per questo la moralità si umanizza spesso alla ricerca di un suo esercizio consolatorio. Ma facendo ciò non supera il suo problema, ne acuisce invece la disincantata consapevolezza tra rare parentesi di evasione emotiva ed irenica.

La moralità, in questa stagione di stimolante tensione, è ridotta alle corde; è giunta anche per essa l’ora della verità. La sua fragile consistenza sul terreno delle realizzazione è forse rivelatrice di una carenza teoretica che supera i limiti della contestazione circoscritta alla scena contemporanea. La profonda incertezza di fondazione teoretica della morale nella riflessione speculativa di oggi è segno evidente della situazione. Su questo piano la moralità, seppure accenni ad una intenzionale grandezza, manifesta soprattutto la sua sconcertante miseria. L’autonomia, grandezza della moralità, si rileva quale causa della sua precaria consistenza di fatto. Nel passaggio dall’ontologia fondante, secondo la concezione classica, alla attività autogiustificantesi, l’autonomia dimostra i propri limiti e rivela i possibili smarrimenti in cui incorre la scelta personale una volta che il quadro dei valori sia sconvolto o comunque privato di incidenza regolativa. Una morale, d’altra parte, elaborata con rigore scientifico, non regge nemmeno essa e finisce col mostrare aspetti disumani, per lo meno in molte applicazioni pratiche.

Di fronte a questa situazione ci si può chiedere se la moralità, colta nel momento della sua crisi, non riveli note caratteristiche che offrono la possibilità di un singolare rapporto con l’esperienza religiosa. Grandezza di aspirazione e miseria di realtà sono note tipiche di un presentarsi della coscienza in situazione radicale di fronte alla vita. Questa fenomenologia di miseria e grandezza o viene interpretata in sede religiosa, come una compresenza di elementi che soltanto la storia di peccato e di redenzione può spiegare e ricondurre ad unità su di un piano trascendente, o dà luogo ad una istanza morale che si ripiega su se stessa.

Ne può discendere, ad esempio, il lucido eroismo laico in cui Camus fa consistere la testimonianza morale entro la «curva dei giorni», ma nella cui sfera non è possibile compiere il salto qualitativo tra l’impegno per la «salute» e la speranza nella «salvezza». Questa morale si irrigidisce nella autonomia, ma così facendo si preclude la possibilità di attingere al fondamento. Se l’esistenza precede l’essenza, la scelta diventa esaltante, ma allucinante. L’«umanesimo» dell’esistenzialismo sartriano è una compiuta esemplificazione di tale prospettiva. Vi è in essa qualcosa di religioso in quel suo porsi in situazione limite, in quel suo presentarsi come una messa in questione radicale di se stessi. Ed insieme vi è qualcosa di decisamente antireligioso nel rifiuto di ogni mistero, di ogni abbandono e nell’assunzione di una totale responsabilità.

Filosofia e religione, filosofia morale ed esperienza religiosa vengono a porsi quindi in questa rivelativa situazione limite ove i noti termini hegeliani di una filosofia come avvenire, tramonto o morte della religione non sono più proponibili. Se nella religione vi è qualcosa di metadialettico che ne impedisce una giustificazione speculativa, tale situazione investe pure la filosofia morale qualora si ponga, come non può porsi, in situazione limite e nella radicalità della sua autonomia.

L’altra nota configurazione del rapporto tra morale e religione è quella kierkegaardiana ove è la religione che fiorisce sulla messa in questione e talvolta sulla messa in iscacco, della morale. Kierkegaard delinea un rapporto — il passaggio dalla vita etica a quella religiosa — che si avvicina a situazioni, a dati, a possibilità che la fenomenologia della vita morale di oggi fornisce, se colta nella sua situazione limite. La crisi della moralità è anche crisi di una autosufficienza che impedisce l’autenticità di una fede religiosa e quindi ne apre per lo meno la possibilità, possibilità di qualcosa che, d’altra parte, è vivacemente richiesta.

A conclusione del discorso fin qui condotto sui rapporti tra moralità e umanità vorremmo chiederci se la posizione kierkegaardiana, che trova non poche risonanze nella situazione morale di oggi, non riceverebbe un approfondimento che, a dire il vero, determinerebbe una diversa angolatura, alla luce di un equo rapporto tra moralità e umanità.

L’umanizzazione, nel suo ruolo di feconda interpretazione e di comunicazione interpersonale, porta nella vita morale una nota di disponibilità, di apertura che libera la moralità da apparati irrigiditi nel formalismo, freddi e quindi incapaci di comunicare il vivace senso della concretezza.

Se la vita morale si svolge attraverso un duttile esercizio dell’interpretazione, i valori non vengono ipostatizzati ma si presentano senza determinare una deduzione garantita. L’esperienza morale quindi non si contrappone al raccoglimento trepido, all’abbandono fiducioso al non dimostrabile, che sono tipiche note della coscienza religiosa. La comunicazione che vada alla ricerca di una nuova universalità interiore piuttosto che consumarsi nella soggettività della semplice simpatia, colora essa pure la vita morale di tonalità e la sostanze di contenuti che richiamano quell’atmosfera religiosa che ci solleva dal particolarismo per aprirci ad una universalità che si estende all’umanità intera. In tale universalità anche i particolari rapporti interpersonali cambiano di segno.

L’umanità, intesa in entrambe le accezioni di disposizione interiore (umanità come virtù) e di universalità di riferimento (umanità come umanità intera) conferisce alla moralità una struttura e modalità d’esercizio per cui la morale e l’esperienza religiosa non si pongono necessariamente in alternativa, come in vario ed opposto modo succede per Hegel e per Kierkegaard, ma disegnano invece una fenomenologia dello spirito che le vede compresenti. Tale fenomenologia non si traduce mai in un compiuto inveramento logico, ma tiene aperto il «bel rischio» della ricerca accanto all’avvertimento di una ulteriorità che trascende ogni problema.