Recensione a Vincenzo Rosito, Michele Spanò, I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea

Vincenzo Rosito, Michele Spanò, I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea, Carocci, Roma, 2013, 250 pp., 23,00 €.

Vincenzo Rosito e Michele Spanò scrivono a quattro mani il presente volume che possiede l’indubbio pregio di introdurre alla conoscenza della filosofia sociale contemporanea, oltre a fornire nel contempo un’utile definizione della materia, che soffre, praticamente da sempre, della sua natura atipica nel ventaglio, pur amplissimo, delle discipline filosofiche, stretta com’è tra antropologia, filosofia politica e filosofia pratica.

Il testo, corposo nel numero di pagine, e densissimo, da un punto di vista concettuale, dovendo gli autori condensare in poco spazio i nutriti nuclei concettuali presi in considerazione, consta di una introduzione e di cinque capitoli, ciascuno dei quali significativamente declinati al plurale ed indicanti specifici verbi della grammatica propria della (presente prospettiva prescelta di) filosofia sociale.

Prima, però, di esaminare i principali concetti dei filosofi sociali contemporanei, gli autori si premurano di fornire un inquadramento di massima della disciplina. Essa «indaga […] i nessi sociali che precedono e consentono ogni messa in forma istituzionale» (p. 9), quei legami tra attori sociali i quali, per loro specifica natura, stanno sia prima sia durante ogni manifestazione istituzionale dei comportamenti sociali. In ogni caso, gli autori sostengono una prospettiva neutra della disciplina, concepita come mera diagnosi dei nessi sociali quali emergono spontaneamente, ed in nessun caso si prefiggono finalità normative o valutative della società umana. Al contrario, per essi la filosofia sociale «descrive tipi diversi di normatività» (p. 10), vale a dire procede alla «descrizione dei regimi di normatività che percorrono la società e che sono dunque la premessa […] per poterla eventualmente criticare e trasformare» (p. 10). Detto altrimenti, la filosofia sociale non si presenta come una critica della società, come una prescrizione ideale di organizzazioni alternative della stessa, quanto piuttosto come discorso della società. Il teorico viene chiamato in causa per poter «dire» la società. I due termini plurali del titolo stesso esprimono proprio la prospettiva presente: un’analisi congiunta dei differenti poli della «dimensione associativa umana» (p. 11). La società, infatti, conseguentemente a questa concezione, «è il “luogo comune” di soggetti e poteri» (p. 11), quel «luogo in cui si situa la filosofia sociale» (p. 11) chiamata a compiere «un’indagine dinamica dei rapporti interni a soggetti e poteri […] e del loro modo di comporsi» (p. 11), sia che si tratti di politica sia che si tratti di conflitto sia che si tratti di democrazia. Pertanto, essa viene compiutamente concepita, e perseguita, come «una forma di critica immanente al proprio tempo» (p. 13) poiché «descrive il rapporto tra i soggetti e i poteri in una data epoca» (p. 13) e «diagnostica le forme degli uni e degli altri» (pp. 13-14), riflette in maniera critica «sulla trasformabilità della condizione presente» (p. 14) e offre «gli strumenti per dare corso a questa trasformazione» (p. 14). I soggetti e i poteri, pertanto, non si danno come ‘cose’, ma sempre come ‘discorsi’. Di conseguenza, allora, la filosofia sociale opera sul linguaggio, «sui suoi limiti e le sue potenzialità, sul suo carattere vincolante e su quello abilitante» (p. 14).

In quanto critica teorica della società immanente al suo stesso tempo, la filosofia sociale non può che prendere in considerazione le forme linguistiche delle pratiche sociali ove debbano farsi emergere in modo particolare i relativi nessi sociali. Di conseguenza, allora, il primo capitolo del volume prende le mosse da un verbo particolare, vale a dire Riconoscersi. Per gli autori presenti, esso significa gettare uno sguardo sulle pratiche del riconoscimento. La scuola di Francoforte è, al riguardo, il punto focale di tale discorso in quanto si cerca di fornire importanti chiavi di lettura per lo spaesamento moderno della soggettività, oramai incapace di riconoscersi. Ma non basta certo denunciare il processo alienante del sistema di produzione capitalistico per salvare il soggetto, è necessario piuttosto spostare il discorso sulle «pratiche discorsive in seno alle quali il sociale prende forma e la realtà viene cooperativamente costruita» (p. 22). Habermas ha, cioè, mostrato come il discorso critico dei francofortesi possa prestarsi fruttuosamente per una fondazione del riconoscimento pubblico degli attori sociali, riconoscimento che passa però espressamente per una razionalità discorsiva. È tuttavia con Honneth che la pratica del riconoscimento viene fattivamente riconosciuta come tale e presa seriamente in considerazione. Egli, infatti, «intende fornire principalmente una concezione critico-normativa dei processi costitutivi dell’autocoscienza e del valore strutturalmente produttivo del conflitto e del dissenso» (p. 27). Attingendo al lascito culturale di Habermas da un lato e di Foucault dall’altro, Honneth si propone come interprete della secolarizzazione, vale a dire dell’attuale disagio della civiltà occidentale stretta dalla perdita della propria centralità secolare e pressata da potenti forze esterne. Solo attraverso il cooperativo riconoscimento dell’identità singola con l’identità dell’altro appare possibile rinnovare il processo del dialogo tra soggetti. Così, nell’interazione sociale viene a giocare un ruolo fondamentale «il riconoscimento sociale» (p. 32). Di conseguenza, appare lecito affermare come la «teoria del riconoscimento si configura principalmente come teoria interpretativa del conflitto sociale in quanto teoria critica e diagnostica delle patologie sociali» (p. 33). Ovviamente, la filosofia sociale non guarda solamente a questo apparato teorico, ma prende in considerazione anche ben altri registri, come la teoria del dono, equiparato ad un vero e proprio «modello sociale onnivalente» (p. 41), una struttura sociale ubiquitaria. In modo particolare, esso appare congeniale alla filosofia sociale perché inquadra i rapporti sociali in una relazione non basata sul «ritorno utilitaristico dei beni donati» (p. 41). Con la donazione, in altri termini, si instaura una «circolarità virtuosa» (p. 46) del dare, del ricevere e del ricambiare che realizza una «costituzione partecipata di rapporti sociali» (p. 46). Tuttavia, non tutti concordano sulla natura disinteressata della donazione la quale, a parere del «modello fenomenologico» (p. 46), piuttosto, realizzerebbe una «circolazione interessata di beni» (p. 46). Derrida è uno dei massimi esponenti di questa teoria ed oppone dono a reciprocità nello scambio. Recentemente, si è anche insediato un altro modello filosofico che prende il nome di filosofia della cura. Essa «descrive infatti un modo delle relazioni sociali attraverso il quale prende forma una specifica gestualità morale: quella dell’interessamento pratico, della sollecitudine affettiva e della tutela etica» (pp. 59-60). Prendendo atto della consustanziale vulnerabilità umana, la nozione di cura esprime una tipologia di relazioni sociali fondate appunto sull’interessarsi del destino esistenziale altrui e del prendersi cura dei propri simili, al punto da configurarsi come la «possibilità di una base etica condivisa tra pubblico e privato» (p. 53). La filosofia politica moderna, invece, ha orientato la propria riflessione attorno al rapporto davvero problematico della libertà e dell’eguaglianza. Basti pensare a Rawls, per il quale la giustizia è «la categoria primaria dell’analisi filosofica delle interazioni sociali» (p. 61), nonostante molta critica abbia invece ravvisato l’insufficienza del modello distributivo della giustizia ad «analizzare e gestire la complessità delle società globalizzate» (p. 61). Invece, si «originano crescenti conflitti e discriminazioni sociali» (p. 61) a seguito di «istanze di tipo identitario» (p. 61). Rawls non offre risposte a problematiche di questo genere, le quali, infatti, non consistono in una rivendicazione di «maggiore eguaglianza economica o di una più equa redistribuzione materiale» (p. 63), ma nella richiesta di «rispetto sociale per quei valori e per quelle pratiche rispetto ai quali i singoli membri si percepiscono parte integrante di un gruppo o di una comunità» (p. 63). Ne emerge, pertanto, come nei coevi conflitti sociali un ruolo sempre maggiore venga ad essere svolto dall’«identità sociale» (p. 65), la quale sviluppa due distinte funzioni: 1) identificare i gruppi sociali di appartenenza dei singoli a determinate categorie, in funzione delle quali si possono formulare in maniera corretta le «realtà materiali o immateriali che definiamo beni sociali» (p. 65); e, 2) solo in base ad essa, ciascun individuo «matura quelle capacità specifiche con cui è in grado di percepire il mondo come proprio e sé stesso come membro di una determinata comunità» (p. 65). Il riconoscimento di un ruolo importante per l’identità sociale, e la riscoperta del suo ruolo all’interno delle teorie economiche, è uno dei grandi meriti di Sen, secondo il quale il grande limite delle teorie economiche contemporanee è di muovere «dall’illusione dell’unicità» (p. 66), vale a dire ignorare come alla base dell’identità sociale possano esservi processi arbitrari e decisionali che sperimentano e sintetizzano appartenenze diverse in base al genere sessuale, alla lingua, alle abilità pratiche e alle conoscenze culturali. Pertanto, l’equità sociale andrebbe valutata «in relazione alle modalità concrete che permettono a ciascuno di realizzare funzioni e di sviluppare competenze reali» (p. 67). La qualità della vita, infatti, non dipende solamente dalla disponibilità di ricchezze appropriate, ma «anche dalla disponibilità che i beni di cui ciascuno dispone siano in grado di sviluppare capacità personali e di dispiegare appieno le funzioni o le potenzialità pratiche e cognitive degli individui» (p. 68). La libertà per Sen consiste, pertanto, «nella disponibilità concreta ed equamente garantita» (p. 68) delle condizioni che rendono possibile il dispiegamento delle capacità individuali.

Il secondo capitolo del presente volume s’intitola Governarsi e pone al centro della riflessione la concreta forma di organizzazione politica attraverso la quale i soggetti si pongono in relazione a dei poteri. La filosofia sociale guarda alla democrazia «come un dato sociologico» (p. 72), ravvisandone anche l’«ineliminabile componente emotiva, affettiva, passionale» (p. 72). In questo modo, ad esempio, per Tocqueville la democrazia non è una forma di governo, ma «uno stato della società» (p. 74), segnatamente quella condizione che si realizza con la scomparsa dell’aristocrazia e con l’estensione universale del principio di eguaglianza. Ma alla pari di Tocqueville, Mill riscontra la necessità del governo di una società la quale proprio perché plurale è «mossa da interessi e desideri diversi» (p. 76). Così, la filosofia sociale si trova a lavorare su questo terreno, «l’antropologia dell’homo democraticus contemporaneo» (p. 77). La disamina dei mutamenti nei desideri dei soggetti relati da diversi poteri è alla base della ricognizione foucaltiana intorno ai governi delle società. Foucault conia appunto il concetto di governamentalità, vale a dire «una specifica razionalità di potere» (p. 81) che non si identifica né con un’istituzione né con una teoria. Essa si rivela un «dispositivo articolato secondo una duplice polarità: il governo di sé e il governo degli altri» (p. 82). Questo concetto permette a Foucault di criticare il modello giuridico e polemologico del potere, di rendere più chiaro il rapporto tra tecniche del sé e tecniche del dominio, di estendere il campo del potere sino a poterlo descrivere «come un gioco strategico, come governo e come dominio» (p. 86). Il principale lascito teorico di Foucault alla filosofia sociale appare essere quello di aver suggerito come il potere non debba essere analizzato in funzione di una sua pretesa essenza, ma «nei modi specifici in cui si esercita» (p. 89), cioé come entra in contatto con i soggetti. Accanto alle presenti riflessioni, esistono comunque anche altri registri teorici. Tra questi si ha la «teoria della scelta razionale» (p. 94) secondo la quale è bene vagliare «le proprietà logiche e la desiderabilità normativa di meccanismi alternativi per aggregare preferenze individuali in decisioni collettive» (p. 94). Essa ha il merito di porre in questione un’idea di democrazia che si risolve nel momento elettorale, puntando piuttosto il dito nella direzione del «sovrapporsi di preferenze individuali nel momento della decisione» (p. 95). D’altra parte, però, la critica alla democrazia va di pari passo alla crisi della stessa. Per rispondere a quest’ultima, Sintomer propone la procedura del sorteggio perché garantisce «imparzialità e favorisce la qualità della deliberazione» (p. 103). Si tratterebbe, per dirla altrimenti, di uno strumento democratico che impone «il principio di eguaglianza» (p. 103). Nonostante ciò, però, esiste un grosso limite alla pratica in questione. Infatti, a chi rispondono quanti sono eletti per sorteggio? Si tratta, allora, del problema di «un equilibrio tra la procedura del sorteggio e il rispetto di una rappresentanza sociologica della società» (p. 103). A fronte di questi problemi, altri autori hanno proposto modelli teorici del tutto differenti, come nel caso dei comunitaristi. Per tutti costoro, infatti, la comunità è un «modo di abitare la società, un modo di farne esperienza» (p. 106). Le principali fonti di questo filone di pensiero sono Tönnies e Bataille. In Esposito, che si relaziona con questa eredità, la biopolitica va vissuta non come una politica sulla vita, bensì come una politica «»della» vita» (p. 112). Per Nancy, invece, la comunità è il luogo «dell’esposizione delle esistenze finite» (p. 120). Ma se Esposito prende congedo dal tema della soggettività, non sembra corretto equiparare tale tendenza all’intera corrente la quale, al contrario, sembra mostrare una netta preponderanza a mettere al centro della riflessione proprio il soggetto, anche se non si tratta necessariamente di un soggetto umano. Per la filosofia sociale della comunità, pertanto, «l’altro, il simile, non è riconosciuto perché uguale a me» (p. 123) dal momento che non esiste una comune origine «cui fare riferimento» (p. 123). Se ciascuno «è il suo fuori, è solo nella propria esteriorità che ci si riconosce simili» (p. 123). La comunità è appunto quel regime ontologico «in cui l’uno e l’altro sono simili» (p. 123), in cui cioé «l’identità è sempre spartita e perciò sempre perduta e mai posseduta» (p. 123). Di conseguenza, la progettualità politica da descrivere cui si mette capo non è quella comune dei diritti, dei doveri, delle tutele, dei contratti, del consenso, ma quella dell’esperienza, vale a dire «un’esperienza della spartizione, dell’inoperosità e della comunicazione dell’una come dell’altra» (p. 126). La riflessione di Nancy però spinge il pensiero sulla comunità, e con essa la stessa filosofia sociale, ben oltre tutto ciò, attestandosi piuttosto su una «prospettiva ontologica sulla politica» (p. 126). Peraltro, tutto il fiorire di filosofie fenomenologiche nel corso del XX secolo ha a cuore la tematizzazione del rapporto tra il soggetto e l’altro al punto che non è scorretto né esagerare affermare che proprio questo sia uno dei temi che «definisce la stessa struttura dell’essere» (p. 128). Il pensiero non può che correre a Lévinas, piuttosto che ad Husserl o ad Heidegger, i quali pure hanno comunque impostato un certo tema del rapporto suddetto. Ma è nel filosofo francese che giunge a completa sistemazione la riflessione sul rapporto tra singolo e alterità. Peraltro, siccome si tratta in ogni caso di una serie di tentativi tesi ad intaccare «il primato del soggetto» (p. 130), questa reinterpretazione lévinasiana della filosofia prima nei termini di un’etica della diversità riguarda molto da vicino proprio la filosofia sociale, in quanto consente di porre l’attenzione in maniera diversa sull’essere-in-comune, sull’essere-con, sul con-esserci della comunità, e, dunque, della socialità stessa. Infatti, l’«essere-sociale è la vera questione ontologica» (p. 134) che non si cristallizza in alcun simbolo.

Il terzo capitolo del presente volume s’intitola Sollevarsi e si occupa principalmente della sovversione del soggetto ad opera di psicoanalisi e marxismo. Grazie a Freud, sappiamo che il soggetto è perfino estraneo a sé stesso, in alcun caso «padrone e sovrano dei suoi atti e dei suoi pensieri» (p. 137). La sovversione nei confronti del sovrano assoluto della filosofia occidentale è radicale ed impone una riflessione del tutto diversa del rapporto tra i singoli, così sottodeterminati dal giogo dell’irrazionalità, e i poteri, così determinati da logiche estranee alla razionalità occidentale. Peraltro, la civiltà finisce ora con l’apparire la negazione stessa della naturalità degli esseri umani, come una gabbia che irretisce gli uomini. La psicoanalisi, dal canto suo, diviene una «pratica di orientamento del desiderio e della sua soggettivazione singolare da parte di ciascuno» (p. 143). Tuttavia, la nota comune all’ipermodernità che stiamo attraversando, secondo Recalcati, è caratterizzata dal trionfo del discorso del capitalista, vale a dire che la continua archiviazione del desiderio, altrimenti non soddisfacibile in alcun caso, nell’inconscio dove però continua ad operare, provoca l’evaporazione stessa del desiderio. Otteniamo, pertanto, un soggetto «colpevole, ma non dotato di senso di colpa» (p. 145). A primeggiare, così, è solamente l’Es. L’elemento, però, che maggiormente colpisce nel panorama contemporaneo è il conflitto, ossia l’esistenza di un legame sociale il quale si realizza solamente nella forma dello scontro. Pertanto, gli autori mettono assieme, proprio con riguardo alla tematizzazione del conflitto, autori l’uno diverso dall’altro, come Gramsci, Schmitt e Althusser. Questo perché essi sono accomunati da una comune maniera di concepire la società, vale a dire un «campo di lotta» (p. 147), di «visioni parziali di verità che lottano per istituirsi come universali» (p. 148). Tuttavia, il presente discorso sulla contesa di parzialità che vorrebbero imporsi come generalità incrocia il discorso sui significanti, ossia sui meccanismi sociali di riconoscimento e identificazione per mezzo dello scontro tra opzioni diverse e sovente contrarie. Per Mouffe, ad esempio, «ogni ordine sociale è caratterizzato da una fondamentale contingenza» (p. 156), «esito di un antagonismo, di una lotta per l’egemonia» (p. 156). Quindi, il sociale non è dato una volta per tutte, ma costruito secondo le logiche del conflitto, vale a dire che «è fondato sull’esclusione di qualche possibilità» (p. 156), che non è comprensivo, ma esclusivo. Piuttosto, è proprio il carattere identificativo del conflitto antagonistico a strutturare lo spazio sociale, la contesa per l’egemonia. Tuttavia, questo conflitto per l’affermazione generale di una prospettiva singolare quanto parziale rivela solamente, per dirla con Žižek, che «l’universale risiede proprio nelle eccezioni e nelle contraddizioni esterne e interne alla totalità sociale» (p. 171). Il fatto poi che ciascuno scelga singolarmente «con chi stare» delinea la declinazione ontologica della politica perché ciascun elemento della coppia «ha bisogno del suo contrario per sussistere e definirsi» (p. 172). Pertanto, illusoria appare a Žižek l’immagine statica dell’ordine sociale, dal momento che «è realmente politico soltanto quest’Atto di sovversione dell’Ordine» (p. 173).

Il quarto capitolo del volume ha come titolo Nominarsi ad indicazione dell’orizzonte tematico prescelto: l’esame del rapporto tra i soggetti e i poteri «interrogandosi criticamente sul soggetto» (p. 175). La filosofia sociale deve stavolta prendere in considerazione tutti quei fermenti e quelle idee che l’antropologia, la relatività della cultura postcoloniale e la differenza sessuale offrono alla sua tematizzazione. Infatti, mentre il postcolonialismo chiede al soggetto «della filosofia sociale da dove parla» (p. 175), il femminismo gli «chiede chi è» (p. 175). Il soggetto viene così decostruito dalla forma generale ed occidentale quale è stato conosciuto in filosofia, per assumere ben altri volti e per esprimere così esigenze differenti. La ricerca del chi del potere delinea in questo modo un orizzonte semantico decisamente innovativo, per non dire differente dalla tradizione consolidata. D’altra parte, senza antropologia culturale e studi postcoloniali non sarebbe possibile intendere in maniera diversa la storia occidentale, né tantomeno «la misura o lo standard attraverso cui misurare ogni altra storia» (p. 192). In questo modo, inoltre, decostruire la razionalità occidentale consente di porre in essere «una continua autocritica» (p. 197). Anche il femminismo critica l’usurpazione dell’universale da parte di una parzialità. Per di più, contesta «la stessa forma simbolica dell’universale» (p. 199), un prodotto come tanti altri «del pensiero maschile» (p. 199). Bisogna così abbandonare il dualismo sinora imperante, anche se occultato dietro le parvenze di generalità ed universalità, «per aprire le forme del sapere all’esperienza femminile» (p. 199). L’idea di una differenza sessuale da far valere anche in sede teorica comporta il dover mutare punto di partenza per le riflessioni filosofiche: non più concetti o modelli generali, ma la particolarità di corpi gli uni differenti dagli altri. Per Butler, ad esempio, la differenza sessuale è «una delle norme che rende possibile il soggetto» (p. 207), vale a dire che lo rende «intelligibile e leggibile nello spazio sociale» (p. 207). In altri termini, va disinnescata «la polarizzazione tra natura (il sesso e il femminile) e la cultura (il genere maschile)» (p. 207). Il soggetto, cioè, non esiste né prima né dopo la corporeità, la dimensione della differenza corporale. Solo così diventa spiegabile la maniera attraverso la quale la costruzione del soggetto abbia sempre comportato un’esclusione: «se porta qualcosa nel campo della lingua […] lascia fuori qualcos’altro» (p. 208).

Il quinto, ed ultimo capitolo, s’intitola Immaginarsi. La natura del titolo non è casuale, dal momento che i processi di globalizzazione in atto appaiono così irresistibili e violenti da porre al filosofo sociale il compito, certo difficile anche se non impossibile, per il mezzo della critica, di «creare le condizioni di possibilità per nuove configurazioni di senso all’interno della prospettiva globale» (p. 211). La cd. globalizzazione non descrive un’estensione globale delle relazioni, dei saperi e delle pratiche, ma indica il fatto che «questi mutamenti interessano trasversalmente discipline diverse e ambiti differenti del sapere» (p. 212). Di fronte a questo scenario, peraltro attualmente in corso, e dagli esiti incerti, il compito della filosofia sociale è quello di «rinvenire ambiti e significati in virtù dei quali possano essere “immaginati” funzioni, ruoli e saperi in grado di limitare gli eccessi in-globanti del capitalismo contemporaneo» (p. 213). D’altra parte, è anche vero che i soggetti sociali «sono attori non statali» (p. 214), ma planetari. Lo sfumare dei contorni nazionali è anche l’orizzonte di senso del fenomeno meglio conosciuto come glocalismo, vale a dire la «formazione e la rivendicazione crescente di identità culturali locali, che tendono ad accentuare fortemente alcuni tratti particolaristici di tipo etnico o religioso» (p. 216), apparentemente forme locali di resistenza all’omologazione planetaria, in realtà «parte integrante di quel processo di omologazione» (p. 216). I processi di globalizzazione, in altri termini, impongono di tener debitamente conto di tre differenti elementi: 1) lo sganciamento da forme e vincoli sociali precostituiti in senso tradizionale; 2) perdita delle sicurezza tradizionali; 3) istituzione di un nuovo tipo di legame. In questo senso, appare importante il contributo della prospettiva interculturale la quale cerca di «giudicare determinati contesti sociali nella misura in cui questi creano rappresentazioni di culture considerate estranee» (p. 225). Sicché, l’«interazione reciproca e la compenetrazione dialettica tra cultura e politica rappresentano infatti il vero polo duale intorno al quale è possibile ripensare la categoria di umanesimo come ambito di interpretazione e di critica del mondo contemporaneo» (p. 226).

Come lo sfondamento dei confini nazionali impone un ripensamento alla dialettica tra la politica e la cultura, allo stesso modo anche lo sfondamento degli orizzonti culturali della biologia impone una nuova riflessione attorno all’umano. L’essere umano, perché soggetto della tecnica, «si presenta come l’unico essere vivente capace di attivare processi di modificazione riflessiva e ragionata delle coordinate naturali in cui è iscritto» (p. 227). La filosofia sociale, dunque, deve porsi in dialogo con l’antropologia della tecnica, in quanto quest’ultima si configura come «una disciplina imprescindibile e un campo tematico necessario» (p. 227). Essa, infatti, «è indispensabile per comprendere e interpretare i mutamenti antropologici in atto nelle società contemporanee, in relazione ai recenti sviluppi delle nuove tecnologie» (p. 229), in maniera tale che la filosofia sociale possa soffermarsi «su queste trasformazioni» (p. 229) individuando quelle categorie «in grado di valutarne la portata e i significati» (p. 229). Su tutti i temi importati dall’antropologia della tecnica ne spicca uno: quello «dell’identità personale» (p. 233).

Un altro aspetto che la condizione postmoderna della società umana planetaria impone è quello relativo all’autocoscienza religiosa. Negli ultimi anni è tornato di moda il sentimento religioso al punto che la filosofia sociale non può sognarsi di ignorarlo. Così, essa si trova costretta a prendere in considerazione gli effetti di tre elementi necessari: «le credenze, i riti e le istituzioni» (p. 234). Su questi gioca adesso un ruolo imprescindibile il pluralismo religioso, il quale irrompe «in tempi e forme molto spesso inaspettati» (p. 237). Infatti, è al suo interno che si colloca l’orizzonte «in cui interpretare le implicazioni sociali e politiche di tali mutamenti» (p. 237).

Come si vede, pertanto, da un lato la filosofia sociale è debitrice nei confronti di molte altre razionalità «sorelle», e dall’altro lato rivendica con forza una sua autonomia disciplinare che si concreta sempre più in un’indagine non statica dei legami sociali, quali vengono mandati ad effetto dalla dialettica dei soggetti e dei poteri.