Ontologia in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice «è»

Parmenide era molto vecchio, tutto bianco,

ma la cera l’avea buona e bella.1

1. Premessa

Siamo debitori nei confronti di Parmenide, tanto rispetto al suo apporto alla filosofia occidentale quanto nei confronti della sua elaborazione culturale in merito agli usi del verbo essere. È vero che, generalmente, in filosofia le due cose vanno di pari passo, ma è bene in questa sede, almeno preliminarmente, tenerle separate al fine di far evincere al meglio la particolarità della novità speculativa costituita da Parmenide nei primi travagliati vagiti della riflessione filosofica occidentale.2 D’altra parte, come diverrà più chiaro in seguito, ci riferiamo al filosofo eleate come all’autore di una vera e propria “svolta ontologica”, tanto rispetto ai filosofi precedenti quanto rispetto ad una data maniera di concepire il “mestiere” filosofico, il “fare filosofia”, il pensare alla realtà circostante.

Nell’intraprendere questa ricerca, ci sentiamo confortati dalle parole di Berti quando scrive che la

filosofia greca è sta la prima forma di cultura che ha esplicitamente tematizzato l’essere, inaugurando quel tipo di riflessione che, in età moderna, è stato chiamato «ontologia».3

Ed è proprio Parmenide a stendere, per la prima volta in maniera compiuta, questo genere di discorso, ad intraprendere questo tipo di ricerca. Come aggiunge poco oltre ancora Berti:

Il primo filosofo ad occuparsi dell’essere è Parmenide […] A suo avviso, infatti, l’essere è l’unica possibilità che si offre al pensiero e al discorso umano: il pensare e il dire sono necessariamente pensare e dire l’essere.4

Senza Parmenide cosa penseremmo? E come lo diremmo? Anzi, senza Parmenide, forse, non potremmo nemmeno pensare e dire qualcosa, formulare pensieri ed articolare discorsi che possano avere un senso riconosciuto come tale.

2. Simulacri e mancate verità

In un recente testo, Berto se la prende con la received view del parmenidismo contemporaneo secondo il quale il filosofo eleatico sarebbe «il primo di una schiera di filosofi accomunati dall’affermazione che tutto esiste».5 A ben guardare, però, si tratta di una tesi a dir il vero piuttosto riduttiva dello specifico sostenuto dal filosofo antico. Eppure, è una posizione che, almeno in Italia, anche in tempi recenti, ha attecchito in modo particolare. Un esempio su tutti è costituito da Severino secondo il quale

L’essere […] non è la totalità che è vuota delle determinazioni del molteplice (Parmenide), ma è la totalità delle differenze, l’area al di fuori della quale non resta nulla, ossia non resta alcunché di cui si possa dire che non è un nulla. L’essere è l’intero del positivo.6

Come sostiene Galvan, «Nel pensiero di Severino esiste, naturalmente, una teoria dell’apparire — di origine idealistica».7 L’opinione di Galvan è certamente vera se riferita a Severino, come quella di Berto è pure vera se ricondotta all’analisi, e valutazione, della prospettiva teorica di Severino, una sorta di (neo) parmenidismo, tuttavia Parmenide non dice affatto questo, non sostiene che tutto esista (e non possa cessare di esistere). Il suo discorso, e la relativa bontà speculativa, è diverso, e va illuminato appropriatamente, pur facendo i dovuti conti con le poche informazioni di prima mano che il tempo stitico ci ha elargito.

Allora, è forse vero che bisogna tornare a Parmenide, anche per metterne a fuoco la specificità della svolta ontologica.

3. Se è, cosa non è?

Purtroppo, disponiamo soltanto di pochi frammenti della principale opera parmenidea, il Peri Physeos, Sulla natura. In essa, il filosofo parla dell’essere, e questo accade per la prima volta dopo i vagiti dei cosiddetti fisiologi8 Talete, Anassimandro e Anassimene. Per di più, Parmenide ne enuncia quelle che, a suo dire, sono le sue proprietà. In modo particolare, laddove i primi filosofi individuano un “principio materiale” all’origine di tutte le cose, Parmenide, invece, coglie l’aspetto complessivo della realtà, il fatto stesso del suo avere luogo. Non cercando più in questo modo una causa, un arché, il filosofo elate prende in considerazione la realtà per intero, il suo stesso esistere. In questi termini egli parla di essere, ossia di quanto è, di quanto può essere pensato (e detto). Nelle parole del filosofo,

Ora, io ti dirò — e tu ascolta e ricevi la mia parola — quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare: l’una che “è”, e che non è possibile che non sia — è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità — l’altra che “non è”, e che è necessario che non sia. E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende. Infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile, né potresti esprimerlo.9

Questo frammento viene giustamente considerato da Tonelli il frutto di una scrittura «iniziatica»,10 il prodotto «di un’esperienza mistica».11 In effetti, le origini stesse della filosofia vengono individuate nel sapere sapienziale, una sorta di sapere a metà strada tra il teologico e lo sciamanico. Si tratta, pertanto, di un’origine, per così dire, ordinaria, quasi normale in forme culturali così antiche. Allora, le parole di Parmenide sembrano descrivere un’esperienza misterica, sciamanica. Nelle parole di Colli

l’estasi misterica, in quanto si raggiunge attraverso un completo spogliarsi dalle condizioni dell’individuo, in quanto cioè in essa il soggetto conoscente non si distingue dall’oggetto conosciuto, si deve considerare come il presupposto della conoscenza, anziché conoscenza essa stessa.12

L’iniziato esce fuori di sé (fr. 28B 1 DK) per giungere a diretto colloquio con la fonte esterna di conoscenza, la dea, theà, che illustra a Parmenide il contenuto della conoscenza, due vie e le uniche possibili, odoì moûnai dizhèsiós eisi nohêsai, che si possono intuire, pensare.

La traduzione di Tonelli insiste sul carattere misterico del linguaggio parmenideo mentre tutte le altre traduzioni preferiscono rendere ‘nohêsai’ con ‘pensabili’, che si possono pensare. Il passo è importante in quanto, sempre secondo Tonelli, Parmenide formula per la prima volta nella storia del pensiero occidentale una delle sue strutture fondamentali, il principio di non contraddizione, insito appunto nel significato greco di ‘dízhesis’, discernimento, separazione, distinzione. E Parmenide, per l’appunto, distingue tra due vie di ricerca, l’una che “è”, e che non è possibile che non sia, he mèn ópos éstin te kai os ouk éestin mhè eînai; il “sentiero della Persuasione”, dal greco ‘Peithó’, uno degli attributi della divinità dell’Amore, fascinazione, seduzione, convinzione. Nella trama simbolica della parola ‘iniziatica’, ‘sciamanica’, ‘misterica’, si fa strada la «necessità razionale»,13 la persuasione cioè conduce alla verità, Alhetheíhei gàr ophedeî, la via che dice che l’essere è e non può non essere. La parola della dea, pertanto, fa da tramite, congiunge; costituisce allora «il punto in cui la misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con quella umana, si manifesta nell’udibilità, in una condizione sensibile»,14 e accompagna Parmenide alla conoscenza.

L’altra via pensabile è quella che “non è”, e che è necessario che non sia, he d’os ouk éestin te kai os chreón esti mhè eînai. Dunque, l’essere si contrappone al non — essere, l’uno è, l’altro non è, il primo è esistenza, il secondo è non esistenza. Qui Parmenide conia un registro linguistico dal quale il nostro Occidente non potrà più prescindere, gli usi della copulazione, ossia dell’«è», la struttura base delle frasi. Nelle parole di Moro, apprezzabili anche in senso filosofico, pur denunciando la loro appartenenza al registro linguistico, «non c’è da sorprendersi che proprio il verbo essere sia divenuto, nella tradizione greco-latina prima e moderna dopo, un termine chiave della riflessione filosofica».15 Il pensare, il considerare qualcosa come pensabile, o anche solo intuibile, passa attraverso l’uso della copula «è», ossia per l’attribuzione di contorni, proprietà, per il confronto, la distinzione, il discernimento, con altri oggetti, simili e diversi. Infatti, di «ogni individuo, astratto o concreto che sia […] si deve poter dire qualcosa, cioè a ogni cosa si deve poter dire qualcosa, cioè a ogni cosa si deve poter assegnare un predicato».16 In altri termini, Parmenide fonda il logo occidentale. Come asserisce Calogero,

Parmenide è appunto il fondatore del logo antico, in quanto per primo pone come reale una legge, senza pensare che questa possa distinguersi dal reale: in quanto per primo impone al reale una norma di validità assolutamente intrinseca, che è quella della sua pura pensabilità.17

Cosa ci insegna, allora, Parmenide? Sicuramente che il pensare avviene attraverso la distinzione tra distinti dell’essere, ossia mediante l’uso ragionato della copulazione. Di ciò è avvertito anche Aristotele quando afferma che

Parmenide invece sembra ragionare con maggiore oculatezza. Poiché egli ritiene che accanto all’essere non ci sia affatto il non-essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno e null’altro.18

Seguendo il dispiegarsi quasi naturale della sua impostazione, Parmenide, procedendo alla distinzione tra essere e non essere, deve caratterizzare di conseguenza i caratteri ontici della realtà onde evitare pericolose contraddizioni come, ad esempio, l’attivazione della negazione dell’essere.

È interessante osservare al riguardo la diversa terminologia adoperata dallo stagirita rispetto al Nostro. Infatti, Aristotele adopera già il neutro sostantivato tò òn per riferirsi all’essere parmenideo mentre l’eleate adopera la circonlocuzione, peraltro priva di un vero soggetto, he mèn ópos éstin, che è (sottintesa la via che la Dea indica a Parmenide). Lo slittamento semantico delle due ricerche è evidente, Parmenide non ha ancora sostantivizzato l’oggetto che è, Aristotele considera l’essere quel che è.

4. No, la modalità no!

La distinzione messa in campo da Parmenide comporta anche una strutturazione modale di essere e nulla. Infatti, il primo non può non essere, tramutarsi nella sua negazione, mentre il secondo non può essere, divenire il suo opposto. Le due vie restano separate, senza neanche la possibilità di composizione, di mediazione, di conciliazione, di sintesi. La via dell’essere è quella che conduce alla verità, mentre la seconda, la via del non essere, è un sentiero lungo il quale nulla si apprende, e dal quale è bene distogliere i passi.

Questo frammento, estremamente denso nella sua formulazione stringata, offre parecchi spunti di riflessione. Parmenide sostanzia il verbo essere, facendolo divenire l’espressione linguistica della realtà, l’essere è la realtà in quanto solo quest’ultima è, ossia esiste. E la conoscenza può avere luogo, ossia mettere a tematizzazione, solamente quel che è, l’essere. Ciò, com’è prevedibile, non è affatto privo di conseguenze. Infatti, il non essere, il nulla, non riempie alcuna conoscenza, resta sostanzialmente inerte. In effetti, solo l’essere è pensabile mentre il non essere non lo è.

D’altro canto, proprio l’utilizzo di categorie concettuali tanto complesse potrebbe indurre a pensare che Parmenide stesso sia l’inventore dei principali strumenti logico-formali del pensiero occidentale. Di ciò sembra avvertito Colli quando si chiede

allo stesso Parmenide è forse possibile attribuire l’invenzione di un bagaglio teoretico così imponente, l’uso dei cosiddetti principi aristotelici di non contraddizione e del terzo escluso, l’introduzione di categorie che resteranno per sempre legate al linguaggio filosofico, non soltanto dell’essere e del non essere, ma verosimilmente anche della necessità e della possibilità?19

Forse è chiedere troppo, anche se è innegabile come Parmenide usi in maniera innovativa proprio tale repertorio teorico. La spiegazione più plausibile è, comunque, che l’eleate adoperi, magari anche migliorandola, una «tradizione dialettica che risalga più indietro ancora».20 Queste indicazioni, apparentemente peregrine rispetto alla presente ricognizione, sono oltremodo interessanti. Infatti, Colli individua nella dialettica il punto di contatto tra l’«esaltazione pitica»21 e l’«elaborazione di un pensiero astratto, razionale, discorsivo».22 E Parmenide mostra di saper adoperare la dialettica nel suo discorso intorno alla natura, che è lo stesso di dire essere. Anzi, secondo Colli, egli «era un sapiente, ancora prossimo all’età arcaica dell’enigma e alla sua religiosità».23 E tuttavia, in questo risiede parte della sua grandezza, e della sua importanza anche per noi che scriviamo:

per la prima volta nella storia del pensiero Parmenide sta utilizzando il principio di non contraddizione e del terzo escluso, e dunque pone i fondamenti di quello che sarà il lógos occidentale nella declinazione razionalistica di Platone e soprattutto di Aristotele.24

Pur essendone il fondatore, Parmenide è ancora immerso profondamente nella cultura del suo tempo, nella sostanziale in-distinzione tra conoscenza misterica e conoscenza razionale, le due vie si mischiano ancora, si confondono, battono la stessa ghiaia. Eppure, nel contempo, come non riconoscere la pesante eredità che la riflessione ontologica parmenidea ci dona? Un dono benedetto, ma anche maledetto, rilevante per le sue aperture, pesante per il gravame di difficoltà teoriche che comporta, per i nodi irrisolti che la frammentarietà delle fonti dirette non consente purtroppo di sciogliere.

Pur indagando sulla natura della physis, della natura, Parmenide marca strettamente la distanza dai predecessori, tanto che intendiamo riferirci a questa indagine come ad una “svolta ontologica”.

Per meglio comprendere questo accento, è bene riferirsi alle parole di Severino:

per i primi filosofi la physis è l’essere stesso (l’essere, nella sua totalità) che, liberato dalla non — verità del mito e da ogni conoscenza priva di verità […] Ma è Parmenide (VI — V sec. a. C.) il primo pensatore che, nella storia dell’uomo, presta ascolto al senso dell’essere conducendolo all’interno di una riflessione e di una testimonianza esplicite.^[25]

L’impresa tentata da Parmenide è somma, dare conto della realtà in generale, nel momento stesso in cui noi uomini la viviamo, ossia nel suo essere, nel suo darsi, nel suo esistere. Non si tratta di prendere in considerazione un singolo aspetto della realtà, uno per volta, ma la realtà in generale. In questo modo, Parmenide dimostra l’alta considerazione che della filosofia occidentale ha Severino stesso quando asserisce che essa nasce “grande” in quanto i suoi primi passi «stabiliscono i tratti fondamentali del suo intero decorso storico».25 Il discorso ontologico, come formulato e caratterizzato da Parmenide, resterà tale nei secoli a seguire. Platone ed Aristotele, nonostante i loro ammirevoli sforzi, non potranno riformare in profondità la novità dell’«è» parmenideo, pur contribuendovi per parte loro con nuove aggiunte e alcune sistemazioni.

5. La realtà altrimenti detta essere…

Tuttavia, è corretto il parere di Di Toro secondo il quale il Poema parmenideo, giuntoci frammentario e incompleto, difficilmente è componibile in unità nelle due parti, una prima che tratta l’essere e le vie di ricerca del pensiero, e una seconda che tratta di temi cosmologici. Tant’è che le «difficoltà […] costringono il lettore a chiedersi quale sia l’argomento del poema parmenideo: l’essere, il mondo, l’uomo».26 In effetti, , a nostro sommesso parere, pare lecito porsi la seguente domanda: qual è l’argomento vero e proprio del poema di Parmenide? La stessa scelta di esprimersi in versi mette in difficoltà: ci si proponeva di emulare autori coevi magari non giunti sino a noi oppure si simulava un tipo di scrittura, aderendo ad una data tradizione, pur intendendo comunque comunicare un messaggio davvero innovativo? La penuria dei dati a disposizione non consente di dare risposte esaurienti, ma fornisce soltanto suggestioni interpretative, ipotesi che però tali sono costrette a rimanere sullo sfondo di un poetare che trova la sua più logica spiegazione nella «decisione di Parmenide di scrivere in versi epici, di derivazione omerico-esiodea»,27 dovuta «alla facilità di memorizzazione tipica del verso e del contenuto dell’epos».28

L’eleate, dunque, emulerebbe, per mere finalità di efficacia comunicativa, lo stile di un’intera tradizione, lontana da noi e non altrimenti ricostruibile se non solo parzialmente. Ma quali autori? Quale tradizione più esattamente sembrerebbe emulare strumentalmente Parmenide? Certamente un insieme di “fantasmi” del passato che rispondono al nome di Esiodo, di Omero, assieme ad una folta schiera di autori altrimenti ignoti. Sulla scorta di ciò, Di Toro avanza un’ipotesi a nostro sommesso parere interessante:

L’impressione che si può ricavare dalle congetture è che il poema si doveva comporre in origine di due parti distinte e irriducibili o, al contrario, che si tratta in realtà di due poemi distinti che ci sono stati trasmessi come se fossero uno solo.29

Se così fosse, come sarebbe possibile operare una conciliazione delle due opere? Resta, comunque, al fondo lo scarto tra le due parti, se si accetta l’idea concorrente di un’unica opera. Ad ogni modo, a scanso d’equivoci, ci limiteremo a prendere in considerazione solo la prima parte perché quella che maggiormente interessa l’ipotesi di lavoro che intendiamo sviluppare.

Comunque partecipe di una certa tradizione a lui contemporanea, di poesia educativa, Parmenide certamente padroneggiava quel registro stilistico e lo adopera con maestria al fine a lui più congeniale: ammaestrare ad una verità (nuova) per i mortali. In merito, siamo ancora una volta debitori nei confronti di Di Toro: si tratta di «comunicare per educare e non narrare per dilettare o richiamare fatti storici e per giunta non verificabili».30 Trattandosi dei primi passi della filosofica occidentale, lungo i quali anche Parmenide stava incamminandosi, è sicuramente possibile che il filosofo faccia propria una tradizione culturale al cui interno lui stesso si muoveva e che certamente era in grado di adoperare. Abbiamo, allora, a che fare con un autore che «si muoveva a metà strada fra la letteratura e la riflessione filosofica non sistematica».31 Siamo ancora lontani dalla sistematicità del Liceo aristotelico e già distanti dal sapere orfico-pitagorico al cui interno, ad esempio, Colli intravede i primi barlumi di sapienza filosofica. Allora, ciò spiega la scelta di adoperare il registro stilistico della poesia epica, le metafore della propria cultura, le cognizioni allora in circolazione. Eppure, la novità parmenidea consiste proprio in ciò: da lato emula uno stile a lui noto ma dall’altro lato lo adopera in maniera strumentale per veicolare contenuti nuovi. Come asserisce ancora Di Toro:

le immagini che Parmenide usa nei versi del poema, quindi, non sono sempre novità, non sono delle sue invenzioni, ma, proprio per quanto appena detto circa il suo riutilizzo dell’immaginario epico, è necessario tenere sempre fermo che per ben comprendere il loro contenuto di novità bisogna insieme comprendere la stretta attinenza che esse hanno con le tematiche più genuinamente filosofiche e il luogo in cui appaiono […] Sia la metafora che il simbolo sono allo stesso tempo ‘oggetti’ speculativi, ‘sussidi didattici’ e ‘strumenti’ utili ad una larga comunicazione.32

La strumentalità dei mezzi stilistici e linguistici consente a Parmenide di comunicare dei contenuti davvero innovativi, quella stessa svolta ontologica che desideriamo mettere in luce nel presente lavoro.

Tuttavia, è bene ancora spendere alcune parole su questa natura specifica della ricerca parmenidea.

Prima di giungere al cospetto della Dea, Parmenide non invoca le Muse perché ne ispirino la riflessione.33 Vi sono solo degli accenni a daímones, koûrai, Heliádes koûrai, tradotti con «dive», «giovani», «giovani figlie del Sole»,34 oppure con «Fanciulle», «Figlie del Sole».35 Come mai l’eleate non ha bisogno di illuminazione che, in quanto tale, può provenirgli solo dall’alto? L’anello che congiunge l’uomo comune alla conoscenza è il tymòs, il desiderio (di conoscere) che induce alcuni uomini ad elevarsi al di sopra della conoscenza comune. Forse, allora, Parmenide non viene fatto a parte di un sapere ermetico, ma giunge, sulla base delle sue sole forze, alla conoscenza delle cose ultime. Non deve, in merito, trarre in inganno lo stile poetico prescelto dato che il filosofo vuol comunicare qualcosa di nuovo, e non aderire a quel tipo di sapere misterico dal quale, al contrario, desidera allontanarsi. Infatti, egli non viene ‘iniziato’ da altri alla conoscenza della Verità, ma è lui stesso che vi si eleva, anche seguendo le sapienti indicazioni delle ancelle della Dea. Una divinità estranea al Pantheon greco, una dea priva di nome, innominata eppure importante, dotta e desiderosa di confermare nelle vere conoscenze l’uomo che al vero desidera elevarsi, al di sopra delle vane conoscenze dei comuni mortali. È il desiderio di vera conoscenza che consente a Parmenide di andare oltre i pregiudizi, oltre le vane opinioni mortali, un desiderio che si arma di capacità teoretiche, sino al punto di giungere a tu per tu con la dea ignota la quale, in completo compiacimento e in perfetta familiarità, benigna in ciò, prende la mano destra del filosofo e comincia il suo discorso. Eppure, la dea rinvia comunque a thémis e díke come alle responsabili del viaggio stesso. Tonelli in merito associa la prima con Gaîa, una delle divinità più antiche che l’umanità conosca, la Terra Madre.36 Tuttavia, questa lettura appare un po’ troppo esoterica dal momento che nulla impedisce di interpretare i due termini come dei simboli, norma e giustizia.37 Qual è la ragione di tale discrasia interpretativa? Disponiamo soltanto di frammenti i quali, peraltro, appaiono anche slegati tra loro salvo recuperare organicità e coerenza solo se letti alla luce di un’ipotesi interpretativa preesistente.38 La versione più verosimile è che s’indichi una vita retta dall’adesione all’ordine naturale e una vita condotta secondo giustizia. Solo chi ne è degno può approdare ad un livello ulteriore di conoscenza. Ma la dea «non intende né rivelare il futuro né suggerire strategie al suo visitatore, ma vuole indicargli la via del retto ragionamento, quello che posta una premessa logica tutte le altre determinazioni devono scaturire di conseguenza, incontrovertibilmente».39 L’assenza delle Muse, divinità ispiratrici per eccellenza, si spiega proprio con la naturale disposizione alla vera conoscenza che caratterizza il filosofo, che

appare concretamente impegnato a descrivere il viaggio di allontanamento di un sapiente dal suo precedente sapere, piuttosto che a sostenere le ragioni poetiche (mito-musaiche) in grado di giustificare l’intera costruzione proemiale.40

Nessuna Musa aiuta Parmenide nel suo viaggio. Sembra quasi che egli ce la faccia fidandosi esclusivamente delle sue sole forze di comune mortale, trovando sulla via, al massimo, alcune conferme dell’esattezza delle sue intuizioni, dei suoi pensieri. Le dive, infatti, pur partecipando in qualche misura della divinità, non sono Muse, ma ‘indicatrici’ della retta via da seguire e, forse, anche da perseguire. Parmenide, detto altrimenti, «si descrive come un viaggiatore che si è messo in cammino verso una meta che gli è peraltro sconosciuta»,41 egli non sa in anticipo dove si concluderà il viaggio, cosa saprà al suo termine, chi incontrerà. Sembra, anzi, che non metta il lettore a conoscenza anticipata del risultato raggiunto dalla sua ricerca. E come potrebbe se di ricerca filosofica trattasi e non di conoscenza iniziatica? La verità non gli è donata dalla Dea né dalle dive, dalle giovani fanciulle del Sole, ma è in qualche modo frutto di una conquista personale. Come asserisce Di Toro «la verità viene in qualche modo conquistata ed esposta al e dal poeta».42 L’impressione è che ancora Parmenide s’inserisca nel filone sapienziale a causa della poesia che l’autore mette in versi ma, come visto, egli se ne serve in chiave strettamente strumentale, il suo fine, il suo messaggio è di natura nettamente differente. Parmenide non viene iniziato dalla Dea, non viene rapito in estasi per giungere ad una rivelazione, è lui stesso che si innalza lungo il sentiero del desiderio di conoscenza vera e che, sapendo leggere i segni sulla via, giunge alla ben rotonda Verità. La dea soltanto può confermarlo della bontà della strada seguita, del percorso tenuto, della condotta mantenuta. Ma non può nulla di più: Parmenide è perfettamente laico nel suo filosofare. Consideriamo, al riguardo, veritiere le parole di Di Toro:

Il suo viaggio non è, dunque, un racconto, un mito nel senso letterale del termine, ma un ‘fatto realmente accadutogli’ […] mentre rifletteva su questioni legate all’origine delle cose e al loro contenuto di verità. Non gli apparvero le Muse a confidargli un segreto divino, ma una dea lo chiamò a sé e lo fece condurre nel suo regno […] per dimostrargli la Verità e insegnargli come ragionare.43

Allora, dunque, Parmenide non giunge a nessun convegno con una Dea, ma vede come riflessa la sua stessa opera teoretica; vede cioè confermata, verificata la sua impresa conoscitiva. Forse proprio per questo motivo la dea non ha un nome riconoscibile, apparendo, in effetti, alla stregua di un simulacro, «una finzione nella quale si cela l’impegno intellettuale del poeta».44

Questo non ha impedito, però, ad altri interpreti di leggere la metafora del viaggio come un’allegoria della stessa scuola eleatica.45 Una posizione che, tuttavia, non ci sentiamo di condividere, considerandola anche fuorviante.

6. Delle due, l’una, mio compagno amico

Benché (apparentemente) due, solo una via di ricerca appare possibile, e lo è nella misura in cui l’uomo saggio si accorge che l’altra, quella che non è, non è percorribile perché né pensabile né dicibile. Ma per farlo, l’uomo deve saper ragionare, deve sapere come pensare rettamente. Come avverte Di Toro:

l’«attenzione di chi ricerca il vero deve invece fare appello alla razionalità […] solo così si avvedrà che di vie di ricerca ne resta una, e una soltanto: quella che afferma che è possibile fare ricerca sensata soltanto su ciò che esiste nella realtà del mondo.46

Quanto ci suggerisce Di Toro è certamente una suggestione. E tuttavia appare rilevante. Infatti, seguendola diventa allora possibile pensare a Parmenide come all’incarnazione di una certa figura di filosofo che innova rispetto alla tradizione a lui coeva, non più il sapiente che confonde, e, forse, equivoca anche, la conoscenza con la sapienza misterica, ma una «nuova figura di saggio»47 che «fa riferimento ad una razionalità laica»,48 un «individuo che confida sulla propria capacità di indagare i misteri dell’esistente»49 Benché, ovviamente, tale laicità non abbia nulla dell’attuale, è doveroso riconoscere come il Sulla natura di Parmenide si presti benissimo a tale interpretazione del tutto concorrente a quella, di segno opposto, di Tonelli. E ci sentiamo più disposti ad assentire con questa piuttosto che con quella che vede in Parmenide il narratore di un’iniziazione misterica benché, comunque, si debbano riconoscere nella sua opera alcuni segni di tale retaggio culturale, peraltro “addomesticati” all’interno di uno stile narrativo che ne permette l’uso senza perciò stesso condividerne il significato.

In tal senso, allora, assume consistenza l’idea, che intendiamo sostenere, secondo la quale Parmenide compie una svolta rispetto ai suoi illustri predecessori, “terribili” antenati sulla via della sapienza, ma anche rispetto ai suoi contemporanei, ancora percorritori di una conoscenza mischiata di venature, di intonazioni, di contenuti scopertamente mitici o religiosi. A questa svolta filosofica, a nostro sommesso parere, si accosta una contemporanea svolta ontologica. Ma prima di parlarne più apertamente, è bene spendere ancora alcune parole su questa cornice al pensiero ontologico parmenideo.

Pertinenti appaiono ancora le parole di Di Toro quando asserisce come scopo «e funzione di questa nuova figura di sapiente è far emergere l’infondatezza del falso phronein, quel sapere illusorio il cui possesso non è di sostegno né a chi lo detiene, né alla verità».50 Se questo è lo scopo, se questa appare essere l’intenzione, assume certamente senso anche la precisa scelta della metafora della via da percorrere: non tutte sono uguali, di eguale importanza, equipotenti; al contrario, solo alcune conducono alla conoscenza vera, e non alla falsità, all’errore, al sapere privo di fondamento. L’epistemologia moderna codificherà questo crogiuolo di idee nel concetto di metodo, di procedimento sequenziale da rispettare onde conferire validità alle proprie ricerche. L’idea di metàhodos è certamente posteriore all’orizzonte culturale di Parmenide, ma all’idea di hodos, di via adeguata, è certamente collegata.51

Seguendo la via corretta, la via adeguata, la via giusta, il sapiente «si raffigura come colui che ha saputo lasciarsi alle spalle il menzognero contenuto della poesia sapienziale»,52 che presentava un insieme verisimile, ma non vero, di cognizioni sull’uomo e sul cosmo. Ecco come si origina la netta divaricazione tra verità e menzogna in Parmenide: «per affermare qualcosa di sensato sul Mondo bisogna seguire un rigoroso procedimento logico che non faccia appello in alcun modo al soccorso della fantasia o alle sue suggestioni».53 Eppure potrebbe non mancare chi leggendo questo passo potrebbe legittimamente porre la questione seguente: come fa la ragione senza l’intuizione fantastica a cogliere correttamente l’ordine delle cose? Peraltro, lo stesso Parmenide adopera metafore fantastiche per veicolare la propria personale visione filosofica. Allora, come la mettiamo? In realtà, questa obiezione appare debole dal momento che non si sta sostenendo che la filosofia, in quanto sforzo razionale, debba privarsi, ed operare di conseguenza, in assoluta mancanza di intuizione e suggestione, ma che per essere davvero razionale essa non deve cedere ai voli della fantasia, che deve sapientemente indirizzare questi ultimi. Così posti i rapporti tra ragione e fantasia, cessa di avere valore qualsiasi sensazione di contraddittorietà nel discorso parmenideo.

Certo si potrebbe sostenere come anche quanto fatto da altri, Talete tanto per dirne uno, rispetti questa esigenza, o, perlomeno, esprima la medesima esigenza di esattezza, di rigore speculativo, tuttavia ci sentiamo di poter affermare come sia solo con Parmenide che questa esigenza viene elevata a sistema, e condotta sino alle sue estreme conseguenze, senza cedimento alcuno. La novità, allora, è rappresentata dall’«esposizione di come egli sia giunto alla sua verità»,54 «è ciò che stabilisce una svolta radicale rispetto alle indagini contenute nelle ipotesi cosmologiche dei fisiologi precedenti».55 In cerca di un fondamento (incrollabile), sul quale erigere l’intera conoscenza umana, e così trova spiegazione l’insistenza sull’opposizione radicale tra due sole vie di ricerca possibili, due soli sentieri lungo i quali poter incamminarci, Parmenide indica quella che, a suo dire, sola è in grado di pervenire alla Verità, «il cuore incrollabile»,56 il cui strumento «è il nóos»,57 quel pensiero che consente di discriminare, di distinguere tra errore e correttezza, tra falsità e verità, tra opinione e conoscenza. Le due vie, allora, vanno intese «come due stadi nel cammino del sapere».58

Una frettolosa critica, purtroppo, ha sempre interpretato la divisione parmenidea come il segno di un obsoleto dualismo conoscitivo, come se il filosofo eleatico separasse ab initio, una volta per tutte, le due vie conoscitive umane, concentrando tutte le sue forze e i suoi elogi solo su una, e discriminando, così, l’altra, negletta via dell’ignoranza dei mortali. A guardar bene, questa interpretazione, pur presentandosi verosimile nelle sue giustificazioni, non può considerarsi accettabile. Infatti, Parmenide non nega la via dell’opinione, della doxa, anzi la considera comunque parte dell’unico processo conoscitivo umano il quale prende certamente le mosse dall’esperienza sensibile, solo che, alla fine, da questa l’uomo desideroso di conseguire conoscenza vera, il saggio che guarda con occhi limpidi la realtà che lo circonda, deve allontanarsi senza lasciarsi abbagliare dall’attualità delle sensazioni, dalla forza delle credenze, e dalla persuasione delle pubbliche opinioni. È in forza di queste riflessioni che Di Toro formula la sua interpretazione radicale sul proemio dell’opera parmenidea:

la dea è Parmenide stesso, è la creazione più potente del suo genio poetico, è la maschera con la quale sceglie di comunicare la sua scoperta, la sua ricapitolazione della tradizione. Un alter ego per dire daccapo, per dire di nuovo. Circa la sua identificazione non vale la pena soffermarsi: ogni tentativo in questa direzione ha fallito, proponendo le più varie identificazioni.59

Il gioco metaforico fatto proprio da Parmenide esclude così ogni possibile identificazione di maschere e simulacri così numerosi nel poema. Ma rende anche conto dell’identità ignota della dea parmenidea: non si tratta di nessuna delle divinità conosciute. Quello di Parmenide è, dunque

un viaggio nel sapere reso lecito dalla capacità di ben ragionare […] e sostenuto nel suo procedere dalla realizzazione della giustizia nella díkhe giusta, ovviamente anch’essa facente riferimento esplicito al ragionamento corretto, al retto procedere del pensiero lungo le tappe di avvicinamento alla verità che non crolla e non teme messe in revoca.60

Ciò, ad esempio, rende conto di come mai Odifreddi includa anche Parmenide nella sua storia della logica, anche se non esita certo a dolersi di intonazioni poco vicine alla sua specifica sensibilità.61 Ma ha invece ragione Calogero quando ascrive a Parmenide il merito di aver dato origine al logo occidentale.62

In effetti, e questo è, forse, il senso corretto della svolta ontologica di cui intendiamo discutere, Parmenide pone in essere le prime regole che il pensiero umano deve rispettare se desidera conseguire vera conoscenza. Il che, detto altrimenti, potrebbe venir reso con le seguenti parole: Parmenide formula le leggi che un pensiero razionale desidera rispettare. Pensare in maniera retta, allora, significherebbe, leggendo Parmenide, conformarsi ad un insieme di leggi logiche, davvero minimale nell’eleate, per ovvie ragioni storiche: identità e contraddizione.

Quindi, Parmenide pensa l’essere sulla base di un bagaglio logico già consistente, distinguendo quanto esiste da quanto non esiste, quanto è, perché potrebbe essere, da quanto non è, perché non potrebbe essere, quanto sarebbe da quanto resta solo possibile, sulla base di principi razionali già codificati, ossia lungo l’asse dell’identità delle cose e lungo l’altro asse della contraddizione tra cose diverse. Un pensiero che, lungi da queste due assi, ponendosi lontano da una via che operi in conformità a tali principi, non porterebbe alla conoscenza, ma solo alla mera opinione, ad un sapere fallace, non duraturo, non perfetto, l’esatta negazione della ben rotonda verità di cui parla Parmenide.

Così, diventano chiare le prime parole «della dea/Parmenide: allontanati dal sapere comune e guadagna questo nuovo spazio speculativo per il quale non esiste nulla — ovvero c’è il nulla — oltre ciò che esiste internamente al Tutto».63 L’insistenza di Parmenide sulla copula è dovuta, evidentemente, alla necessità di smarcare il presente discorso dalla relativizzazione di certe opzioni teoriche di segno opposto. Così, «dall’affermazione che solo ‘è’ esiste ed è pensabile come oggetto d’indagine: il discorso giungerà sempre all’affermazione che solo l’’è’ può inserirsi in un discorso che abbia di mira la verità».64 Detto questo, vediamo allora come Parmenide svolga il suo discorso pur cercando di districarci nella fitta rete dei rimandi assenti nei pochi frammenti pervenutici del suo poema.

7. Essere… questo è il problema

Parmenide si sente in obbligo di precisare come dalla via del non — essere è bene allontanarsi perché il nulla, non esistendo, non è esprimibile all’interno di una lingua, naturale o convenzionale che sia. Anzi, è (solo) attraverso il linguaggio che il pensiero si esprime, ha luogo, si chiarifica, se è il caso. Come direbbe Dummett: «La lingua sarà forse uno specchio deformante, ma è l’unico specchio che abbiamo».65

Attraverso il linguaggio, gli uomini esprimono i propri pensieri, rendendo così possibile la stessa conoscenza. Ma una conoscenza del nulla non è cosa fattibile. Infatti, del nulla niente può dirsi.

A questo punto, giunge utile un altro dei pochi frammenti pervenutici del Perì physeos di Parmenide «Infatti lo stesso è pensare ed essere».66 L’asserzione, giunta sino a noi attraverso le insidie del tempo, è monca nel senso che si tratta di un’espressione confermativa di un ragionamento antecedente e purtroppo perduto. Il gàr dell’originale, infatti, rinvia ad un discorso che la dea ha articolato in precedenza. Così stando le cose, si pongono due problemi distinti, ma non anche irrelati: (1) come interpretare questa asserzione?; e, (2) quale valore attribuirvi? Ci troviamo di fronte, in altre parole, ad una delle espressioni più celebri della filosofia eleatica (ma, forse, anche dell’intera tradizione filosofica occidentale): l’equipollenza di pensiero ed essere. Ma come interpretarla correttamente? Quale reale valore conferirle? Nell’originale greco si legge gàr autò noeîn estín te kaì eînai, infatti pensare ed essere sono la medesima cosa. Ciò autorizzerebbe, allora, a dirla tutta, ad affermare due tesi distinte ed importanti: (A) che pensare è essere; e, (B) che essere è pensare. Sulla prima, salvo qualche riserva, si può anche concedere. Infatti, essendo l’esistenza la condizione prima affinché si dia pensiero, allora è del tutto lecito sostenere che il pensare sia (l’atto del pensiero è un essere, ossia esiste, cioè ha luogo, è essere). Piuttosto, più controversa appare la seconda tesi: se il pensiero è possibile in quanto esiste, possiamo ridurre l’essere al pensiero? Forse che l’essere è lo stesso che pensare? La tesi è, e resta, controversa anche perché non disponiamo di ulteriori elementi interpretativi che possano dirimerla in un senso o nell’altro.

Queste riflessione, però, vanno ponderate alla luce di altre fonti parmenidee. Nel frammento successivo infatti si legge:

Considera come cose che pur sono assenti, alla mente siano saldamente presenti; infatti non potrai recidere l’essere dal suo essere congiunto con l’essere, né come disperso dappertutto in ogni senso nel cosmo, né come raccolto insieme.67

È interessante la motivazione addotta alla prima parte del frammento in questione. Infatti, dice Parmenide che l’essere non può essere scomposto. Ossia, l’essere va inteso come un’unità non analitica, non scomponibile in ulteriori parti. In altri termini, dall’essere non è possibile disgiungere nulla. Ciò vuol dire che il pensiero appare in grado di cogliere l’unità originaria dell’essere anche se i sensi magari ci dicono qualcosa di diverso. Alla mente le cose che possono apparire non presenti, nóoi pareónta bebaíos, sono saldamente presenti. È questo un pensiero che, a prima vista, lascia del tutto perplessi. Questo perché il pensiero è lo stesso dell’essere? Tuttavia, se così fosse la presente asserzione apparirebbe superflua. Eppure c’è, possiamo leggerla. Anzi, sembra quasi che sussista una distinzione tra pensiero ed essere. Infatti, il pensiero può pensare l’essere, ma resta distinto dal secondo. Ma se così è, che ne è di quanto asserito nel frammento 3? Forse che pensiero ed essere non sono la stessa cosa? Eppure il testo sembra così chiaro. Probabilmente, però, in nostro sfavore giocano le lacune del testo che così generosamente il tempo ci ha elargito. Anche in questo caso, pertanto, non disponiamo di ulteriori elementi che possano chiarificare almeno un pochino di più la riflessione parmenidea.

Il quadro può chiarirsi, sia pure solo in parte, se prendiamo in considerazione il frammento 6:

È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è, il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare. E dunque da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno vanno errando, uomini a due teste: infatti, è l’incertezza che nei loro petti guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati, sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio, dai quali essere e non essere sono considerati la medesima cosa e non la medesima cosa, e perciò di tutte le cose c’è un cammino che è reversibile.68

Dire e pensare che l’essere sia è cosa necessaria. In che senso? Nel testo greco si legge ésti gàr eînai medèn d’ouk éstin, l’essere infatti è, il non essere invece non è. Se l’essere è, non è possibile dire il contrario, che l’essere non sia. Da questo punto di vista, infatti, è necessario dire e pensare che l’essere sia. Anzi, è necessario dire che l’essere sia proprio perché il pensiero “dice” che l’essere è. Mentre il pensiero “pensa” l’essere in quanto l’essere è. Invece, medèn d’ouk éstin, il nulla non è, il non essere non esiste. E se non c’è, non è né pensabile né dicibile. Dal sentiero del non essere è bene allora tenersi lontano, in un cammino sempre reversibile, poiché rende possibile solo l’incertezza. Se così è, se la nostra interpretazione è corretta, assume senso il frammento 7:

Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono! Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero, né l’abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti sforzi a muovere l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa che da me ti è stata fornita.69

È necessario dire e pensare che l’essere sia in quanto mai accadrà che eînai mhè eónta, siano le cose che non sono, che il non essere sia. Ma ciò accade anche perché il pensiero può pensare solo l’essere, non il non essere.

Allo stesso modo, il linguaggio può dire solo quel che è, non il non essere. Al riguardo, per gli scopi presenti, sono oltremodo interessanti le parole della dea (Parmenide): con la ragione giudica la prova che da me ti è stata fornita. Qual è il senso di questa esortazione? Non guardare alle esperienze, non lasciarti sopraffare dalle tradizioni, ma pensa secondo ragione, fai buon uso della tua intelligenza, vaglia razionalmente le prove prima di concedere loro il tuo assenso.

A questo punto, è possibile enumerare gli attributi dell’essere:

Resta solo un discorso della via che “è”. Su questa via ci sono segni indicatori assai numerosi: che l’essere è ingenerato e imperituro, infatti è un intero nel suo insieme, immobile e imperituro, infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine. Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di esso? Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla? Perciò è necessario che sia per intero, o che non sia per nulla. E neppure dall’essere concederà la forza di una certezza che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa ragione né il nascere né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene, ma saldamente lo tiene. La decisione intorno a tali cose sta in questo: “è” o “non è”. Si è quindi deciso, come è necessario, che una via si deve lasciare, in quanto è impensabile e inesprimibile, perché non del vero è la via, e invece che l’altra è, ed è vera. E come l’essere potrebbe esistere nel futuro? E come potrebbe essere nato? Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro. Così la nascita si spegne e la morte rimane ignorata. E neppure è divisibile, perché tutto intero è uguale; né c’è da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito, né c’è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere. Perciò è tutto intero continuo: l’essere, infatti, si stringe con l’essere. Ma immobile, nei limiti di grandi legami è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza. E rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo giace, e in questo modo rimane là saldo. Infatti, Necessità inflessibile lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt’intorno, poiché è stabilito che l’essere non sia senza compimento: infatti non manca di nulla; se, invece, lo fosse, mancherebbe di tutto. Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero, poiché senza l’essere nel quale è espresso, non troverai il pensare. Infatti, nient’altro o è o sarà all’infuori dell’essere, poiché la Sorte lo ha vincolato a essere un intero immobile. Per esso saranno nomi tutte le cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Inoltre, poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, né in qualche modo più grande né in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un’altra. Né, infatti, c’è un non essere che gli possa impedire di giungere all’uguale, né è possibile che l’essere sia dell’essere più da una parte e meno dall’altra, perché è un tutto inviolabile. Infatti, uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei suoi confini.70

Di questo lungo frammento, agli scopi presenti importa selezionare singoli nuclei concettuali. Il primo è il seguente: La decisione intorno a tali cose sta in questo: “è” o “non è”. Si è quindi deciso, come è necessario, che una via si deve lasciare, in quanto è impensabile e inesprimibile, perché non del vero è la via, e invece che l’altra è, ed è vera. Se due sono le alternative che si pongono come possibili davanti a noi, e in questo procedimento non si può non scorgere la collaborazione tra il principio di identità e il principio di non contraddizione, bisogna trarne le dovute conseguenze. Così, se si segue la via dell’essere è gioco forza derivarne gli attributi seguenti: (i) eterno; (ii) imperituro; (iii) intero; (iv) immobile; (v) uno; (vi) continuo; (vii) presente; (viii) indivisibile; (ix) identico; (x) completo. Viceversa, se si segue la via del non essere le conseguenze derivabili sono soltanto assurde, come peraltro lo stesso pensiero mostra.

Ovviamente, al riguardo bisogna tenere nella giusta considerazione il duro giudizio espresso da Aristotele, allo stesso tempo fonte e studio critico di Parmenide, quando scrive nella Fisica:

Anche contro Parmenide si procede con gli stessi criteri, benché ve ne siano altri più appropriati. E la confutazione si fa sia perché egli erra nelle sue premesse, sia perché è incoerente nelle conclusioni: erra nelle premesse, perché stabilisce di parlare dell’uno in senso assoluto, mentre poi ne parla in molti sensi; è incoerente nelle conclusioni, perché, se pur si prendessero in esame solo le cose bianche, pur significando ‘bianco’ un solo essere, non di meno le cose bianche sarebbero molte e non una: ché né per continuità né per definizione il bianco sarà uno, perché diversa è l’essenza del bianco da quella dell’oggetto che l’accoglie, e non si potrà separare nulla tranne il bianco. Non si potrà, invero, opera separazione, sebbene, in quanto all’essere, ci sia differenza tra il bianco e l’oggetto cui inerisce. Ma ciò Parmenide non lo vedeva ancora!71

Qual è il significato di tale interpretazione? Sicuramente Aristotele intende confutare la riflessione ontologica parmenidea, ma lo fa dal suo specifico. Così facendo finisce con il non comprendere affatto l’essere parmenideo, considerando incoerenze delle conseguenze del tutto logiche se si seguisse del tutto il ragionamento parmenideo (ma estranee all’ontologia aristotelica).

Parmenide, però, resta sullo sfondo un autore dal quale lo stesso Aristotele non può prescindere, pur considerando errata la sua indagine ontologica. Sarebbe come dire che sia possibile fare ontologia dimenticando come l’intero discorso sia stato codificato dal filosofo eleate.

8. Sii ontologico…, intendevo dire modale…

Tuttavia, non faremmo giustizia a Parmenide se non dedicassimo alcune parole allo studio iniziale delle modalità presente nel poema parmenideo, anche se in forma frammentaria e lacunosa.

Certo l’esistenza non sarà un predicato (logico), tuttavia resta il fatto che l’ontologia è possibile come settore della ricerca filosofica solo perché l’essere è analizzabile in termini di concetti modali, ossia di considerazione posteriore intorno alla natura temporale del nostro linguaggio. Detto altrimenti, l’intera tradizione modale, che, a nostro avviso, comincia proprio con Parmenide, consiste nello studiare le determinazioni temporale che il nostro linguaggio viene ad assumere all’interno dei discorsi. Come sostiene, infatti, Moro:

Il verbo essere — e i suoi equivalenti — costituisce dunque uno dei complessi ingranaggi con cui alcune lingue umane esprimono il tempo nei loro sistemi grammaticali. Esprimere il tempo, tuttavia, non ha soltanto una funzione importante dal punto di vista cognitivo generale: esprimere il tempo significa anche costruire un oggetto linguistico complesso che ha proprietà speciali.72

Mentre, in tempi più recenti, la logica modale è lo studio di «possibility and expressibility in various formal theories».73

Con il verbo essere, allora, s’indaga lo spettro temporale sia pure attraverso il prisma deformante delle enunciazioni linguistiche. Ma ciò suggerisce un’idea alquanto seducente per quanto concerne lo studio filosofico dell’essere (ontologia): come si rende conto della differenza così operante nel reale? In effetti, a meno di pensarla come Severino, per il quale tutto (o, almeno le essenze) esiste sempre, l’essere non è sempre nel senso che il divenire, il mutamento, la trasformazione, la nascita, la morte, e così via, hanno luogo. Ma sono contro esempi ad una presunta fissità temporale dell’essere? No. E mai la risposta poté essere più lapidaria nel senso che proprio la considerazione modale dell’essere consente di render conto delle presunte eccezioni al dogma della dea “mai nulla potrà essere”! Ciò, però, a patto d’intenderla per quella che è: un’affermazione del carattere modale dell’essere.

Sulla stessa lunghezza d’onda, sia pure con una dovizia di strumenti formali di gran lunga superiore a Parmenide, si trova Aristotele quando, nel celebre, quanto enigmatico, capitolo IX del De Interpretatione affronta il difficile tema della natura modale delle enunciazioni. Scrive, infatti, lo stagirita, nella traduzione del Colli:

Non è infatti per la circostanza di essere stato negato, oppure affermato, che un qualcosa sarà o non sarà, e che un avvenimento si verificherà dopo dieci mila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento di tempo. Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora vero esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così già necessario che questo fatto si sia prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per necessità. Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si produca; del pari, rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.74

Fermo restando la natura, per così dire, “realista” della sua posizione di fondo, Aristotele sembra considerare modali le mere enunciazioni intorno alla realtà, e non la realtà in sé. Detto altrimenti, la modalità è nelle enunciazioni, e non nelle cose. E tuttavia resta forte comunque il sospetto, non suffragato da altri elementi, che le enunciazioni siano modali in quanto “imitino” una condizione delle cose reali. Siamo forse in presenza di una modalità linguistica riflesso delle modalità ontiche? Non è dato sapere anche se lo stagirita ancora la verità o falsità di siffatte enunciazioni al riscontro della corrispondenza nelle cose che vengono espresse linguisticamente.

Anche in questo caso, però, siamo al cospetto di un topos teoretico dal quale è stato impossibile allontanarsi nella successiva riflessione. Eppure, anche al riguardo risulta che il debito sia nei confronti di Parmenide e non nei confronti di Aristotele, che pure, comunque, ha approfondito e sviluppato il discorso iniziato dal filosofo eleatico. È quest’ultimo, infatti, ad aver posto le basi del pensiero occidentale, retto e ruotante attorno a “come” e “cosa” è possibile dire (e pensare). Ma, e questo è un problema che, per forza di cose, resta sullo sfondo irrisolto così com’è, Parmenide può regolamentare il pensiero se, e solo se, quest’ultimo rispetti la natura modale dell’essere? V’è, cioè, operante, ed imperante, una limitazione ontologica al pensiero e linguaggio umani? Lasciamo irrisolta la questione, e torniamo allo specifico della presente trattazione.

In Parmenide vengono gettate le basi per una considerazione modale del pensiero e del linguaggio. Questa modalità concettuale, che viene “scoperta” anche nella considerazione ontologica delle cose, ha carattere normativo nel senso che solo pensare e parlare in conformità ad essa assume senso mentre discostarsene appare solamente un non — senso, ossia un pensare e parlare a vuoto, senza la pretesa di dire e pensare qualcosa di significativo. Tuttavia ciò potrà divenire più chiaro solo dopo aver allargato, sia pure brevemente, il presente discorso, alla modalità.

La tradizione occidentale ci ha tramandati i seguenti concetti modali:

  1. Possibilità;
  2. Impossibilità;
  3. Necessità;
  4. Contingenza.

L’elenco (1)-(4) è un’estrema sintesi, per concetti, di un tema che arrovella, e non poco, gli ingegni filosofici, del passato e contemporanei. In primo luogo, diciamo che (1) e (2) sono una coppia di opposti, possibile è il contrario di impossibile (e viceversa). Lo stesso dicasi di (3) e (4): un’altra coppia di opposti. L’impressione non tragga in inganno, le due coppie di opposti sono della medesima natura formale dei concetti quantificativi nel cosiddetto quadrato degli opposti (libera re — interpretazione medievale della teoria del giudizio a suo tempo codificata da Aristotele) di (i) universale affermativa; (ii) universale negativa; (iii) particolare affermativa; (iv) particolare negativa. Certo questi ultimi presentano una complessità ulteriore dato che il registro formale si gioca su un doppio livello di opposizione, in termini di quantità e di qualità, ma la natura formale è similare. Dire che qualcosa è possibile significa dire che quel qualcosa può essere. Dire che qualcosa è impossibile significa dire che quel qualcosa non può essere. Le due affermazioni, allora, sono reciprocamente esclusive, o è vera l’una e falsa l’altra, oppure è falsa l’una e vera l’altra. Dire che qualcosa è necessario significa dire che quel qualcosa non può non essere. Dire che qualcosa è contingente significa dire che quel qualcosa può non essere. Le ultime due affermazioni, allora, sono reciprocamente esclusive, o è vera l’una e falsa l’altra oppure è falsa l’una e vera l’altra.

Dato che ciascuno dei concetti (2)-(4) sono definiti e spiegati in funzione di (1), ossia del concetto di possibilità, ecco che quest’ultimo può venir considerato primitivo, ossia quello a partire dal quale sono derivabili tutti gli altri. Ciò rende conto del come mai nelle varie riflessioni filosofiche il concetto di possibile venga considerato quello più fondamentale.

In realtà, quel che dovremmo fare, e che Parmenide si chiede per primo, è porci la questione primaria della possibilità: che cosa significa dire che una certa situazione è possibile?75 I concetti (1)-(4) non sono altro che una riduzione all’essenziale di tale questione la quale, però, appare intimamente connessa con l’ontologia: le cose che sono esistono perché possibili, necessarie o contingenti?76 Ovviamente, se sono non ha alcun senso chiedersi se esistano perché impossibili. Scrive Maritain che «il concetto di essere, che è il primo di tutti e di cui gli altri non sono che delle varianti o delle determinazioni, perché scaturisce nello spirito al primo risveglio del pensiero, alla prima presa intelligibile operata dal senso sull’esperienza, trascendendo il senso stesso».77 L’essere, ossia il Tutto, quel che è, com’è pensabile dal pensiero? Solo sotto la forma delle sue condizioni di pensabilità, ossia per il tramite dei concetti modali (1)-(4). Se così stanno le cose, Parmenide, all’interno di un discorso ontologico, innovativo per i tempi, ci spiega come e cosa pensare (e dire). Detto altrimenti, la ricognizione ontologica è normativa per il retto pensiero (linguaggio), e nel farlo, indica anche i non — sensi nei quali rischiamo d’imbatterci, riducendo all’assurdo tali evenienze.

E tuttavia rimane forte la tentazione di considerare il ragionamento parmenideo, una prima forma di reductio ad absurdum nel caso si negassero gli attributi da lui addotti all’essere, una rudimentale espressione, ed utilizzo, del principio di non contraddizione, come un esercizio di confutazione elenctica. Su questa strada siamo sospinti se consideriamo nella giusta prospettiva quanto sostiene Galvan:

convinzione assai diffusa anche nel mondo antico che l’argomentazione electica sia la forma per eccellenza dell’autofondazione. Secondo la pretesa insita in tale forma argomentativa, infatti, la tesi segue dalla sua stessa negazione senza il ricorso ad altro che alle regole essenziali alla istituzione del gioco dialettico tra proponente ed opponente della tesi stessa. Per questo, il successo dell’argomentazione elenctica implica necessariamente il raggiungimento dell’obiettivo del’autofondazione.78

La confutazione elenctica, che riprende la turnazione del gioco dialettico tra sostenitore ed oppositore, funziona nella misura in cui una determinata tesi è in grado di sussistere sulle sue proprie gambe, essendo fondata di per sé e non necessitando di un intervento dall’esterno per trovare fondamento. La questione di fondo, forse, della filosofia occidentale, è se il pensiero sia autofondato o se necessiti di un’eterofondazione.

La situazione è tutt’altro che chiara sebbene, comunque, rimanga sullo sfondo una certa ambiguità relativa, però, non al significato di un simile discorso quanto, piuttosto, al rapporto, per certi versi oscuro, tra logica, intesa come scienza del pensiero, e ontologia, intesa come scienza dell’essere.79

Forse, i palati filosofici odierni considerano non gustosa tale questione, ma, a nostro sommesso parere, al contrario, la consideriamo “la” questione della filosofia occidentale. Il che, in certa misura, è coerente con gli scopi presenti dato che proprio in Parmenide ravvisiamo la fondazione di tale questione: una svolta ontologica che è, nel contempo, anche logica.

Dunque, l’essere è perché al limite (imponderabile) della riflessione v’è una congiunzione, alquanto paradossale oltre che inspiegabile, tra essere e pensare, visti e considerati equipollenti in uno dei frammenti più noti, e incompresi, dell’eleate.

9. La soluzione, alfine

Il discorso parmenideo, giunti a questo punto, è di facile comprensione. A differenza di altri autori a lui coevi, l’eleate mette a punto un dato tipo di ricerca speculativa che prende in considerazione il tutto che esiste e cerca di spiegarlo non facendo ricorso a ragioni religiose o tradizionali, ma sulla base della semplice ragione.

Tuttavia, perché si diano esempi concreti di corretto pensiero è bene che il pensiero abbia sempre un suo oggetto determinato in quanto il pensiero è sempre pensiero-di-qualcosa, un qualcosa che deve esistere dato che il nulla, per esempio, è un niente, ossia un non-qualcosa, e come tale resta, giocoforza, fuori dal pensiero.80 Lo stesso va detto del linguaggio, sempre il linguaggio-di-qualcosa, mai di niente che, proprio perché un non-qualcosa non può venir enunciato. Questa sorta di ortolinguistica parmenidea, certo più implicita che resa in termini espliciti, si muove su un doppio binario, tanto logico quanto ontologico. Rispondere a domande del tipo “cosa esiste? ” significa affermare cosa si possa pensare e cosa enunciare. Pertanto, ci sentiamo abilitati ad affermare come la “svolta” ontologica in Parmenide consista nel dire cosa e come si possa pensare.

Senza tema di esagerare, è presente in Parmenide una fondazione ante — litteram della logica, benché, comunque, vada tenuto presente che egli vive ed opera all’interno di una cultura che già da tempo muoveva i propri passi in direzione formale. Questo appare ancore più vero se si considera giustamente la logica come «la scienza delle leggi del pensiero».81 Questa è sicuramente una posizione che possa piacere ai sostenitori del postpensiero dato che in essa la logica è sempre e solo un’elaborazione culturale la cui funzione è rassicurante rispetto ad un mondo privo di ordine e di prevedibilità. Al contrario, ci riconosciamo in Facco quando scrive che «Alle origini della logica si trova la fondamentale esigenza dell’uomo di conoscere il vero, di evitare cioè le insidie della falsità e dell’errore».82

L’uso corretto delle facoltà razionali consente agli uomini di percorrere tutta la strada che conduce alla ben rotonda verità, ossia alla conoscenza fondata.

Questa doppia movenza, ontologica e logica insieme, con ogni probabilità dovuta al retaggio culturale dell’epoca di Parmenide, costituisce una svolta che avrebbe segnato in profondità l’intera filosofia occidentale, restando viva ed operante anche ai giorni nostri. Anzi, proprio ai nostri giorni quando si realizza una sorta di Anselmo renaissance, possibile solo attraverso una ripresa del registro filosofico parmenideo,83 ivi compresa quell’iniziale trattazione delle modalità.84

Ma, in fin dei conti, e a ben guardare, Parmenide non fa altro che compiere quella incessante attività filosofica di scavo nella realtà di quelle caratteristiche che la rendono tale, ossia la possibilità, e le sue varie declinazioni.

Forse, non ha torto Heidegger, un autore francamente poco simpatico, quando scrive come «La fenomenologia è il modo di raggiungere e di determinare dimostrativamente ciò che deve costituire il tema dell’ontologia. L’ontologia non è possibile che come fenomenologia»,85 come indicazione del ventaglio modale dell’essere (che siamo e conosciamo).


  1. Cfr. Platone, Parmenide, in Platone, Dialoghi, Torino, Einaudi, 2007, p. 352. ↩︎

  2. Il presente lavoro va colto nella sua giusta prospettiva: un momento di riflessione, ed approfondimento, di un lavoro più generale intorno alla possibilità che trova, per l’appunto, in Parmenide il momento iniziale, irrinunciabile se si desidera comprendere la specifica maniera attraverso la quale i filosofi hanno considerato l’essere della realtà, l’essere attuale, rispetto alla necessità o alla contingenza di esistere. In effetti, a ben guardare, in Parmenide ha luogo una vera e propria “svolta” rispetto al tema ontologico, inaugurando così una specifica via di ricerca intorno alla “possibilità”, che giunge sino a noi, con Heidegger prima e Gödel poi. Ovviamente, in questa sede ci si limiterà alla svolta ontologica di Parmenide, mettendo tra parentesi, lasciandole così nell’ombra, le considerazioni ulteriori che condurrebbero molto oltre le finalità della presente ricerca, sino a toccare per giunta l’argomento ontologico↩︎

  3. Cfr. E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 42. ↩︎

  4. Ibidem↩︎

  5. Cfr. F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 5. ↩︎

  6. Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Milano, Adelphi, 20052, p. 27. ↩︎

  7. Cfr. S. Galvan, Ontologia del possibile, Milano, EDUCatt, 2009, p. 25. ↩︎

  8. Il riferimento obbligato va alla presentazione che ne fa secoli dopo Aristotele. Cfr. Aristotele, Metafisica, Milano, Bompiani, 2000, p. 33 (A 5, 987a 1-9). ↩︎

  9. Cfr. Parmenide, Sulla natura, Milano, Bompiani, 2001, p. 45 (fr. 29). ↩︎

  10. Cfr. A. Tonelli, Le parole dei Sapienti. Seonfane, Parmenide, Zenone, Melisso, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 91. ↩︎

  11. Ibidem↩︎

  12. Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Milano, Adelphi, 200417, p. 17. ↩︎

  13. Ivi, p. 31. ↩︎

  14. Ivi, p. 40. ↩︎

  15. Cfr. A. Moro, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Milano, Adelphi, 20102, p. 24. ↩︎

  16. Ivi, p. 25. ↩︎

  17. Cfr. G. Calogero, Studi sull’eleatismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 64-5. ↩︎

  18. Cfr. Aristotele, Metafisica…cit., pp. 31-33. ↩︎

  19. Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia…cit., pp. 74-5. ↩︎

  20. Ibidem↩︎

  21. Ivi, p. 73. ↩︎

  22. Ibidem↩︎

  23. Ivi, p. 87. ↩︎

  24. Cfr. A. Tonelli, Le parole dei sapienti…cit., p. 96. ↩︎

  25. Ivi, p. 21. ↩︎

  26. Cfr. U. Di Toro, L’enigma Parmenide. Poesia e filosofia nel proemio, Roma, Aracne, 2010, p. 43. ↩︎

  27. Ivi, p. 23. ↩︎

  28. Ibidem↩︎

  29. Ivi, p. 44. ↩︎

  30. Ivi, p. 49. ↩︎

  31. Ivi, p. 53. ↩︎

  32. Ibidem↩︎

  33. Cfr. U. Di Toro, op. cit., p. 129: «Eliminare le Muse significa in primis rinunciare a considerarle come le depositarie del sapere, della verità, ma allo stesso tempo ed in ossequio alla coerenza con il principio che non si può porre arbitrariamente un inizio […] significa anche che non è alla poesia precedente che bisogna guardare per comprendere il significato dei simboli e delle metafore parmenidee». ↩︎

  34. Cfr. A. Lami, I Presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, Milano, BUR, 20087, pp. 273-275. ↩︎

  35. Cfr. A. Tonelli, op. cit., pp. 115-117. Nello specifico, l’autore connette il sostantivo daímones con odòn, considerandolo, in traduzione, come un genitivo da rendere come via della Dea, la via che dice ‘che è’. In tal caso, però, vengono meno le giovani che indicano la via a Parmenide mentre ascende al colloquio diretto con la divinità. Ciò è forse dovuto alla trama misterica e sapienziale sostenuta con forza da Tonelli e non riconosciuta come valida da altri interpreti. Peraltro, il frammento presenta un nominativo plurale, le divinità, e non un genitivo plurale, delle divinità. Invece, U. Di Toro, op. cit., p. 159 interpreta le fanciulle «come la capacità di penetrazione del pensiero di Parmenide stesso». ↩︎

  36. Cfr. A. Tonelli, op. cit., p. 117. ↩︎

  37. Cfr. A. Lami, op. cit., p. 275. ↩︎

  38. Cfr. u. di toro, op. cit., p. 20. ↩︎

  39. Ivi, p. 37. ↩︎

  40. Ivi, p. 67. ↩︎

  41. Ivi, p. 77. ↩︎

  42. Ibidem↩︎

  43. Ivi, p. 81. ↩︎

  44. Ibidem↩︎

  45. Cfr. A. Capizzi, Introduzione a Parmenide, Laterza, Roma-Bari, 1975. ↩︎

  46. Cfr. U. Di Toro, op. cit., pp. 93-94. ↩︎

  47. Ivi, p. 94. ↩︎

  48. Ibidem↩︎

  49. Supra↩︎

  50. Ibidem↩︎

  51. Cfr. G. Reale — D. Antiseri, Quale ragione?, Milano, Raffaello Cortina, 2001, pp. 45-6: «ancora la metafisica greca concepisce l’essenza della theoria come un puro ‘assistere’ all’essere vero, e anche per noi la capacità di atteggiarsi teoreticamente è definita dal fatto di riuscire, avanti a un fatto, a dimenticare i propri interessi immediati. La theoria non va pensata, però, come un modo di determinarsi del soggetto, ma va vista anzitutto come un riferimento a ciò che il soggetto contempla. La theoria è partecipazione reale, non un fare ma un patire (pathos), cioè l’essere preso come rapito dalla contemplazione. Su questa base si è di recente cominciato a chiarire lo sfondo religioso della concezione greca della ragione». Gli autori stanno citando un passo di Gadamer quando, in Verità e metodo, parla del significato di theorein. Eppure, la citazione appare pertinente ed importante. Infatti, la conoscenza è considerata dai greci come un lasciarsi attraversare dalla contemplazione del reale. Così stando le cose, allora, esiste un anello di congiunzione tra la conoscenza cosiddetta scientifica (conoscenza laica) e la conoscenza religiosa. Questo è un dato molto significativo se posto in relazione al discorso parmenideo il quale emula lo stile dei poemi religiosi del tempo, ma esprime un tipo di conoscenza non religioso. In fondo, infatti, egli mira a contemplare le cose vere, a lasciarsi rapire dalla verità. Ciò suggerisce di considerare il filosofo greco come termine medio tra tradizione religiosa e tensione speculativa scientifica. ↩︎

  52. Cfr. U. Di Toro, op. cit., p. 96. ↩︎

  53. Ivi, p. 98. ↩︎

  54. Ivi, p. 99. ↩︎

  55. Ibidem↩︎

  56. Ivi, p. 112. ↩︎

  57. Ibidem↩︎

  58. Ivi, p. 113. ↩︎

  59. Ibidem↩︎

  60. Ivi, p. 115. ↩︎

  61. Cfr. P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. L’avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Milano, Tea, 2006, p. 38 e sgg. ↩︎

  62. Cfr. G. Calogero, op. cit., pp. 64-5. ↩︎

  63. Cfr. U. Di Toro, op. cit., p. 167. ↩︎

  64. Ivi, p. 166. ↩︎

  65. Cfr. M. Dummett, Alle origini della filosofia analitica, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 13. ↩︎

  66. Cfr. Parmenide, op. cit., p. 45 (fr. 312). ↩︎

  67. Cfr. Parmenide, op. cit., p. 47 (fr. 414). ↩︎

  68. Ivi, p. 49 (fr. 618). ↩︎

  69. Cfr. Parmenide, op. cit., p. 49 (fr. 720). ↩︎

  70. Cfr. Parmenide, op. cit., pp. 51-3 (fr. 823). ↩︎

  71. Cfr. Aristotele, Fisica, in Aristotele, Opere 3, Roma — Bari, Laterza, 20016, p. 8. ↩︎

  72. Cfr. A. Moro, op. cit., pp. 33-4. ↩︎

  73. Cfr. M. Zakharyaschev — K. Segerberg — M. De Rijke — H. Wasing, The Origins of Modern Modal Logic, in AA. VV., Advanced in Modal Logic, pp. xi-xxviii. ↩︎

  74. Cfr. Aristotele, Dell’Espressione, in Aristotele, Organum, Milano, Adelphi, 2003, pp. 67-8. ↩︎

  75. Cfr. A. Borghini, Che cos’è la possibilità, Roma, Carocci, 2009, p. 8 e sgg. L’autore, tuttavia, affronta la questione da una prospettiva meramente analitica nel senso che intende dare conto del dibattito analitico sulla modalità. Se una simile scelta è del tutto libera, è pur vero che così facendo è gioco forza occultare altri filoni di pensiero che hanno affrontato la questione in termini differenti e, dal presente punto di vista, più interessanti. ↩︎

  76. Echeggiano qui le celebri domande di alcuni filosofi che hanno tentato di pensare l’originario: come mai v’è l’essere piuttosto che il nulla? Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia, 19722, p. 13: «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?». Ma anche G. W. Leibniz, I principi razionali della natura e della grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Milano, Bompiani, 20083, p. 47 (§ 7). Risulta interessante quanto sostiene Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, in L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi, 1995, pp. 87-88: «La realtà è veramente realtà solo se, semplicemente, è: proprio perché è si può pensare che prima di essere fosse possibile o necessaria, nel senso che si può asserire indifferentemente, tanto «ormai è, ma poteva non essere» quanto «ormai è, e quindi non può più non essere». Questo carattere instaurativo e primario della realtà vien meno quando la si indebolisce ed estenua o insistendo sulla concezione della realtà come contingenza o assumendo la necessità nella sua accezione logico-metafisica. Per un verso la contingenza, attribuendo alla realtà un poter non essere, la ricollega ancora con la possibilità, con l’effetto di affondarla nella nebbia dell’irreale, in cui valgono i fantasmi del caso, dell’ipotesi, del rischio, dell’arbitrio, della virtualità». ↩︎

  77. Cfr. J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Brescia, Morcelliana, 19984, p. 25. ↩︎

  78. Cfr. S. Galvan, Non contraddizione e Terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizionista e minimale, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 124-5. ↩︎

  79. Ivi, p. 134 e sgg. Su questo fronte di ricerca ci siamo messi alla prova recentemente nel nostro A. Pizzo, Viaggio al centro della logica, Roma, Aracne, 2010, p. 14 e sgg. ↩︎

  80. Come, peraltro, Platone fa dire al suo personaggio Parmenide nel dialogo omonimo quando sorge una disputa sulla concezione adeguata di “idea”. Cfr. E. Berti, Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, Roma — Bari, 2010, p. 86. ↩︎

  81. Cfr. G. Rigamonti, Corso di logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 17. ↩︎

  82. Cfr. M. L. Facco, Metafisica, logica, matematica. Leibniz, Boole, Rosmini, Marsilio, Venezia, 1997, p. 9. ↩︎

  83. Cfr. C. Arata, Dio oltre il principio di non contraddizione, Brescia, Morcelliana, 2009, p. 21. ↩︎

  84. Cfr. A. Pizzo, Argomento ontologico. Una storia convergente per un’interpretazione divergente (2009), Roma, Aracne, p 82 e sgg. ↩︎

  85. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 2000, p. 56. ↩︎