Recensione a Roberta De Monticelli, La questione morale

Roberta De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina, Milano, 2010, pp. 194, € 14, 00

Il presente volume si prefigge l’ardito compito di illuminare filosoficamente la questione morale la cui «profondità di significato» (p. 11) sfugge ancora. Secondo l’autrice, infatti, a tanto clamore mediatico in merito non corrisponde un’altrettanta saggia riflessione al suo riguardo.

V’è in Italia una “questione morale” nel senso che è ormai del tutto perduta la bussola morale. La conseguenza quasi immediata è che la condotta pratica degli uomini è del tutto arbitraria, caotica, sovente anche irrazionale. La De Monticelli si propone, pertanto, la ricerca di un antidoto a siffatta situazione, di andare in cerca di una risposta alla questione di fondo al tema prescelto: «se sia veramente possibile una fondazione razionale del pensiero pratico» (p. 14). La ricerca del fondamento esige, così, che ci si interroghi sull’attuale concezione morale, la stessa a partire dalla quale si ha pensiero morale e, quindi, condotta pratica. Ma fare ciò impone riprendere in considerazione delle nozioni sulle quali non siamo più abituati a riflettere, a prendere in mano delle considerazioni morali inattuali, «disvalori e valori» (p. 14). Se v’è una questione morale è perché non ci si fida più del giudizio di valore, o, perlomeno, non si nutre più alcuna fiducia, cognitiva e/o pratica, nei confronti della conoscenza formulata dal giudizio di valore. Al riguardo, l’autrice è netta: «Chiedersi se sia possibile una rifondazione razionale del pensiero pratico equivale a chiedersi, infine, se c’è verità e falsità nel giudizio di valore. Se la conoscenza nelle questioni di valore è possibile» (p. 14). Detto altrimenti, la questione morale impone di chiedersi se sia possibile una rifondazione del pensiero pratico. Ma quest’ultima impone una questione ulteriore: è possibile una conoscenza morale? V’è verità (e falsità) nel giudizio morale? La questione morale significa, dunque, porre in evidenza «la questione del possibile rinnovamento dei nostri mores, delle nostre abitudini quotidiane» (p. 14). Ma ciò è, metodologicamente, possibile se, e solo se, siamo disposti ad andare «oltre la superficie mediatica in cui prevalgono […] disinformazione e distorsione del vero» (p. 14). L’indagine, pertanto, impone di concepire la conoscenza morale in sé possibile, ossia ispirata sul modello della conoscenza teorica, aperta alla fallibilità dal discernimento del vero e del falso. Ma la filosofia recente ha imboccato una direzione del tutto alternativa. Infatti, nel «pensiero filosofico europeo del Novecento è prevalso […] quello che possiamo chiamare un fondamentale scetticismo etico, e cioè la convinzione che non esista verità o falsità in materia di giudizio di valore, e non esista di conseguenza oggettività alcuna in materia di giudizio pratico, vale a dire del giudizio che risponde alla domanda “che fare”? » (p. 16). Quel che l’autrice denomina “scetticismo etico”, prevalente nel secolo appena passato per quanto concerne il pensiero pratico, ha assunto varie forme, «soggettivismo, relativismo, determinismo tragico, decisionismo, nichilismo» (p. 16), atteggiamenti secondo i quali, in fondo, non c’è un fondamento razionale per il pensiero pratico. Questi ultimi, dunque, sono sfumature diverse della comune matrice secondo la quale non è possibile alcuna conoscenza morale dato che i giudizi assiologici sono eterogenei ai valori di verità.

Per rifondare, allora, il pensiero pratico bisogna combattere lo scetticismo etico, «difendere la serietà della nostra esperienza morale» (p. 19), difendere il fatto reale che la nostra esperienza «è aperta al vero» (p. 19), «difendere la realtà delle persone che siamo» (p. 21). La conoscenza pratica va, dunque, presa sul serio, considerata per quello che è: un’irrinunciabile esperienza veridica.

La prima parte del volume illustra la particolare natura del familismo amorale nostrano, tanto responsabile della questione morale.

Le radici dello scetticismo etico, almeno per quanto riguarda la cultura del nostro Paese, vanno ricercate nel pensiero politico di inizio modernità. De Monticelli rintraccia nel Guicciardini i prodromi dell’habitus nostrano, incoerente, opportunista, moralmente indifferente. Scrive l’autrice che «i nostri “moralisti” sono dei perfetti immoralisti» (p. 34). Le riflessioni del Guicciardini, infatti, sono ispirate da un dio del tutto peculiare, «il “tornaconto”» (p. 34), un «completo cinismo» (p. 34), il «particulare» (p. 43), «l’individuo senza amor proprio» (p. 43). Questa stessa deriva, la quale focalizza la propria attenzione esclusivamente alle apparenze, al “come apparire”, dimenticando del tutto la profondità (interna) dei comportamenti concreti, viene colta anche dal Leopardi secondo il quale la coscienza morale media rende impossibile un’etica pubblica. L’esteriorità, in luogo dell’interiorità vissuta pubblicamente, è l’attuale costanza morale dei nostri giorni, per i quali «“basta apparire”» (p. 47), «il confine fra la dissimulazione onesta e la menzogna non c’è, che di onesto non c’è proprio niente né importa a nessuno che ci sia» (p. 47). Eppure, un comportamento tanto antico viene oggi rinnovato, e non poco. Infatti, il «nuovo è invece nel modo in cui si occulta l’ingiustizia costitutiva che sta nell’impiego di risorse pubbliche a vantaggio di interessi “particolari”» (p. 50). La questione è morale nella misura in cui comportamenti non virtuosi, prima nascosti, sono adesso esibiti senza inibizione alcuna. Anzi, la «manifestazione universale è il modo nuovo della non-trasparenza» (p. 50). La menzogna non viene nascosta, ma esposta nel circuito mediatico, resa televisibile. Allora, la novità della menzogna morale è «l’indifferenza assoluta a ogni prova del contrario» (p. 51). Il falso, così, persuade non perché non lo si conosca, ma perché è basato «sulla sua ripetizione e sulla soppressione delle voci contrarie» (p. 51). Si pensi, così, ai recenti casi della cronaca, anche politica, nostrana: può lo spettatore sottrarsi alla costruzione della realtà veicolata dal mezzo? E un qualche attore sociale chiamato in causa in tali episodi ha forse diritto di replica? E una riprovazione franca degli stessi passa per lo stesso mezzo televisivo? E tuttavia non è soltanto una questione di accessibilità al canale informativo, al medesimo proscenio pubblico, ma è molto più profonda, e, dunque, pericolosa. Infatti, se «basta apparire, tutto appare invano: l’apparire non ha niente a che vedere con l’essere, non lo vela né lo svela, non lo manifesta né lo cela» (p. 51). Ecco la novità meraviglia nostrana: la vanificazione di quanto appare nel momento stesso in cui lo si fa apparire. E ciò comporta anche una separazione tra forma e sostanza, tra apparenza ed esistenza. Per cui, non «c’è alcun essere dietro l’apparire, alcuna realtà, alcun modo in cui le cose stanno in verità» (p. 51). Comportamenti la cui unica ratio è l’apparenza cessano di avere collegamenti con il vero e il falso, non sono più esperienze veridiche, ma simulazioni, ossia condotte senza alcuna importanza, ciascuna delle quali della medesima importanza.

Il bene è, dunque, perduto nell’indifferenza (cinica) dei comportamenti pratici, né veri né falsi, ma sempre utili per chi, individualmente, li manda ad effetto.

Un comportamento moralmente indifferente non vincola chi lo realizza a renderne conto. Infatti, «riconoscersi personalmente responsabili di un’azione è riconoscersi in dovere di darne ragione — ma le ragioni o parlano a tutti o non sono buone ragioni» (p. 55). Ma un agente morale così determinato spezza i suoi vincoli di appartenenza ad una comunità più vasta, viene, per così dire, separato da altri agenti morali suoi pari. L’esito nichilista, in questo modo, è per di più scontato. Ma ha la conseguenza di disgregare, frantumare, sbriciolare, la consistenza stessa di una comunità, di un’etica pubblica. A venir meno è l’«universalità del dovere morale» (p. 55), la relazione sottile, e difficile, che l’azione morale del singolo ha con l’azione morale (collettiva) degli altri singoli suoi pari, ossia della comunità, il nesso ostico e complesso di individualità e generalità morali. Come sostiene l’autrice, il «dovuto da ciascuno a tutti» (p. 55). Il dominio, per non dire l’imperio, degli individui sulla collettività, del particolare sul generale, reca l’immagine morale globale del nostro Paese ove si affollano tanti minori morali, e nessun adulto, «troppi individui non formati» (p. 57), persone mai divenute davvero tali, mai uscite dalle famiglie d’origine e del tutto addentro ad un familismo asfittico, la cui portata è venuta fuori dall’esaurirsi dei partiti di massa novecenteschi. Infatti, «questa immaturità è venuta alla luce» (p. 57), desolante quanto pericolosa per la virtù pubblica.

La seconda parte del volume illustra in maniera davvero efficace la natura dello scetticismo etico.

Di chi è la responsabilità della questione morale in Italia? In primo luogo dei filosofi, ossia delle cosiddette «persone pensanti» (p. 79). Tentare di rifondare il pensiero pratico, allora, comporta tornare a pensare, tornare a prendere sul serio l’etica, a considerare seriamente tanto le esperienze morali (individuali) quanto i giudizi di valore (generali). La modernità, anche in questo, pertanto, ci ha consegnato un pesante fardello. La questione morale, infatti, ha «una storia profonda» (p. 83), risalente almeno alla modernitas «che vede la graduale erosione del fondamento tradizionalistico e religioso dei costumi e delle istituzioni a vantaggio della coscienza personale, vede crescere l’ambito delle opzioni soggette al libero esame e all’adesione interiore, e assottigliarsi per così dire lo spessore di oggettività degli oggetti morali: altari e tribunali, matrimoni e mestieri … » (p. 83). L’erosione particolarista del giudizio morale sotto il giogo dello scetticismo etico si risolve, alla fine, in un paradosso: «i suoi più eccellenti fautori e costruttori non sono in grado di giustificare razionalmente le loro stesse scelte e azioni» (pp. 88 — 9). Come potrebbe essere altrimenti quando si nega il ruolo stesso della ragione dell’azione pratica, fatta pertanto soltanto di volizioni, desideri e suscettibilità?

Antidoto efficace contro lo scetticismo etico è riabilitare la conoscenza morale, giustificata come vera, ossia «in base alla ragione con cui viene giustificato il giudizio che l’afferma» (p. 91). La conoscenza morale può, pertanto, essere giustificata per mezzo di ragioni razionalmente apprezzabili. Le norme, ad esempio, andrebbero «come i comportamenti che regolano, soggette al vaglio delle coscienze che chiedono ragione» (pp. 92 — 3). Norme giustificate «significa che anche io posso vedere che sono giuste o per altro verso adeguate (o che non lo sono) se vi pongo mente, e non che sono dichiarate tali da un’altra autorità» (p. 93). Allora le norme possono essere giustificate. Ciò significa che «i principi che le fondano sono riconoscibili come veri, e in quanto tengono conto di tutti i fatti che sono a nostra conoscenza (verità) » (p. 93). In quanto tali, i principi a fondamento delle ragioni che giustificano le norme per la condotta pratica devono essere evidenti, ossia riconoscibili come veri da tutti gli attori morali. Le ragioni morali, dunque, sono universali, ossia collocarsi in uno «spazio delle ragioni» (p. 94). La giustificazione delle ragioni morali affonda le proprie radici nella teoria della ragione elaborata da Socrate e perfezionata in seguito da Platone. Eppure, però, l’autrice sostiene che vada completata con due «dei concetti più controversi del lessico intellettuale contemporaneo: valore e persona» (p. 96). Chieder conto delle azioni umane vuol dire giustificare le opzioni scelte. Ma aggiunge la De Monticelli «dove c’è un’opzione ci sono valori, e dove ci sono valori ci sono doveri, c’è etica. Alla base della logica c’è l’etica» (pp. 97 — 8). Giustificare determinati corsi d’azione è possibile solo se si rende conto della scelta operata in favore di uno piuttosto di un altro. Ma la scelta dipende dalla considerazione che dei vari concorrenti corsi d’azione si possiede, ossia da come li si valuta. Pertanto, paradossalmente, alla base della logica, ossia della giustificazione razionale delle scelte, v’è l’etica, ossia la maggiore o minore preferenza valoriale conferita a concorrenti corsi d’azione possibili. Tuttavia, l’autrice va oltre. Infatti, «se render ragione, laddove sia legittima la richiesta di farlo, è un dovere, questo dovere non si esercita senza logica. Alla base dell’etica c’è la logica, che è essa stessa la disciplina del pensare giusto, l’etica del pensiero» (p. 98). La logica è fondata sull’etica dal momento che essa stessa è una sorta di “etica del pensiero”, una scienza di come si debba pensare (se si desidera farlo correttamente). Infatti, il pensiero è razionale se, e solo se, si effettua in conformità ai valori rinvenuti dalla logica. Dunque, in fin dei conti, la logica riposa sull’etica ma è di fondamentale importanza nell’ottica del “dare ragione”, in termini razionali, al comportamento pratico. L’una non può aver luogo senza l’altra. Logica ed etica costituiscono, così, un intreccio del quale, forse, si accorse, in misura maggiore a tanti altri pensatori a lui coevi, Husserl. Come aggiunge, infatti, l’autrice «Filosofare è socraticamente render ragione a se stessi […] delle convinzioni più o meno oscure, più o meno ereditate, più o meno infondate che si hanno. Riguardo a come stanno veramente le cose, ma anche riguardo a cosa sia bene o non lo sia in qualche rispetto, e riguardo a cosa si debba o non si debba fare» (p. 98). Questo ci insegna l’etica socratica: bisogna coltivare l’umanità nel senso che le persone vanno educate nella ricerca della verità, tanto in ambito conoscitivo quanto in ambito morale. Forse, la questione morale potrebbe essere superata se recuperassimo la nozione di paideia, di educazione delle persone alla ricerca razionale di ragioni.

Una nuova teoria della ragione recupera il doppio impegno, conoscitivo e pratico, di giustificare i propri giudizi in quanto considerati veri e di onorarli perché giudicati veri, alla stessa maniera di come, in passato, faceva Socrate. Lo scetticismo morale, per l’autrice, si fonda su due equivoci, in sé delle verità parziali assolutizzate nella coscienza media: (1) la distinzione di fatti e valori; e, (2) relativismo assiologico. Certo, «i giudizi di valore non sono riducibili a giudizi di fatto» (p. 106), ma ciò ha condotto ad un equivoco di fondo: sostituire “razionale” a “morale”. Addurre risposte razionali a questioni etiche non significa fornire risposte morali. Il relativismo assiologico, da parte sua, si «basa su una sorta di radicale diffidenza nei confronti di ciò che appare (la “cultura del sospetto”), accompagnata da un fondamentale disprezzo nei confronti di ciò che è» (p. 112). Siffatto disprezzo è «un modo di sentire la realtà che la sente in se stessa priva di valore» (p. 112). Se la realtà è in sé priva di valori, allora «i valori li proiettiamo noi nelle cose» (p. 113). Questa è diventata una sorta di ovvietà, ma è «una tesi erronea» (p. 113) nel senso che il «realismo politico» (p. 113) di antichi e moderni è diverso, è cosa diversa. Il classico esempio del discorso degli ateniesi ai melii non giustifica un atteggiamo simile che nel XX secolo ha ispirato una condotta sprezzante delle persone e dei valori sino ad elevarla ad istituzione. L’idea, ripresa dal postmoderno, secondo la quale abbiamo preso congedo (definitivo) dalla verità mette capo ad un relativismo assiologico che è «la riduzione di ogni presa di posizione in materia assiologia all’opinione-fede di qualcuno» (p. 118). Questa, però, è un’idea erronea perché si ritiene che «in materia di valore non ci sia un modo in cui le cose stanno, indipendentemente da quello che noi crediamo o sappiamo» (p. 119). Il relativismo, pertanto, va di pari passo con il nichilismo in materia di valori. Infatti, il pensiero filosofico del XX secolo ha elaborato l’idea, in sé per nulla innovativa rispetto ai secoli precedenti, che «là dove ci sono valori in questione e in discussione, in ultima analisi ci sono solo volontà che si scontrano» (p. 120). Ciò significa che l’ambito «dei valori e delle regole non è soggetto a conoscenza, e quindi a ricerca, anche personalmente impegnativa, ricerca di evidenza, di giustificazione, di argomenti» (p. 120). Se non v’è verità in etica, le azioni non hanno giustificazione razionale. Ma, di conseguenza, la condotta pratica diventa l’arbitrio del soggetto, ossia la violenza (gratuita) del più forte. Infatti, «quale gusto debba prevalere è questione di forza» (p. 120). La posizione dell’autrice, invece, è che i valori abbiano una loro oggettività, che siano suscettibili di conoscenza vera.

La terza parte del volume è dedicata alla presentazione delle modalità in virtù delle quali sia possibile “tornare a pensare”.

Al fondo dello scetticismo etico v’è «una dissociazione tanto radicale quanto ingiustificata fra l’esperienza di valori e la ricerca della verità, fra la vita autentica e la ragione» (p. 135). Correggere la coscienza morale odierna vuol dire correggere il tiro della modernità. Le azioni umane vanno giustificate perché sono vere o false, perché i valori sono anche oggettivi, non soltanto soggettivi. Dunque, non «è la persona a costituire i valori, ma sono i valori a costituire la persona» (p. 140). Le persone non sono anteriori ai valori, ma derivanti da questi ultimi. Detto altrimenti, «i valori sono la sostanza morale di cui sono fatti i modelli, le persone reali o ideali che incarnano il tipo di persona che possiamo moralmente apprezzare, o che vorremmo essere» (p. 140). Il pluralismo dei valori non equivale a relativismo, ossia all’appiattimento di tutti i valori su un’indifferenza assiologica di fondo. La molteplicità di ordinamenti valoriali non implica il relativismo dei valori. Ciò significa che è possibile un pluralismo senza relativismo. Il numero plurale di ordinamenti di valori costituisce l’ethos, ossia «la “cultura” di una qualche comunità di appartenenza» (p. 143). L’autrice aggiunge ancora che «un ethos vive della vita delle persone che […] lo assumono» (p. 143). Se incarnato «nel sentire di un essere umano, diventa fondamento di scelte, decisioni, comportamenti, e prima ancora esperienze di valore, incontri: in breve, diventa il vero e proprio principium individuationis di una persona, l’ordine concreto dei beni, cioè delle cose di valore, che le stanno a cuore» (pp. 143 — 4). La diversità è, dunque, un arricchimento della vita in comune la quale ha «bisogno di ciascuna vita e di tutta la storia» (p. 144).

L’intera questione del politeismo dei valori, allora, si ridimensiona e si precisa. Infatti, «si riduce l’ambito del possibile conflitto valoriale» (p. 145). D’altra parte, «ogni ethos personale comporta preferenze di valore che non pretendono affatto di fondare norme universali, ma soltanto “doveri personali”, al più condivisi da tutti coloro che condividono quell’ethos» (p. 146). La questione si precisa anche in quanto solo «dove una priorità di valore iscritta in un determinato ethos pretende di fondare un dovere universale, può insorgere un conflitto» (p. 147). L’esito nichilista del politeismo dei valori, perlomeno per come viene concepito nell’opinione comune corrente, è mettere «in questione la parte più personale dell’esperienza morale, quella propriamente legata all’identità morale di ciascuno» (p. 150). Asserire l’esistenza conflittuale e non mediabile di valori soggettivi di pari importanza sembra impedire la possibilità di una fondazione razionale del pensiero pratico. De Monticelli, però, suggerisce alcuni passi da poter compiere per uscire dal pantano, da questa insidiosa situazione: (a) «distinguere con grande chiarezza ethos ed etica, dove per ethos […] intendiamo l’ordinamento valoriale costitutivo di un’identità personale e morale […] e per etica intendiamo la disciplina del dovuto da ciascuno a tutti» (p. 151); (b) «esplicitare il rapporto fra ethos ed etica […] occorre appunto che sia negato l’anything goes, la convinzione che tutto è permesso (purché sia sostenuto da una forza sufficiente) » (p. 152). Evidentemente, allora, non ogni ethos può andar bene, ma solamente «quelli compatibili con l’etica» (p. 152). Forse, però, in parte la confusione attuale è dipesa dalla mancata conoscenza di cosa sia etica. Per l’autrice la sua formula è la seguente: «quello che è dovuto da ciascuno a tutti è lo stesso diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé» (p. 153). Di conseguenza, quanto viola questo dovuto «è a priori incompatibile con l’etica» (p. 153). Se prendessimo sul serio l’etica, non sarebbe possibile addurre ragioni per pretese soggettive valoriarmente considerate “giuste” da preferenze individuali. Infatti, se tali pretese confliggono con il dovuto da ciascuno a tutti i suoi pari, membri della medesima comunità, non sono affatto etiche, ossia moralmente giuste. Anzi, sono ragioni, per quanto razionali, immorali.

Il pensiero pratico si articola in varie partizioni. Ebbene, «occorre ritrovare nel pensiero l’unità della ragione pratica attraverso le sue divisioni» (p. 157). I diritti presi sul serio «sono l’etica (l’esigenza di giustizia) che esige protezione giuridica» (p. 157). A ben vedere, l’etica è la ricerca personale della conformazione della libertà personale con quanto dovuto agli altri nell’ambito della comunità. Il diritto, pertanto, altro non sarebbe se non la protezione del «gheriglio della libertà personale» (p. 159). Tuttavia, le leggi non sono solo la protezione giuridica alla libertà dei singoli, ma anche «un mezzo di scoperta del dovuto da ciascuno a tutti» (p. 160).

In fondo, resta aperta ai singoli la possibilità di ricercare in prima persona quelle opzioni che rispettino la legge fondamentale dell’etica: dare a ciascuno quanto deve dare a tutti gli altri. Solo se «ammettiamo che la ricerca non ha fine anche in etica, avremo argomenti contro lo scetticismo pratico. Altrimenti vi soccomberemo» (p. 161). Ecco perché al fondo della questione morale «troviamo dunque la relazione delle persone alla verità» (p. 185).