Recensione a Filippo Costa, Logica e verità. I. Ricerche informali

Filippo Costa, Logica e verità. I. Ricerche informali, ETS, Pisa 2005.

È certamente una questione fondamentale in filosofia il problema della verità. Questione rispetto alla quale, infatti, è possibile riordinare l’intera storia della filosofia.

Si tratta di una questione fondamentale perché (i) riguarda direttamente la pretesa veritativa della filosofia, ossia la sua pretesa di dire cose vere intorno alla realtà; e, (ii) riguarda gli oggetti del discorso filosofico, ossia il loro essere veri o falsi, corrispondenti o meno a stati di cose.

Anticamente, il concetto di verità è stato inteso «come concetto semantico» (p. 25), ove è stato presupposto, idea oggi molto dibattuta, un rapporto, quale che sia, tra il «linguaggio» e la «realtà». Tale presupposto, dalla vaga natura “metafisica”, ha costituito un problema dal quale è apparso ai più impossibile prescindere. Anche se non è mancato chi, davanti al disagio provocato dalla nozione (controversa) di verità abbia reagito «negando il problema» (p. 26). Seguendo questa strada si dovrebbe concludere che «il problema filosofico della verità non esiste» (p. 26) e che, di conseguenza, il tentativo di affrontarlo «deve dichiararsi fallito in partenza» (p. 26). Non è di certo una posizione condivisa, forse neanche condivisibile (se quanto diciamo non avesse alcuna attinenza con la realtà, che parleremmo a fare?), tant’è che le cose del mondo possono essere conosciute, ossia possono venir «disposte a essere conosciute in dicta che si dicono veri» (p. 27).

La filosofia intraprende la sua impresa «con il voler-sapere-che-è un X» (p. 29), intendendo conoscere gli enti reali. La domanda filosofica intorno agli enti implica la necessità di disporre di oggetti dei quali si presuppone l’esistenza. Dal momento che gli enti esistono, la dimensione ontologica giudica la loro verità e falsità intorno alle loro enunciazioni linguistiche, le quali possono così essere, e giudicate di conseguenza, più o meno rispondenti agli enti reali. Allora, la «richiesta del che-è-X resta dunque tra l’istanza logica, l’istanza ontologica e l’istanza trascendentale dell’idea di verità» (p. 29). Il presupposto, quasi eracliteo, della connessione tra i piani differenti, ma non anche irrelati, di ontologia, linguistica e episteme, fa sì che «la verità è qualcosa che si dice in quanto ciò che si dice si può qualificare come vero o falso» (p. 30), il discorso significativo (p. e. il discorso la cui intenzionalità è descrivere stati di cose reali), e non quello normativo (p. e. il discorso la cui intenzionalità è prescrivere quali stati di cose produrre) in Aristotele. Così che si può affermare come «la verità esiste nel fatto di conoscere» (p. 36). Solo che noi conosciamo in quanto disponiamo dell’essenza delle cose, ossia delle definizioni delle cose stesse. Questo vuol dire che «una teoria della verità è connessa con una teoria della definizione» (p. 39), non che la verità sia definibile, ma nel senso che definire qualcosa implica che sia dia una definizione la quale, in qualche modo, corrisponda alla realtà. In questo modo, per prodursi verità «deve esser dato un enunciato in quanto la funzione enunciativa è assolta dall’essere» (p. 43), senza che immediatamente si fornisca un contenuto informativo. Questa è, cioè, la condizione trascendentale di verità: possono essere valutati nei termini di verità e falsità le enunciazioni che riguardano l’essere delle cose, la connessione secondo l’ordine soggetto-copula-predicato che si ha nell’asserzione. Infatti, «l’uso di essere è segno di asserzione» (p. 43).

In altri termini, «la verità non è qualcosa che si debba “pensare” e definire» (p. 45), pur essendo alla base dei calcoli logici, ove ‘calcolo logico’«significa processo secondo norme che ha un dato iniziale, una regola di procedura e un risultato» (p. 46). La definizione, per la quale, ovviamente, entra in gioco la nozione di verità, altro non è che la descrizione di qualcosa attraverso la quale di qualcosa «se ne costruisce la teoria» (p. 47). Il descrivere è ratio essendi della verità: in assenza di descrizioni (o, rappresentazioni) viene meno la nozione stessa di verità. Dare descrizioni vere è condizione di possibilità delle teorie, dato che queste ultime vengono intese quali insieme coesi di enunciati. Infatti, il «fatto che un enunciato sia vero lo lega sintatticamente, semanticamente, pragmaticamente ed infine idealmente ad altri enunciati ritenuti veri, fino al punto che la sua verità viene fatta consistere in legami di questo genere» (p. 51), la sua verità «esige connessione» (p. 51).

Comunque si veda la questione, si deve riconoscere che «il problema della verità rimanda al problema della definizione» (p. 52), essendo proprio tale questione oggetto di discussione nel presente lavoro. La «definizione della verità esige una verità della definizione, ossia una teoria che non la riduca a semplice questione di parole» (p. 52), problematica che attraversa la riflessione filosofica, soprattutto contemporanea, sino a trovare in Tarski il suo principale definitore. Si possono anche prendere in considerazione gli enunciati facendo astrazione dalla (loro) verità, ma resta innegabile come «gli enunciati veri sono veri enunciati, ossia forme linguistiche che riescono a rappresentare le cose come sono» (p. 59), così che viene evidenziata una «struttura logica della verità» (p. 59), presente ad esempio già in Kant nel rapporto tra il fenomeno e il noumeno.

Prima di Tarski il problema della verità è stato posto in dati termini da Frege, la cui opera «è divenuta il punto obbligato di partenza per le trattazioni che riguardano logica e verità» (p. 61). La verità è da lui intesa quale un processo di verificazione delle asserzioni il quale fa sì che la verità non sia «più semplicemente oggetto di riflessione filosofica ma diviene forma-formante di ogni enunciato veritativo» (p. 67). In altri termini, non si dà conoscenza della verità, ma «costituzione processiva di contenuti che fungono da correlati intenzionali per la formazione degli atti veritativi» (p. 67), non ammettendo, per questa via, «metafisiche verità in sé» (p. 67). Con Frege viene riformulata la ricerca filosofica inaugurata da Socrate.

La prima mossa di una teoria della verità «è la definizione del termine o del concetto di verità» (p. 71), per aggirare il relativo imbarazzo spostando la questione «da VERITÀ a DEFINIZIONE» (p. 71). Tuttavia, la definizione deve fare i conti con la condizione d’essere dell’esperienza umana. Infatti, «tutto ciò che accade, nella realtà esterna o nella nostra mente matematica, “preesiste” al rilevamento occasionale e soggettivo» (p. 81), legandosi alla questione ontologica e riguardando così, per questa via, la concezione più conosciuta di verità: l’adaequatio intellectus et rei.

Banalmente, si è soliti commentare Tarski come la posizione della condizione in virtù della quale «un enunciato vero è quello che dice che lo stato delle cose e così e così; e realmente tale stato di cose è così e così» (p. 97). Se così fosse davvero, non sarebbe possibile cogliere la novità dell’impostazione tarskiana dato che già prima di lui così veniva intesa la verità, da Platone e Aristotele in poi: vero di qualcosa è affermare com’esso è nella realtà, falso com’esso non è. Al contrario, Tarski propone di valutare la verità degli enunciati facendo ricorso ad un linguaggio esterno (metalinguaggio) a quello in cui sono espressi gli enunciati in oggetto (linguaggio oggetto). In questo modo, ad esempio, è possibile un celebre insolubile della storia della filosofia: il paradosso del mentitore. Infatti, viene risolto in quanto si evita, con l’utilizzo di un linguaggio superiore, il meccanismo dell’autoriferimento causa del sorgere della difficoltà. In altri termini, la proposta di Tarski «vuol rimediare al dogmatismo del linguaggio ordinario sfruttando le sue stesse possibilità» (p. 101), in modo tale che non solo «usiamo il concetto di verità ma siamo anche capaci di dire qualcosa di vero su quest’uso» (p. 101). Ecco, allora, come ci si avvede che «il linguaggio ordinario nasconde in sé il germe della contraddizione esemplificata nella “antinomia del mentitore”, dovuta al fatto che tal linguaggio è “semanticamente chiuso”» (p. 103), con la conseguenza di dover contenere anche i nomi delle espressioni e i termini semantici riguardanti le espressioni del linguaggio stesso.

Come si vede, «la verità è vista come proprietà logico-formale» (p. 103) ed anche come «dotata di una profondità ontologica che non si ritrova nemmeno nella metafisica di Platone» (p. 103). Infatti, nello stagirita «la verità sta nel “pensiero”: è in sostanza un termine astratto per la proprietà degli enunciati di essere o veri o falsi» (p. 103). Quel che Aristotele non dice è invece l’unione che soggiace nella condizione di possibilità della verità di un ente, ossia lo stagirita omette di dire che la «verità sorge nell’unire due termini in una connessione che non è più un termine» (p. 104), l’unione, come detto, di soggetto e predicato per il tramite della copula, la più elementare funzione predicativa. Ciò, tuttavia, ha un’altra non trascurabile conseguenza: modificare «il principio generale secondo il quale la realtà consta di enti dotati di una struttura onto-logica tale da farli sussistere ciascuno per sé» (p. 104). In altri termini, «il fundamentum in re della verità rappresenta la realtà come mondo di connessioni» (p. 104). Ciò vuol dire che la verità non è una proprietà diretta di enunciati o di giudizi, non appartiene al dictum, «ma è un modo del dicere» (p. 105). È la modalità dell’enunciare che attribuisce i valori di verità, è l’enunciare la sovrana della verità. Così la riformulazione tarskiana della verità modifica la concezione adeguazionista nella forma secondo la quale «l’enunciato (detto) /p/ è vero sse p» (p. 107). Questo vuol dire che è possibile attribuire valori di verità soltanto se l’enunciare si svolge in una maniera che lo consenta. Così l’enunciato p sarà vero se, e solo se, si dà (nella realtà esterna) p, ossia se la realtà è come dice p. Da un certo punto di vista, questa proposta è ancor più problematica della concezione adeguazionista di Tommaso, da un altro punto di vista, però, non si deve osservare come «la formulazione in termini di linguaggio ha il vantaggio di potere essere sviluppata sulla base di critiche formulate in termini teoretico-linguistici» (p. 107), mentre «ciò che non soddisfa nel concetto ingenuo di corrispondenza è il fatto che il termine “portatore” di corrispondenza è già definito come il corrispondente e non è altro» (p. 109). Infatti, dire che un’immagine corrisponde alla realtà «equivale semplicemente a dire che è un’immagine della realtà» (p. 109). Questo processo ha la conseguenza che resta irrisolto il problema del significato della verità mentre raddoppiano gli enti coinvolti: realtà, descrizione, rapporto tra realtà e descrizione, rapporto tra descrizione ideale e enunciazione reale. Così, la rappresentazione giunge ad avere «due sensi, uno psicologico ed uno logico» (p. 113).

Resta, comunque, che la verità «costituisce una relazione tra un rappresentante e un rappresentato o tra verificante e verificato che in tanto “adeguano” in quanto appartengono a piani diversi tra i quali non c’è interferenza né possibilità d’esser compresi in un unico piano» (p. 115). V’è, a questo punto, un problema degno di nota: «come devono esser fatti i due piani affinché la relazione di verità abbia senso e significato?» (p. 115). Nelle teorie tarskiane e post tarskiane «il linguaggio è definito come contenente non un semplice insieme ma una successione ordinata di nomi (termini denotanti cose)» (p. 115). In questo modo, le cose si adeguano all’intelletto «in quanto vengono disposte in ordine (in serie) mediante nomi che le denotano e per poterne parlare è necessario che siano disposte in serie» (p. 115). L’essere delle cose, in altri termini, non consiste solo nel loro essere percepite, ma anche nel «modo in cui le cose sono percepite» (p. 116). Così, la proposta, o la concezione, tarskiana della verità assume un aspetto caratteristico in forza del quale «un enunciato vero è quello che dice che lo stato di cose è questo-e-questo e lo stato di cose è appunto questo-e-questo» (p. 118), ossia l’enunciato p è vero se, e soltanto se, p; l’enunciato “la neve è bianca” è vero «sse la neve è bianca» (p. 119).

Tuttavia, l’idea di Tarski non è esente da difficoltà. Infatti, «l’esser-vero di un enunciato si può intendere come una sua proprietà fondata sulla realtà oppure come una pura definizione verbale» (p. 119). Nel primo caso «si deve presupporre qualcosa come un valore-verità analogo al valore-bontà o al valore-bellezza o al valore-giustizia etc.» (p. 119), in questo caso è enunciata «una condizione» in forza della quale non si ha di fronte una semplice definizione verbale. Nel secondo caso, invece, «anziché affermare che un enunciato dice come stanno le cose noi affermiamo in breve che esso è vero» (p. 119), dissolvendo in un «espediente verbale» (p. 119) la nozione stessa di verità. Ne emerge la considerazione “forte” secondo la quale la verità ha a che fare con l’essenza delle cose, con la loro definizione adeguata. Pertanto, la questione della verità si lega alla questione ontologica: senza disporre della conoscenza delle (condizioni di possibilità delle) cose non si possono enunciare cose vere (o false). La verità ha così un vincolo ontologico (così come conoscitivo).

Pertanto, il «problema della verità in Tarski rimanda alla definizione della verità come adeguazione già stabilita da Tommaso» (p. 122), per il quale la verità viene definita quale conformità [adaequatio] dell’intelletto e della cosa [intellectus et rei] . In proposito, comunque, va osservato come di fatto «la trattazione tommasiana si basa sulla definizione ma lascia nel definiendum un senso residuo che non si trova nel definiens» (p. 123). Infatti, «l’intelligibile è nell’intelletto, la cosa-stessa è nella realtà ma il fatto della loro adeguazione non appartiene né all’uno né all’altra» (p. 123). Tommaso, in altri termini, basa la sua concezione della verità «sul legame tra entità mentali quali sono gli enunciati ed entità reali quali sono le res» (p. 124) ma, a differenza delle attese, non sono «gli enunciati che “adeguano” la realtà ma sono le cose stesse che si dimostrano conformi agli enunciati» (p. 125). Ciò significa che «non solo le cose sono fatte per soddisfare il desiderio di conoscenza o bisogno di verità, ma anche l’intelletto è fatto in modo da sfruttare il conoscibile in re per ottenere soddisfazione del suo esser-conoscente» (p. 125), non solo il mondo è pieno di oggetti utili all’uomo ma anche l’uomo è fatto «in modo da poterne sfruttare l’utilizzabilità delle cose» (p. 125). Si tratta, ovviamente, dell’utilizzo dell’antropologia soggiacente al pensiero teologico intorno al senso della Creazione. In questo modo, «il fondamento del vero è sempre l’ente» (p. 125), è sempre attraverso l’ente, tanto conoscente quanto conosciuto, che si stabiliscono i valori di verità.

È, tuttavia, possibile modificare questa concezione apportandovi un contributo fenomenologico. Pertanto, attraverso Husserl, Heidegger e Jaspers la teoria della verità può essere intesa come «una teoria che descriva il divenir-vero e non il semplice esser-vero di ciò che è suscettibile di verità» (p. 137). Il movimento veritativo consente di scogliere l’opposizione tra un polo soggettivo, di conoscenza attiva, e un polo oggettivo, di conoscenza passiva, riconducendo il fatto del conoscere alle condizioni trascendentali di possibilità. Così, la stessa verità viene ricondotta al suo esser possibile il quale si realizza attraverso un movimento d’inveramento che possiede una sua manifestazione.

Ma perché si dia conoscenza vera è necessario che vi sia qualcosa da conoscere, qualcosa quindi di esistente. La verità dipende dall’ontologia, dalla sua questione principale: l’«intelligibilità del reale» (p. 141). Tutto quel che esiste può essere conosciuto dall’uomo, che è poi il tramite tra gli enti e i loro predicati. Così, «logica (…) ed ontologia (valore di verità) sono connesse in modo che la modalità appartiene originariamente all’enunciato (l’esser-vero è trattato come modalità)» (p. 143). Tuttavia, da Aristotele si può ricavare un’«ontologia del luogo» (p. 168), contrapposta all’ontologia dei punti spaziali di Cartesio. Lo stagirita determina l’essenza del luogo come «cosa sia in realtà ciò che diciamo /luogo/» (p. 168). Infatti, «un individuo è quello che è ed esiste realmente solo in quanto si identifica con il circondato del luogo che lo circonda, lo determina, lo qualifica» (p. 168). In filosofia moderna, prima con Cartesio poi con Husserl le condizioni trascendentali di conoscenza (e, quindi, di verità) continuano a poggiare sull’ente, sebbene all’interno di uno spazio differente il quale è causa della differente percezione delle relazioni ontiche da soggetto a soggetto, e dal quale dipende, in ultima istanza, la costruzione di «identità-e-differenza» (p. 201).

Resta così da riassumere sinteticamente i temi fondamentali circa il rapporto tra la logica e la verità, non ostando alcun ostacolo il fatto che il metodo di ricerca seguito sia stato informale. Questi temi sono (1) la corrispondenza; (2) la logica dell’esistenza; e, (3) il paradigma. Il tema (1) ha consentito di cogliere la natura del rapporto di adaequatio di mente (’ente’) e realtà (’spazio ontologico’). Il tema (2) di individuare i termini delle condizioni di possibilità (quindi, di esistenza) ontologiche in virtù delle quali un’enunciazione può essere vera e/o falsa. Infine, il tema (3) ha consentito di ricavare un metodo (o, paradigma), differente da quello usuale, che «converge verso una prospettiva ontologica atta a superare il complesso delle questioni metafisiche intorno ai dualismi di pensiero e realtà, mondo-interno e mondo-esterno, immanenza e trascendenza» (p. 233).

Quanto resta fuori dalla presente trattazione è il tema della «funzione logica della soggettività» (p. 234), il cui luogo è collocato in una futura tematizzazione.