Recensione a Ermanno Bencivenga, Dio in gioco. Logica e sovversione in Anselmo d’Aosta

Ermanno Bencivenga, Dio in gioco. Logica e sovversione in Anselmo d’Aosta, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

L’enorme fecondità, in termini di discussione storiografica e di progresso nella ricerca teoretica, dell’unum argumentum di Anselmo d’Aosta, il cosiddetto, forse a torto “argomento ontologico”, viene affrontata, nei termini di libera e spregiudicata razionalità da parte dell’autore, con un acume spesso di alto livello e con il pregio di consentire una più completa comprensione delle altezze speculative anselmiane tanto rispetto al tema ontologico quanto rispetto a quello dell’oggetto proprio della metafisica medievale.

Il lavoro di Bencivegna mostra non solo il “detto” dei testi di Anslemo, ma anche il “non detto” degli stessi, in genere, quelli che l’autore definisce gli alti e i bassi di Anselmo, non solo un fine retore, ma anche acuto teologo, severo vescovo di Canterbury, anche l’Anselmo profondamente umano. A tal punto da offrire nella ricostruzione biografica del suo itinerario teoretico e umano tanti elementi in forza dei quali appare ostico il progetto di dimostrazione (razionale?) dell’esistenza di Dio, al punto da sembrare molto più problematica e comunque più complessa, delle innumerevoli versioni storiografiche che ne sono state proposte nei secoli scorsi.

L’autore opera una sorta di destrutturazione della “prova” di Anselmo, riunendo ad essa, e alla sua vita pubblica, i fili dispersi, ma comunque importanti, della vita privata dello stesso. Tale percorso si articola in quattro capitoli, al termine dei quali prende forza il senso della ricostruzione offerta dall’autore di Dio quale “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”. Salvo, comunque, trovare spazio per la giustapposzione di due appendici, l’una sulla (struttura) logica dell’illusione (teologica) in Anselmo, l’altra sulla presenza di una struttura (teologica) estetica in Anselmo.

Nel primo capitolo Bencivenga mette davanti la versione classica dell’“argumentum”: l’esistenza di Dio. Subito dopo rivela come, invece, la prova sia più complessa: egli prima di tutto invoca l’assistenza di Dio nel difficile compito. Ma ciò vuol dire presupporre in partenza l’esistenza, cioè dar per scontata la direzione della prova. Si potrebbe pensare che ciò accada in quanto lo scritto non è diretto a fare proselitismo (agli infedeli, dunque), ma ad un pubblico ristretto e già credente, già persuaso della verità (di vita) che lui intende dimostrare

La strada intrapresa, dunque, mette Anselmo davanti a interlocutori non insipienti, ma “per arrivare dove” (p. 15) essendoci già? Una risposta semplice potrebbe essere data dall’idea secondo la quale “so che Dio esiste” (ed è eterno; ed è onnipotente; et alia) dalla miglior fonte possibile, la Rivelazione. Ai data rivelati “nessuna argomentazione può aggiungere nulla” (p. 16), pensare altrimenti è ridicolo, sarebbe essere insipienti (se credo che Dio esiste è incoerente affermare che “Dio non esiste”), sarebbe essere come la (giustamente) famosa “pianta” di Aristotele (Metafisica IV). Ma come posso conciliare questa (base di) fede con la ragione? Col mio “essere umano ragionevole”? Basterebbe dimostrare (anche soltanto) che l’esistenza di Dio fosse ragionevole (p. 16). Quanto, infatti, è ragionevole è anche possibile. Per questa ragione la risposta anselmiana ha importanti risonanze, per la filosofia in primis: “un’eterna lotta sul possibile” (p. 17). Ma sapere se l’esistenza di Dio è possibile, non mi dice nulla, non aggiunge nulla alla mia esitazione iniziale: esiste Dio? Qui s’inserisce, alle dotte disquisizioni teologiche, l’importante apporto biografico. Anselmo cambia registro, comportandosi spesso diversamente da quanto potremmo aspettarci, la cui nota comune è (sempre e comunque) l’obbedienza alla Scrittura, al Magistero della Chiesa. Ma il tono di assegnamento alla (ineffabile) volontà divina, i ripetuti inviti ad abbandonarsi a Lui, produce un quadro “troppo rassicurante” (p. 25), suggerendo come, al contrario, la situazione sia più “problematica di quanto sembri” (p. 25). Contra Gaunilonem, Anselmo sostiene come perché la dimostrazione vada a buon fine non c’è bisogno di comprendere cosa sia (o cosa s’intenda dire con) Dio, ma è sufficiente trovare un accordo minimo su un’espressione linguistica. In questo modo, comprendere il fatto che Dio esiste non comporta che Dio non possa comunque essere lontano dall’umana comprensione. Allo stesso tempo: o non si è stolti (nel qual caso, basta parlare in una lingua nota per essere compresi) o si è stolti (nel qual caso, è possibile abbandonarsi a qualsiasi insensatezza dato che non si è in grado di dire nulla di vero intorno alla dimostrazione). Questa strategia disattende le opinioni (quasi il rigore metodologico, e logico) di Bencivenga. Infatti, è lecito chiedersi cosa si differenzi la ragionevolezza dalla stoltezza, in virtù di quali criteri si è stolti o si è saggi. Ecco, allora, che la strategia anselmiana appare più una “pratica di educazione linguistica” (pp. 27-28), nel tentativo (forse, irrisolto) d’andare oltre il significato attuale (e, limitato) delle parole, tendendo a trovare le “parole migliori” onde ostendere l’essenza della questione (forse, Dio, non il nome “Dio”; forse, il Quid che rende possibile l’esistenza divina, non l’oggetto teologico). Diventa, dunque, importante (e, forse, conclusivo) diminuire l’imprecisione, trovando termini appropriati e formulazioni adeguate al compito. C’è, infatti, una differenza (fondamentale) tra cosa intendiamo dire con un’espressione e cosa intendiamo con “Dio”. Ma le parole che ci appaiono le migliori possono benissimo “offrirci un quadro sbagliato della situazione” (p. 29). Per di più, il linguaggio è incompleto, inadeguato e rispecchia la realtà, sviando spesso i filosofi dalla comprensione della realtà, esattamente come accadeva in Frege. Il linguaggio può, allora, ingannare, fuorviare, rispetto alla quale possibilità, dunque, è bene insegnare non solo le trappole linguistiche, ma anche (e soprattutto) i mezzi per neutralizzarle, si deve, cioè, procedere ad una razionalizzazione del linguaggio, “una pratica, un progetto concreto” (p. 34), (quasi) una pratica pedagogica volta a educare a come esprimere adeguatamente i concetti e a rifuggire le imprecisioni (come gli inganni) del linguaggio. Ma il percorso (di vita) verso la perfezione (linguistica) non trova mai esaurimento, suggerendo anche l’idea (di cartesiana memoria) secondo la quale potrei io stesso essere rimasto vittima dei miei ragionamenti, sviandomi anziché raddrizzarmi lungo la via del logos. Il che non vuol dire che sia deprecabile la trasparenza logica, ma che non è per nulla chiaro “cosa significhi cercarla” (p. 41). V’è un percorso, ma non sappiamo né possiamo sapere quale sarà la meta. Resta solo la fede che ci dice che una meta, un approdo (quale che sia), al termine del percorso vi sarà (ovvero, Dio). Ma se tale fine del percorso dipende dall’esperienza e in questo Dio è ineffabile, che senso ha cercare di raggiungerlo (dato che di ciò di cui non abbiamo esperienza non ha per noi senso)? Che senso assume (o possiede) il suo esistere nell’intraprendere comunque la ricerca della fede (che è poi metafora, in Bencivenga, del progetto di ricerca logico)? Per poter rispondere a questo interrogativo è bene riflettere sul programma anselmiano che appare quale un “gioco della ragione” (p. 43), dotato di regole, non arbitrario, un “perseguimento disciplinato, serio e meticoloso di un premio sfuggente” (p. 43).

L’analisi del sommerso della dinamica del gioco di Anselmo è di critica nel secondo capitolo del testo. Per l’autore, la ricerca di Dio, per il tramite del pensiero, ha la funzione di tenere occupati i frati al fine di evitare che possano pensare a cose non lecite. Ma Anselmo insiste su tale percorso da intraprendere al punto da sembrar contrastare con la natura bonaria della “prova”. L’incessante insistenza nel tentar di comprendere (per via razionale) quanto si crede non cede più al rischio di entrare in territori pericolosi, eppure è come se egli fosse costretto a indagare razionalmente le verità di fede, “la ragione non è tanto un’avventura quanto una prigione” (p. 47). Pensare non è, cioè, un “occupare il tempo libero” (p. 49). È qui che si concentra il senso della celebre massima anselmiana “credo ut intelligam”, in quanto “a meno che non vogliamo capire” (p. 5), non desideriamo il successo della razionalizzazione, “nulla funzionerà come prima” (p. 53). Come a dire che alla fede spetti un primato nei confronti della ragione, perché “condizione necessaria della comprensione intellettuale” (p. 53). Senza che vi sia la fede, nessuna argomentazione razionale, per quanto buona, potrà mai convincere alla conversione un infedele, “a nulla potranno le parole” (p. 53).

La contesa, allora, non è con i nemici esterni, ma tutta interna al Cristianesimo, “una guerra civile” (p. 54) per la coerenza della fede, che collocandosi al di là dell’umana comprensione richiede sempre la presenza della logica, dell’intelletto che fa la differenza tra “il mantenere la fede e l’abbandonarla” (p. 54). Il problema è il seguente: “le argomentazioni razionali di Anselmo intendono stabilire che qualcosa può accadere (che sia, cioè, coerente) o che deve accadere (ovvero, che la sua negazione è incoerente)? ” (p. 57).

D’altra parte, la sua è una costante difesa della fede nei confronti degli stolti, degli infedeli, attaccata nel suo presupposto di coerenza. Ma dimostrarne la coerenza vuol dire anche avventurarsi con la ragione nei meandri della fede e tra le trappole del linguaggio, assai spesso troppo finito per riuscire ad esprimere cose divine. Un rischio rispetto al quale è insufficiente l’autorità, infatti “una mente curiosa e inquieta può sollevare dubbi sul significato delle verità ”rivelate“” (p. 63). La strategia consiste nel quietare le perplessità verbali con parole rassicuranti, “anche quando le parole inquietanti non sono state ancora pronunciate, così da essere preparati quando lo saranno” (p. 63). Ma cosa si può fare con quanti non si sottomettono all’autorità nemmeno tramite le parole rassicuranti? E che dire quando l’ortodossia religiosa è al tempo stesso conservazione “di una gerarchia politica”? (p. 70). Non accettare per buone le parole rassicuranti è al tempo stesso concedere alle infedeltà verso il corpus di fede e ribellarsi all’autorità. Il gioco dialettico, allora, della discussione della coerenza razionale dell’esistenza (possibile) di Dio è il mettere in gioco l’idea stessa di Dio, in una tensione continua (e, razionalmente feconda) tra la logica del pensiero e la sovversione, una lotta in corso e durante le quali gli opposti si equilibrano al punto da far sembrare il mondo “in ordine” (p. 71).

Nel terzo capitolo l’autore ricostruisce il programma di Anselmo. Per prima cosa diventa chiara la “funzione” del comportamento “dialettico” dell’aostano: “non si tratta soltanto di una piacevole ginnastica verbale e mentale” (p. 72), al fine di, prendendo sul serio tutti i vaneggiamenti degli insipienti, riuscire a rispondere a tutte le possibili obiezioni. Infatti, proprio perché stolto, l’insipiente è molto pericoloso in quanto difficilmente “egli giocherà secondo le nostre stesse regole e di conseguenza sarà molto probabile che ci spiazzi” (p. 73). L’esigenza “forte” è, dunque, quella di “appropriarci di efficaci contromisure e provarle e riprovarle per essere pronti quando la voce della stoltezza tornerà a parlare, forse dentro di noi” (p. 73). Ecco allora che assume nuova consistenza la forma dell’insipiente: non persona reale, ma contesa tutta dentro l’anima del credente. In questo caso, data l’altissima posta in gioco (l’anima), quali argomenti, quale forza, quale convinzione saranno utili allo scopo? L’atteggiamento di Anselmo, allora, esprime una regola di fondamentale importanza: “quando si tratta di faccende importanti e di obiettivi desiderabili, essere insistenti e importuni non è solo un diritto: si deve essere così” (p. 73). Anche nei confronti di Dio “Anselmo continua a esortare l’anima ad essere importuna e insistente nella ricerca di Dio e del bene” (p. 74). Infatti il rischio sempre presente è quello “implicito nella ricerca di ragioni” (p. 74). Ma perseguire questa condotta comporta anche che Anselmo assuma entrambi i ruoli nella contesa, pro Dio e contra Dio, poiché questo richiede il gioco, sino a rivolgersi direttamente a Dio per chiederGli: “rivelati per quello che sei, fammi vedere che quel che dici è vero, dimostramelo; non metter troppo alla prova la mia pazienza. Ti darà fastidio, Ti sfiderò, verrà a vedere le Tue carte” (p. 87). La questione di Bencivenga, a questo punto, diventa la seguente: è davvero così? È solo così? Qual è, dunque, il “senso per (l’uso anselmiano del)l’argomentazione razionale” (p. 87)? Anselmo sembra assumere le vesti (e il ruolo) della “spia”, di quanti, cioè, fanno il “lavoro sporco”, di chi “si preoccuperà lui delle questioni che vi [ci] possono turbare, anche prima che succederà, anche se non succederà mai. Se ne prenderà cura lui, risolverà tutto; potete star sicuri che la vostra [nostra] fede è in buone mani” (p. 93). O forse no? Resta il dubbio al fondo, e che connota tutta la vita spirituale di ciascun uomo, che sia “una forma di passatempo o di operazione poliziesca, oppure di subdola sovversione” (p. 95). Eppure in molti testi Anselmo appare “un uomo perfettamente equilibrato, completamente a suo agio con sé stesso, indifferente alle circostanze e guidato dalla mano ferma della ragione a dare a ciascun aspetto della vita quel che gli è dovuto” (p. 96). Il metodo è la vita monastica, il sacrificio, la mortificazione, ma è “questo i modo di rendere una persona più forte e solida, o non è piuttosto un modo di farla a pezzi? ” (p. 96). Solo con la dura disciplina sembra possibile domare le inquietudini dell’anima, le tentazioni pericolose della ragione. Anselmo, nel Proslogion, dimostra subito l’esistenza di Dio, ma non gioisce “di tutto questo come si era spettato” (p. 98). Infatti, subito nuovi dubbi, nuovi e tremendi interrogativi affollano la mente del credente. La ricerca (di Dio) ha fine? No, dice Bencivenga, “la ragione nasce negativa” (p. 99), essendo suo scopo “stabilire che ciò che è non può essere vero” (p. 99). Ma Anselmo ritorce questa sua vocazione contro sé stessa, “il suo scopo ufficiale è diventato dimostrare che quel che è reale è razionale” (p. 99). Ma mentre assicurerà alla costruzione edificata la solidità sperata, subito ricomincerà il tarlo del pensiero con le sue domande importune, procedendo nell’intenzione di dare al sistema buoni fondamenti, a “mettere in discussione il sistema” (p. 100), “provate a costruire una difesa definitiva delle credenze ordinarie e genererete un’aporia dopo l’altra […] vi affannerete a trovare una risposta a tutte le domande del credente, una soluzione per ogni paradosso, e scoprirete più paradossi di quanti se ne possano immaginare, facendo pullulare il cielo della loro presenza minacciosa” (p. 100), sino ad assumere le vesti di una spia, “un doppio agente che conduce una guerra silenziosa contro chi pensa di controllarmi e contro quei suoi stessi piani che avete incorporato”, nella “terra di mezzo”, di nessuno, dove i ruoli quasi inconsapevolmente si rovesciano. Per chi, allora, lavora Anselmo? A quale Causa? Il quo nihil maius cogitari potest? Per tentare di rispondere a questa domanda, Bencivenga dedica il quarto e ultimo capitolo. Giocare con Dio. Giocare coi limiti del pensiero. Giocare è il “fare logica”, il calcare più ruoli contemporaneamente, muoversi nella terra di nessuno, a fare tutto il “lavoro sporco”, senza attendersi ricompensa alcuna, come Turing e la sua impresa: decifrare il codice Enigma per poi essere considerato, a guerra finita, persona non gradita. Questo perché “l’indagine razionale […] è molte cose insieme; serva di molti padroni, è strumento per la realizzazione di progetti diversi” (p. 104). Infatti “all’evidenziarsi di un nuovo colpo di scena logico, alla scoperta di una nuova possibilità, alla formulazione di un nuovo attacco alla coerenza, qualcuno in me godrà della nuova sfida intellettuale, qualcun altro sentirà il bisogno (morale) di rimettere tutto in ordine e qualcun altro ancora riderà di diabolico disprezzo alla vista del re appena sorpreso a brache calate” (p. 105).

La logica, di cui si sostanzia il ragionare, pone “questioni delicate e spinose” (p. 105) e spinge “a dedicarsi nello stesso tempo, in tutta serietà, alle più elaborate pulizie primaverili — godendosi ogni attimo di questo faticoso esercizio” (p. 105). Turing è simbolo di tutto questo, di come “a qualunque altro gioco Turing stesse giocando e qualunque limite il sistema sospettoso potesse avergli imposto, il gioco stesso a cui egli credeva di giocare aveva dei limiti derivanti principalmente dalla sua soddisfazione” (p. 107), come accade ad Anselmo: “il suo gioco è condizionato da limiti interni — limiti superiori, per la precisione” (p. 107). Dio è, infatti, “incomprensibile, inconcepibile, ineffabile” (p. 107). Ma basta tutto ciò? Per Bencivega no, “forse gli sforzi di Anselmo erano [fossero] destinati ad ottenere qualcos’altro, visto che ciò a cui dichiaratamente miravano era fuori portata” (p. 197).

Dio è ciò di cui non è possibile pensare alcuno di maggiore, quo nihil maius cogitari potest, e proprio per questo “Dio deve esistere” (p. 108). Ma qual è il ruolo di questa conclusione per Anselmo? Egli si muove lungo l’insidioso crinale: la necessità di un Dio già compreso (in quanto espresso nella lingua a noi nota) da un lato, e l’incomprensibilità di Dio (in quanto inesprimibile nella lingua a noi nota). Eppure Anselmo non cade, non naufraga. Come mai? La risposta risiede in Bencivenga nella forma dell’argomentazione anselmiana: “l’indagine razionale come gioco” (p. 111). Infatti, il gioco, come quello vigilato da parte della madre del bimbo, “destabilizza, sfida gli equilibri, genera ansia” (p. 112), rendendo necessario “disporre di strategie per gestire e sedare l’ansia” (p. 112).

Il modus agendi consiste nell’affrontare “i problemi secondo un metro umano, tentando di riconciliare in qualche modo il nostro povero intelletto con la nostra fede indistruttibile” (p. 113). Allora, “non stiamo veramente giocando con Dio-madre-materia, ma solo, al massimo, con un suo riflesso in uno specchio” (p. 113), di modo che le nostre insinuazioni, per quanto audaci, “riguardano semplicemente i limiti del nostro intelletto, non la realtà delle cose” (p. 113).

In illo tempore, comunque, la ricerca non ha fine, non può avere fine “a causa dell’incomprensibilità del suo fuoco” (p. 114). Infatti, “Dio è assolutamente paradossale: quando pensiamo di essercene fatti un’idea subito Egli ci rivela un altro Suo aspetto e, in modo autenticamente escheriano, dischiude una nuova, sorprendente prospettiva, dandoci ulteriore — e mortificante — prova dei nostri limiti intellettuali”, così che il nostro bisogno non troverà soddisfazione, la nostra sete mai placata: “il gioco continuerà per sempre” (p. 114).

Ecco, allora, che “possiamo considerare la prova ontologica come un tentativo di procurarsi tale dispositivo — una giustificazione razionale per l’inevitabile fallimento della ragione” (p. 114). Così assume senso il motto di Anselmo: credo ut iltelligam, “ora comprendiamo (meglio) ciò che prima (semplicemente) credevamo. Abbiamo compreso le ragioni della trascendenza […] e il motivo per cui viene usata sia per dare uno scopo all’attività di Anselmo […] sia per porle un limite invalicabile” (p. 115). Comprendiamo così perché “ci debba essere trascendenza” (p. 115), razionalizzare la fede è un gioco perché fondata sull’ambiguità del gioco: tanto ludus quanto preso seriamente. Per il credente, “Dio è, come ho cercato di dimostrare, simbolo sia di autorità sia di liberazione” (p. 120), all’interno della relazione “con questo Tu fondamentale il credente trova al tempo stesso libertà e costrizione, stimolo intellettuale e un giudizio aspramente negativo sul potere dell’intelletto, cibo per la mente e dure restrizioni dietetiche” (p. 120).

è la ragione stessa a dirmi che Tu sei troppo al di là delle sue forze. E tuttavia questa comprensione debole e confusa è un qualche riflesso di Te, e Tu me la concedi anche se sai che non la merito, solo perché ne possa godere. E proprio perché essa è debole e confusa io posso continuare a cercare e a pregare; forse domani mi concederai qualcos’altro, qualcosa di più. Manterrai viva la mia mente ancora un altro giorno, e vivo anche il mio corpo, poiché anch’esso ha bisogno di questo cibo più di qualsiasi altro: ha bisogno di tensione, di incoraggiamento, di speranza (p. 123).

Al testo principale, l’autore fa seguire due appendici, la prima (p. 127 e sgg.) analizza in termini logici la “grammatica logica” dell’argomentazione (controfattuale) di Anselmo, la seconda (p. 138 e sgg.) il nesso tra detto e non detto nella speculazione anselmiana.