Gloria della non essenza. Soggettività e senso dell’umano nel pensiero di E. Levinas

1. Male elementale e analitica della finitudine

Nella prefazione del 1990 alla traduzione inglese di «Quelques reflexions sur la philosophie de l’hitlerisme», lo straordinario testo del ’34 apparso in «Esprit», rivista del cattolicesimo progressista d’avanguardia, a un anno dall’arrivo di Hitler al potere, Levinas riassume il senso di quell’inizio di un lungo itinerario di pensiero che ha attraversato tutto il secolo: a proposito della origine della sanguinosa barbarie del nazionalsocialismo in quell’articolo «c’è la convinzione che tale origine attenga a una possibilità essenziale del male elementale (Mal élémental), cui ogni buona logica può condurre e nei cui confronti la filosofia occidentale non si era abbastanza assicurata» (Levinas 1996, p. 21). L’hitlerismo, espressione filosofica rudimentale (il termine «filosofia» è qui usato non senza disagio) è espressione di sentimenti elementari, di un atteggiarsi di fronte al reale e al suo destino; è tuttavia una «possibilità che si iscrive nell’ontologia dell’essere che ha cura di essere — dell’essere «dem es in seinem Sein um dieses Sein selbst geht»; secondo l’espressione heideggeriana». Possibilità che minaccia il soggetto… dell’idealismo trascedentale che innanzitutto si vuole e si crede libero» (ibid.).

In queste indicazioni, straordinariamente dense, si delinea il senso di tutta la ricerca levinassiana: si tratta di comprendere la natura di una crisi profonda e non reversibile della civiltà europea, che ha creduto di sciogliere l’uomo da ogni vincolo con il mondo e le sue condizioni di asservimento e proclamare la libertà del soggetto umano come valore supremo: ma questa tradizione «gloriosa» dell’umanesimo occidentale, centrata sull’eccellenza del sapere e sull’elevazione del soggetto alla dignità e all’autonomia di una Ragione legislatrice, alla libertà dinanzi a ogni destino, questo idealismo e quella libertà si sono rivelati impotenti a fronteggiare l’insorgenza del male. Nel testo del ’34 la crisi dell’umano nella civiltà europea era ravvisata in una precisa discontinuità storica. Se tutto il pensiero filosofico e politico dell’età moderna ha inteso elevare lo spirito umano alla libertà sottraendo l’umano al fatalismo della legge naturale o della storia, il marxismo, per la prima volta nella storia dell’Occidente, ha contestato questa visione dell’uomo: l’essere determina la coscienza, i bisogni materiali e la loro urgenza indicano come illusoria la libertà pura che istituisca di là della natura e della storia un regno dei fini. Per la prima volta il marxismo coglie in contropiede la cultura europea o, almeno, spezza la curva armoniosa del suo sviluppo (ivi, p. 28). E tuttavia il marxismo non rompe del tutto con la tradizione dell’idealismo e del liberalismo: la coscienza individuale, sebbene sia sorretta e in qualche misura, il «prodotto» di condizioni oggettive, non è cancellata dall’ordine delle cause storico sociali e conserva il potere decisivo di «rompere l’incantesimo sociale» (ivi, p. 29).

La vera e irreparabile discontinuità storica nei riguardi della nozione europea di uomo si fonda su una possibilità del tutto inedita: «una concezione veramente opposta alla nozione europea di uomo sarebbe possibile solo se la situazione a cui è inchiodato (rivé) non si aggiungesse a lui, ma costituisse il fondamento del suo essere» (ibid., p. 29). Si tratta di un nuovo sentimento di identità in cui si dissolve ogni dualismo fra l’io e il corpo: nel dolore non si sperimenta forse l’inscindibile semplicità del proprio essere? Se l’aderenza del corpo all’io vale per se stessa, l’unione che è così vissuta ha un «tragico sapore di definitivo». D’ora in poi «in questo incatenamento al corpo» consiste tutta l’essenza dello spirito. Questo sentimento del corpo può essere alla base di «una nuova concezione dell’uomo». «Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, diventa ben più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore» (ivi, p. 31). La voce misteriosa del sangue, l’appello dell’eredità e del passato non ammettono spiegazioni trascendenti, ma chiedono di essere assunti come fondamento, come l’essenza . «L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento» (ivi, p. 32). Essere se stessi significa adesso assumere come propria identità e al tempo stesso come proprio compito un simile incatenamento.

Proprio questa figura, l’incatenamento, l’être rivé, è lo schema di intelligibilità di una possibilità inaudita di quel male elementale e allora l’idea stessa di una società fondata sull’accordo di volontà libere potrà apparire non soltanto fragile, ma senz’altro falsa: «da questa concretizzazione dello spirito deriva immediatamente una società a base consanguinea» (ivi, p. 32). La fortissima discontinuità storica con il tradizionale pensiero dell’occidente, ossia con l’idea di libertà come eccellenza dell’umano, richiede per la sua comprensione un punto di svolta, un possibile scivolamento o cedimento verso ciò che rende possibile l’incatenamento dell’uomo «libero» alla eredità e al sangue: proprio nell’affermata libertà sovrana dello spirito, esso può prendere le distanze dalla verità, dalla propria verità scelta in un puro mondo delle idee: «l’affermazione cova già la futura negazione. Questa libertà costituisce tutta la dignità del pensiero, ma ne nasconde anche il pericolo» (p. 55). Nell’intervallo fra l’uomo concreto e l’idea può insinuarsi la menzogna. Il pensiero diventa gioco, il potere di dubitare si converte in mancanza di convinzione e di impegno. La civilizzazione può essere invasa dall’inautentico e la società può perdere il «contatto vivente dal suo vero ideale di libertà»: è in condizioni simili che «l’ideale germanico dell’uomo appare come una promessa di sincerità e di autenticità» (ivi, p. 33). Il razzismo abbassa l’idea di universalità (della Ragione) a mera violenza, all’idea di espansione e alla guerra. Ad essere messo in causa non è tanto questo o quel «dogma della democrazia, del parlamentarismo… è l’umanità stessa dell’uomo» (ivi, p. 35).

Ma la schiavitù a cui l’uomo è inchiodato non riguarda soltanto il sentimento del corpo ridotto brutalmente all’eredità biologica; coinvolge anche il sentimento del tempo e della storia come «la limitazione più profonda, la limitazione fondamentale» (ivi, p. 24). Il tempo appare essere condizione dell’esistenza umana, condizione dell’irreparabile; il fatto compiuto sfugge all’uomo, ma grava sul suo destino. Il passato che domina ogni tempo umano, inamovibile e incancellabile, condanna l’iniziativa umana all’impotenza nei confronti del tempo, all’impossibilità di uscire da un destino il cui simbolo tragico era per i Greci la Moira. Di fronte a un passato irreversibile, «la libertà, il vero inizio esigerebbero un vero presente che, sempre al culmine di un destino, lo ricominciasse eternamente» ibid. ). Con questo messaggio la tradizione ebraica e cristiana, l’illuminismo che precorre le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo, la filosofia dell’idealismo hanno cercato di affermare nella nostra tradizione la dignità dell’umano che risiederebbe nella libertà del soggetto dinanzi alla storia e a ogni forma di effettività dell’esistenza.

Proprio il tema del tempo come condizione dell’esistenza umana indica un riferimento non esplicito, ma essenziale, del testo sull’hitlerismo all’analitica del Dasein delineata da Heidegger in Essere e tempo; proprio questo indicava la prefazione del ’90: la possibilità del male elementale, si iscrive nell’«ontologia dell’Essere che ha cura di essere». Ma soprattutto è il tema dell’être rivé, dell’incatenamento che richiama uno dei caratteri fondamentali dell’esistenza secondo Heidegger, su cui Levinas aveva particolarmente insistito nel suo studio di qualche anno prima (del ’32) Martin Heidegger e l’ontologia. L’analitica dell’Essere è una analitica della finitudine che non vede nella coscienza umana il principio di soggettivazione. «È perché c’è un’esistenza finita — il Dasein — che la coscienza stessa sarà possibile» (Levinas 1998, p. 78). La comprensione dell’essere per Heidegger, come Levinas sottolinea con forza, è l’esistenza stessa come struttura essenziale dell’Essere umano; essa non è un attributo dell’esistenza e non si caratterizza affatto come atto (teoretico) di conoscenza.

La comprensione è il modo di esistenza dell’uomo in quanto Ente che esiste solo in vista di se stesso. Il Mondo è proprio questo «in vista di», in cui l’Esserci è impegnato nella sua esistenza. Comprendere l’essere significa essere nel mondo, essere consegnati a un essere qui, alle proprie possibilità; ma essere le proprie possibilità significa comprenderle e niente affatto conoscerle come si conoscono le idee e le regolarità della natura: si comprende l’essere prima di ogni riflessione possibile. Nella comprensione stessa si dà l’evento dell’esistenza: l’Essere umano si comprende sempre in una certa situazione emotiva, e le disposizioni affettive (la gioia, la paura, l’angoscia…) non sono semplicemente stati psichici, ma modi del comprendersi; proprio la situazione emotiva indica il fatto essenziale che l’Essere è «gettato in mezzo alle proprie possibilità e non posto di fronte a esse» (ivi, p. 78).

Si tratta di quel carattere davvero decisivo dell’esistenza che Heidegger ha indicato col termine Geworfenheit, termine che è stato tradotto in italiano con l’espressione «esser gettato» e che Levinas preferisce tradurre con il termine déreliction. «Derelizione, l’abbandono alle possibilità imposte», dà all’esistenza umana un carattere di fatto in un senso molto forte e molto drammatico del termine». Il Dasein esiste nel suo «Da», «il suo qui, che è gettato nel mondo. Essere stati gettati nel mondo, abbandonati e consegnati a se stessi, è questa effettività (Faktizität) che tuttavia si definisce attraverso la comprensione delle possibilità in cui si è gettati: proprio perché l’esistenza è costituita da possibilità, esse «se ne distinguono superandola. L’esistenza supera se stessa» (ivi, p. 75). L’Essere è al di là di sé «senza affrancarsi dalla fatalità della derelizione». L’esistenza può essere compresa in questo suo differire interno fra progetto ed esser gettato, fra derelizione ed essere avanti e se stesso; nelle parole di Heidegger, fra Geworfenheit e Entwurf.

Ma l’essere umano è in fuga dal modo autentico di comprendersi, come cioè consegnato alla «cura angosciata della propria finitezza» (ivi, p. 79), essendo l’angoscia la tonalità emotiva fondamentale: per guadagnare il modo autentico di comprendersi bisogna risalire la china della deiezione in cui si era perduto l’esserci, perduto nel mondo delle cose o dei ruoli sociali. Si può risalire della dispersione e dalla reificazione solo in una tonalità emotiva fondamentale se è vero che la comprensione si compie solo in una situazione emotiva: gli «affetti» sono infatti caratterizzati da una duplice «intenzione»: rallegrarsi, impaurirsi; i verbi che indicano gli stati affettivi, nella loro forma riflessa segnano un riferimento a qualcosa (wovor) che è nel mondo, oggetto della gioia o della tristezza, ma allo stesso tempo un riferimento a se stesso (worum). Il Worum, il «per-cui» della gioia o della paura siamo noi stessi.

Perché dunque l’angoscia è la tonalità fondamentale dell’esistenza? L’oggetto dell’angoscia è indeterminato: in essa si rivela il nulla degli enti intramondani, la totalità dell’ente cade in una sorta di indifferenza. Per questo non è più possibile la comprensione di noi stessi a partire dalle possibilità del nostro stare dentro il mondo come ente fra gli enti, perdendosi appunto e reificandosi nelle cose o nel «si dice» anonimo; l’angoscia riconduce l’essere umano a se stesso, alla sua possibilità più propria. Il ritorno dalla dispersione è la comprensione dell’unità dell’Esserci ed è comprensione autentica: a questa Heidegger da il nome di Cura. Progetto e derelizione, essere davanti a sé ed esser gettati si riuniscono nella Cura di cui soltanto l’angoscia rende possibile la comprensione.

Non c’è dunque un’essenza eterna dell’uomo da cui si possano dedurre gli attributi della soggettività: l’esistenza è l’evento stesso del comprendersi e la comprensione autentica accade nell’evento dell’angoscia in cui si compie un’appropriazione» (spesso tradotta con «autenticità»). Il soggetto è appropriato nell’angoscia grazie a cui è posto nella responsabilità della sua più pura e più nuda esistenza: in questa esistenza stessa, così compresa, giace la sua essenza. Nella temporalità dell’evento (Ereignis) si iscrive l’uomo come comprensione dell’essere: dell’essere come verbo, come sottolinea in più situazioni Levinas; verbalità pura cui non corrisponde nulla di sostantivato, di reificato, nulla di finito; questo non significa affatto che l’essere è infinito perché la comprensione dell’essere è l’apertura della temporalità stessa. Si tratta di una finitudine in senso nuovo: «Essa significa, in fondo, che iscrivendoci nell’essere noi ci iscriviamo nel nulla» (Levinas 1998, p. 101).

Se nell’«idealismo occidentale la sovranità dell’Io non è mai stata separabile dal prestigio del trascendente», se attraverso il tempo si indicava un potere di comunicare con l’Eterno, se ogni pensiero che potesse dedurre da sé un soggetto era una finestra sull’eternità, Heidegger rinuncia completamente a qualsiasi riferimento all’Eterno: «Nella temporalità originaria nell’essere-per-la morte, condizione di ogni essere, essa scopre il nulla su cui poggia, il che significa che essa non poggia su nient’altro che su se stessa» (ivi, p. 102). Tono tragico dell’ontologia di Heidegger che è la testimonianza di «un’epoca e di un mondo che un domani potrà forse essere superato».

2. L’evasione dall’essere

Nel testo sulla «filosofia» del hitlerismo e nello splendido saggio dell’anno seguente, L’évasion, apparso nel ’35 nelle Recherches philosophiques, lavori in cui ha inizio il personale itinerario di pensiero di Levinas, il rapporto con l’analitica dell’esserci di Heidegger appare nella sua complessità: la finitezza dell’essere umano, l’essere consegnati irremissibilmente alla propria esistenza, il fatto stesso inesorabile dell’esistere di fronte a cui non resta che assumere o decidersi per le possibilità che giacciono in essa, ispira profondamente Levinas nel caratterizzare il sentimento elementare dell’hitlerismo come incatenamento, inteso non solo come riconoscimento della finitezza dell’uomo, ma soprattutto come adesione e assunzione di questa finitezza, che diviene il compito da realizzare nella storia: ciò che condiziona e incatena l’esistenza (dei singoli o dei popoli) diviene l’ideale da realizzare, ciò che fornisce una finalità e un senso dell’agire.

Heidegger non è mai nominato nei due testi del ’34 e del ’35 in cui si analizza il fatto essenziale dell’«être rivé»: Levinas aveva seguito con profondo interesse le lezioni di Husserl a Friburgo e, con entusiasmo ancora maggiore, il sorgere dell’analitica dell’Esserci heideggeriana che sembrava realizzare in forma concreta la parola d’ordine del maestro della fenomenologia: «alle cose stesse». Ma l’adesione di Heidegger al movimento nazista nel ’33 e il celebre discorso del rettorato non sono passati invano; il trauma per molti, non solo per Levinas, che aspettavano da Heidegger una via nuova e più feconda che andasse oltre l’orizzonte stesso della fenomenologia, non poteva che risultare straordinariamente grave e profondo. Le categorie di Heidegger sono sì evocate per analizzare il male emergente dell’epoca, ma nello stesso tempo verificate come indice dell’orizzonte stesso in cui quel male ha potuto prendere forma. Come è stato notato (Miguel Abensour in Levinas 1996, p. 40), questi scritti sembrano assumere, nei confronti di Heidegger, il carattere di «rispedito al mittente».

Proprio nel testo L’évasion, Levinas delinea con estrema precisione il compito fondamentale del suo pensiero, quello di cercare una via d’uscita dall’essere stesso, le condizioni decisive perché sia possibile «sortir de l’être». È il gesto decisivo del suo pensiero, ma al tempo stesso un compito forse interminabile che troverà un momento di esplorazione sistematica nel capolavoro del ’74, Altrimenti che essere o al di là dell’esssenza. Vale dunque la pena analizzare la sua genesi. Nella filosofia tradizionale, e in particolare nell’idealismo, si era già avvertito il bisogno di ribellarsi all’idea dell’essere per via del disaccordo fra la libertà umana e le fait brutal de l’être, che può ostacolarla. Essa ha tematizzato un conflitto che oppone l’uomo al mondo e non l’uomo a se stesso: ne risultava la semplicità del soggetto capace di trionfare nella opposizione alle potenze a lui estranee e di ritrovare la sua pace interna, il riposo sovrano in se stesso. Nel pensiero romantico si coltivano lo slancio, l’iniziativa, la scoperta che mirano moins a réconcilier l’homme avec lui-même qu’à lui assurer l’inconnu du temps e des choses (Levinas 1982, p. 92). Un modo questo di intendere il soggetto nella categoria di autosufficienza, concepita sull’immagine dell’essere così come l’offrono le cose che, semplicemente, sono.

La rivolta contro l’essere, inteso come forza e resistenza di qualcosa di estraneo, è infine modellata sull’essere stesso: La philosophie occidentale n’est jamais allée au-delà (ivi, p. 93). La sua contestazione dell’essere nella sua «brutalità» si è sempre risolta nella lotta per un essere migliore e in vista del perfezionamento del proprio essere. L’insufficienza dell’uomo era ravvisata nei limiti del suo essere in cui si apriva il bisogno dell’essere infinito. Ma ogni riferimento alla trascendenza cade nella sensibilità moderna: l’idea del limite si può applicare alla natura dell’esistente, ma niente affatto all’esistenza stessa. Il fatto stesso dell’essere si pone di là della distinzione di perfetto e imperfetto: l’essere si afferma assolutamente (in ciò è la sua «brutalità») e non si riferisce a niente d’altro. Tale referenza a se stesso è ciò che si indica quando si afferma l’identità dell’essere. «È quasi una vertigine per il pensiero affacciarsi sul vuoto del verbo esistere di cui sembra non si possa dir nulla e che diventa intelligibile solo nel suo participio — l’esistente» si dirà nel saggio Dall’esistenza all’esistente (Levinas 1986, trad. it. p. 11).

L’idea di evasione, che attraversa come una strana inquietudine tanta parte della letteratura contemporanea non è per Levinas solo un termine alla moda: in essa si rivela un male del secolo. L’epoca presente sembra non lasciare nessuno ai margini della vita: la macchina (totalitaria) dell’ordine universale non assorbe più soltanto l’individuo che non si appartiene ancora, ma proprio l’individuo autonomo, mobilitabile che ha consapevolezza di una realtà avvolgente in cui il sacrificio può essergli richiesto: l’existence temporelle prend la saveur indicible de l’absolu (Levinas, 1982, p. 94). Al fondo dell’epoca, del suo malessere, al fondo della sofferenza vi è l’impossibilità di uscire, un sentiment aigu d’être rivé (ivi, p. 95). Ciò che appare in questa esperienza non è un nuovo carattere della nostra esistenza, ma il suo fatto stesso, l’inamovibilité même de notre présence (ibid). Si rivela qui, in tutta la profondità e radicalità, la verità elementare che il y a de l’être. L’espressione il y a, qui appena accennata, diventerà un tema ricorrente e di notevole importanza nello sviluppo del pensiero di Levinas.

L’uscita dall’essere, l’évasion non può essere assimilata a una qualsiasi forma di creazione incessante del nuovo; il divenire è il controcanto dell’essere. Né rénovationcréation: Levinas, creando un neologismo, definisce l’uscita dall’essere come bisogno di excendance (ivi, p. 98). Da quale prigione occorre uscire, o meglio, si dà il bisogno di uscire? L’existence est un absolu qui s’affirme sans se référer à rien. C’est l’identité (ivi, p. 98). È qui che si iscrive la questione del soggetto: l’identità con se stessi non ha il carattere di una pura forma logica e tantomeno è semplice tautologia; essa rivela una forma drammatica: nell’identità dell’Io, l’identità dell’essere rivela la sua natura di incatenamento che può apparire come sofferenza ed esigere una evasione. L’evasione è dunque bisogno di uscire da se stessi, spezzare l’incatenamento le plus radical, le plus irrémissibile, le fait que le moi est soi-même (ibid). Non si tratta di uscire dai propri limiti, dal sacrificio di tante possibilità che ogni scelta implica, non è il bisogno di partecipare a una vita universale o infinita, di accedere all’unità dei compossibili: tutto ciò implica l’assunzione dell’essere. L’evasione (o excendance) mira a spezzare l’incatenamento dell’Io a sé. Si deve uscire dall’essere stesso, dal se-stesso, non dai suoi limiti.

Non è l’opposizione all’infinito che suscita quel bisogno di evasione, perché esso si pone di là della differenza di finito e infinito: sono i singoli poteri o proprietà dell’essere a sopportare le categorie di finito e infinito, non l’essere stesso. Nella «brutalità» del puro fatto d’essere non si pone la questione dell’infinito. Si tratta allora, con Heidegger e dopo Heidegger, di porsi nel cuore della filosofia e rinnovare l’antico problema dell’essere in quanto essere. È davvero il problema dei problemi come affermano certi filosofi moderni (qui il riferimento implicito è ad Heidegger), o è solo il segno di una civiltà che si è collocata nel segno dell’essere ed è incapace di uscirne? Ma la domanda decisiva è: qual è la struttura di quell’essere puro? Come può in essa manifestarsi il bisogno di evasione? Con la descrizione del fenomeno del bisogno si aprono le celebri analisi, condotte nel più puro stile fenomenologico, che riguardano anche i fenomeni del piacere, della vergogna e della nausea, fenomeni interrogati in quello che hanno da rivelarci sul più puro fatto di esistere e dunque descritti nella loro costituzione di tonalità o disposizioni affettive fondamentali.

Si pensa che il bisogno sia caratterizzato da una mancanza e in ciò sia indice di una limitazione o imperfezione del nostro essere. Ancora il tema della finitudine che rischia di mascherare la natura del fenomeno. Si interpreta troppo in fretta l’insufficienza del bisogno come insufficienza del nostro essere. In questa interpretazione si tradisce una metafisica che opponga il bisogno come vuoto in un mondo in cui il reale sarebbe il pieno. In queste identificazioni cade ogni pensiero che non ha saputo ancora distinguere esistenza ed esistente. Si tratta di sapere se il bisogno, in quanto sarebbe in sé mancanza e vuoto, possa davvero trovare l’oggetto che lo riempia, se cioè la soddisfazione del bisogno sia davvero adeguata alla disposizione emotiva che lo anima, una certa sofferenza o inquietudine che Levinas chiama malaise (Levinas, 1982, p. 10): Le malaise n’est pas un état purement passif… Le fait d’être mal à son aise… apparaît comme un refus de demeurer, comme un effort de sortir d’une situation intenable (ibid.).

L’inquietudine del bisogno appare originalmente, nella inadeguatezza della soddisfazione, come sforzo di evasione, di liberazione: è l’evento fondamentale del nostro essere. Il bisogno esprime la piena presenza del nostro essere non la sua mancanza o defezione: ciò è verificabile anche nel fenomeno primordiale di ogni soddisfazione: il piacere. Di là del disprezzo dei moralisti, esso appare solo nel suo decorrere, non essendo mai là tutto intero. Non tende a una meta perché non ha termine. È tutto intero nell’espandersi della sua ampiezza, nel rarefarsi del nostro essere, nell’aprirsi nel suo fondo di voragini più profonde, verso cui il nostro essere non oppone più resistenza, precipita in esse perdutamente (ivi, p. 108). Il piacere non si concentra in un istante indivisibile, come immaginava l’antica filosofia dell’edonismo, ma in esso l’istante perde ogni consistenza, frangendosi in frazioni infinitesime in cui sorgono sempre nuove virtualità di un venir meno d’essere nell’intensificazione della voluttà o piacere.

L’istante è riguadagnato quando il piacere si frange oltre la soglia di un’estasi suprema che era apparsa possibile: delusione, vergogna di ritrovarsi esistenti. Se dunque c’è nel piacere un abbandono o una perdita di sé, estasi, uscita da sé, esso indica una promessa di evasione: non dell’essere pieno il bisogno è nostalgia, ma liberazione (o promessa di liberazione) dall’essere stesso proprio perché il piacere, nel suo stesso fallire e venir meno, mette a nudo il «male d’essere». Proprio l’evento dell’effettività che accompagna o anima il bisogno, rivela la sua vera significazione: il piacere non è lo scopo del bisogno, ma la sua stessa messa a nudo, il suo approfondimento; nella sua natura di disposizione affettiva è movimento di uscita dall’essere (sortie de l’être). Non si limita a significare o a esigere di uscire dall’essere: è quell’uscita stessa.

Il movimento di questa analisi sembra approdare a un risultato più generale: ogni affettività non adotta le forme dell’essere, è in se stessa il tentativo di rompere le catene, di sciogliere l’incantesimo per il quale l’io stesso, gettato nell’esistenza, ripetendo il modello dell’identità dell’essere, è inchiodato a sé. Si profila qui un percorso a venire in cui la sensibilità sarà concepita non più soltanto come pura recettività che accoglie la materia di una conoscenza intellettuale o un sapere dell’oggetto; prima o di là del sapere come meriggio del soggetto, che diviene sguardo puro sull’essere (nel quale si cancella), la sensibilità è apertura a un altrove, è vulnerabilità, esposizione all’altro. Tuttavia, nel testo del ’35, ogni evasione appare ancora impossibile. Il piacere è un’evasione che fallisce: le sue promesse non sono mantenute; al suo fondo appare la vergogna (honte).

Si apre qui una celebre analisi fenomenologica più volte ripresa e commentata (si vedano le profonde considerazioni sulla «vergogna o del soggetto» in Agamben 1998). La vergogna non ha a che fare soltanto con fenomeni di origine morale; vergogna di aver agito male, di aver infranto una norma condivisa. Essa è l’impossibilità di identificarsi con il proprio essere che ci appare estraneo e dunque riguarda più l’essere dell’io stesso che la sua finitudine: non i nostri limiti suscitano la vergogna, ma il nostro stesso essere. Essa appare quando ci è impossibile dissimulare o fare dimenticare la nostra nudità; nudità non del corpo soltanto poiché non basta essere senza vestiti per apparire nella più radicale nudità. Non si tratta soltanto di nascondersi agli altri: il pudore legato alla vita sociale può farci disconoscere la significazione più profonda della vergogna: l’impossibilità di nascondersi non tanto agli altri, quanto essenzialmente a se stessi. Si la honte est là, c’est que l’on ne peut pas cacher ce que l’on voudrait cacher (ivi, p. 113).

Nella vergogna appare dunque il fatto di essere inchiodati a se stessi, la presenza irrevocabile dell’io a sé. Nella stessa nudità del corpo può apparire la nudità di tutto il nostro essere. È la nostra stessa intimità che è coinvolta nella vergogna: essa non rivela il niente, ma la pienezza della nostra esistenza. Ogni essere che ha cercato la soddisfazione e il piacere, ricade nella propria intimità segnata dalla vergogna. L’essere nel suo fondo è per lui stesso un peso insostenibile. Ciò appare in tutta la sua radicalità e purezza quando la malaise assume il carattere della nausea. C’è in essa un rifiuto di permanere, uno sforzo di uscire da sé nel segno dell’impossibilità, uno sforzo che appare disperato. Disperazione e incatenamento che costituiscono tutta l’angoscia della nausea (sottolineatura mia). La nausea è dunque l’impossibilità di essere ciò che si è, al tempo stesso la disperazione di poterne uscire. Si è là, non resta niente da fare, siamo consegnati al puro fatto di essere, tout est consommé…: è l’esperienza dell’essere puro.

L’espressione è notevole: qui l’essere non è più soltanto la fatticità della nostra esistenza in cui siamo gettati e in cui soltanto giacciono le nostre stesse possibilità, secondo le indicazioni di Heidegger: l’essere puro che appare nella speciale «angoscia» presente nella nausea è l’impossibilità stessa e dunque antagonismo interno; «essere puro» in cui è immediatamente iscritto l’istante ove non resta che uscire, liberarsi dell’incatenamento. La nausea rivela la presenza dell’essere in tutta la sua impuissance: C’est l’impuissance de l’être pur dans toute sa nudité» (ivi, p. 118). L’idea stessa di nudità dell’essere preannuncia il grande tema dei capolavori della maturità che è il volto dell’altro uomo: la nudità stessa del volto è l’affezione fondamentale che costituisce la soggettività come responsabilità, poiché nel volto è iscritta l’intimazione a rispondere: il soggetto stesso nel faccia a faccia, nella visitazione dell’altro in quanto significazione del volto, l’io stesso è denudamento di ogni identità costruita superbamente nella sovranità di un io che afferma la propria libertà sulla riduzione di ogni alterità all’«imperialismo» del medesimo.

Ma nel prosieguo della ricerca si potrà scorgere questo tema dell’essere puro solo in sovraimpressione: tutte le categorie ontologiche prima impiegate subiranno un profondo rivolgimento. L’itinerario di pensiero de L’évasion sembra arenarsi o forse chiudersi in un punto estremo senza vie d’uscita: l’evasione è impossibile e si dà nella stessa disposizione affettiva che appare insormontabile, in cui si rivela l’essere puro come luogo ultimo oltre cui non riusciamo ad inoltrarci. In esso è sottesa forse l’idea di una «impossibilità di salvare se stessi e di farlo da soli» (Levinas, 1986, p. 85). E tuttavia nelle analisi de L’évasion, Levinas ha compiuto un gesto filosofico straordinario, forse il più profondo di un’epoca dominata da una interpretazione, la più rischiosa, del «male elementale», iscritto nella struttura di un’esistenza finita in cui si assume come compito il proprio stesso incatenamento.

3. Scienze dell’uomo e finitudine

Straordinaria è la risonanza di questa intuizione nelle analisi della modernità, in cui la finitudine regna nelle scienze umane e in ogni sapere dell’uomo, proposta da M. Foucault in Les mots et les choses: L’uomo è dominato dal lavoro, dalla vita e dal linguaggio; si può accedere a lui attraverso le sue parole, il suo organismo, gli oggetti che fabbrica, come se questi detenessero la verità: l’uomo si conosce nella forma di un essere che è dentro un’irriducibile anteriorità; il cogito moderno diviene un compito incessante. Vivente, strumento di produzione, veicolo di parole (o discorsi) che gli preesistono; tutti i contenuti del suo sapere lo sovrastano e «lo traversano come se non fosse altro che un oggetto di natura, o un volto destinato a cancellarsi nella storia» (Foucault 1978, p. 338).

La finitudine dell’uomo si annuncia nella positività del sapere: «si sa che l’uomo è finito, nel modo stesso in cui si conosce l’anatomia del cervello, il meccanismo dei costi di produzione, o il sistema della coniugazione indœuropea» (ivi, p. 338). Da un capo all’altro dell’esperienza la finitudine risponde a se stessa; il sapere ascritto proprio all’analitica della finitudine, riproduce un’incessante circolarità in cui il trascendentale ripete l’empirico, il cogito ripete l’impensato, il ritorno dell’origine ripete l’allontanamento. Il tramonto della metafisica e insieme ad essa, del radicarsi del finito nell’infinito, fa sì che la finitudine non cessi più di ripetere se stessa: tutto il campo del pensiero occidentale è rovesciato.

C’è in tutto questo un rischio che si riproduce in una continua tentazione di costruire una metafisica della vita, del lavoro o del linguaggio. In ciò si dà l’evento più complesso che, per Foucault, è la comparsa dell’uomo oltre la soglia della modernità: «il giorno in cui la finitudine è stata pensata in un riferimento interminabile a se stessa» (ivi, p. 342). C’è l’uomo perché si pensa il finito a partire dal finito stesso. Ma di quale uomo parla Foucault? «L’uomo nell’analitica della finitudine, è uno strano allotropo empirico-trascendentale» (ivi, p. 349): nella finitudine le condizioni della conoscenza sono prelevati dai contenuti empirici che in essa si danno. Allotropia: una sorta di duplicazione in cui il soggetto del conoscere costituente le oggettività, è a sua volta costituito dai contenuti del sapere, determinato dalle positività dischiuse nella conoscenza. Marx e Comte, positivismo e escatologia sono «archeologicamente indissociabili»; «l’uomo vi appare come una verità a un tempo ridotta e promessa» (ivi, p. 345).

La legge del pensiero moderno è di pensare l’impensato; imperativo che attraversa le forme della morale, della politica, dell’umanesimo: il sapere modifica ciò che sa e l’essere dell’uomo ne risulta alterato; il pensiero non è più «teoria»; «non appena pensa, esso ferisce o riconcilia, avvicina o allontana, rompe, dissocia… non può fare a meno di liberare o di asservire» (ivi, p. 353). Il pensiero è un’azione, atto rischioso. Infine l’uomo è senza origine giacché non è mai contemporaneo del proprio essere. Finitudine, allotropia, impensato, senza origine: è una sorta di «quadrilatero antropologico» che non coincide affatto con il tempo tornato di un regno umano: si tratta di una prosaica duplicazione empirico-critica con cui si pensa di poter fondare la propria finitudine sull’uomo della natura, dello scambio, del discorso.

È questo, per Foucault, un nuovo sonno dogmatico, il sonno dell’antropologia in cui il dogmatismo è semplicemente raddoppiato. Occorre richiamare il pensiero alla sua radicalità e inquietudine per dissolvere «il quadrilatero antropologico» (ontologia purificata e pensiero radicale dell’essere; critica generale della ragione). In rapporto alle scienze umane c’è sempre un rischio del pensiero: la minima deviazione dai piani rigorosi delle scienze empiriche e della riflessione filosofica, porta il pensiero, nel suo riferirsi al campo delle scienze umane, al ricorrente rischio dello «psicologismo», del «sociologismo», dell’«antropologismo»; c’è una difficoltà delle scienze umane per la complessità della configurazione epistemologica in cui sono collocate; rischiosa familiarità con la filosofia, riferimento alle tre dimensioni in cui esse oscillano (scienze matematiche — scienze empiriche — filosofia).

Ma il pericolo più grande è altrove: nelle forme che il potere può assumere nell’ambito della finitudine, sfuggendo al controllo dei saperi e tagliando corto con il dubbio e il ripensamento che animano la ricerca e la conoscenza. Il potere oggi si presenta come ciò che produce delle forze, in grado di farle crescere e a riordinarle; l’antico diritto di morte è spostato nelle esigenze di un potere che gestisce la vita. La morte può essere l’altra faccia del «diritto che ha il corpo sociale di assicurare la sua vita, di mantenerla di svilupparla (Foucault, La volontà di sapere, trad. it. 1978). «L’esistenza in questione non è quella, giuridica, della sovranità, ma quella, biologica, della popolazione» (ibid. ). Il genocidio è il sogno dei poteri moderni! Ciò perché il potere oggi si colloca ai livelli della vita, della specie, della razza e dei fenomeni di massa delle popolazioni. È la nascita della biopolitica. «Il fatto di vivere, non è più il fondo inaccessibile […] passa […] nel campo del controllo del sapere e d’intervento del potere» (ivi, p. 126). Il vivente che per Aristotele era capace di un’esistenza politica, si inverte in una politica che fa questione del suo essere vivente! La vita, essenza concreta dell’uomo diventa il compito da assumere, l’obiettivo storicamente sensato. Così la simbolica del sangue, limitato un tempo al potere sovrano di dare la morte, ha invaso la sfera della vita e della sessualità in quanto assunti come compito dal potere: il nazismo si era iscritto come caso estremo in questa possibilità. Ciò pone, per Foucault, il problema di un nuovo processo di soggettivazione in cui la cura di sé consegua l’effetto di porre gli individui come nodi di resistenza al potere in tutte le sue articolazioni.

4. L’emergenza del soggetto

«L’essere incatenato costituisce tutta l’angoscia della nausea. In che cosa la nausea così descritta differisce dall’angoscia descritta da Heidegger in Che cos’è la metafisica? di poco posteriore a Essere e tempo? Non si tratta soltanto del diverso ruolo giocato dal niente in entrambe le esperienze, come suggerisce Jacques Rolland nella sua introduzione a L’évasion. Per Heidegger l’angoscia rivela il niente: tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza, l’angoscia ci lascia sospesi, perché fa dileguare l’ente nella sua totalità. «Solo nella notte chiara del niente dell’angoscia sorge quell’originaria apertura dell’ente come tale, per cui esso è ente — e non niente» (Heidegger, 1987, p. 70). Il niente porta l’esserci dinanzi all’ente come tale; l’esserci significa in se stesso l’esser tenuto immerso nel niente. Per questo l’esserci è oltre l’ente nella sua totalità: se l’esserci non fosse immerso nel niente non potrebbe rapportarsi né all’ente né a se stesso.

È qui la possibilità stessa della soggettivazione per Heidegger: «Senza l’originaria evidenza del niente non c’è un esser-se-stesso, né una libertà» (ivi, p. 71). L’esserci è così trascendenza; in essa l’esserci sostiene, senza esserne il padrone, il suo esser gettato, la Geworfenheit. Nell’esserci l’angoscia è tonalità fondamentale: c’è sempre, anche solo assopita. Regna in profondità e il suo respiro, come un tremito, percorre costantemente l’esserci. Essere immerso nel niente da parte dell’Esserci, è ciò che fa dell’uomo il luogotenente del niente» (ivi, p. 73). La finitudine scava così abissalmente nell’Esserci che è preclusa la finitezza più propria e profonda. L’essere stesso è per essenza finito e si manifesta soltanto nella trascendenza dell’Esserci. L’esser gettato, la fatticità è qui l’essere che si rivela nella «notte chiara del niente» e in essa consiste la possibilità più propria dell’essere umano, il suo destino autentico che coincide con la sua libertà. Tenersi nel nulla della propria trascendenza può significare qualcosa come l’eroismo dell’esserci che è in grado di anticipare la propria fine.

La scoperta dell’«essere puro» coincide in Heidegger con l’inesorabile di un destino che si delinea nella sua stessa soggettivazione. Sottile, impercettibile inflessione che fa virare la libertà in destino, la trascendenza nella misura stessa dell’inesorabile! Per Levinas, la rivelazione dell’esserci puro, che è peso a se stesso, affrancato da ogni natura, qualità o potere, che nel suo stesso gravare aspira all’evasione, impotente nella sua nudità, mosso da un antagonismo interno, questo essere puro nella sua stessa inesorabile e in trascendibile presenza è lacerazione: l’evasione è la sua struttura interna! Se in Heidegger l’essere come niente in cui si appropria l’esserci umano è la libertà che trasmuta in destino, in Levinas il niente che richiama l’essere è l’incatenamento, l’être rivé in cui si schiude l’esigenza di liberazione.

«Immaginiamo il ritorno al nulla di tutti gli esseri: cose e persone… ma il nulla stesso? Qualcosa accade, non fosse altro che la notte e il silenzio» (Levinas 1947, p. 50). Nell’esperienza del nulla qualcosa è lì ancora presente, indistruttibile, anonimo ma inestinguibile, che mormora nel fondo del nulla stesso. Per indicare il suo rifiuto di assumere una forma personale, Levinas indica questo fondo inesorabile, questo «elemento» dell’essere in generale, con l’espressione il y a. In esso abita l’orrore che spoglia di ogni soggettività: nell’il y a riconosciamo l’impersonalità del sacro in cui non c’è nulla che prepari l’apparizione di un Dio. In esso persino la morte è impossibile: l’universalità o pervasività del fatto originario dell’esistenza si afferma persino nell’annullamento. E tuttavia nell’essere puro o nella sua nudità, come emerge dalla nausea descritta nel L’Evasione, accade qualcosa di straordinario: questa nudità dell’essere puro, che è peso a se stesso, che aspira all’evasione, alla liberazione, si spoglia allo stesso tempo di ogni finitudine, si libera di ogni fatticità che imporrebbe l’assunzione delle possibilità che giacciono in essa (siano esse le condizioni storico-sociali e di eredità biologica da un lato, o l’essere purificato nel suo mantenersi nel nulla, descritta da Heidegger, la cui unica possibilità autentica sarebbe l’eroico anticipare la propria fine) dissolve immediatamente il fatalismo dell’essere gettato anche nel senso della più pura fatticità dell’esistere puro che, nella differenza ontologica, si mantiene nella trascendenza del nulla appropriante.

L’incantesimo è rotto: il pensiero che fosse in grado di affrontare la struttura dell’essere puro e del suo antagonismo interno, avrebbe la forza di sfatare il tacito presupposto di un’epoca e dei suoi equivoci sull’uomo quando essa lo «comprende» come privo di essenza e prescrive l’assunzione dei contenuti del suo stesso sapere ispirato alla finitudine, come lo stesso compito della realizzazione di sé.

Ma il gesto filosofico di Levinas, il più profondo della più recente modernità cui ancora apparteniamo, è forse un gesto, in prima battuta, mancato: l’impossibilità stessa di evadere può solo lasciarci dolorosamente segnati dall’aspirazione a una liberazione, che la struttura stessa della nudità dell’essere puro testimonia e iscrive nella nostra esperienza. Non si può procedere oltre in base alle nostre forze. La «struttura dell’essere puro» rimane impensata.

Inizia allora un percorso in cui Levinas si interroga sulla nascita e la possibilità stessa del soggetto e di quell’essere puro sembra rimanere soltanto l’orrore dell’il y a. Questo si apre come l’abisso, l’assenza di luogo, il caos, quando il soggetto è sconvolto dall’emozione, poiché in essa ciò che è positivo nel soggetto sprofonda in nessun luogo. Il soggetto può apparire come un «qui» e «ora». Spesso la filosofia moderna ha disprezzato l’istante come mera astrazione rispetto al concreto della durata e dello slancio vitale rivolto al futuro. Il tempo è estensione e distensione e si può leggere, iscritta in esso, l’immagine dell’eternità. L’istante è invece pura evanescenza e il suo valore straordinario può essere intravisto nel suo emergere e distaccarsi dal semplice ordine degli istanti del tempo in generale. Tale istante è il presente come realizzazione dell’esistenza: solo in esso si può concepire un inizio, una nascita, una «iniziazione» all’essere, un nascere da sé: in questo paradosso si costituisce il soggetto secondo Levinas nel lavoro del ’47, Dall’esistenza all’esistente, in cui è aperta la questione del soggetto.

È proprio l’evanescenza del presente che impedisce all’esistenza di non essere una mera eredità, ma l’insorgenza del soggetto: evanescenza, ma insieme carattere assoluto del presente. Melanconia dell’eterno scorrere delle cose e insieme garanzia della libertà dall’origine dell’istante. Il presente non si annulla facilmente, esso è il cominciamento puro, un assoluto riferirsi a sé. Già da sempre è responsabilità dell’esistenza che prende inizio. In questo riflettersi del presente su di sé sorge «l’io già inchiodato a sé, già raddoppiato in un sé» (Levinas 2004, p. 72).

Ritorna qui la figura dell’être rivé, nel prodursi stesso del soggetto nel suo trovarsi implicato nell’assoluto dell’esistenza come presente a sé: l’io e il presente si saldano nel porsi dell’identità. Nel dubbio e nel Cogito si esclude ogni fuori dell’istante e si congela, si potrebbe dire, l’implodere vicendevole del presente e dell’Io: «presente, io, istante: sono tutti momenti di un evento unico» (ivi, p. 73). Ma il soggetto sorge nel campo anonimo dell’ il y a edificando un suo terreno, una base o un fondamento: non si tratta di opporre l’io e il mondo, ma della «stessa apparizione di un esistente, di un sostantivo nel seno di questa esistenza impersonale che, a rigore, non può essere nominata perché puro verbo».

Questa visione del soggetto deve molto ad Heidegger che ha fatto della pura risonanza verbale del verbo essere il cuore della differenza ontologica che la metafisica avrebbe obliato. Il soggetto è dunque ipostasi: la parola indica proprio l’evento in cui l’atto di una verbalità pura si nominalizza e designa un esistente: il soggetto sospende l’il y a anonimo, l’inesorabile ritorno dell’essere anche nella sua negazione; appare un nome, un essere singolo. L’essente è ora il soggetto del verbo essere: c’è qualcuno che assume il suo essere che nel suo esser presente a sé è anche coscienza. L’io e la coscienza sono eventi del mutarsi in sostantivo della innominabile verbalità dell’essere. Ma c’è un ritorno dell’il y a nell’io: è la solitudine del soggetto segnato dal carattere definitivo dell’incatenamento di un io a un sé. La liberazione diventa un compito infinito? Il tragico qui sembra originario, è l’atto di nascita della soggettività, inchiodata al proprio essere.

Nessuna libertà può sottrarre l’uomo a questa forma iniziale del destino: è il dramma di un nascere incessante. La libertà è reale nello spazio del desiderio e dell’intenzione che rinnovando l’istante come puro cominciamento, si sbarazza di ogni passato; libertà come potere di non prendere nulla in un mondo di luce in cui tutto mi è dato come luce di una coscienza. «Ma il mondo e la luce sono solitudine» (ivi, p. 77). La solitudine definisce l’uno di ogni esistenza singola cui conviene il termine straordinario di Leibniz di monade. Questa esistenza definitiva non deve essere perdonata? Che cosa spezzerà il carattere definitivo di un soggetto inchiodato o chiuso in sé? Qui emerge per la prima volta il «tema» dell’altro e della sua alterità. Ma non potrà essere un «alter ego» a rompere questo incantesimo: l’«altro io» é un’alterità ridotta alla misura dell’io. L’impossibilità di disfarsi di se stessi è l’incatenamento a sé non per la forza di un carattere o delle pulsioni, ma per l’associazione silenziosa a se stessi: alla libertà è interdetto quel nulla in cui gettarsi secondo la possibilità indicata da Heidegger; essa si compie nel pieno dell’essere. Ci può essere un oltre di questa «gettatezza» rinnovata nel pieno piuttosto che nel nulla? Il Tempo stesso, sembrerebbe. La speranza non come compensazione (il mondo come possibilità del salario e il tempo in cui ogni pena si svuota) ma come Messia o salvezza (ivi, p. 83). Una strana speranza: la carezza che va incontro al dolore non annuncia nessuna salvezza nel «Tempo economico», ma dissolve la fatalità del dolore e «segna» un avvenire. Il tempo non si intende più lungo il mormorare silenzioso e impenetrabile di un pieno d’essere, ma è la speranza per il presente che trae tutta la sua energia dalla fonte in cui si genera, la disperazione che non trova motivi razionali di scioglimento. «La disperazione è divenuta speranza» senza svanire nella speranza a cui dà luogo.

C’è dunque un bisogno di tempo per attingere un’alterità che nessuno può darsi d sé. Qui emerge l’esigenza di un altrove. Il «dialogo silenzioso dell’anima con se stessa» su cui insisteva Platone, deve far luogo all’irrompere di altri non come alter ego, ma come ciò che io non sono: l’asimmetria dello spazio intersoggettivo è ciò che inaugura e giustifica l’umano.

5. Il volto e la traccia

In Totalità e infinito e in Altrimenti che essere si riannodano tutti i fili della riflessione levinassiana e nello stesso tempo si trasformano profondamente le categorie ontologiche già messe alla prova nel confronto con la fenomenologia husserliana e l’analitica dell’Esserci di Heidegger. Le esigenze più intense e imperiose della sua ispirazione non cadono mai nel nulla; subiscono spesso impensate metamorfosi o migrano senza che sia facile riconoscerle, in altre configurazioni in cui è ora affidato il compito di rendere conto della soggettività e insieme del senso dell’umano. Non si tratta di una più classica costruzione sistematica; rimane ancora valida e suggestiva l’immagine di Derrida che descrive lo stile e il movimento di questo pensiero: esso appare come «l’insistenza infinita della marea contro una spiaggia; ritorno e ripetizione, sempre, della stessa onda sulla stessa riva, dove tuttavia, riassumendosi ogni volta, tutto si rinnova e si arricchisce infinitamente» (Derrida 1971).

La figura dell’evasione sembra dissolversi e anzi assumere il tratto negativo della fuga di fronte alla responsabilità non del proprio essere, ma del destino dell’altro uomo. Non cade però l’esigenza che l’ha posta in essere: il bisogno di trascendere che è immediatamente il passaggio all’altro dell’essere. Ciò vuol dire che la trascendenza o «il Trascendente» non può essere visto come un Essere infinito che riassume in sé l’eccellenza dell’essere stesso visto al superlativo. Si tratta, in un certo senso, di concepire Dio di là dell’essere, un Dio ignoto (nella cui traccia sorge un io altrettanto ignoto!) che non può presentarsi come oggetto di un sapere né mira intenzionale di una coscienza, seppure in forma eminente. Non si può ritornare indietro rispetto all’analitica della finitudine, rispetto al fatto irremissibile dell’essere consegnati a se stessi, all’abbandono nel deserto dell’essere. Riedificare l’eterno per ancorare ad esso l’umano, significa soltanto trasferire nella dimensione dell’eternità l’orrore dell’essere, elevare all’infinito l’inesorabile. Occorre invece porsi di fronte all’assoluto da atei per «accogliere l’assoluto epurato dalla violenza del sacro […] l’infinito non brucia gli occhi che si posano su di lui […] non è numinoso: l’io che lo avvicina non è annientato né dal suo contatto, né trasportato fuori di sé, ma resta separato e mantiene le distanze» (Levinas 1980, p. 75).

Ma anche la fede monoteista, fede purificata dal mito e dal sacro, presuppone l’ateismo metafisico: un Dio troppo compromesso con il mondo in un regime economico di scambi e di effetti che si confondono con tutti gli altri effetti della storia, è un Dio che necessariamente «muore». La teologia che ha pensato l’essere supremo giocando sulle categorie ontologiche è stata mortale per Dio e anche per l’uomo: essa, come ogni ontologia, visione dell’essere commisurata alla coscienza e al sapere umano, era impreparata a fronteggiare il male di secondo grado, come possibilità di assumere come assolute le condizioni in cui l’uomo si dissolve: vita biologica, destino storico, o il fatto stesso di esistere senza origine, nell’abbandono. Il male elementale, essere consegnati al fatto di esserci in modo assolutamente gratuito e ingiustificato, resta irremissibile: nessun Dio può giustificare l’esistenza di un singolo, di un popolo o anche dell’umanità stessa come genere. L’eternità, concepita sotto la forma dell’essere (Dio stesso come ente che è il suo essere nella forma più perfetta) non è che la radicalizzazione della fatalità dell’essere incatenato a se stesso (De L’évasion, p. 123). «Si vive al di fuori di Dio, a casa propria, si è io, egoismo» (Levinas 1980, p. 57). L’anima è naturalmente atea.

In che modo è possibile il movimento della trascendenza? «La dimensione dell’infinito si apre a partire dal volto umano» (ivi, p. 7): Parallelamente «essere un io e non solo l’incarnazione di una ragione, significa essere capace di vedere l’offesa dell’offeso o volto» (ivi, p. 252). Il monoteismo è stato il gesto decisivo di superamento del «sacro» e di ogni fatalità o destino che consegni l’umano all’inesorabile e al prodursi necessario della violenza e distruttività. Ma il Dio della tradizione teologica, chiamato a giustificare le cose umane e le contingenze della storia «è un Dio sempre rinnegabile e sottoposto al pericolo permanente di mutarsi in protettore di tutti gli egoismi» (Levinas 1983, p. 201). La trascendenza non appartiene all’ordine dell’essere perché un Dio pensato nell’essere sprofonderebbe, come ogni soggettività che pretenda di sdradicarsi dalla totalità ponendosi come inizio assoluto o libertà, nell’universale mormorio del c’é (il y a); l’essenza più anonima e inesorabile dell’essere presente anche nel puro nulla di tutte le cose.

E tuttavia questo brusio anonimo del c’é significa proprio in quanto è il deserto in cui si inabissa ogni senso, ogni libertà che si presume sovrana, ogni opera dell’uomo. Si dà qui una possibilità diversa e inedita di soggettivazione: non quella dell’idealismo che pretende di sradicare l’io dall’essere per farne il principio libero di ogni realtà e che assume l’essere come oggetto prima ancora che come attributo, ma una soggettività che nasce, di là di ogni sapere e della coscienza di sé, prima ancora di una duplicazione riflessiva che darebbe luogo all’identità, nell’esposizione all’alterità: «il c’é è tutto il peso dell’alterità sopportata da una soggettività che non la fonda» (ivi, p. 205). Bisogna sopportare l’essere puro, nudità indifesa in quanto esposizione radicale alla perdita di ogni senso e di ogni radicamento: l’esistenza pura ha così risonanza (in essa è il fuoco della nascita del soggetto) nella vastità insondabile e inesorabile dell’il y a, eternità intollerabile.

Ma proprio il c’é, l’essere non oltrepassabile che tuttavia non possiamo più assumere (qui è la vera distanza di Levinas da Heidegger) significa irremissibilmente la necessità che Dio sia «strappato all’oggettività, alla presenza, all’essere. Né oggetto, né interlocutore, Dio non è semplicemente il «primo altri» o «altri per eccellenza» o «l’assolutamente altri». Trascendente fino all’assenza, fino alla possibile confusione con lo scompiglio del c’è» (di Dio che viene all’idea, trad. it., p. 93). L’essere così isolato dalle sue qualità e dal suo carico di effettività storicamente ereditate, l’essere puro scoperto nella vergogna e nella nausea, secondo il testo de «L’évasion», diviene ora la traccia stessa della trascendenza, dell’altrimenti che essere: «Ma, dunque, non sarà la traccia la pesantezza dell’essere stesso (si ricordi, in L’évasion, l’esser puro che è peso a se stesso), al di fuori dei suoi atti e del suo linguaggio, pesante non della sua presenza, che lo dispiega nel mondo, ma proprio a cagione della sua irreversibilità, della sua as-soluzione? La traccia sarebbe l’indelebilità dell’essere, la sua onnipotenza riguardo a ogni sorta di negatività, la sua immensità incapace di chiudersi in sé» (Levinas 1998, p. 94-95). Si dà qui una sensibile equivocità dell’essere: l’essere puro è inassumibile ed è traccia dell’assenza di Dio proprio perché la traccia, che non è un segno come tutti gli altri, ma è segno cancellato, non intende rivelare né nascondere nessun significato rintracciabile; indica un passato irrecuperabile, irrimediabilmente perduto per la coscienza che cerca di risalire alle cause che precedono nel tempo gli effetti.

È qui ripensato l’«evento» fondamentale della modernità, la morte di Dio, o meglio il ritorno di Dio nella sua irrivelazione e lo smarrimento dell’uomo consegnato a se stesso e al suo compito di essere, di assumere cioè la sua stessa effettività (secondo l’ontologia heideggeriana) o di elevare al rango di principio ciò che le scienze umane svelano a proposito dei condizionamenti e della finitudine della soggettività umana (secondo la lettura di Foucault). Non è dall’essere puro che bisogna evadere, di cui occorre liberarsi, perché è inassumibile e su di esso non può edificarsi nessun soggetto libero che assuma la propria esistenza; ma un altro senso dell’essere si compone se si decide la possibilità di declinare l’essere come aver da essere, come insediamento nell’essere, come in un tempo che è destinazione e appropriazione.

È il senso dell’essere gettato dell’analitica heideggeriana, della inflessione destinale dell’Essere che si afferma anche nella sua effettività pura, di là cioè della dispersione nelle cose o nel già dato della storia. Anche in questo caso l’essere rimane storicità, Evento, destinazione. Ma il destino è un modo del soggiornare, dell’essere in una patria ora perduta o caduta nell’oblio. La casa dell’essere rinvia a un dover essere a casa propria, nel soggiorno destinale dell’Essere che è essenzialmente soggiorno, patria, destino. Allora il già-dato della storia deve divenire il compito da assumere: «Ciò che è naturale per un popolo storico è veramente natura, cioè fondamento essenziale, soltanto quando questo elemento naturale è diventato elemento storico della sua storia. Per questo occorre che la storia di quel popolo si ritrovi in ciò che le è proprio e vi abiti» (Heidegger 2007, p. 108).

Questi contenuti formali, «dedotti» dall’Essere come pura temporalità e storicità (patria, destino, popolo, natura) possono essere facilmente fraintesi e «cadere» in più brutali contingenze o «risoluzioni» ideologiche di quel destinare puro dell’Essere come Ereignis (Evento appropriante). L’uno e l’altro «senso» dell’essere appaiono condizioni della «liberazione etica» del sé in Levinas. Quest’ultima modulazione dell’essere e la soggettivazione che esso consente appaiono a Levinas come la formula compiuta dell’«io detestabile» di cui diceva Pascal: «È il mio posto al sole, ecco l’inizio e l’immagine dell’usurpazione di tutta la terra». Si tratta invece di rispondere del proprio diritto d’essere, nel timore per altri: «il mio essere nel mondo e il mio posto al sole, il mio «presso di me», non sono stati usurpazione di luoghi che appartengono all’altro uomo già oppresso o affamato da me?» (Levinas, 2004, p. 165). Timore che il mio essere stesso, malgrado la mia innocenza cosciente, può compiere di offesa o di misconoscimento di altri, timore che mi viene dal volto dell’altro uomo: nel «visage» che è visitazione, mi è indirizzata una domanda dal fondo di una solitudine assoluta (ibid. ). Si dissolve così la «pur meravigliosa» analisi fenomenologica dell’effettività in Essere e tempo, dove l’emozione è vista nella sua doppia intenzionalità: riflessività e rimando del rattristarsi o del rallegrarsi a un tempo di qualcosa e per se stessi; turbamento della finitezza per questa finitezza stessa (ivi, p. 166). Il timore per l’altro uomo supera l’ontologia del Dasein.

Il sé è allora, piuttosto che coscienza di sé, coscienza inquieta che non riposa mai in sé: identità che arretra davanti alla propria affermazione, che non insiste e non si insedia nell’essere. Nudità e timidezza, «riservatezza del non investito, del non giustificato, dello straniero sulla terra […] del senza patria […] che non osa entrare» (ivi, p. 163). Questo sé prima di ogni coscienza che si edifichi in soggettività sovrana, è sensibilità pura, vulnerabilità, esposizione all’altro. L’evento fondamentale è l’epifania del volto che è nudità essenziale: esso infatti non appare soltanto come forma visibile che io posso osservare e giudicare come un oggetto o un ente del mondo; il suo vero essere è il sottrarsi alla forma stessa in cui appare: è l’altro che si rivolge a me, mi interpella ritraendosi nella sua inaccessibile alterità. Il volto è traccia di se stesso, presenza che è già un passato: nel suo invocarmi altera la mia contemporaneità con lui: «aprii, era scomparso» (Cantico dei Cantici, 5, 6). Nel suo reclamarmi, sono in un ritardo irrecuperabile. Sfugge a una piena presenza e il suo tempo non è il mio tempo; si sottrae al puro fenomeno e interdice un presente che sia davvero comune. L’altro nella visitazione che è volto, assiste al proprio apparire, ma è già altrove: esistenza che diserta da se stessa, finizione della finitezza che finisce […] Esistenza abbandonata da tutti e da se stessa, traccia di se stessa […] mi convoca nel mio ultimo rifugio» (Levinas, 1983, trad. it., p. 114). Nudità e apolidia: «astrazione concreta» che si svelle dal mondo e dai suoi orizzonti. Traccia di un passaggio, forse un nulla; c’è una differenza infinitesima dal nulla, ma è sufficiente a tradursi in me nella mia non indifferenza; in questo scarto minimo c’è la significazione della trascendenza. Nel vuoto dell’abbandono vi è la traccia dell’infinito. «Traccia perduta in una traccia» […] traccia dell’infinito che passa senza poter entrare (ivi, p. 116).

Questo distinguersi appena dal puro nulla segna il nascere della mia responsabilità per l’essere che io non sono. Ancora: «Traccia di se stesso, traccia nella traccia di un abbandono» (ibid.). L’essere puro è qui irremissibilmente nell’abbandono e nella impossibilità di insignorirsi dell’Essere e del proprio destino; ma proprio l’abbandono, la nuda esistenza che appare nel volto dell’altro è la traccia dell’infinito: traccia cancellata (come in un delitto perfetto l’unica traccia che rimane è la cancellazione di tutte le tracce). Vi è dunque un anacronismo essenziale nella prossimità con l’altro essere umano. È proprio il mio ritardo di fronte all’altro che mi reclama e istituisce il soggetto; ciò che mi interpella è già passato e il mio essere per l’altro della responsabilità non è mai abbastanza: infinizione o venire di Dio all’Idea.

Il soggetto nasce dunque nel non luogo o non tempo (utopia e anacronismo) del mai stato di ciò che lo suscita e il mai ancora di ciò verso cui è suscitato; in un frat-tempo in cui convergono due divergenze: un accadere di ciò che mai è venuto e un non mai abbastanza avvenire. L’infinitamente esteriore diviene voce «interiore»: la gloria dell’Infinito può accadere solo nel costituirsi della soggettività umana; c’è nel volto dell’altro uomo un comando che nessuno ha istituito: non uccidere. Ma questo ordine non causa la mia risposta: c’è un’obbedienza prima dell’ordine; nessuna identità se non con il suono della mia voce; il dire che viene a me è la mia propria parola; l’infinito mi ordina il prossimo come volto, ma trovo quest’ordine nella mia risposta stessa. Sono dunque l’autore di ciò che a mia insaputa mi fu ispirato (ivi, p. 186) e la traccia dell’infinito è questa ambiguità del soggetto di volta in volta inizio e tramite.

Il sé non può dunque farsi, è già fatto di passività pura annodata in un tempo immemorabile. Nell’esposizione all’altro il se stesso è come contratto, «espulso in sé fuori dall’essere», nella traccia del proprio esilio: nudità del volto, nudità del sé: si porta il proprio essere come una maschera, si porta il proprio nome come uno pseudonimo. «In sé, il se stesso è l’uno» (ivi, p. 173). Singolarità pura come un suono udibile nella sua stessa eco; l’unico punto di appoggio dello spirito é pronome personale. Incommensurabile alla coscienza che è sempre coscienza dell’essere come intelligibilità in cui essa stessa si iscrive, il soggetto così «ridotto» è indeclinabile: sempre all’accusativo, chiamato in causa nella sua stessa innocenza, iscrive la sua unica identità possibile nell’enunciato di un «eccomi»; l’io è questo rispondere: «eccomi». «Altri mi guarda, tutto mi riguarda». Non c’è affatto un ritrarsi nel nulla, ma un ingresso nel pieno (ivi, p. 135), nella «inestensione dell’Uno» (secondo alcune formule del Parmenide platonico). L’io sorge dunque come responsabilità verso l’altro uomo, suscitata dalla significazione del volto; nella responsabilità sono insostituibile: nessuno può divenir responsabile al posto mio.

In queste straordinarie formule levinassiane l’esistenza è purificata da ogni finitudine: nella traccia dell’infinito, è tracciata la possibilità di un soggetto liberato da ogni destino, che potrebbe insorgere nella libertà stessa di un Io sovrano che misconosce il suo incatenamento a sé e alla effettività in cui è gettato. Non c’è da assumere il proprio essere-là come un compito inevocabile: si è già fuori di sé come soggettività «intessuta» di convocazione che risponde dell’altro, perchè eletto nella responsabilità; questa indica non uno stato o un attributo, ma il movimento di un dare che si accresce, come per un Desiderio che non è mancanza ma infinizione, prodursi della gloria dell’Infinito in me.

6. Soggettività e senso dell’umano

In questa «gloria della non essenza», nella significazione del volto e nella responsabilità per l’altro, è possibile ritrovare un senso dell’umano proprio quando le scienze positive e l’antiumanesimo moderno proclamano il dissolversi del soggetto. Antiumanesimo la cui «intuizione geniale consiste nell’aver abbandonato l’idea di persona, scopo e origine di se stessa, in cui l’io è ancora cosa perché è ancora essere» (Levinas, 1983, p. 161). In quanto momenti dell’essere, la soggettività appare a se stessa, e diviene oggetto delle scienze umane. L’uomo inteso come individuo di un genere, perseverante nell’essere, come tutte le sostanze, «non trova un privilegio che ne faccia lo scopo di tutta la realtà» (Levinas, 1998, p. 126). L’animal rationale dilegua o nella natura (in quanto animal) o nelle strutture impersonali della logica (in quanto razionale). Fine dell’umanesimo e morte dell’uomo sono temi che esprimono un certo stato della ricerca delle scienze umane che sembrano preferire (anche nell’ordine umano) le strutture matematiche che «escludono il soggetto dall’ordine delle ragioni». La coscienza e l’intelligenza dell’uomo appaiono un espediente di cui si servono le strutture per mostrarsi e per connettersi in sistema. Non è più l’uomo che cerca o conquista la verità, è la verità che possiede l’uomo e che ha bisogno dell’uomo per manifestarsi; in essa però non c’è più nulla di umano. Fuori di questo la soggettività è illusione: l’autocoscienza stessa si dissolve, quando, ad esempio, la psicoanalisi mostra la fallacia del cogito. L’io non è padrone a casa propria: la coincidenza con sé è impossibile per il gioco di pulsioni o di linguaggi che dissolvono l’identità della persona. Questa è ormai solo una maschera che indica il sé come nessuno. La soggettività, nel sapere, compare solo in un ordine che decreta la sua scomparsa. Tutto l’essere dell’uomo è fuori e si cerca la verità nell’essere senza più tracce umane: sembra questa la veridicità delle scienze umane nel loro principio metodologico.

Ma dove sembra che cresca il deserto dell’uomo («i sospetti generati dalla psicoanalisi, dalla sociologia […] pesano sull’identità umana in modo tale che non si sa mai a chi si parla») si afferma al tempo stesso una straordinaria possibilità di un nuovo senso dell’umano, sgombrando il campo da tante forme illusorie di soggettivazione. In generale l’antiumanesimo moderno ha ragione quando non trova un privilegio dell’uomo nell’essere. Tuttavia, la non-indifferenza riguardo all’umano «non riesce a nascondersi nell’incessante discorso sulla morte di Dio o sulla fine dell’uomo» (Levinas, 1983, p. 75). La disfatta dell’identità può divenire il segno dell’inquietudine stessa del soggetto che non può riposare in sé in quanto desiderio dell’altro ed essere per l’altro: se non siamo ciò che abbiamo coscienza di essere, ciò significherà che la coscienza non ha più il primato. Il Sé è esposto all’altro (qui è il significato originario dell’esser fuori) e non finisce mai di costituirsi in rapporto all’altro: «prima che mi chiamino risponderò» (Isaia, 65, 24). Il matematicismo formale delle strutture, in cui l’essere umano viene dissolto, non toglie «che l’uomo non abbia smesso di contare per l’uomo» (ivi, p. 156). Alla nudità del volto, nella responsabilità che esso suscita nel chiamarmi «con voce di fine silenzio», non cesserò di rispondere. Inquietudine, desiderio, essere fuori di sé, impossibilità di insediarsi dell’essere come autoctoni: «io sono straniero sulla terra» (Salmo 119). Gli uomini si cercano l’un l’altro nell’incondizione di stranieri; nessuno è a casa propria (Levinas, 1998, p. 150). Inessenzialità dell’uomo, ma «gloria della non essenza»! . Meno che nulla in se stessa e nell’essere, l’umanità dell’uomo può risplendere nella responsabilità per altri, iscritta nella sua stessa sensibilità e vulnerabilità.

L’identità e l’unicità del soggetto umano non derivano da nessuna natura né essenza, ma da un risveglio incessante; non c’è già, come un dato offerto alla conoscenza, l’umano là fuori: esso è il risveglio di sé di fronte alla nudità indifesa del volto e il mistero del mio rispondere, come un desiderio che si accresce del suo essere desiderio, senza mai riposare in un presunto appagamento del suo aspirare. Cifra o traccia di una sovrabbondanza che sorge inestricabilmente nel deserto dell’uomo e dell’essere, e che si annoda attorno al rivelarsi di una nuda e pura esistenza sciolta dalla finitudine.

Ma la soggettività per Levinas si iscrive anche in una significazione iperbolica della persecuzione, dell’oltraggio, della colpa e della espiazione. «io respingo ed allontano il prossimo attraverso la mia stessa identità, attraverso la mia stessa occupazione della sfera dell’essere; devo dunque sempre ristabilire la pace (Levinas 1983, p. 173). Si è colpevoli, di là della propria innocenza, del fatto stesso di esistere! «Nell’esposizione alle ferite e agli oltraggi, nel sentire della responsabilità, il se stesso è provocato come insostituibile» (ivi, p. 132). Il volto del prossimo è anche ossessione e odio persecutore: «solo il perseguitato privato di ogni riferimento (in quanto privato di ogni ricorso e di ogni soccorso — ed è questa la sua unicità o la sua identità di unico!) è in grado di sopportare» (ivi, p. 139). Il subire a causa di altri è pazienza assoluta: «questo transfert […] è la soggettività stessa (ivi, p. 139). «Saziarsi anche di oltraggi» (Lamentazioni, 3,30): magnifica figurazione di una sovrabbondanza che può segnare l’esistenza pura che afferma e rifiorisce di là del dolore! Ma in quel transfert della sofferenza e dell’oltraggio, l’odio persecutore appare adesso come la condizione necessaria perché sorga una soggettività che in se stessa sia espiazione: «L’unicità del sé è il fatto stesso di portare la colpa d’altri» (ivi, p. 140).

Il soggetto è nell’«incondizione di ostaggio»: l’oltraggio inflitto dall’altro rende possibile l’espiazione della sua colpa attraverso me; l’espiazione unisce identità e alterità. L’io non è solo capace di espiare per gli altri, l’Io è questa espiazione originale, involontaria, malgrado sé, inassumibile come qualità positiva della propria natura, o come decisione libera. Individuazione o «sovraindividuazione» che è ora l’essere in sé dell’Io che non «condivide il conatus essendi di tutti gli esseri». Sovraindividuazione che è in se stessa l’espiazione dell’essere.

Cos’è dunque, nella sua significazione stesa, la soggettività? «Soggetto» può voler dire «essere soggetto», soggezione, «sostrato» capace di «sopportare» («o portare» nel senso della responsabilità «l’universo, carico opprimente, ma disagio divino» (ivi, p. 154); può essere, nell’esposizione all’altro e nella vulnerabilità, già compromesso con il Bene, prima che sorga una libertà in me: anarchia del soggetto, nascita latente che è già prima di ogni cominciamento, di ogni inizio in me. Anacronismo dell’Io nel suo essere già ordinato all’essere per l’altro, traccia di un passato irrecuperabile, passato come passo cancellato di un Dio o dell’Infinito che mai si è presentato!

Ma l’anarchia del soggetto può essere giustificata dall’essere «straniero sulla terra», dall’esilio in sé, dalla visitazione, dal volto dell’altro uomo che è miseria e privilegio dell’umano, dall’essere in sé puro da ogni esser gettato o consegnato a una finitudine «di là dell’Essenza», dalla traccia di un abbandono che suscita un desiderio incolmabile di amicizia o di amore: splendide figurazioni che sembrano iscriversi «naturalmente» nella «gloria dell’Infinito»: e tuttavia queste figure della soggettivazione sembrano cadere in un altro ordine di «legittimazione» del soggetto: l’esistere stesso è colpa, l’oltraggio e la persecuzione sembrano condizioni a priori della nascita di un sé della responsabilità: che ci sia un universo dell’essere segnato dal male, appare la condizione della mia incondizione di eletto a portare la colpa d’altri; esso è ciò che «precede» il «prima» della mia individuazione come espiazione. Solo la giustizia modificherà questo «assoluto» anacronismo, perché chiamata a correggere l’asimmetria radicale del mio rapporto con altri: ma per quanto mi riguarda, che anche l’altro sia soggetto responsabile d’altri è affar suo; «Affar mio è la mia responsabilità e la mia sostituzione iscritta come io» (Levinas 1983, p. 117). L’io denudato ed esiliato risorge dalla sua kenosi: «Sono io che sono integralmente e assolutamente Io e l’assoluto è affar mio: nessuno può sostituirsi a me che mi sostituisco a tutti» (Levinas 1983, trad. it., p. 159). Sostituirsi ad altri anche nella responsabilità d’altri!

Levinas può pensare di coinvolgere il soggetto come evento messianico in se stesso (Difficile Libertà, p. 92); la messianicità è la struttura stessa della soggettività. Ma il Regno di Dio è l’espiazione stessa del soggetto e nella vita sociale regolata dalla giustizia, si cancella quasi l’evento straordinario della mia elezione ad espiare per tutto l’essere! Il messianismo rischia di implodere in una rinnovata solitudine del soggetto e forse in una inedita, quanto esigente egologia. Se sono colpevole del fatto stesso di essere, quale senso dell’essere è qui implicato? Non è l’essere puro, nuda esistenza che in se stessa è già liberazione nella traccia dell’infinito o forse nella misteriosa insorgenza di un’altra significazione di ricchezza, di sovrabbondanza, in cui può ancora iscriversi questa annotazione: «La relazione con altri mi rimette in discussione, mi svuota di me stesso e non finisce mai di svuotarmi, scoprendo in me stesso sempre nuove risorse. Non sapevo di essere tanto ricco, non ho più il diritto di serbare nulla» (Levinas, 1998, p. 72). È la formula del desiderio degli altri che, nella sua strana povertà che si rivela ricchezza, evoca il discorso socratico su Eros nel Simposio.

In questa significazione la responsabilità per altri può ben andare oltre il «semplice lavarsi le mani delle colpe e delle disgrazie che non cominciano nella libertà» del soggetto (Levinas 1983, p. 145). In questa possibilità dell’essere sé, che non osa entrare in una economia dell’Essenza, «il suo essere se ne va per l’altro, il suo essere muore in significazione» (ivi, p. 67).

Ma se l’oltraggio e l’odio persecutore sono necessari perché sorga un soggetto nel segno della colpa per il suo stesso essere e se la sua identità è ora il necessario portare la colpa d’altri, non si rende il male irremissibile? Che ci siano egoismo e usurpazione sulla terra non sarebbero solo un fatto dell’esperienza storica dell’uomo, ma il presupposto essenziale di una incarnazione del soggetto come possibilità del male, incarnazione necessaria perché accada non l’io del sapere, ma dell’enfasi della responsabilità. Ciò che è di fatto, acquista uno stato di diritto. Il senso dell’essere qui implicato è l’essere come assunzione della propria finitudine e del proprio «aver da essere», orizzonte necessario, in cui iscrivere il mio sacrificio, l’unicità e l’insostituibilità del mio essere (!), la mia elezione.

La traccia dell’essere puro, sempre intravista, è lasciata cadere: l’Infinito stesso come «infinizione» di un mio debito impagabile (ivi, p. 66) per l’accrescersi della mia colpa («più sono giusto più sono colpevole») rischia di iscriversi in un’Economia dell’essere come sua enfasi e di dissolversi in essa. La trascendenza sarebbe una possibilità tracciata in negativo in quella significazione dell’essere. Non ritorna qui, come possibilità estrema, la fatalità dell’être rivé, dell’incatenamento? È ancora la Geworfenheit heideggeriana che, iscrivendo nell’essere la sua flessione destinale, può costituire l’orizzonte di un accadere del soggetto, anche nell’evento straordinario della sua kenosi, nel suo denudamento, nella sua purezza sacrificata nel Male dell’Essere, costituentesi grazie a questo male.

L’equivocità del senso dell’essere non risolta, dispone questa oscillazione vertiginosa nella ricerca di una «legittimazione» del soggetto: sensibilità che cede e si dissolve nell’insularità del godimento; felicità imperfetta che si apre alla sofferenza e si scopre come vulnerabilità; essere nudo o io puro che precede ogni mira intenzionale; ma poi colpevolezza del puro esistere, persecuzione e oltraggio come occasione in cui far accadere la mia soggettivazione responsabile, orizzonte d’Essenza come il male necessario di una elezione, in cui l’intero universo è portato, e ogni colpa che è l’essere stesso espiata. Questo oscillare del senso dell’essere verso il conatus essendi, l’imperialismo della coscienza e dell’intelligibilità stessa, verso la chiusura e l’egoismo, verso una libertà finita spesso solidale con la violenza o la guerra, verso la finitudine dell’essere, è rivelato, forse involontariamente, da Levinas: si tratta di mostrare una «sovradeterminazione delle categorie ontologiche che le trasforma in termini etici» (ivi, 1974, p. 144).

Sulla fenomenologia della sensibilità come esposizione, vulnerabilità, coinvolgimento del volto come traccia dell’infinito, non è possibile forse fondare le categorie della persecuzione, dell’oltraggio e del suo transfert, dell’essere ostaggio, della soggezione e della espiazione. Questi tratti dell’enfasi della responsabilità presuppongono l’ontologia dell’aver da essere, ora inteso come il male della chiusura del proprio interessamento e non solo come possibilità purificata nel nulla d’ente, che nella sua temporalità afferma tuttavia il carattere destinale dell’essere; come incarnazione necessariamente connessa con la possibilità del male, conatus, insediamento, usurpazione (Levinas, 1998, pp. 124 sgg.). La formula heideggeriana dell’aver da essere è ora interpretata come lotta per l’esistenza, legittimata dall’angoscia della finitudine.

Ancora una volta l’incarnazione come possibilità del male è condizione dell’incondizione del Bene. L’essere nudo, peso per se stesso, domanda di liberazione, traccia di un abbandono in cui è possibile l’infinizione, non sono già «caduti» nella finitudine dell’essere, nel suo destinare un soggiorno e una patria, una terra da consacrare? Non solo per Heidegger, ma anche per alcune figure dell’etica di Levinas, l’empirico, un aspetto della fatticità (sia pure la fatticità dell’essere che è già nel suo flettersi destinale) non diviene l’orizzonte trascendentale, l’orizzonte degli orizzonti in cui il movimento dell’etica può solo scavare una solitudine eletta della revoca dell’Essenza? Così l’orizzonte della Geworfenheit non è veramente superato se solo da essa è possibile la sovraindividuazione straordinaria del sé come espiazione dell’essere. L’osservazione di Derrida che solo Dio impedisce al mondo di Levinas di essere il mondo della più pura violenza, non è però decisiva (Derrida 1971, p. 135). Il mondo di Levinas non è solo quello dell’enfasi ontologica che sola libererebbe un’etica della responsabilità: questa può iscriversi nel volto dell’altro, esperienza straordinaria in cui si espone la rivelazione di un’esistenza pura già inclinante verso la solidarietà con l’altro, segno di una «gloria della non essenza».

Il mistero di questo inclinare, che non coincide necessariamente né con un ordine, né con un comandamento, è ciò che risplende nell’umano. In quella nudità c’è ispirazione e ricchezza che indicano possibilità diverse rispetto a un regno della scarsità e della distretta, di un’economia dell’essere in cui forse si iscrivono l’usurpazione nell’essere e la correlativa espiazione come soggettivazione. Le figure levinassiane dell’essere per l’altro, anche quando sono segnate dall’estremismo dell’iperbole, possono risplendere in un’altra significazione dell’essere. Il tentativo e il gesto filosofico di Levinas ci permettono ancora di pensare di là degli equivoci della finitudine.

E tuttavia la nuda esistenza dell’essere umano, l’«astratta nudità dell’essere-nientaltro-che-uomo è stata il massimo pericolo nel giudizio dei superstiti dei campi di sterminio. «La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana» (Arendt, 1999, p. 415). Essi, per non essere equiparati alle bestie si erano aggrappati alla nazionalità, ultimo segno di una cittadinanza perduta. Un uomo «ridotto» a essere solo un uomo rischia di perdere le qualità che gli altri riconoscono e per cui sono in grado di considerarti un loro simile. La mera esistenza, «tutto ciò che ci è misteriosamente dato con la nascita […] può essere adeguatamente affrontata soltanto con gli imprevedibili rischi dell’amicizia e della simpatia, o con la grande incalcolabile grazia dell’amore, che dice con Agostino: «volo ut sis», «voglio che tu sia», senza poter indicare una ragione particolare per questa affermazione suprema, insuperabile» (ivi, p. 417).

Malauguratamente la vita politica evoluta nutre una sorta di astio contro «il miracolo per cui ognuno di noi è fatto così com’è, unico inimitabile, immutabile (ibid. ). L’eguaglianza non è data, è il risultato dell’organizzazione della vita sociale, quando è regolata dalla giustizia. Si diventa eguali come membri di un gruppo: è questa una legge della vita politica in cui si trasforma il mondo in una opera comune con i propri pari e solo con essi. Le comunità politiche tendono perciò a «eliminare nella misura del possibile le differenze naturali, sempre presenti, che suscitano odio, diffidenza e discriminazione» (ibid.).

Le diversità e l’individualità indicano una sfera estranea all’opera comune e suscitano la tendenza a distruggere. L’individuo confinato nella condizione naturale è sottratto alla forza livellatrice della cittadinanza ed è percepito allo stesso modo degli individui che appartengono a una specie animale. La loro estraneità è come un invito all’omicidio: «se li si uccide, è come se a nessuno fosse causato un torto o una sofferenza» (ivi, p. 418). Per questo il pericolo della barbarie è sempre presente proprio nelle società più evolute. È la possibilità di un male radicale «comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui» (ivi, p. 629). Il male totalitario è una fede nell’onnipotenza umana (533) e i campi sono stati un esperimento per «valutare le possibilità di dominio totale e gettare uno sguardo nell’abisso del possibile» (ivi, 598).

Le straordinarie osservazioni di H. Arendt indicano aspetti e condizioni politiche di quel male estremo, «male totalitario» che si arroga il diritto di trasformare l’uomo secondo un compito ritrovato nelle condizioni stesse a cui gli esseri umani sono consegnati, vita, specie, razza, elevate nel luogo dell’assoluto, nel vuoto, che dovrebbe rimanere incolmabile, della morte di Dio. Il male totalitario è anche un progetto di onnipotenza morale. Nelle società complesse, in cui può sempre prendere forma quel male estremo, il rispetto della dignità umana appare sempre condizionato e la «nuda esistenza» può essere un invito all’omicidio. Eppure è quella diversità o estraneità, il fatto che ciascuno essere è unico, inimitabile, irripetibile è ciò che può indicare non il privilegio dell’uomo tra i viventi (nessuna essenza giustifica un privilegio) ma la sua capacità di mutare l’abisso in splendore, il sovrappiù del non senso nella non-indifferenza e nella nobiltà della attenzione per l’altro.

Se questo è possibile, la sfera del rapporto con l’altro uomo nel processo di soggettivazione dei singoli non può che rafforzare la inderogabile necessità dell’accoglienza dell’estraneo e del diverso e della sua integrazione nell’opera comune: via obbligata, visto il tremendo potere del diritto di cittadinanza che è anche diritto di esclusione: l’eguaglianza dei cittadini da sola non basterebbe a difendere come bene inalienabile i diritti dell’uomo. Non è irrilevante una forza che si sprigiona dai singoli che sanno convertire in ricchezza la miseria, in speranza la disperazione, che vedono in ogni esistenza un momento unico e irripetibile e non solo l’esemplarità di un genere comune. Non è indifferente, ha rilevato spesso Levinas, se concepiamo il fondamento della società e della sua giustizia come moderazione della libertà dei singoli che altrimenti sarebbero impegnati in una hobbesiana guerra di tutti contro tutti, o invece nel riconoscimento da parte del singolo dei diritti dell’altro uomo prima ancora dei diritti dell’uomo in generale. Se l’altro, nel suo volto, è visitazione, l’io che ne è suscitato è accoglienza. È questa una energia che può venire da quella sfera estranea alla dimensione pubblica, ridotta spesso alla risonanza delle oscillazioni che l’epoca non ancora finita non cessa di suggerire: debolezza del rispetto dei diritti umani, biopolitica, sdradicamento e rischio che nella logica dell’utilitarismo intere masse di uomini siano rese superflue.

Di là della debolezza e delle astuzie della politica, quella sfera indica la possibilità che un altro inizio sia sempre possibile. In questo senso Hannah. Arendt può citare Agostino: «Initium ut esset, creatus est homo», «affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo». Inizio presente in ogni nascita, in ogni esistenza pura: qui è non il segno della finitudine: «la traccia dell’uno porta ad esistenza l’essere, sicché l’Essere è la traccia dell’uno» (Plotino, Enneadi V, 5). L’uno al di là dell’essere, l’essere come traccia dell’infinito; proprio queste formule plotiniane, hanno ispirato i tratti essenziali della riflessione di Levinas. Di là di ogni male dell’essere nella distretta della finitudine e oltre ogni espiazione come necessità della soggettivazione in quell’orizzonte, l’essere puro può risuonare nella Grazia dell’Uno: «affinché l’essere sia, Egli (l’Uno) per questo non è essere […] infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera altro» (Enneadi V, 2).

Questa traccia e significazione di una sovrabbondanza in cui possono dissolversi gli equivoci della finitudine (dove è stato possibile sondare «l’abisso del possibile» e in cui può accadere ancora che l’uomo sia materia di un inaudito dominio) sovrabbondanza che forse uno scarto infinitesimo separa da quell’esistenza pura che in se stessa invoca una liberazione, è forse ciò che merita ancora di essere pensato. Significazione «suprema» e insieme insperata (che sembra sorgere da un nulla nel pieno dell’essere) nella quale il male non si presenta e che scioglie il destino nel differire stesso della grazia: cháris chárin he tíktousa aeí: «è grazia ciò che sempre genera grazia!» (Sofocle, Antigone).

«Ecco perché l’intelligenza è molteplice quando vuol pensare ciò che è al di là: essa lo pensa veramente, ma volendo coglierlo nella sua semplicità, se ne separa, ricevendo il diverso che si differenzia continuamente in se stesso […] la potenza visiva […] ne uscì, accogliendo il nuovo per moltiplicarlo» (Enneadi, V, 3, 11).

7. Riferimenti bibliografici

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