Confronti con Angela Ales Bello, The Divine in Husserl and Other Explorations

Angela Ales Bello, The Divine in Husserl and Other Explorations, Analecta Husserliana, Vol. XCVIII, Springer, Dordrecht 2009.

1. Introduzione

Il testo di Angela Ales Bello, The divine in Husserl, è stato presentato il giorno 21 febbraio 2009 al Centro di Studi fenomenologici di Roma. I relatori, Stefano Gonnella, Nicoletta Ghigi, Anna Maria Pezzella, Patrizia Manganaro, Michele D’Ambra, Mobeen Shahid hanno esaminato da diverse prospettive il ricco ed interessante testo della professoressa Bello.

In un costante confronto tra la posizione di A. Ales Bello e D. Conci, S. Gonnella mette in evidenza che l ‘aspetto più rilevante per la fenomenologia della religione sta nel fatto che attraverso una sospensione radicale dei propri «giochi culturali» e delle Lebensformen dell’Occidente, è possibile giungere al mondo della vita delle culture tradizionali, le culture mitico-rituali, e sì è così in grado di cogliere il fondamento necessario di ogni credenza religiosa e di ogni prassi cultuale, cioè quella postura rivelativa che l’Occidente sembra aver smarrito ma che in fin dei conti ha determinato il rapporto cognitivo ed esistenziale dell’uomo con se stesso e con il mondo circostante.

Il testo di N. Ghigi, oltre a presentare il libro nelle sue linee fondamentali si sofferma sull’hyletica fenomenologica e sul significato del momento hyletico nelle mentalità arcaiche. Tale sostrato è il fondamento che fa da sfondo alla pensabilità stessa, perché quale sostrato non egologico, non ancora noetico «influenza» il nostro pensiero. Nel pensiero arcaico esso si rivela sotto la forma di «forze» che agiscono e influenzano la realtà. Nella mentalità primitiva, infatti, queste forze non sono irreali, sebbene non visibili, ma prendono la forma della realtà come se la costituissero essenzialmente. «Un oggetto, una «pietra» un «pezzo di legno» non rappresentano soltanto il semplice oggetto, ma contengono una forza che «influenza» la realtà e che ogni singolo membro della comunità è in grado di riconoscere». In questo modo l’hyletica costituisce la struttura essenziale di un oggetto sacro e lo riveste di una potenza tale da essere intersoggettivamente valido.

A.M. Pezzella, nel ripercorrere le linee guida del testo, prende in esame la possibilità di trovare una terza via che riesca a mettere insieme sentire e pensare Dio, che nel mondo Occidentale è cosa assai difficile dal momento non ha alcun valore quella certezza interiore di cui parla la Stein, perché non è dotata di un’evidenza razionale, che è il fondamento più ovvio ed è il fulcro della tradizione occidentale.

P. Manganaro organizza il suo intervento cercando di rispondere ad alcune domande cruciali: in che senso Husserl può essere considerato un filosofo della religione? come analizza il rapporto personale che lo lega al divino? come investiga problemi di carattere culturale e antropologico quali il fenomeno del «religioso» e del «sacro», il senso profondo del cristianesimo e delle altre religioni per l’umano? Questi interrogativi portano la studiosa a porsi altri interrogativi che, rileva, è merito di Ales Bello aver focalizzato: qual è il rapporto di Husserl con i pensatori medievali? Può egli essere considerato un filosofo «classico»? È possibile rinvenire nel suo pensiero una linea agostiniano-anselmiana, quale riconoscimento della «traccia» della presenza divina nella coscienza?

M. D’Ambra mette in evidenza che le analisi di Husserl su Dio e sulla religione rilevano l’universalità e l’ineludibilità della presenza, nella persona umana, di un nucleo di esigenze e di bisogni che rimandano in maniera autentica e, non strumentale, alla necessità di ammettere la presenza di un essere che si pone come senso, significato e fondamento della realtà. E solo attraverso una profonda analisi della struttura dell’essere umano si può aprire la strada verso la divinità e verso il sacro e Ales Bello, con il suo testo non hanno fatto altro che dare testimonianza di questo.

M. Shahid, dopo aver delineato il metodo fenomenologico, focalizza la sua indagine sulla mistica del sufismo. Dall’esame di alcuni testi del sufismo emerge che le caratteristiche della unione con il divino sono simili a quelle presenti nel Cristianesimo. Infatti, lo studioso rileva che Angela Ales Bello rintraccia negli scritti dei mistici musulmani testimonianze che descrivono la struttura tri-dimensionale della persona umana, sottolineando che in tutte le esperienze mistiche, inclusa quella islamica, il punto d’arrivo è la unione con la divinità in senso ontologico e che tale unione si verifica in forma assolutamente personale. (A.M.P.)

2. Stefano Gonnella, Sulla fenomenologia della religione

In omaggio ad una lunga amicizia e ad una ininterrotta frequentazione scientifica, Angela Ales Bello ha voluto dedicare il suo ultimo libro alla memoria di Domenico Antonino Conci, fenomenologo e filosofo, scomparso il 13 maggio 2008. Queste brevi note, scritte da chi ha avuto la fortuna, l’onore e soprattutto il piacere di studiare e collaborare con il professore Conci, intendono essere anche un minimo tributo alla sua opera e al suo pensiero.

Il testo di Ales Bello — traduzione inglese di un lavoro già pubblicato nel 20051 — oltre alle due parti di cui si compone l’edizione italiana, «Pensare Dio» e «Credere in Dio», presenta un’inedita terza parte dedicata a «Some Explorations in the Phenomenology of Religion», nella quale l’autrice espone alcuni esempi di quegli «scavi archeologici» in cui ogni fenomenologo della religione dovrebbe rigorosamente impegnarsi. Ed appunto per delineare e illuminare le zone più scabre e autentiche di questo territorio della fenomenologia della religione, è il caso di ricorrere alle parole intense e perspicue di Domenico Antonino Conci.

C’è, alla base della condizione umana, un aspetto assolutamente gratuito e terrifico che suole alimentare da sempre la riflessione generale dell’uomo sull’indole reale del proprio essere e del proprio destino, quello, invero elementare, dell’apparire e dello scomparire delle cose e dei loro stati. Esso, a mio avviso, non suscita tanto nelle nostre coscienze il contemplativo thaumàzein aristotelico, cioè l’astratta meraviglia di fronte ad eventi che, in realtà, non sembrano fruibili come un semplice spettacolo, quanto piuttosto il terrore esistenziale al cospetto della generale impermanenza del mondo che implica l’angoscia della scomparsa, prima o poi, anche di tutti quegli stati positivi dell’esistenza di cui l’uomo, del tutto comprensibilmente, invoca la permanenza sine die. L’esistente, se fosse abbandonato a se stesso, si ridurrebbe ad un continuum minuto e quotidiano di apparizioni e di scomparse caleidoscopiche […].

Di fronte, ora, a questo terrifico vissuto originario, stranamente sottovalutato da molti studiosi, l’uomo ha reagito e reagisce ancora inventando realtà invarianti e orizzonti di permanenze, onde stabilizzare il positivo dell’esistenza e del senso, elaborando imponenti protesi culturali — privo com’è, a differenza degli animali, di un dispositivo biologico di sopravvivenza — antagonizzando, in tal modo, l’impermanenza originaria del positivo. Miti e riti, filosofie e attività fabbrili, scienze e tecnologie, programmati e sognati dalle culture come validi per sempre, sono tutti finalizzati a contrastare, in blocco, l’impermanenza generale del reale, nel vano e, tuttavia, lucido tentativo di stabilizzare il positivo affinché non muti con l’irruzione del negativo nell’esistenza degli uomini e delle loro cose.2

Con queste parole Conci, in uno dei suoi ultimi testi, descrive con estremo nitore l’elementare condizione umana. Il continuo nascere e perire delle cose è qualcosa di gratuito e di ansiogeno, perché si rischia sempre di essere trascinati via in questo incomprensibile gioco di apparizioni e di scomparse. L’uomo allora tenta, mettendo in opera le sue attività intenzionali, di strutturare intorno a sé un mondo più comprensibile, un mondo che dia più sicurezza, cercando di elargire senso cognitivo ed esistenziale alla successione meramente caleidoscopica, insensata e angosciosa delle manifestazioni, che espone fatalmente quel che di positivo presenta l’esistenza alla contingenza assoluta. Dunque comprensibilità, ovvero il senso, e sicurezza, ovvero la garanzia, la tutela della propria esistenza. Senso e realtà sono le due cose fondamentali di cui l’uomo ha bisogno per poter sopravvivere e agire.

Una fenomenologia della religione non può che prendere le mosse da queste considerazioni elementari, basilari. E tramite queste considerazioni è possibile evidenziare un primo aspetto, grazie al quale potrebbe risultare apparentemente semplice spiegare l’atteggiamento dell’uomo nei confronti del mondo: il mondo circostante è essenzialmente, anche se non totalmente, costruito. È l’uomo che cerca di istituire un cosmo, di strutturare intorno a sé un mondo più comprensibile e sicuro. È l’uomo che attraverso le sue attività intenzionali tenta di elargire senso cognitivo ed esistenziale alla successione altrimenti insensata e angosciosa delle manifestazioni. Ed è appunto sulle diverse, variegate, multiformi modalità di questa elargizione di senso che dovrebbe interrogarsi e indagare la fenomenologia della religione.

Tenendo fede ad un punto da sempre condiviso con Domenico Antonino Conci, ovvero soddisfare veramente l’esigenza di una autentica prosecuzione delle indagini husserliane, Angela Ales Bello sviluppa nella Parte Terza del volume, come già detto, alcune ricerche nel campo della fenomenologia della religione. Si tratta della parte del lavoro che più di ogni altra deve a Conci la sua ispirazione di fondo, come l’autrice riconosce apertamente. Ma più che passare in rassegna queste interessanti e dettagliate analisi, è forse il caso di soffermarsi su un tema di carattere più generale, che riguarda l’impianto e il fondamento stesso di tali ricerche.

Il tema è quello dell’hyletica fenomenologica, più volte trattato e scandagliato da Ales Bello nel corso degli anni e in molteplici pubblicazioni.3 Anche nel testo di cui ci stiamo occupando, nella parte intitolata «Hyle and Telos: The Way to God through the Hyletic», vengono dedicate alcune pagine alla presentazione dell’hyletica fenomenologica. Per sommi capi, riprendendo le parole di Ales Bello, l’analisi della dimensione hyletica costituisce una delle novità del cammino husserliano, tenendo comunque presente che «il termine hyletica non sta a indicare la materia nel senso tradizionale, ma un tipo nuovo di materialità»,4 una materialità che «coinvolge in primo luogo la sfera affettiva e impulsiva che è alla base — e in questo senso si può parlare di hyle, cioè di materia — della valutazione noetica.»5 Questa base hyletica, nella ricostruzione documentata e attenta del pensiero di Husserl che Ales Bello come sempre propone, rinvia essenzialmente alla dimensione precategoriale del «mondo della vita», intesa come luogo originario in cui si raccolgono tutti gli aspetti istintivi, impulsivi e primordiali della vita umana. L’opera di scavo che per Ales Bello caratterizza il lavoro del fenomenologo trova nella dimensione della cosiddetta «passività» uno dei territori più vasti e ricchi di implicazioni. Questa dimensione, la sfera passiva che Husserl per primo aveva individuato e cominciato ad esplorare attraverso le sue indagini di fenomenologia genetica, dovrebbe essere isolata e raggiunta attraverso un percorso, per così dire, a ritroso lungo le stratificazioni di atti intenzionali, cercando di andare sempre più giù, fino a raggiungere le dimenticate radici precategoriali della vita della coscienza.

Seguendo ancora le parole di Ales Bello, «attraverso l’analisi genetica Husserl scende nelle formazioni di senso fino ad arrivare ai gradi più nascosti della passività»6 e qui, nella dimensione della passività, dovrebbe essere finalmente attingibile un ulteriore livello di senso. Secondo la prospettiva genetica, infatti «la hyle possiede già una struttura intenzionale, che consente ad essa di presentarsi in modo configurato»,7 consentendo così il successivo articolarsi e dispiegarsi di tutte le possibili sedimentazioni dell’intenzionalità.

Tematizzare questo livello della costituzione originaria di senso, occuparsi dei «fatti originari della hyle», per Edmund Husserl doveva essere il compito di una specifica estetica trascendentale, volta a rintracciare e a studiare le strutture invarianti della sensibilità e dell’atteggiamento naturale. Husserl, in poche parole, cercava di rilevare uno strato dell’esperienza capace di organizzarsi autonomamente, prima di qualunque attività intellettuale e indipendentemente da ogni intervento formativo del soggetto. Si tratta dunque di mostrare — come dirà nella Crisi delle scienze europee — che il mondo della vita «malgrado la sua relatività, ha una propria struttura generale» e che «questa struttura generale, a cui è legato tutto ciò che è relativo, non è a sua volta relativa».8

La domanda regressiva, Rückfrage, dunque si presenta come un interrogarsi a ritroso, a partire dal già costituito, su ciò che ogni grado costitutivo a sua volta presuppone, fino a raggiungere quel terreno antepredicativo da cui avrebbe origine l’intero processo, appunto quella «sfera affettiva e impulsiva che è alla base» dell’attività noetica. Come spiega puntualmente Ales Bello, «la domanda regressiva si esercita sulle singole operazioni rivolte a determinare il senso di qualche cosa fino a ricondurci alle fonti ultime, alle matrici, alle Archai. »9

Secondo l’impianto husserliano, l’estetica trascendentale dovrebbe chiarire il radicamento e la genesi nel mondo dell’esperienza sensibile di ogni processo di costituzione di senso, da quello più elementare fino a salire al livello delle scienze e delle strutture logiche. E come precisa Ales Bello, in questo modo «si giustifica il lavoro regressivo che è compiuto dal fenomenologo, quando scava all’interno della coscienza umana, per comprendere le manifestazioni culturali che la caratterizzano.»10 In generale questo «cammino regressivo […] potrebbe essere di carattere storico o sociologico […] in questo caso però non avremmo rispettato la prima indicazione husserliana, quella relativa a un inizio radicale, all’esigenza di mettere tra parentesi il sapere già costituito. È necessario, pertanto, scavare più a fondo alla ricerca delle radici, di quel punto di partenza non relativo, che consente all’analisi di essere rigorosa.»11

Senza proseguire oltre nella ricognizione del testo, c’è un presupposto che sembra profilarsi abbastanza nettamente dietro tutta questa serie di affermazioni: il mondo della sensibilità non è un mero caos, non è quel continuum minuto e inafferrabile di apparizioni e di scomparse caleidoscopiche da antagonizzare e cosmizzare, bensì è una sfera che ha già una sua precisa struttura. Al fondo della coscienza è possibile rilevare uno strato antepredicativo, una dimensione della sensibilità autonomamente strutturata, indipendentemente da qualsivoglia configurazione storico-culturale e a prescindere da qualunque operazione dell’intelletto. Tuttavia questo tentativo di trasferire l’impianto dell’estetica trascendentale husserliana nel campo della fenomenologia della religione, suscita una prima perplessità, poiché lo sviluppo di una iletica o hyletica fenomenologica — soprattutto per la rilevanza che ha sempre più assunto nello studio del fenomeno religioso — ha inizio proprio con l’abbandono della consueta identificazione della hyle con la dimensione percettivo-esperienziale e con la rimozione di tutte le consolidate impaginazioni empiristiche ed estetiche della hyle, dominanti nella tradizione filosofica occidentale.12

Scavare più a fondo e rendere sempre più rigorosa l’analisi al fine di stringere un autentico originario fenomenologico è appunto il primo compito che si assegna Domenico Antonino Conci all’inizio del suo itinerario intellettuale, quando, seguendo scrupolosamente le coordinate del metodo husserliano, pone alcune questioni preliminari che prendono di mira la struttura portante dell’intero programma di ricerca fenomenologico. Si tratta in buona sostanza di verificare la consistenza fenomenologica del metodo fenomenologico stesso, procedendo attraverso una ricognizione critica dell’opera di Husserl e operando un severo controllo analitico degli enunciati con cui il maestro registrava e trasmetteva gli esiti delle sue ricerche. Queste prime incursioni di «fenomenologia della fenomenologia» evidenziano un punto debole dell’analitica husserliana, rivelando una latente inadeguatezza del suo dichiarato fondamento intuitivo.13 È a partire da questi risultati che Conci comincia ad impostare una revisione del metodo fenomenologico, maturata teoreticamente nel primo volume dei Prolegomeni ad una fenomenologia del profondo (1970) e sviluppata poi incessantemente lungo il suo intero itinerario intellettuale, fedele alla convinzione che il metodo non può che configurarsi a partire dalle «cose stesse», e dunque tutte le questioni relative al metodo solvitur ambulando, si risolvono in corso d’opera, procedendo analiticamente nel confronto serrato con il proprio oggetto di studio, mai in astratto.

Appunto nel tentativo di attingere quelle «datità» fenomenologiche originarie che sole potrebbero dare senso e convalidare la fecondità del metodo fenomenologico, Conci oltrepassa la classica epoché husserliana e comincia ad esercitare un tipo particolare di epoché, una «epoché radicale» che non si limita a sospendere l’atteggiamento naturalistico, bensì prende di mira il più ampio e articolato «atteggiamento obiettivante» o «categoriale», di cui l’atteggiamento naturalistico rappresenta soltanto un sottoinsieme. Con il termine «categoriale» — sarà bene chiarire — Conci si riferisce ad una particolare struttura connettiva: la struttura di relazione con cui il logos della cultura occidentale collega funzionalmente un polo invariante — in qualità di eidos, di principio originario e unitario, universale — ad un piano di momenti individuali intesi come sue variazioni indefinite, possibili o reali, che dall’invariante vengono ordinate e unificate. È all’atteggiamento categoriale e alla peculiare struttura invarianza-variazioni, dunque, che si debbono tutte le nostre familiari dicotomie e distinzioni concettuali, come quelle tra soggetto e oggetto, io e mondo, psichico e fisico, segni ed enti, corpo e anima, ecc.

L’ego e la cosa, cioè il soggetto e l’oggetto, appaiono così come le costituzioni noematiche di un logos — quello occidentale — meramente relazionale, cioè vuoto, che opera proiettando sulla noesis e sulla hyle del vissuto una struttura intenzionale di polarizzazione che attribuisce al polo invariante l’origine, l’unità e l’ordinamento dell’altro polo, ad esso relato, costituito da una sequenza indefinita di variazioni, assunti come momenti o determinazioni individuali dell’invariante generale stesso. Quando è applicata alla noesis, tale struttura articola la coscienza attribuendole un io come polo invariante (generatore, unificatore e ordinatore) di tutti i vissuti coscienziali intesi come atti di esso, cioè come suoi molteplici momenti intenzionali individuali.

Con la sospensione dell’atteggiamento obiettivante, responsabile di tutta questa impaginazione, ciò che residua nel campo di analisi sono una noesis non egologica e una hyle che appare finalmente quale fonte primaria e unica di visualizzazione dell’intero vissuto. Pertanto, attraverso la radicalizzazione dell’epoché Conci arriva ad individuare come insospendibile e dunque come autentico originario fenomenologico, l’Erlebnis «precategoriale», le cui componenti reali, noesis e hyle, presentano dei connotati singolari rispetto al canone husserliano, tra cui il più eclatante è la caratterizzazione della hyle come principio generale di manifestazione, e quindi d’esistenza. Questo primato manifestativo della hyle significa in poche parole che non è la noesis, non è cioè l’intenzionalità del vedere o della visione a dare e ad illuminare ciò che è visto o è dato, non è lo sguardo originario a donare il fenomeno in carne ed ossa, bensì è la potenza manifestativa della hyle, dispiegantesi nel contesto del vissuto, a dare sé stessa e al contempo l’intero vissuto. Non è quindi l’atto percettivo di un soggetto ad offrire una presenza in carne ed ossa: ovunque qualcosa giunge a manifestarsi, ivi la hyle è all’opera, elargendo direttamente e contestualmente al campo di analisi manifestazione e realtà piene.14

L’aspetto più rilevante per la fenomenologia della religione di tutto questo discorso sta nel fatto che attraverso questa sospensione radicale, capace di mettere fuori circuito i presupposti dei «giochi culturali» e delle Lebensformen dell’Occidente, Conci apre l’accesso analitico al mondo della vita delle culture tradizionali, le cosiddette culture mitico-rituali, individuando il fondamento necessario, sebbene non sufficiente, di ogni credenza religiosa e di ogni prassi cultuale, ovvero quella postura rivelativa che l’Occidente sembra aver progressivamente smarrito e che pure ha determinato e contrassegnato il rapporto cognitivo ed esistenziale dell’uomo con se stesso e con il mondo circostante per decine di migliaia di anni, probabilmente fin dall’alba dell’esistenza umana sul nostro pianeta.15 La postura rivelativa è appunto caratterizzata da uno specifico vissuto esistenziale e cognitivo di base, la cui coscienza intenzionale (noesis) è impersonale, cioè è priva di ego, e i cui referenti intenzionalmente costituiti, cioè i noemi, non sono realtà fenomeniche oggettive o oggettivabili, bensì realtà rivelate.

Questa sfera dei vissuti impersonali viene inizialmente identificata con la dimensione precategoriale e originaria della Lebenswelt. In questa fase aurorale delle sue ricerche, infatti, Conci è guidato dall’idea che la fenomenologia radicale possa consentire in modo autentico e inequivocabile «l’accesso diretto ad un residuo fenomenologico costituito dal mondo non categoriale (o precategoriale), cioè, precisamente alla Lebenswelt (Mondo-della-vita) originaria».16 Ma la convinzione che il fenomenologo possa addirittura vivere «una vita precategoriale», l’identificazione, in altri termini, della postura analitica del fenomenologo con la postura rivelativa che caratterizza la coscienza degli appartenenti alle culture mitico-rituali, si fonda su una serie di equivoci, primo fra tutti quello della concezione partecipativa della conoscenza, ovvero l’idea che per comprendere le «ragioni degli altri» sia indispensabile condividere e partecipare pienamente della loro logica vissuta. Quando si accorge del pericolo celato al fondo dell’ingenua persuasione che possa esserci una «postura rivelativa del fenomenologo», che attraverso la fenomenologia radicale si possa attingere direttamente la Lebenswelt, il Mondo-della-vita, il precategoriale, l’antepredicativo, Conci rimette in discussione il proprio metodo, elaborando una originale semiotica fenomenologica e mettendo a punto quella che si preciserà poi, strada facendo, come «analitica contrastiva».

«La fenomenologia radicale, pertanto, va assunta specificamente come un’analisi dei segni vissuti o, se si vuole, come un’analitica delle componenti vissute dei segni, quindi come una singolarissima semiotica, ove il significato di ciascun segno è costituito dal vissuto che lo riempie e dalle sue specifiche modalità manifestative.»17 In altre parole, la fenomenologia non deve essere intesa come una singolare analitica della psiche, né i vissuti vanno interpretati come speciali oggetti da tematizzare con tecniche introspettive. Il fenomenologo non fa un’analitica di sé stesso, della propria interiorità, bensì, se vuole veramente andare «alle cose stesse», deve sviluppare un’analitica dei segni, specificamente dei segni culturali, nei quali precipita e si manifesta immancabilmente l’attività intenzionale della noesis. Questo perché «in quanto presenze significanti, i vissuti sono allora dei «segni», in senso amplissimo, cioè, di volta in volta, eventi, parole, scrittura, gesti, manufatti, non più pienamente comprensibili qualora isolati dai vissuti di cui essi sono direttamente segni18

Occuparsi di segni, analizzare gesti e parole, rivolgere l’attenzione alla forma di un manufatto, nella prospettiva fenomenologica significa analizzare le loro riposte strutture di senso vissuto. Ma l’aggettivo «riposte» non allude in alcun modo a qualcosa di inconscio o di preconscio, bensì connota le radici intenzionali di ogni possibile costituzione di senso. Si tratta di strutture riposte, in altre parole, perché ogni atteggiamento indigeno che pone e assume come ovvi e come pacificamente dati degli enti qualsivoglia, reali o astratti, così come le qualità ad essi attribuite, le relazioni che tra loro intercorrono e via dicendo, cela necessariamente le operazioni costitutive di senso che hanno intenzionalmente prodotto e indotto tutto questo.19 Si dà il caso infatti che il senso genetico di una cultura sia di norma invisibile agli indigeni, a coloro che appartengono a tale cultura, standoci essi, per così dire, seduti sopra. La postura indigena, in quanto posizionale, tetica, pone appunto le varie entità che popolano e compongono il proprio mondo ambiente, e la salda credenza nella ovvia e spontanea esistenza di tali entità occulta di fatto il senso intenzionale che invece le costituisce e struttura. Questa costituzione di senso concerne ogni realtà culturale in senso ampio, riguarda ogni segno culturale, sia occidentale che non occidentale e la sua ricognizione e decostruzione fenomenologica rappresenta senz’altro un arduo ma affascinante compito.

A tale proposito, Ales Bello, nel paragrafo intitolato «Phenomenological Archeology of the Sacred» ricorda giustamente come «il significato della dimensione del sacro e/o del religioso sia da ricondursi alla complessità dei vissuti che la esprimono»20 e aggiunge poi che «esaminando la struttura interiore, appare che la dimensione che si può definire sacrale o religiosa, si manifesta con un’ampiezza tale da costituire lo sfondo di tutta la coscienza.»21 Questo sfondo della coscienza connotato come vera e propria dimensione sacrale sembra rimandare inequivocabilmente a quell’originario fenomenologico già isolato da Conci. Ma poiché l’originario fenomenologico non ha alcun significato temporale, speculativo o metafisico, bensì rinvia semplicemente a strutture di senso vissuto che si sono rivelate insospendibili dopo l’esercizio di una epoché radicale, l’unico modo per accostare e tematizzare tali strutture e i loro esiti è, come abbiamo visto, quello di procedere ad una ricognizione dei segni culturali, senza peraltro postulare conformazioni ontologiche o universali della coscienza, derivanti, ancora una volta, dall’applicazione di modelli e paradigmi della cultura occidentale. È qui appunto che sorge un’ulteriore perplessità, in quanto l’idea di poter raggiungere dei livelli precedenti ad ogni possibile costruzione di complessità, andando a scoprire i meccanismi «naturali» della coscienza che costituisce, sembra esporre il fenomenologo al rischio di uscire inavvertitamente dall’epoché e assumere un atteggiamento posizionale, deragliando così verso pretese metaculturali. Fisiologicamente, verrebbe da dire, dato che è un po’ difficile contrastare la nostra comprensibile tendenza a naturalizzare, a universalizzare ciò che abbiamo assunto come vero o come plausibile.

La pulsione a sospingere verso l’incondizionato i propri costrutti e le proprie teorie è qualcosa di diffusissimo. Il processo di inculturazione, come già accennato, oltre a formare gli appartenenti ad una determinata cultura, li vincola immancabilmente a credere, in condizioni antropologicamente normali e fisiologiche, che i propri modelli culturali — percettivi, affettivi, valutativi, operativi — siano assoluti, esclusivi e incondizionati. Viceversa la fenomenologia come analitica contrastiva, così come è stata intesa e praticata da Domenico Antonino Conci, si propone piuttosto come «un’analisi fenomenologica di un antropologo che, invece di assolutizzare i principi e le categorie della propria cultura, per proiettarle sui dati da analizzare, sovrapponendoli ad essi come un estraneo vestito di idee, nella convinzione di coglierne, in tal modo, il senso, li impieghi accostandoli semplicemente ai principi e alle categorie dell’altrui cultura, confrontandoli, in prima istanza, contrastivamente con i propri».22 Ma affiancarsi agli altri, cessando di trasfigurarli in «diversi», e accostare le nostre strutture di senso a quelle altrui, vuol dire anche disporsi finalmente a tematizzare e incontrare sé stessi come altri tra gli altri, constatando che «oggetti culturali» sono anche la metafisica, i linguaggi delle teorie scientifiche, l’arte figurativa occidentale.

In conclusione, una delle cose essenziali che l’opera di Domenico Antonino Conci ci insegna è che il primo dovere di un fenomenologo è quello di indagare le genesi di senso di ogni segno e di ogni costrutto culturale, compresi i propri. E di conseguenza, quanto di volta in volta asserito, deve essere inteso necessariamente e sempre come relativo ai principi metodologici e alle categorie della particolare analitica adottata e mai come valido in sé, evitando così di sospingere i propri asserti verso l’incondizionato, ontologico o trascendentale che sia.

3. Nicoletta Ghigi, Hyletica fenomenologica e fenomenologia della religione nel pensiero di A. Ales Bello

Come si evince dalle indicazioni contenute già dalla struttura interna del testo, il volume di Ales Bello, ambisce, innanzitutto, alla soluzione di due questioni fondamentali ed assai articolate, nel pensiero di Husserl, vale a dire, di quella della sua «presa di posizione filosofica» circa il problema di Dio (il pensare Dio); e di quella, più prettamente religiosa, dello Husserl credente che riflette sul suo rapporto con Dio, sulla sua fede e sull’oggetto della sua fede (il credere in Dio).

Nel ripercorrere le tappe principali del pensiero di Husserl, si intrecciano così, i due poli del pensare Dio e del credere in Dio, intesi non immediatamente come contrapposti — poiché anche il credere, come il pensare, ha una sua intrinseca razionalità — bensì come due modalità differenti in cui si esprime la dimensione dell’esistenza umana, ovvero, come due espressioni che hanno la loro origine in «un’unica radice» (ivi, p. XII).

A tale scopo, il testo è suddiviso in tre parti. La prima parte si occupa di fare chiarezza intorno al pensare Dio e, più concretamente, consiste nel ripercorrere le tappe del cammino filosofico di Husserl nei riguardi del metodo fenomenologico come l’unico approccio atto a porre le basi scientifiche per una conoscenza delle cause e dei principi primi, vale a dire, della metafisica come scienza. In questo senso, è possibile pensare ad una fondazione scientifica della questione di Dio, secondo una filosofia che «sappia» pensare Dio mediante i suoi strumenti. Attraverso il metodo fenomenologico, ossia, per il tramite delle riduzioni fenomenologiche (l’epochè fenomenologica che nasce dalla via cartesiana e dalla via psicologica, debitamente corrette nelle loro carenze), la fenomenologia è in grado di ricavare una consapevolezza, una conoscenza ovvia, evidente, di immanenza e trascendenza, superando i falsi pregiudizi e le visioni dogmatiche a riguardo. Puntando su un approccio trascendentale della fenomenologia all’antropologia, ovvero alle diverse dimensioni in cui si dispiega la realtà umana come unità corporea-animata-spirituale (l’apporto steineiano alla lettura di Husserl è qui senz’altro imprescindibile), il testo è così in grado di riproporre in tutta la sua portata le questioni che riguardano lo spirito, ossia i «problemi ultimi e sommi», che Husserl stesso definisce «metafisici».

Da qui è possibile edificare una gnoseologia di tali questioni, movendo proprio dal cuore delle analisi, cioè dall’affrontare queste problematiche dal punto di vista scientifico e, quindi, considerando anche la «questione di Dio» come questione squisitamente filosofica. In tale senso, sono rintracciabili diverse modalità di conseguimento dell’obiettivo: 1. «la via oggettiva a Dio», in cui si mostra come Husserl, nel primo libro delle Idee, abbia indicato la via filosofica a Dio, inteso come un Assoluto in senso «totalmente diverso dall’assoluto della coscienza» (p. 26), come «la trascendenza delle trascendenze» a cui, però occorre estendere la riduzione fenomenologica (pp. 27-28); 2. «la via soggettiva a Dio», in cui riprendendo le argomentazioni dei filosofi medievali, come Anselmo e Tommaso, viene posta in evidenza la fiducia di Husserl nel condurre, da parte della coscienza religiosa, a quel medesimo principio cui perviene razionalmente la coscienza del filosofo; 3. «la via intersoggettiva a Dio», in cui, mediante la trattazione del tema dell’intersoggettività, che attraversa le indagini husserliane fin dal 1905, si rende esplicita l’apertura a Dio, nella coscienza individuale, come «entropatia» con la coscienza dell’altro. Qui, alla singola coscienza, l’altro si rivela come diverso da sé ma con medesime strutture recettive e, soprattutto, con la medesima coscienza di una «Sovracoscienza» (Husserl la chiama anche Übermonade), che tutto comprende. In questo senso, si fa rilevare come Husserl possa parlare di una entelechia, di un telos insito in ogni singolo individuo; 4. «la via a Dio attraverso la hyletica», in cui, mediante la scoperta della fenomenologia genetica di una intenzionalità impulsiva sottesa alla sfera materiale, si evidenzia la finalità, la teleologia, implicita in ogni agire spontaneo e impulsivo degli esseri viventi. Da qui il richiamo alla «quinta prova» di Tommaso e l’esplicitazione di un’Entelechia Somma che, per Husserl, si rivela sia a livello coscio che inconscio; 5. «la via etica», in cui si mostra come tale entelechia rappresenti anche il senso della produzione dei valori e, al contempo, il senso della volontà. Per questo motivo, «l’etica rimanda alla metafisica, ma entrambe, per comprendere in profondità il senso del mondo, hanno bisogno della religione» (ivi, p. 57).

La seconda parte del testo si trova a percorrere il cammino opposto e ha il suo incipit nel credere in Dio. Ma l’approccio fenomenologico al tema della religione impone subito una ricostruzione del pensiero husserliano sulla religione, dato che lo stesso Husserl non ha mai direttamente trattato in maniera diffusa questo tema. Il primo interrogativo che si pone Ales Bello, in questo ordine di idee, è se sia possibile parlare, in Husserl, di una via «mistica» contenuta implicitamente nel suo filosofare in merito alle questioni religiose. Nella celebre lettera alla sua allieva Gerda Walter, Husserl sembra descrivere un cammino «ascensivo» e «discensivo» verso Dio (la «profonda profondità»), che ricorda l’esperienza di fruizione di Dio, propria del mistico. Pertanto, benché non sia disposto «a farla entrare nelle sue ricerche» (ivi, p. 69), Husserl non esclude la possibilità dell’esperienza mistica. D’altra parte, una simile possibilità si rende ancora più plausibile se si pensa che, come rileva Ales Bello, Husserl stesso abbia scelto di convertirsi alla professione evangelica, già da adulto, e che a proposito della sua fede in Dio non abbia mai negato di avere una fede profonda, posta a guida del suo filosofare (l’idea di Dio è per lui un ideale regolativo). La sua lettura del Nuovo Testamento lo infiamma al punto da abbandonare il mondo «gerarchicamente organizzato» della comunità ebraica per abbracciare una religione della libertà, quale il cristianesimo. Ma la libertà del cristianesimo, di cui parla, tra l’altro, anche negli articoli per la rivista giapponese «The Kaizo», non è il solo fattore che spinge Husserl verso la conversione, bensì vi è anche l’amore etico, rappresentato dalla figura di Cristo, che ha in lui un’incidenza del tutto rilevante.

Accanto alla fede personale di Husserl, però, Ales Bello fa presente anche la sua concezione filosofica della religione ovvero, se fosse impostata in maniera fenomenologica, quali connotati potrebbe assumere la religione. A questo riguardo, una fenomenologia della religione potrebbe rendere evidente la trascendenza di Dio, alla luce della natura trascendentale della coscienza. Una risoluzione di questo tipo è presente in Gerardus van der Leeuw. Egli, fa notare Ales Bello, afferma che nell’individuo è manifesta la ricerca di una Potenza e l’incontro con una Potenza; in tale presenza si riscontra il sacro, ossia, per usare i termini husserliani, quell’entelechia che ha la sua possibilità di manifestarsi nel fatto, nella sfera hyletica. È per questo motivo che, nuovamente, torna ad essere centrale per una fenomenologia della religione, l’aspetto materiale e hyletico ed una sua ricostruzione (Ales Bello parla più precisamente, di una «archeologia fenomenologica del sacro», pp. 86-91) che soltanto l’antropologia è in grado di indicarci. Lo «scavo archeologico», compiuto anche sulla scia di autori quali Lévi-Strauss o Lévy Bruhl, rileva quanto nelle forme arcaiche o, meglio, ante-predicative dell’umanità (quali mitologie, espressioni grafiche arcaiche, manufatti, ecc.), sia sempre «in uso» una forte componente logica. Sono «logiche diverse» quelle a cui fanno ricorso gli uomini dell’atteggiamento naturale, quelli che, per dirla sempre con Husserl, vivono nel mondo della doxa, nella regione del pre-categoriale. E proprio alla luce di tali «segni» si rende possibile il recupero, secondo Ales Bello, della dimensione hyletica come apertura ad una fenomenologia del religioso da cui elevare una comprensione di tutte le religioni come espressioni diverse di culture diverse, sulla base però di un sostrato comune.

La seconda parte, dopo una riflessione sull’invito al criterio dell’accoglienza da parte delle diverse religioni, si conclude con un rilevo dell’importanza dell’esperienza religiosa in Husserl, intesa secondo i due punti di vista, evidenziati sin dall’inizio, del percorso teoretico, proprio della via fenomenologica all’assoluto di Dio che la coscienza trascendentale è in grado di giustificare come «altro»; e del percorso religioso, proprio, in primis, della fede personale di Husserl e, in secundis, di una fenomenologia della religione, «che si fonda su un’archeologia fenomenologica» (ivi, p. 149). Tale fenomenologia è basata sia sulla possibilità di una mistica sia sulla possibilità della fenomenologia (la fenomenologia del religioso) di riguardare le questioni religiose come appartenenti ad una modalità espressiva dell’umanità, la sfera hyletica, appunto, da cui impulsivamente si rende presente l’Entelechia Somma, teleologia dell’agire impulsivo e intenzionale dell’umanità.

La terza parte riguarda infine alcune esplorazioni nella fenomenologia della religione come una sorta di applicazione al pensiero religioso arcaico di quel fondamento irrinunciabile che è l’hyletica e che l’analisi fenomenologia aveva messo in luce. «Se noi esaminiamo le esperienze vissute che sono alla base dei miti, sottolinea Ales Bello, osserviamo che la loro struttura concerne una presenza del momento hyletico e noetico». Inoltre, fa rilevare oltre, è il primo «piuttosto che il secondo a guidare e a condurre l’organizzazione della realtà» (p. 102). Ma che cosa si intende per momento hyletico nelle mentalità arcaiche o cosiddette «primitive»?

La risposta al problema sembra essere consegnata al valore di questo sostrato come fondamento, come il livello di base che fa da sfondo alla pensabilità stessa. Questo sostrato non egologico, non ancora noetico, che «influenza» il nostro pensiero, si rivela nel mondo arcaico sotto la forma di «forze» che agiscono e influenzano la realtà. Per la mentalità primitiva, tuttavia, queste forze non sono irreali, sebbene non visibili, ma prendono la forma della realtà come se la costituissero essenzialmente. Un oggetto, una «pietra» un «pezzo di legno» non rappresentano soltanto il semplice oggetto, ma contengono una forza che «influenza» la realtà e che ogni singolo membro della comunità è in grado di riconoscere. In questo l’hyletica costituisce la struttura essenziale di un oggetto sacro e lo riveste di una potenza tale da essere intersoggettivamente valido. Per tali ragioni nella mentalità arcaica il momento hyletico è interpretabile in maniera chiara e inconfondibile. La sua forza fa di quell’oggetto non soltanto un mero oggetto tra gli altri, una «morta materia», come diceva Husserl in Idee, ma una materia in grado di sprigionare un segno ricco di senso che proviene dall’oggetto stesso. Il secondo momento noetico è poi quello che ne riconosce il valore, che lo pensa e che lo riconosce. Ma appunto tutto ciò segue la potenza che sprigiona da esso, ovvero la sua struttura hyletica. Per tali ragioni, secondo Ales Bello, è possibile trovare un raccordo tra sacro e hyletica: nel manifestarsi del divino, infatti, nelle culture arcaiche, negli oggetti o nei segni, quello che viene in luce è la forza o elemento hyletico della materia che viene interpretato (momento noetico) come sacro. Tuttavia la sua struttura nei diversi miti e nelle differenti interpretazioni della divinità resta sempre ancorata ad un elemento hyletico che contiene il suo telos e la sua struttura di senso. Ciò significa che nell’interpretazione di un segno è «portata insieme», come direbbe Conrad-Martius, anche una «quiddità» propria dell’oggetto materiale, ossia della sua realtà.

Queste riflessioni conducono le analisi di Ales Bello a trattare un altro problema: la questione dell’estasi e della contemplazione in diverse esperienze religiose, quali «lo Sciamanismo e le esperienze mistiche presenti nell’Induismo, nella cristianità e nel Sufismo» (p. 114). Anche in questo caso è possibile rilevare la presenza del momento hyletico che nella trance collega direttamente con il sacro la persona che si trova in questo stato. E questo collegamento è una «intima relazione tra le manifestazioni corporee e il mondo esterno» (p. 116), ossia la materia che, come si è sostenuto fin qui, è ricca di senso. Ciò vale anche per la contemplazione nell’Induismo, dove la sfera spirituale prevale ma la presenza in essa di una «mente sensoriale», connette il portato hyletico trasformato in immagini che solo lo spirito sa leggere. Qui il momento hyletico rappresenta un sottinteso, un contenuto inespresso che fa da sfondo agli esercizi di contemplazione proposti della pratica yoga. Un altro elemento religioso è quello che Ales Bello definisce come «misticismo cristiano» e in particolare quello della hyletica fenomenologica e mistica. Quest’ultimo aspetto spinge le analisi dell’Autrice a prendere in considerazione la mistica di Edith Stein. La stessa Stein aveva riconosciuto un valore alla sfera hyletica come sostrato di ogni presa di posizione egologica (si pensi all’esempio del blocco di marmo che «ci parla» e «ci chiama» a prendere posizione nei suoi riguardi). Per quello che riguarda la relazione tra mistica e hyletica, Ales Bello fa rilevare che la hyle si configura come una potenza attrattiva, come qualcosa che de-centra l’ego e che lo predispone alla visione «priva di sensi» propria della mistica (p. 121).

Un’ulteriore riflessione conclude il testo e riguarda Dio come «terzo» o come «tu»? L’argomento viene trattato in primo luogo da una prospettiva antropologica e qui Ales Bello mostra le diverse visioni e considerazioni del problema da un punto di vista filosofico e religioso. L’angolazione religiosa permette differenti interpretazioni del divino; d’altro lato però risulta interessante anche il pensare il «terzo» da un punto di vista filosofico, come se questo fosse un tu, un’entità che ci chiama direttamente ad un rapporto e che mette in discussione il nostro stesso io.

Con questa ultima analisi della sfera del divino, vista sotto le sue molteplici sfaccettature, il testo si conclude ponendo nuovamente l’accento sul senso della hyletica per il pensare e il credere in Dio. In entrambi i casi, infatti, come viene ampiamente dimostrato, questa potenza insopprimibile detta teoreticamente intenzionalità passiva o, semplicemente, «materia» fa da sfondo. Nel pensare Dio, come sostiene Husserl dalle sintesi passive in poi, per arrivare a parlare dei problemi «ultimi e sommi» dobbiamo necessariamente avere a che fare con il pre-categoriale, con la sfera hyletica; nel credere in Dio, la fede è animata da questa entelechia contenuta nella materia (hyle) e che emerge in noi come nostra struttura portante, come un’eredità che riceviamo mediante i sensi, dalla natura e dal mondo circostante. Per tali ragioni è possibile accordare il momento hyletico con l’elemento filosofico, sacrale e religioso.

4. Anna Maria Pezzella, Sentire Dio, pensare Dio

È sempre difficile, quando ci si trova di fronte a testi estremamente ricchi e fecondi, come The Divine in Husserls and Other Explorations della professoressa Angela Ales Bello, decidere quale percorso intraprendere; se se ne sceglie uno inevitabilmente se ne tralasciano altri che certamente sarebbe stato forse più interessante approfondire (questo è quanto viene da pensare sempre dopo aver intrapreso una certa direzione!). Ma la scelta è d’obbligo e, paradossalmente, soltanto essa mostra quanto un testo sia profondo e stratificato, perché solo esaminando, scavando e costruendo ragionamenti possibili si comprende la ricchezza di un lavoro.

Il testo affronta questioni di grande interesse: la fenomenologia come filosofia sui generis, le indagini husserliane sulla questione di Dio, l’analisi della fenomenologia della religione, in cui si dibattono alcune questioni come l’estasi nello Sciamanesimo, il misticismo cristiano, la contemplazione nell’Induismo ed infine il rapporto tra la filosofia e la religione nel pensare Dio.

Intendo partire dalla fine del testo, vale a dire quando l’Autrice afferma che l’incontro tra un io e un tu/Tu si fonda su una prospettiva antropologica. Sia per l’una che per l’altra possibilità c’è la necessità della relazione, cioè l’altro/Altro, sia esso uomo che Dio, devo averlo incontrato. Infatti, per poter parlare di Dio, debbo averlo sentito in me e, se fosse solo un’ipotesi, sarebbe certamente una possibilità da superare, da oltrepassare, per dimostrare altro, così come spesso è accaduto nella storia della filosofia, si pensi ad esempio al genio maligno di cartesiana memoria. Ovviamente le modalità per parlare di Dio sono differenti, c’è un approccio filosofico argomentativo e ve ne è uno religioso esperienziale, aspetti che secondo l’Autrice non si escludono a vicenda, ma anzi sono complementari.

Ed è proprio dell’esperienza riflessiva di Dio in E. Husserl su cui intendiamo soffermarci, un argomento caro all’Autrice, sul quale è ritornata spesso già a partire dagli anni Ottanta con il bel testo Husserl. Sul problema di Dio.

Husserl, di cui l’Autrice è interprete raffinata e profonda conoscitrice, esamina il problema di Dio seguendo diversi punti di vista: la via oggettiva, quella soggettiva, l’intersoggettività, l’indagine iletica e la via etica.

Attraverso la via oggettiva, il fenomenologo viene condotto ad un nuovo inizio radicale, che lo porta a scoprire la soggettività trascendentale, residuo ultimo della riduzione che, di fronte ad un mondo accidentale, è fonte di indubitabilità ed assolutezza. «Alla tesi del mondo- scrive Husserl —, che è accidentale, si contrappone […] la tesi del puro io e del suo vivere necessario e indubitabile. Ogni cosa spaziale, anche se data in carne ed ossa, può non essere; mentre un Erlebnis dato in carne ed ossa non può non essere».23 L’io rappresenta, dunque, per Husserl, cartesianamente, la fonte di ogni validità: si può dubitare di tutto ma non del fatto che ci sia una soggettività assoluta che è indubitabilmente certa di tutto quanto, che è immanente ma che, d’altro canto, non possiede alcuna certezza di quanto la trascende. Ales Bello ritiene che questa posizione sia difficile da sostenere perché il fenomenologo cade in contraddizione con quanto afferma nelle Idee e cioè che «ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione […] è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà».24 Che questa via presenti dei problemi, anche Husserl ne è consapevole, infatti nella Crisi delle scienze europee afferma che i risultati raggiunti attraverso la via cartesiana erano stati troppo rapidi e non il risultato di un’esplicazione progressiva25 che avrebbe mostrato l’ego trascendentale come privo di contenuti. Al di là delle questioni e dei problemi che questa via pone, il fatto principale è che con essa si pone l’assolutezza della coscienza e nel fare ciò ci si scontra con un’altra assolutezza che è quella divina. Infatti, Husserl, nella celebre Annotazione al § 51 delle Idee, ritiene che poiché un Dio mondano non è possibile e poiché l’immanenza di Dio nella coscienza non può essere intesa come quella di un vissuto, allora ci devono essere nella corrente di coscienza, da parte di Dio, altri modi di annunciarsi. Dall’altro lato, però, nel paragrafo 58 delle Idee I si legge che «secondo quanto è accennato da diversi gruppi di simili fondamenti razionali per l’esistenza di un essere divino extramondano, questo sarebbe trascendente non solo rispetto al mondo, ma anche rispetto alla coscienza assoluta. Sarebbe dunque un assoluto in un senso totalmente diverso dall’assoluto della coscienza, come d’altra parte sarebbe un trascendente in un senso totalmente diverso dalla trascendenza nel senso del mondo».26 Per cui a questo assoluto e trascendente, Husserl non può non estendere naturalmente la riduzione fenomenologia. Dio deve rimanere fuori del campo di ricerca, se esso è il campo della coscienza pura. Dunque, in questa via c’è una discrepanza, perché se da un lato il fenomenologo epochizza l’assoluto, dall’altro lato non può non rilevare che è proprio nella coscienza e nei modi particolari nella corrente di vissuti che possono essere resi manifesti e dimostrati mediante il pensiero teoretico, particolari vissuti religiosi. Husserl non vuole, come afferma l’Autrice, assolutamente dimostrare l’esistenza di Dio, perché egli la ritiene una realtà e non un oggetto di discussione o di dimostrazione per quanto la sua presenza possa essere mostrata unicamente da una coscienza che si muove dall’inizio alla fine con l’esperienza vissuta.

L’altra via che il fenomenologo percorre è quella dell’intersoggettività. Colgo l’altro attraverso l’Einfühlung; l’altro, però, non è soltanto l’essere umano ma anche Dio. Il rapporto tra io, gli altri e Dio può essere visto come un rapporto intermonadico; con questo termine leibnitziano si intende la finitezza di ogni singola soggettività e paritempo una soggettività che è spirituale. Le monadi husserliane, però, a differenza di quelle leibnitziane, sono dotate di finestre; tra l’una e l’altra non c’è un semplice accostamento di corpi, ma uno scambio significativo di messaggi e, mediante tale comunicazione, si apre la possibilità di una Monade Somma che è in grado di coordinare tutte le altre e di penetrarle empaticamente. «La totalità delle monadi — scrive Husserl —, una unità totale monadica è un processo di elevamento in infinitum e questo è necessariamente un processo costante nello sviluppo da monadi dormienti a monadi sveglie ed è uno sviluppo verso un mondo che si costituisce sempre di nuovo in monadi, in modo che quelle che lo costituiscono in quanto sveglie, non sono tutte, ma la totalità [delle monadi] è sempre coinvolta come fondamento. E questa costituzione del mondo è costituzione di una sempre più alta umanità e di un’umanità superiore, la quale è consapevole del suo essere proprio e vero e assume la forma di un tutto che liberamente costituisce se stesso avendo come scopo la ragione e la forma della perfezione.

Dio non è semplicemente la totalità delle monadi, ma è l’entelechia che si trova nella totalità, come idea del telos, dello sviluppo infinito, quello dell’umanità come assoluta ragione, intesa come ciò che regola necessariamente l’essere monadico e lo regola secondo una propria decisione».27

La teleologicità del mondo viene dimostrata da Husserl anche attraverso l’iletica. Nell’analisi degli atti umani, il maestro nota che nella loro stratificazione c’è una entelechia cieca, organica, che agisce ad un livello impulsivo per esplicitarsi poi a livello delle volontà. Pertanto, scrive l’Autrice: «La conoscenza concettuale non è il primo grado di conoscenza; piuttosto è già il risultato di un processo anteriore basato essenzialmente sull’associazione che è una operazione primitiva, che attraverso contrasti, successioni e coesistenze consente di definire concettualmente gli ambiti. In questa fase soggetto ed oggetto non sono ancora distinti: la distinzione arriva soltanto a livello concettuale».28 Nella conoscenza, così come nella realtà, Husserl individua una teleologicità, che viene definita la forma di tutte le forme. Ma, se tutte le opere dello spirito, anche quelle più caotiche, irrazionali, hanno in sé un significato, e non solo a livello razionale, allora conclude la Nostra, Husserl29 non può attribuire, se non a Dio l’origine di questo significato.

Un’altra via possibile e praticabile verso Dio è la via etica, attraverso cui il maestro dimostra come la massima espressione di tale vita sia l’amore cristiano. E. Husserl scrive: «coloro che si amano non vivono l’uno accanto all’altro o con l’altro, ma l’uno nell’altro potenzialmente e attualmente. Essi condividono dunque anche tutte le responsabilità, sono legati solidamente, pure nel peccato e nella colpa».30 E questo amore viene identificato da Husserl con l’amore di Cristo: l’amore cristiano è in primo luogo amore che tende in una dimensione più ampia possibile, è un entrare in rapporto con gli uomini ed uno schiudersi ad essi.

L’approccio di Husserl al problema religioso è senza alcun dubbio l’approccio del filosofo che cerca di comprendere il fenomeno religioso, il fenomeno Dio. Il problema di fondo è tra il pensare Dio ed il credere in Dio. I filosofi medievali, come ben mette in luce la professoressa, erano consapevoli di questa frattura; Agostino ed Anselmo conoscevano bene i limiti tra la riflessione filosofica e l’esperienza religiosa. Eppure all’interno della fenomenologia stessa se non nello stesso Husserl, vi è forse una risposta possibile per tenere unite entrambi gli aspetti; la fenomenologia così come è stata concepita offre la possibilità di coniugare questi due momenti. A mio avviso E. Stein è stata maestra nel tenere insieme il pensare Dio ed il credere in Dio. Ciò lo si riscontra nel suo testo più importante Essere finito e essere eterno, in cui ella ritrova una via diversa, una possibile terza via?, alla questione di Dio. Certamente è dell’avviso che il pensare Dio in modo argomentativo porti a formulare concetti rigorosi, ma che non sono in grado di far cogliere Dio perché «lo situano a quella distanza che è propria di tutto ciò che è concettuale. La via della fede ci dà di più della via della conoscenza filosofica; il Dio vicino come persona, che ama ed è misericordioso, ci dà una certezza che non è propria di alcuna conoscenza naturale».31 Il pensare argomentativo, allora pone delle distanze, allontana Dio, lo pone in quello spazio asettico del pensiero speculativo. La filosofa percorre un’altra via, discutibile, poco ortodossa sotto il profilo teoretico, ma non per questo da abbandonare preliminarmente. Ella si muove a partire dalla certezza interiore di Dio. Da filosofa del XX secolo non può dare per scontato la presenza di Dio. Non potrebbe farlo, così come facevano i filosofi medievali, è figlia dell’Età moderna: Dio va trovato, se c’è. Così, attraverso un’analisi dei vissuti, in un cammino a ritroso che si spinge sempre più in profondità, E. Stein giunge alla consapevolezza della inconsistenza del proprio essere, inconsistenza che diviene chiara quando l’io se ne appropria con il pensiero. L’io si scopre, così, come essere gettato, angosciato di fronte al nulla che si trova alle spalle e che vede dinanzi a sé. Eppure ad un certo punto si fa avanti una certezza, vale a dire che «nonostante questa fugacità, io sono e d’istante in istante sono conservato nell’essere e che io in questo mio essere fugace colgo alcunché di duraturo».32 Anche qui le strade sono due, la via della fede che rivela Dio come Essente, Creatore e conservatore e la via della filosofia, del pensare argomentativo che porta inevitabilmente ad un avvertire o sentire assai oscuro che a stento si potrebbe chiamare conoscenza. Vorrei riportare una citazione della Stein che, per quanto lunga, rende molto bene il suo pensiero. «La filosofia — scrive — ha pure una strada propria, cioè la vita del pensiero argomentativo, della dimostrazione dell’esistenza di Dio. Fondamento ed autore del mio essere, come di tutto l’insieme dell’essere finito, può essere in ultima analisi solo un essere che non è ricevuto, come l’essere dell’uomo, un essere che deve esistere da sé: un essere che non può, come tutti quelli che hanno inizio, anche non essere, ma che è necessario. Poiché il suo essere non è ricevuto, non può esserci nel suo essere alcuna distinzione tra ciò che esso è […] e l’essere, ma è necessario perciò che sia l’Essere stesso. Questo essere, che è per sé necessario, senza inizio e causa di tutto ciò che ha un inizio, deve essere uno; poiché se fosse una pluralità, dovrebbe stabilirsi una distinzione per differenziare un essere dall’altro e per comprendere che cosa sia che lo fa questo ente e che cosa abbia in comune con gli altri. Tale distinzione c’è, ma non nell’Essere primo. Sarebbe anche possibile che il mio essere fugace abbia un «sostegno» in qualche cosa di finito. Ma ciò, in quanto finito, non potrebbe essere il sostegno e il fondamento ultimo; tutto ciò che è temporale, in quanto tale è fugace e necessita di un sostegno eterno. Se con il mio essere sono legato ad un altro finito, mi manterrò nell’essere con esso. Ma la sicurezza di essere che sento nel mio essere fuggevole è segno di un ancoraggio immediato al sostegno e fondamento ultimo del mio essere […]. Questo veramente è un avvertire o sentire assai oscuro, che a stento si potrebbe chiamare conoscenza».33 Dunque, la Stein, per quanto parta dalla via argomentativa, poi finisce per giungere a quel sentire oscuro che non possiamo definire conoscenza nel senso filosofico del termine. Eppure è molto interessante esaminare quel vissuto della certezza e confrontarlo con quello della chiarezza ed evidenza su cui si fonda la filosofia occidentale. A tal proposito intendo riferirmi ad un testo husserliano molto famoso, quello relativo alla nascita della geometria. L’accostamento tra le questione di Dio e la nascita della geometria potrebbe apparire alquanto azzardato, ma quello che ci interessa non è il contenuto, quanto il processo che compie il fenomenologo e che potrebbe risultare interessante anche per la questione di Dio.

Per Husserl la geometria è il risultato di una serie di operazioni spirituali, «un risultato che, nel corso della sua ulteriore elaborazione, si amplia attraverso altri risultati, prodotti da nuovi atti dello spirito».34 La difficoltà maggiore, tuttavia, sta nel fatto che l’intento e la realizzazione di un teorema avvengono nella soggettività dell’inventore, per quanto l’esistenza geometrica non sia di ordine psichico, ma abbia un’esistenza propria ed esista per chiunque ed in modo obiettivo. Come accade ciò? Husserl risponde che: «Nella connessione della comprensione linguistica vicendevole, il prodotto originario e l’atto produttivo del singolo soggetto possono venir compresi attivamente dagli altri. Come attraverso la rimemorazione, attraverso questa piena comprensione del prodotto altrui deve aver luogo una co-realizzazione attuale e propria dell’attività presentificata, e insieme deve delinearsi una piena evidenza dell’identità della formazione spirituale nei prodotti dei destinatari e dei mittenti della comunicazione e viceversa. I prodotti spirituali possono venir tramandati nella loro eguaglianza da persona a persona, e nel concatenamento della comprensione di queste riproduzioni, l’evidenza si presenta alla coscienza degli altri come la stessa evidenza. Nell’unità della comunità comunicativa di più persone, la formazione ripetutamente riprodotta non si presenta più alla coscienza come uguale, bensì come a tutti comune in generale».35 In altre parole, attraverso la comprensione e la riproduzione in altri soggetti si ha la conferma che quell’esistente geometrico pensato dal singolo uomo diviene un esistente valido per tutti.

Questo tipo di argomentazione si potrebbe spostare di pari passo al discorso del sentire religioso, del vissuto religioso. E questo non per portare ad una razionalità il vissuto religioso, ma per tentare di trovare una terza via che riesca a mettere insieme sentire e pensare Dio, perché nel mondo occidentale non si può sentire Dio comprendendolo o comprendere Dio sentendolo, non ha alcun valore quella certezza interiore di cui parla la Stein, perché non è dotata di un’evidenza razionale, che è il fondamento più ovvio e in linea con la nostra tradizione. Ma proviamo a ragionare. Sento in me stessa la certezza di Dio; faccio esperienza profonda di Dio. Comunico agli altri questa mia esperienza, che è esperienza spirituale e non psichica. Certamente è un’esperienza particolarissima, legata non al vissuto del pensiero ma a quello del sentire, per cui che è sempre personale ed individuale. Eppure attraverso l’esperienza linguistica posso comunicare quanto sento e vivo oppure posso ritrovare in testimonianze spirituali di santi o di persone comuni che come me, per quanto in modo diverso, hanno fatto la mia stessa esperienza, hanno essi stessi incontrato Dio. Allora certamente posso scoprire che c’è una comunanza nell’esperienza religiosa, nel vissuto religioso. Questa è una strada già percorsa da una fenomenologia dell’evento religioso, e Gerardus van der Leeuw, altro autore molto studiato dalla Nostra, lo fa in maniera analitica e puntuale. Nel vissuto religioso non trovo l’evidenza razionale che ci viene richiesta affinché un’esperienza, almeno nella nostra tradizione, possa definirsi universale e necessaria. Ma allora provo a chiedermi, che cosa significa evidenza? Husserl risponde: «L’evidenza non è altro che la coscienza di cogliere un essente nella sua presenza-in-persona-originale».36 Questa evidenza deve essere tale per ogni singola persona. In me io vivo l’esperienza dell’evidenza del vissuto religioso, è presente in modo originario, certamente la mia esperienza a non è uguale a quella vissuta da un altro in tutti, ma è pur sempre un sentire Dio che investe non la sfera intellettiva quanto quella spirituale e del sentimento. Lo posso comunicare agli altri, gli altri lo possono comprendere, anche se non hanno vissuto la stessa esperienza. Eppure io non sono solo, altri come me hanno avuto e fatto questo tipo di esperienza, così come un teorema di geometria diviene valido se la comunità riesce a riprodurre la stessa evidenza. Certamente si dirà che non tutti vivono l’esperienza religiosa, ma mi chiedo, per ritornare alla questione di Husserl e alla nascita della geometria, siamo proprio sicuri che la comunità tutta sia in grado di riprodurre in se quell’evidenza dell’esistente geometrico, oppure ciò è possibile alla sola comunità di scienziati o di coloro che hanno imparato a ragionare secondo certe modalità e che proprio per tale motivo riescono a coglierne l’evidenza? L’universalità dell’evidenza oggettiva non è una pretesa di un certo pensiero? Si dirà, ma la filosofia è una scienza che è nata come indagine razionale sulla realtà. E anche questo è vero. Ma se questa razionalità non fosse l’unico elemento per comprendere, se fosse uno strumento, sì, validissimo ma assolutamente parziale? Perché la ratio filosofica invece di procedere secondo principi astratti e non assolutamente rispondenti alla complessità della realtà umana, e figurarsi di quella divina, non si arricchisce, non si modula su ciò che sembrerebbe a prima vista incomprensibile? Ma questo, se riflettiamo a fondo, è quanto compie la fenomenologia. Il seguire, l’andare alle cose stesse, il partire von unten e mai von oben, significa voler far parlare le cose, significa far emergere quella significatività che ivi è presente, vuol dire non aggredire quanto ci si presenta, ma lasciarlo parlare, vuol dire anche avere il coraggio di ripercorrere le strade dell’interiorità e di sentire ciò che accade e di poterlo capire, dove la comprensione non deve essere solo razionale, comprendiamo anche con il sentimento, con la percezione di moti interiori e ciò va tenuto presente, altrimenti la comprensione sarà sempre parziale. A. Ales Bello, nel testo Husserl. Sul problema di Dio giustamente afferma: «Razionale è per lui [per Husserl, n. d. r] una conoscenza che è relativa «alle cose stesse» o al rapporto delle cose e ciò che pensiamo è vero e valido se è legato all’esperienza e all’intuizione diretta e indiretta. Si dà una conoscenza di tipo inferenziale quando è possibile attraverso il ricordo, ad esempio, prevedere che si presenteranno le stesse connessioni che si sono costatate nell’esperienza precedente. Il vero sapere si fonda dunque su giudizi che si costituiscono a partire dal «vedere» e «dall’intuire», cioè dalla comprensione intuente delle cose, dei rapporti tra le cose, delle particolarità, delle singolarità e delle universalità. Su tale procedimento dovrebbe basarsi qualsiasi riflessione filosofica valida, cosa che nel passato non è accaduta, anche se l’aspirazione a questo tipo di conoscenza era presente nelle speculazioni di Platone o di Aristotele. Il razionalismo dell’età moderna non ha rispettato l’esigenza precedentemente descritta e ha teorizzato una conoscenza a priori».37

Vorrei concludere queste riflessioni con una domanda: perché Husserl sonda diverse strade per arrivare a Dio? Non per dimostrare l’esistenza di Dio, questo la professoressa lo dice chiaramente, ma per cercare di capire fino in fondo questo vissuto che attraversa da una parte all’altra l’essere umano. Ci piace forse pensare che quello di Husserl è un tentativo di avvicinarsi il più possibile a quel vissuto religioso, cercando di coglierlo sempre più dal di dentro, cercando forse di curvare quel discorso argomentativo ad uno più esperienziale volto ad avvicinarsi sempre di più a quel mistero che è l’amore divino.

Ringrazio di cuore la professoressa Angela Ales Bello per avermi offerto la possibilità, con questo invito, di poter riflettere, sebbene superficialmente su tematiche che mi stanno e, mi permetto di dire, ci stanno, molto a cuore.

5. Patrizia Manganaro, Fenomenologia e Religione

5.1. Introduzione

Il bel volume di Angela Ales Bello costituisce il coronamento dei precedenti studi sul divino e sulla trascendenza assoluta nel pensiero di Husserl, oggi dall’Autrice ulteriormente approfonditi e presentati nella loro coerenza strutturale anche in direzione della fenomenologia della religione, con colpi di sonda inerenti al significato dello scavo archeologico e al connesso rapporto tra culture e religioni.

Una tale complessità e ricchezza d’indagine mette quasi in difficoltà: arduo, infatti, renderne conto in poche battute senza cadere nell’approssimazione. Ho dunque pensato di scegliere un nodo tematico — il senso della presenza di Dio nella coscienza e/o il paradosso di una «trascendenza interiore» — aprendolo alle diverse piste di ricerca indicate dall’Autrice nella scansione delle tre sezioni che costituiscono l’ossatura del volume — 1. momento teoretico-argomentativo-gnoseologico: pensare Dio; 2. momento religioso-esperienziale: credere in Dio; 3. momento dell’applicazione metodologica: il senso e l’esercizio della nuova disciplina così configurata, la fenomenologia della religione.

È ancora una volta il tema dell’interiorità e/o della soggettività, infatti, quello che mi sembra caratteristico della forma mentis husserliana: esso viene al contempo declinato con ricchezza di significati nella continuità con la tradizione filosofica e nella radicale novità costituita dall’individuazione del primum da cui muovere l’analisi: la sfera dei vissuti coscienziali.

Sono particolarmente grata all’Autrice, che mi consente di tornare a riflettere su una questione davvero rilevante: la continuità e la rottura della fenomenologia con il pensiero occidentale e la sua peculiare «collocazione» nel rapporto con la tradizione medievale cristiana.

Tra i molti pregi del libro, infatti, emerge l’articolazione del «pensare» e del «credere» quali dimensioni distinte ma connesse, intrecciate a quel filo d’oro che è l’essere umano con le sue molteplici potenzialità: l’una più discorsiva, logica, gnoseologica, noetica; l’altra intesa come apertura, disponibilità e affidamento. Entrambe possiedono elementi razionali che sarebbe riduttivo misconoscere, tra i quali la motivazione, la libertà, la responsabilità, l’autonomia, la ricerca del senso, l’attribuzione di significati. Ed entrambe si articolano in una pluralità di espressioni e di manifestazioni che derivano tuttavia da un’unica radice, da un solido fondamento: la sfera dello spirito.

Si tratta allora di individuare quale lógos, quale forma razionale innerva il senso profondo d’un siffatto ricercare filosofico-fenomenologico — il quale mantiene in ogni caso un rapporto privilegiato con il quaerere agostiniano e con la dimensione interiore così dischiusa.

La nozione di Dio è presente nell’interiorità ed è colta coscienzialmente, il soggetto la vive in sé: si profila dunque l’enigma d’una presenza vissuta come «trascendenza interiore», d’un sigillo impresso nell’anima. Dove si nota che immanenza e trascendenza sono momenti correlativi e non alternativi.

Pensare e credere: la duplicità dei percorsi che conducono a Dio, quello filosofico-argomentativo e quello religioso-esperienziale non sono in contrasto, anzi Husserl tende a considerarli complementari. Al riguardo, è importante sottolineare che il fenomenologo intende il rapporto tra la dimensione teorica e quella esperienziale come intrecciato ma anche come una sorta di adattamento del pensiero, del lógos, alla recezione intuitiva della presenza del principio teologico nella coscienza (Deum et animam scire cupio, scriveva Agostino).

Si tratta del riconoscimento del divino quale traccia coscienziale: ciò significa che, rendendo intelligibile l’annuncio già colto dall’intuizione, il pensiero non è un primum assoluto. Ciò richiama rispettivamente il pensare Dio (il problema di Dio come questione squisitamente filosofica) e il credere in Dio (l’esperienza religiosa come oggetto dell’analisi fenomenologica); opportunamente Ales Bello approfondisce poi l’analisi con il confronto tra filosofia e religione, attraverso l’ultimo significativo capitolo, aperto non a caso con un interrogativo che rimanda al rapporto tra sacro e religioso, tra impersonale e personale, tra dissimilitudine e similitudine: Dio come «terzo» o come «Tu»?

Detto questo, passo subito al nodo tematico prescelto, che declinerò in forma interrogativa: in che senso Husserl può essere considerato un filosofo della religione? Essendo egli stesso un credente che riflette sulla sua fede e sull’oggetto della sua fede (ebreo di nascita, si converte e riceve il battesimo nel 1886, all’età di 27 anni, nella chiesa evangelica di Vienna), come analizza il rapporto personale che lo lega al divino? Interessato in modo particolare al costituirsi originario della significazione, all’analisi dei vissuti coscienziali, come investiga problemi di carattere culturale e antropologico quali il fenomeno del «religioso» e del «sacro», il senso profondo del cristianesimo e delle altre religioni per l’umano?

Questi interrogativi ne aprono altri non meno importanti, che è merito di Ales Bello aver focalizzato: qual è il rapporto di Husserl con i pensatori medievali? Può egli essere considerato un filosofo «classico»? È possibile rinvenire nel suo pensiero una linea agostiniano-anselmiana, quale riconoscimento della «traccia» della presenza divina nella coscienza? Si tratta, come dicevo, dell’accentuazione del momento della continuità della fenomenologia con la tradizione cristiana, come subito si vedrà.

5.2. Pensare Dio

Ales Bello individua in Husserl cinque vie con le quali il procedimento razionale giunge a Dio — la via oggettiva, la via soggettiva, la via intersoggettiva, la via hyletica e la via etica —, sottolineando che l’intento del fenomenologo non è quello di fornire una dimostrazione della sua esistenza, bensì di trovare il senso ultimo della stessa ricerca filosofica. È qui che il pensiero di Husserl viene messo a confronto con quello di alcuni filosofi del passato e chiarito nel suo andamento analitico che, partendo dal piano esperienziale e seguendo criteri logico-gnoseologici, ripercorre quel cammino d’ascesa intellettuale che ha contraddistinto larga parte della filosofia occidentale.

Tentando di dipanare il groviglio delle domande sopra proposte, mi soffermerò sulla via soggettiva a Dio.

Quando il fenomenologo riflette fino in fondo sul significato della riduzione e sul residuo di tale riduzione, cioè la sfera dei vissuti come essenzialità, il suo pensiero corre a tutto ciò di cui tale sfera è specchio e che la trascende, in primo luogo il mondo, poi, subito, anche Dio. Come il mondo, pur essendo trascendente, si riflette nella coscienza, così deve accadere anche di Dio, se se ne parla. C’è un principio teologico o divino, che è la ragione per la quale tutto esiste: la conoscenza di un tale principio precede e accompagna tutte le cose, anzi si potrebbe aggiungere che le cose si manifestano limitate proprio perché si sa che c’è il loro principio illimitato. Si tratta dunque della questione filosofica del fondamento.

Il procedimento husserliano consente di stabilire importanti connessioni con alcuni pensatori classici di tradizione platonica: in particolare, viene richiamato Anselmo, che nel Proslogion aveva avanzato la sua stringente argomentazione nella direzione esplicita dell’esistenza. L’insipiens sa che c’è qualcosa di potente, sa che tale è la sua potenza che supera e trascende l’intelletto, sa persino che di tale «qualcosa» non è possibile pensare il maggiore, tanto nell’intelletto quanto nella realtà.

Ora: che nella Potenza ci sia un intreccio tra il «che cos’è» e la sua esistenza non è tematizzato da Husserl, perché ritenuto addirittura scontato. Utilizzando i termini «essenza» ed «esistenza» proposti dalla tradizione, il fenomenologo si trova dalla parte di Anselmo proprio perché quest’ultimo passa dall’essenza all’esistenza non in modo arbitrario, bensì cogliendo a fondo il motivo per il quale si può dire, con Tommaso, che in Dio essenza ed esistenza coincidono.

Ma ecco l’argomentazione husserliana contenuta nell’annotazione al § 51 del primo volume delle Ideen, che per la sua importanza conviene riportare per intero:

Se la fattualità nell’ordine dato del corso della coscienza nelle sue singolarizzazioni individuali e la teleologia immanente a queste singolarizzazioni giustificano la legittimità d’interrogarsi sul fondamento di tale ordine, il principio teologico, che può forse essere ragionevolmente supposto, non può essere assunto come una trascendenza nel senso del mondo: poiché ciò costituirebbe un circolo vizioso. Il principio ordinativo dell’assoluto deve essere trovato, per mezzo di una considerazione puramente assoluta, nell’assoluto stesso. In altre parole, poiché un Dio mondano è evidentemente impossibile, e poiché d’altra parte l’immanenza di Dio nella coscienza assoluta non può essere concepita come immanenza nel senso dell’essere come vissuto (il che non sarebbe meno assurdo), ci devono essere nella corrente assoluta della coscienza e nelle sue serie infinite altri modi di annunciarsi delle trascendenze, oltre quello che dà luogo alla costituzione di realtà cosali come unità di manifestazioni concordanti; e ci deve infine pure essere un annunciarsi di ordine intuitivo, al quale il pensiero teoretico potrebbe adattarsi e seguendolo razionalmente rendere intelligibile la potenza unitaria del supposto principio teologico.38

L’approfondimento filosofico del «principio teologico» conduce alla pensabilità di esso come di ciò che ordina e regge il mondo naturale, e di cui abbiamo notizia senza mediazione alcuna, attraverso peculiari modalità della corrente di coscienza. Husserl mette quindi a fuoco la differenza tra le nozioni di limite, insufficienza e precarietà che caratterizzano la «natura», e il fondamento di essa quale ordine o principio divino: quest’ultimo deve essere ricercato all’interno della coscienza, in noi, ma non confuso con gli Erlebnisse, i quali al contrario vi rimandano come a un ordine che li fonda e li trascende. Voglio richiamare qui un altro testo di Ales Bello, centrato sul rapporto tra Husserl ed Anselmo:

L’annunciarsi di ordine intuitivo mi sembra particolarmente importante, perché mostra la presenza di Dio nella coscienza e il fatto che se ne possa parlare deriva dalla sua presenza in noi; la stessa «via oggettiva» — rintracciabile nel § 58 e avvicinabile alla quinta via di Tommaso — è possibile e si giustifica perché, nel senso indicato da Agostino, già sappiamo che Dio c’è e sappiamo anche che è una potenza unitaria. E questo non può essere rivelato «né dalla carne né dal sangue», come si dice nel Vangelo, ma da Dio stesso. Ora qui si tratta di una rivelazione «naturale» come «iscrizione» nella coscienza di una Potenza colta senza mediazioni, «intuitivamente», quindi posseduta e non conquistata, annunciata da modi peculiari della «corrente di coscienza» che possono essere resi palesi, spiegati, mostrati dal pensiero teoretico, che ad essa si adegua, si adatta, «seguendo» e non «costruendo». Si è citato Agostino, ma si può citare anche Anselmo.39

Husserl non è interessato ad alcuna prova razionale dell’esistenza di Dio, ma all’esperienza ricettiva di un annunciarsi intuitivo che come tale è immediatamente afferrato: ciò potrebbe far pensare a una reale lontananza rispetto ad Anselmo, nel quale il tema ontologico dell’esistenza di Dio è come noto prevalente. Eppure l’affinità dell’indagine è rintracciabile nella medesima forma mentis che, sulla via già magistralmente indicata dal quaerere agostiniano, procede da un’epoché teoretica e metodica nel caso di Husserl, e da un rientrare in se stessi dopo essersi liberati da tutto ciò che può distrarre o sviare nel caso del pensiero orante di Anselmo.

Al centro vi è dunque il tema della soggettività, della possibilità di scorgere nell’interiorità la presenza concreta del divino. Nell’esortazione della mente a contemplare Dio, così s’esprime Anselmo:

«Intra in cubiculum» mentis tuae, exclude omnia praeter deum et quae te iuvent ad quaerendum eum, et «clauso ostio» quaere eum.40

Se nella sua excitatio mentis ad contemplandum Deum Anselmo invita a «chiudere la porta», Husserl propone di esaminare gli Erlebnisse coscienziali puri, ai quali si perviene dopo aver compiuto l’epoché. Conclude pertanto Ales Bello:

La mente, di cui parla Anselmo, si sdoppia nella lettura proposta da Husserl; la sola ratio che quest’ultimo usa come strumento di conoscenza mostra tale sdoppiamento: da un lato la mente nella sua concretezza e dall’altra la sfera d’essere dei vissuti che, una volta isolata, fa capire, attraverso i vissuti di carattere intellettuale, il significato della mente stessa in un continuo reciproco rimando […] . Sulla sfera dei vissuti si registra la «presenza» di qualche cosa che ci trascende; in questo modo si può intendere «l’annunciarsi di ordine intuitivo», che è, contemporaneamente, sentito come presenza e colto dalla nostra mente — è il vissuto della riflessione, cioè il pensiero teoretico che tematizza tutto questo. I primi due momenti sono presenti in ogni essere umano, il terzo è presente potenzialmente, ma si attualizza solo nella ricerca filosofica. La sola ratio e il pensiero teoretico, la loro attivazione, rendono «filosofi» Anselmo e Husserl. Essi lavorano a livello teoretico per indicare agli altri quello che avviene nell’essere umano.41

L’obiettivo del fenomenologo non è in prima istanza quello di rispondere all’insipiens, ma di rientrare in se stesso e di indagare se stesso per individuare tale «trascendenza interiore», tale potenza divina: in questo procedimento un ruolo centrale riveste l’intuizione, capace di coglie l’annunciarsi e manifestarsi dell’Altro, il suo farsi presente alla mens o coscienza.

5.3. Credere in Dio

Passando ora al versante del «credere» in Dio, Husserl scava nell’interiorità per individuare le sorgenti dell’apertura dell’umano verso il divino. Tale compito era stato già avviato dal fenomenologo nell’indicare il «luogo» nel quale rinvenire le fonti della religiosità, conosciute grazie alla registrazione degli Erlebnisse. Lo si è appena visto: la «coscienza religiosa» si è mostrata come costitutiva e peculiare specificazione della coscienza stessa.

Ales Bello propone una puntuale analisi del «religioso» pensandolo come una sorta di «sacro complesso»: si tratta di un’archeologia fenomenologica del «religioso» volta al rilievo delle strutture di senso e del primato giocato dalla religione sulla cultura stessa. Interessato al problema culturale e interculturale, Husserl esamina prevalentemente l’esperienza religiosa cristiana, scavando in profondità per rintracciarne continuità e diversità rispetto al momento sacrale.

L’esperienza religiosa consiste nel movimento che, iniziando dalla traccia che Dio ha impresso nel nucleo più intimo e profondo dell’anima, passa attraverso l’affidamento, l’abbandono e i processi di repulsione e di attrazione propri della psiche, ai quali segue l’adesione affettiva, sentimentale (come sensibilità corporea e spirituale) e intellettuale. Dove si ribadisce che il valore attribuito ai diversi momenti, quello hyletico dei sentimenti sensoriali o quello noetico degli atti spirituali, consente di cogliere le differenze tra le espressioni «sacrali» e quelle più propriamente «religiose». Sempre nel testo sulla via soggettiva a Dio in Husserl ed Anselmo, Ales Bello scrive:

Quando Husserl nel § 58, che si riferisce alla trascendenza di Dio, sostiene che la coscienza religiosa si fonda su un motivo razionalmente fondante, egli vuole affermare che si tratta di un’evidenza che non richiede mediazioni; essa è consapevole immediatamente del fatto che c’è un essere trascendente, assoluto, cioè inscritto nella coscienza stessa. La coscienza sa ed è religiosa, nel senso che tale consapevolezza è la consapevolezza della presenza di Dio e contemporaneamente della sua non riducibilità alla coscienza stessa, quindi, il suo presentarsi come «Altro» si basa sul riconoscimento della sua presenza-assenza.42

Con le parole dello stesso Husserl:

Dopo l’abbandono del mondo naturale, ci imbattiamo in un’altra trascendenza che, a differenza di quella dell’io puro, non è data in una unità immediata con la coscienza ridotta, ma viene al contrario conosciuta assai indirettamente e rappresenta per così dire il polo opposto alla trascendenza del mondo. Ci riferiamo alla trascendenza di Dio. […] . Non il fatto in generale, ma il fatto come sorgente di valori possibili e reali, crescenti all’infinito, ci costringe a porre la questione del «fondamento» — che non ha naturalmente il senso di una causa [Ursache] nel senso della causalità tra cose. Sorvoliamo sul modo in cui la coscienza religiosa può condurre al medesimo principio, e cioè nel modo di un motivo razionalmente fondante. Dopo avere accennato a diversi gruppi di simili fondamenti razionali che parlano a favore dell’esistenza di un essere «divino» esterno al mondo, qui ci interessa solo notare che questo essere divino sarebbe trascendente non solo rispetto al mondo, ma manifestamente anche rispetto alla coscienza «assoluta». Sarebbe dunque un «assoluto» in un senso totalmente diverso dall’assoluto della coscienza, come d’altra parte sarebbe un essere trascendente in un senso totalmente diverso rispetto alla trascendenza nel senso del mondo.43

Dove è facile segnalare che il senso «totalmente diverso» d’un siffatto fondamento assoluto e trascendente ne indica al contempo l’Alterità eccedente e ulteriore rispetto al «mondo», aprendo spazi e orizzonti importante per la ragione filosofica.

5.4. Fenomenologia della religione

Attraverso ulteriori efficaci domande — come riconosciamo la Presenza, come riconosciamo l’Eterno? In che modo i vissuti partecipano dell’Infinito? Dio si profila come «Terzo» o come «Tu»? Come «impersonale» o «personale»? La via che si apre è quella del sacro», del «filosofico», del «religioso» o del «mistico»? — Ales Bello ritorna ad Agostino, ad Anselmo e al riconoscimento della «traccia» divina nella coscienza, possibile grazie alla similitudine (questione dell’imago Dei) e alla dissimilitudine (questione della «potenza») tra umano e divino, e prtanto esplicativa del problema filosofico dell’analogia, la quale a sua volta rimanda a un tema tipicamente fenomenologico, quello dell’empatia.

Solo il Tu può essere «oggetto» di un contatto, e ciò rinvia all’analisi fenomenologica dell’esperienza religiosa nel senso peculiare della mistica, colta nella sua universalità e indagata con perizia nelle peculiari «figure» nelle quali essa si manifesta, dall’induismo al buddhismo, dal cristianesimo al sufismo. Ancora sulla scia del cercare agostiniano e del pensiero orante di Anselmo, infatti, il tema dell’interiorità viene connesso all’indagine sul senso della preghiera, della meditazione, della contemplazione e persino dell’estasi, confermando l’universalità della presenza del divino nella coscienza umana.

In conclusione, lo studio di Ales Bello costituisce un originale approfondimento teoretico e analitico del pensiero di Husserl; consente inoltre l’apertura all’esplorazione di altre regioni, per proseguire la ricerca nella direzione fenomenologica del cammino regressivo, dischiudendo le fonti costitutive dell’essere umano nella duplice dimensione personale e interpersonale.

6. Michele D’Ambra, Husserl e il problema di Dio

6.1. La questione Dio in Husserl

Nel suo diario suor Adelgundis Jaegerschmid44 annota una conversazione avvenuta fra lei e Husserl nell’estate del 1936 nella quale il maestro le disse: «Ho appena ricevuto una rivista americana in cui un gesuita — uno dei suoi, vero, suor Adelgundis! — mi presenta come un filosofo cristiano. Sono indignato per lo zelo intempestivo di tale iniziativa di cui non sapevo nulla. Come si può fare una cosa simile senza consultarmi? Non sono un filosofo cristiano. La prego, faccia in modo che non mi presentino come tale dopo la mia morte. Ve l’ho detto tante volte: la mia filosofia, la Fenomenologia, non vuole essere altro che una via, un metodo che permetta a coloro che si sono allontanati dal cristianesimo e dalla Chiesa, di ritornare verso Dio».45

Le parole riportate in questa testimonianza pongono innanzi al fatto che, nell’affrontare il pensiero di Husserl, non si può fare a meno di prendere in considerazione la maniera in cui egli affronta il problema di Dio.

La pubblicazione sulla prestigiosa rivista Analecta Husserliana del lavoro della Ales Bello sul divino in Husserl ripropone nuovamente all’attenzione di tutti gli studiosi della Fenomenologia la tematica riguardante la visione di Dio nel pensatore tedesco.

Come si evince da ciò che Husserl afferma negli ultimi anni della sua attività, il problema di Dio non è estraneo alla sua riflessione, anzi sembra quasi esserne la ragione ultima.

Per questo vogliamo, partendo dalle suggestioni suscitate dallo studio della Ales Bello, svolgere alcune considerazioni sulla visione di Dio del fondatore del metodo fenomenologico.

Le notizie riguardanti la religiosità di Husserl sono piuttosto scarne. Tuttavia la rilevanza assunta dalle analisi inerenti il fenomeno religioso nelle sue opere e in quelle dei suoi allievi ci permette di notare che questa problematica era per lui assai rilevante sia da un punto di vista personale sia da quello dello sviluppo del suo pensiero.

6.2. Le «vie»

Nel testo riportato all’inizio troviamo già una prima indicazione importante riguardo l’affronto della problematica di Dio da parte di Husserl. Egli afferma che la sua filosofia non vuole essere altro che una via che permetta a coloro che non hanno più fede perché si sono allontanati dal Cristianesimo e dalla Chiesa di ritornare ad averla. Siamo posti, dunque, con estrema chiarezza di fronte al fatto che Husserl concepisce il suo lavoro come una introduzione al problema del fondamento ultimo della persona e della realtà. In effetti, come ben mette in evidenza la Ales Bello, egli individua e percorre attraverso il suo lavoro diverse vie che conducono a Dio. Di esse offre una descrizione dettagliata e approfondita il libro della Ales Bello e per questo non ci attardiamo a parlarne.

Vogliamo solo notare come Husserl si ponga all’interno di una linea di pensiero che ritiene urgente oltre che necessario per la ragione umana affrontare il tema di Dio e affrontarlo partendo dall’uso dei mezzi che ha a sua disposizione. Anche Tommaso D’Aquino in un momento storico lontano e sicuramente differente da quello nel quale vive Husserl indica a coloro che non credono in Dio cinque vie attraverso le quali la ragione può arrivare ad ammettere l’esistenza di un fondamento ultimo della realtà e dell’essere umano. Proprio in un’altra confessione raccolta da suor Adelgundis, anche se in maniera un po’ polemica nei confronti dei seguaci di Tommaso, Husserl ammette di venerare il santo aquinate: «… La mia opera sarà rifiutata dalla Chiesa (forse non dai giovani nella Chiesa), perché essa vede in me il più grande nemico della «scolastica». E ancora con un lieve sorriso ironico: Venero san Tommaso, ma lui non era un neo-scolastico».46

6.3. I dati dell’esperienza elementare: i vissuti

Poco più di un mese prima di morire nella notte tra il 16 e 17 marzo 1938 suor Adelgundis raccoglie queste parole del maestro: «Prima di ogni principio sta l’Io, che è, che pensa e cerca dei rapporti fra il presente, il passato e l’avvenire. Ma appunto il problema difficile è sapere cosa è prima del principio… La filosofia è la volontà appassionata di conoscere l’essere. Ciò che ho scritto nei miei libri è molto difficile. Ogni filosofia è una filosofia delle origini, una filosofia della vita e della morte. Ricominciamo sempre, ritorniamo al punto di partenza. Mi sono sforzato di andare dal soggetto all’essere. Quando riflettiamo su tutto questo, poniamo sempre l’Io, non una cosa, un albero o una casa…».47

Esse descrivono in una maniera adeguata e sintetica il senso dello sforzo compiuto da Husserl nella sua ricerca.

Egli descrive il suo cammino come un itinerario che dal soggetto conduce all’essere.

È proprio questo il cuore, il nucleo del suo lavoro di filosofo.

Inserendosi nel solco della svolta soggettivistica realizzata dalla filosofia moderna, egli torna a mostrare, in maniera inequivocabile, la necessità di partire da quanto è vissuto dal soggetto umano, vale a dire, di fare dei vissuti il punto di avvio della ricerca riguardante l’essere proprio e quello della realtà, costituita da elementi che vanno dalla materialità pura alla pura spiritualità attraverso una serie complessa e definita di gradi descritti da lui e dai suoi allievi in maniera molto efficace.

Al tempo stesso, però, egli mostra l’oggettività di questi vissuti. Sebbene ogni essere umano, in quanto tale, vive i propri vissuti in maniera unica e irripetibile, i vissuti che egli vive hanno una connotazione e una struttura individuabile e descrivibile. Possono essere riconosciuti e, in una certa misura, partecipati anche ad altri attraverso un vissuto particolare da Husserl chiamato Einfühlung.

L’esperienza che da essi deriva è una esperienza identica per ogni essere umano.

La peculiarità dell’analisi husserliana è propria quella della individuazione di vissuti che appartengono a tutti gli esseri umani sebbene siano da essi vissuti in maniera unica e originaria.

È proprio ad essi appartengono anche quei vissuti che conducono all’esperienza di Dio.

6.4. Dai vissuti a Dio

Sicuramente uno degli elementi originari della analisi husserliana su Dio riguarda la considerazione dei vissuti come punto di partenza per arrivare all’esperienza di Dio come fondamento dell’essere umano e della realtà.

Questa impostazione metodologica non è certo nuova. Lo mostra la Ales Bello paragonando e confrontando la ricerca husserliana con quella anselmiana o quella di Cartesio. Tuttavia egli la ripropone in momento storico nel quale, in seguito all’affermazione della filosofia positivista, Dio non solo era stato eliminato dall’orizzonte delle ricerche filosofiche, ma era anche stato contrapposto all’essere umano stesso. Abbiamo tutti presente il modo in Feuerbach dopo aver mostrato come l’esistenza di Dio derivasse da una necessità umana, ponesse in netta antitesi l’essere di Dio e quello dell’uomo: ove si innalzava l’uno si abbassava l’altro.

Ecco, in un contesto di questo tipo, le analisi di Husserl non solo mostrano che proprio quanto è vissuto dall’essere umano stesso fa emergere la necessità di un fondamento su cui questo essere possa poggiare e non ritiene questa un’esperienza negativa, ma ritiene i vissuti umani siano la via privilegiata per l’accesso a Dio stesso.

Non sarà sicuramente frutto del caso il fatto che molti fra i suoi allievi non solo non elimineranno dalla propria vita personale l’esperienza religiosa malgrado approdino a confessioni diverse, ma ne faranno oggetto delle proprie ricerche.

Ma quali sono i vissuti attraverso i quali possiamo giungere all’esperienza di Dio?

6.5. Temporalità e finitezza

Il primo di essi è la temporalità. Per comprendere ciò che Husserl ha insegnato riguardo alla temporalità ci serviamo delle analisi di una tra le sue più fedeli allieve, vale a dire, Edith Stein.

Nel secondo capitolo dell’opera Essere finito e essere eterno,48 affrontando la questione del punto di partenza dell’indagine sulla questione dell’essere, del punto di partenza per una considerazione del problema della conoscenza della realtà nella sua totalità, ella mette in evidenza l’infallibile certezza della consapevolezza del proprio essere. Esso si manifesta immediatamente sottoposto alla temporalità e finitezza.

La temporalità è il carattere proprio dell’essere dell’Io che manifesta, nella sua vita, attualità e potenzialità come modi di essere in cui sono presenti allo stesso tempo essere e non-essere secondo gradi diversi: «Il nostro Io si è rivelato temporale, ossia come un’attualità puntiforme; che continuamente emerge alla luce in modo sempre nuovo. Ma questa stessa attualità non è affatto pura: nel mio presente puntiforme v’è insieme l’attuale e il potenziale, io non sono in modo uguale tutto ciò che sono in questo istante».49

Nella vita dell’Io emergono zone di oscurità,50 soprattutto per quel che riguarda l’origine e la fine della propria esistenza, e appare evidente, nel modo in cui fa esperienza di se stesso, che: «si trova come qualcosa di vivente, di essente al presente; e nello stesso tempo come proveniente da un passato e proteso nel vivere già un futuro: esso stesso e il suo essere sono ineludibilmente là; esso è «gettato nell’esserci. […] Non può fermarsi, perché scorre «inarrestabilmente». Così esso non giunge mai a possedersi veramente. E per questo che noi siamo costretti a definire ricevuto l’essere dell’Io, questo presente vivente in continuo cambiamento. È posto nell’esserci e vi è mantenuto istante per istante».51

La temporalità e la contingenza di cui è costituito l’essere umano mostrano la sua inconsistenza e, di conseguenza, la necessità di essere mantenuto nell’esistenza istante per istante e di essere riempito dalla presenza dell’Essere che, privo di potenzialità, lo ha chiamato alla vita per riempirla della Sua pienezza.

L’analisi della temporalità dell’essere umano, come già era accaduto per sant’Agostino di cui Husserl, prima, e la Stein, dopo, accolgono i suggerimenti, si presenta come via di accesso privilegiata alla consapevolezza della propria contingenza e, quindi, alla percezione della propria dipendenza da un Essere non temporale ed eterno che si delinea come fondamento della propria esistenza.

La presenza considerevole di questa tematica all’interno della scuola fenomenologica, pensiamo al lavoro di Husserl sulla coscienza interna del tempo, ad opere di suoi allievi quali Conrad-Martius52 e Heidegger,53 rende evidente il valore di questa dimensione per l’essere umano, qualunque sia il punto d’arrivo cui conduce.54

Attraverso l’analisi della temporalità e della finitezza, si può giungere alla consapevolezza della creaturalità dell’essere umano e alla necessità di ammettere l’esistenza di un Essere eterno come fondamento dell’essere finito.

Questa modalità di approccio al tema di Dio segue senza alcun dubbio la linea che, tracciata da sant’Agostino, condurrà alle analisi con esiti diametralmente opposti dell’esistenzialismo contemporaneo.

6.6. Entropatia e amore

L’entropatia è senza alcun dubbio l’altro vissuto che può essere considerato come via di accesso all’esperienza di Dio. Essa è una modalità di conoscenza del vissuto estraneo che rivela immediatamente il carattere di apertura all’altro da sé di cui la persona è portatrice. Un’apertura che si rivelerà costitutiva dell’essere della persona e che ha come fondamento la sua dimensione spirituale. Un’apertura che si mostra come una possibilità di incontro amorevole con l’altro da sé.

L’entrare in una relazione conoscitiva con l’altro permette di vivere l’assenso al valore di cui è portatore in quanto persona: siamo innanzi all’esperienza dell’amore.

L’amore che si rivela come il volto più autentico dell’essere di Dio.

Nell’autunno del 1937 ancora a suor Adelgundis Husserl confida: «… La sua missione, mia cara bimba, sta nel condurre giovani anime all’amore, conquistarle all’amore, proteggerle dal più grande pericolo della Chiesa: la verità sterile e il formalismo rigido. Mi prometta che non dirà mai una sola cosa soltanto perché l’hanno detta gli altri».55

L’amore è un’esperienza che ha origine dalla costitutiva apertura dell’essere umano e conduce alla verità autentica che non è sterile, ma vissuta e partecipata.

6.7. La questione Dio nei fenomenologi

Il lavoro portato avanti da Husserl riguardo la questione di Dio e del fenomeno religioso ha avuto notevoli sviluppi nelle analisi dei suoi allievi. Cerchiamo di indicare brevemente, come esempio, alcuni di questi sviluppi.

Conrad-Martius: la natura e il suo fondamento

Nel 1921 Edwig Conrad-Martius pubblica i Dialoghi Metafisici. Attraverso quest’opera redatta in forma di dialogo intende indagare e descrivere i vari strati di cui è costituita la natura. Condotta con metodo fenomenologico, l’analisi rivela la complessità presente nel reale e in quella particolarissima manifestazione di esso che è l’essere umano. All’interno della natura, infatti, emerge un essere che, racchiude in sé tutti i vari aspetti della realtà e si pone come il luogo in cui essa prende coscienza di sé.

La sua analisi parte dal prendere in considerazione tutti gli esseri dotati di anima, gli esseri viventi.

Essi hanno come caratteristica peculiare quella del «vivere», dell’avere vita, che ha la sua manifestazione essenziale nel movimento. Esso può essere non libero, meccanico, oppure libero, a seconda della capacità di dominio che un essere ha sul proprio corpo. Proprio questa differenza fra il movimento libero e quello non libero, ci permette una prima distinzione fra gli essere viventi.

A partire da questa distinzione vengono messi in evidenza anche le altre dimensioni dell’essere vivente e così abbiamo gli animali inferiori cui appartiene una dimensione unicamente corporeo-sensibile. Gli animali superiori cui appartiene una dimensione psico-corporea. Gli esseri umani cui appartiene una dimensione corporeo-pisco-spirituale. Gli spiriti elementari cui appartiene una dimensione corporeo-spirituale. Gli spiriti superiori cui appartiene una dimensione unicamente spirituale.

Proprio parlando degli spiriti superiori la Conrad-Maritus individua la presenza di un essere puramente spirituale. Negli spiriti superiori osserviamo la presenza dello spirito nella sua dimensione più pura. È questa assoluta semplicità che permette a Dio di essere il fondamento di tutto ciò che esiste. La Conrad-Martius sembra indicare e rimandare, a più riprese, alla necessità di questo fondamento puramente spirituale della realtà. Nulla avrebbe senso e troverebbe il giusto posto all’interno della stratificazione del reale se non fosse presente in esso un richiamo ad un fondamento ultimo cui ogni essere è finalizzato. In ogni strato della realtà è presente questo rimando a ciò che ne costituisce la ragion d’essere ultima.

È così che attraverso la considerazione della costituzione degli esseri viventi possiamo giungere ad ammettere la presenza di Dio.

Stein: L’emergere dell’Essere Eterno nell’essere finito

Tra la primavera del 1935 e l’autunno del 1936, entrata ormai nel Carmelo di Colonia, Edith Stein redige, dietro invito dei suoi superiori, la sua opera maggiore intitolata Essere finito ed Essere Eterno. Per una elevazione al senso dell’essere. Ella intende condurre una indagine tesa a: «esaminare la potenzialità dell’essere finito onde scoprire nella contingenza delle cose il dispiegarsi del senso dell’essere; senso dell’essere strettamente legato alla verità dell’essere eterno e all’attuazione piena del proprio essere».56

Attraverso l’analisi delle due vie, quella che muove dalla realtà dell’Io57 e quella che muove dalla realtà delle cose,58 ella intende mostrare come la realtà dell’Essere Eterno emerga dalle determinazioni stesse dell’essere finito: «Nel mio essere dunque mi incontro con un altro essere, che non è il mio, ma che è il sostegno è il fondamento del mio essere di per sé senza sostegno e senza fondamento».59

Il metodo usato per l’indagine è quello fenomenologico. Tuttavia l’impressione chiara che si ottiene dalla lettura è quella di una testimonianza di un incontro fra la ragione umana spinta dal suo stesso essere ad entrare nel mistero di sé e delle cose e il Mistero stesso che si offre in tutta la sua gloriosa trascendenza e amorosa vicinanza.

Grande importanza assume, in tutta l’opera, il concetto di «Analogia Entis» intesa come rapporto che lega la creatura al suo Creatore: «L’essere attuale, nell’attimo in cui esiste, è un qualche cosa del tipo dell’essere simpliciter, cioè dell’essere pieno, che non conosce mutazione temporale. Ma poiché lo è solo per un attimo, neppure in quest’attimo è l’essere pieno; la sua caducità si cela già nell’essere momentaneo; esso è solo un analogon dell’essere eterno, che è immutabile e perciò in ogni istante essere pieno. Ciò vuol dire che l’essere attuale è una copia che ha somiglianza con l’archetipo, ma che in maggior grado ha non somiglianza rispetto ad esso».60 Tale concetto inteso come «magna similitudo in maxima dissimilitudine» diviene la maniera con la quale l’essere finito può intuire «oscuramente» i dettami dell’essere Eterno nella partecipazione al Suo stesso essere che egli trova iscritta nella sua natura.

Osserviamo come l’itinerario filosofico steiniano sia giunto con quest’opera a identificare il fondamento e il termine di tutto il lavoro intrapreso dalla ragione per la comprensione dell’essere suo e della realtà. Nei suoi ultimi capitoli troviamo una dottrina sulla Trinità e sull’amore che, in una ripresa del filone agostiniano, mostrano come il compimento della persona sia da ritrovarsi nel rapporto amoroso con l’Essere da cui proviene e del quale è immagine somigliante nella dissomiglianza. La conoscenza non si pone più come un atto meramente cognitivo e intellettuale, ma viene generato dall’implicarsi di tutta la persona in un rapporto nel quale, ritrovando la sua reale statura nella relazione con l’Eterno e non sopravvalutando le possibilità della ragione, accetta i suggerimenti che gli provengono dalla realtà che essa è condotta ad indagare senza sosta. È qui che solo è possibile quel tipo di conoscenza che, secondo la nostra autrice, si pone come sintesi di ciò che ci è reso accessibile dalla ragione naturale e dalla Rivelazione, nella coscienza della sua incompiutezza che ella chiama «oscurità».

6.8. Conclusioni

Ci sembra di poter concludere queste considerazioni notando come le analisi di Husserl su Dio e sulla religione abbiano posto in rilievo l’universalità e l’ineludibilità della presenza, nella persona umana, di un nucleo di esigenze e di bisogni che rimandano in maniera autentica e, non strumentale, alla necessità di ammettere la presenza di un essere che si pone come senso, significato e fondamento della realtà. È attraverso l’analisi profonda della struttura dell’essere umano che si può aprire la strada verso la divinità e verso il sacro.

Husserl e coloro i quali hanno seguito fino in fondo le sue analisi, e fra di essi possiamo senza ombra di dubbio annoverare la Ales Bello, non hanno fatto altro che dare testimonianza di questo.

7. Mobeen Shahid, Fenomenologia dell’esperienza religiosa nella mistica Islamica

Prima di tutto vorrei ringraziare la prof. ssa Angela Ales Bello per la sua guida non solo nella ricerca filosofica, che mi ha consentito di approfondire il pensiero fenomenologico, ma anche per il sostegno umano, perché mi ha aiutato a comprendere il senso profondo della vita.

Non potendo riflettere in poco tempo sulla profonda proposta della Angela Ales Bello, in The Divine in Husserl and Other Explorations, mi limito a prendere in considerazione il primo capitolo sul metodo fenomenologico e partendo da esso esamino la proposta antropologica, l’unione mistica e la contemplazione nel Sufismo.

Inizio da una citazione del libro della Sapienza dell’Antico Testamento, che ci dà la continuità dall’Ebraismo al Cristianesimo:

Sono anch’io un mortale come tutti gli altri, discendo dal quel primo uomo plasmato di terra, e nel seno della madre fui formato di carne, in dieci mesi, nel suo sangue, presi consistenza, dal seme virile e dal piacere che viene col sonno. Anch’io, nato, respirai l’aria comune, e caddi come gli altri su questa terra, piangendo e gemendo al pari di tutti. Fui allevato nelle fasce e tra gli affanni, e nessun re ebbe un’origine diversa. Unico per tutti è il modo di entrare nella vita e di uscirne (Sap., 7, 1-6).

La fenomenologia è una filosofia sui generis in quanto la ricerca di Edmund Husserl viene stimolata dalle lezioni di Franz Brentano. Il tentativo di Husserl è quello di «cominciare da capo», di mettere solo in risalto il significato delle «cose stesse» (zu den Sachen selbst). In quanto matematico avverte la necessità di elaborare un metodo per poter procedere nell’indagine. Secondo Ales Bello l’andamento del suo pensiero può essere definito «a raggiera»: movendo da un punto scelto per la sua rilevanza si rimanda ad altri attraverso una serie di passaggi, indefinibili a priori.

In questo capitolo Ales Bello propone quattro punti significativi: in primo luogo, la riduzione, momento caratterizzante di tutta l’analisi e cuore della stessa indagine fenomenologica; in secondo luogo la questione della valutazione delle scienze, che coinvolge personalmente il matematico Husserl in polemica con l’ambiente positivista che lo circonda e la sua regressione alla dimensione precategoriale del mondo-della-vita; in terzo luogo, lo sviluppo della ‘filosofia’fenomenologica in particolare nell’ambito antropologico, seguendo lo schema contenuto nelle Idee II; e infine il completamento dell’antropologia attraverso l’etica, la religione e la teologia, intesa come discorso razionale su Dio.

7.1. Il metodo fenomenologico

Principalmente la fenomenologia desidera muoversi in profondità, rispondendo alle domande che riguardano il significato delle «cose stesse», cioè tutti gli strati teoretici, pratici e culturali che caratterizzano l’essere umano nel suo tentativo di orientarsi nel mondo. Per questa ragione è necessario un lavoro di scavo di un territorio che alla fine per Husserl riguarda la complessità della realtà che è l’essere umano, la natura e Dio. Non si può trattare di queste questioni finché non ci si domanda «chi» fa la ricerca del senso.

Husserl preferisce usare la parola tedesca Wesen o eidos per avvicinarsi a ciò che vuole intendere per l’essenza delle cose e proprio questo punto diventa il terreno comune a tutti, anche i fenomenologi realisti. Per Husserl qualsiasi visione individuale può essere «messa in idea», o meglio dire in essenza o eidos e come afferma Ales Bello nell’Universo nella Coscienza.61 Anche se l’essenza non è individuale, essa si può fondare su una visione individuale e può riferirsi sia a dati empirici sia a dati non empirici, fantastici o immaginari. Ciò consente di sostenere che la posizione di un’essenza non implica un esistente individuale ma che, inversamente, per la conoscenza di dati di fatto è necessaria una visione eidetica. L’atteggiamento critico non può arrivare alla negazione della «tesi» del mondo, ma ci si può arrivare, sospendere questa tesi, ciòè mettere fra parentesi, ben consapevoli che ciò che è stato posto fra parentesi continua a sussistere. Quest’è solamente una sospensione, un’epochè, un non fissare l’attenzione su un aspetto, perciò di «spegnere una luce su…» (Ausschalten) e ancora un sottrarre momentaneamente qualcosa all’attenzione e perciò «ridurre».62 Così facendo non si vuole costruire qualcosa, ma ci si lascia guidare da qualcosa, cioè dalla cogenza dell’originarietà, non di tipo fattuale, ma essenziale. L’epochè è, pertanto, un atto volontario che ha la sua origine nel soggetto solo perché il soggetto «si decide per…»; vuole spostare la sua attenzione dalla pura fattualità all’essenzialità. Così Husserl afferma che non è possibile dubitare dell’esistenza delle cose che vengono messe fra parentesi, piuttosto si punta l’attenzione sulla questione dell’essenza. Anche se l’epochè mette tra parentesi tutti gli strati che riguardano la percezione di una cosa che si manifesta all’essere umano, è sempre il soggetto umano che applica la riduzione eidetica alle cose epochizzate. Ales Bello afferma che in questo caso, allora, rispetto all’io, può venir posto fra parentesi solo ciò che concerne il suo atteggiamento psicologico, l’essere umano reale come oggetto reale, ma ciò che rimane essenzialmente, in nome della possibilità di cogliere l’essenza, è la «coscienza» pura, il puro io, con i suoi puri vissuti (Erlebnisse). Si tratta, in realtà, di applicare la riduzione eidetica all’io per cogliere le strutture della soggettività.

La lettura attenta di Ales Bello arriva a individuare un nuovo territorio, che è la regione trascendentale che porta in sé intenzionalmente l’universo reale e possibile e non si ferma alla percezione delle strutture dell’oggetto che si manifesta al soggetto. Nell’interpretazione coerente del metodo fenomenologico trascendentale, Angela Ales Bello afferma che «si può notare che si descrive il modo in cui si conosce la realtà, non si discute sull’esistenza della realtà, che per altro, si dà per scontata; il percepito rimanda certamente all’oggetto fisico percepito, al foglio di carta concreto, e quest’ultimo è trascendente rispetto al rapporto percezione-percepito: ecco il delinearsi della sfera dell’immanenza e di quella della trascendenza, come sfere non opposte, ma correlate; il mondo è fuori del soggetto, ma anche dentro il soggetto, per tale ragione possiamo parlare del mondo».63 Già nell’aprile-maggio 1907 Husserl ha individuato la sua via di indagine definitiva e, in seguito, si tratterà solo di approfondire e procedere ad analisi sempre più sottili per un verso e più ampie per un altro, indicando la struttura dei vissuti e il rapporto con la coscienza e riconoscendo le connessioni e le differenze fra l’io empirico, la soggettività trascendentale e l’intersoggettività. Dopo l’epochè ciò che rimane non è l’essere umano nella sua solitudine, ma è la solitudine dell’ego trascendentale che subito viene riempito dalla presenza dell’alter-ego.64

Iniziando dall’indagine fenomenologica della dimensione soggettiva si scopre che nella soggettività c’è l’apertura verso l’alterità per cui è possibile rintracciare le linee fondamentali. Con l’aiuto dell’entropatia/empatia che è lo strumento privilegiato di analisi antropologica, Husserl ritiene che per comprendere il significato, la struttura logica dei nostri procedimenti di pensiero, le diverse espressioni anche culturali e anche le «logiche di altre culture», dobbiamo regredire alle operazioni costitutive che sono alla base di tali espressioni e chi lo fa inizia da se stesso. Scopre di essere accompagnato da una «luce interiore», come si esprime anche Edith Stein, che è la discepola più fedele ed interprete del pensiero del maestro Husserl, in Introduzione alla filosofia che illumina il flusso del vivere e nel defluire stesso lo rischiara per l’io vivente senza che questo vi sia «diretto»: tale luce è la coscienza. Dopo che l’analisi trascendentale ha individuato la coscienza come il luogo su cui si rispecchiano tutte le dimensioni del soggetto, è possibile descrivere essenzialmente una serie di vissuti della coscienza stessa che rimandano alle strutture «reali» dell’essere umano; il corpo, psiche e spirito.65

7.2. L’esperienza religiosa e esperienza mistica

Angela Ales Bello afferma che non si trova negli scritti di Husserl una trattazione sistematica sul tema religioso, ma molte sue riflessioni sono dedicate a questo argomento, quasi sempre intrecciate con altre indagini, tuttavia la sua posizione è chiaramente delineata. Poiché la fenomenologia, e quella husserliana in particolare, è rivolta prevalentemente all’analisi dell’interiorità, l’esperienza religiosa come esperienza interiore è ben compresa e colta nella sua essenzialità. Ales Bello ci rimanda al par. 51 delle Ideen I in cui emerge che la coscienza, testimone del fluire dei vissuti, manifesta una finalità, un ordine che rimanda al principio di tale ordine il quale, come d’altra parte già Tommaso d’Aquino e Kant avevano indicato, non può essere che un principio teologico il quale è ben distinto dal mondo e dalla trascendenza del mondo rispetto alla coscienza. Così nasce anche la fenomenologia della religione come dottrina «nuova» sia rispetto alla storia delle religioni che alla teologia in senso tradizionale.

Ales Bello afferma che «non mi sembra che ci possano essere espliciti legami con la mistica, giudicata da Husserl con un certo sospetto, ma la presenza nell’anima di un Dio personale, che stabilisce con la creatura un legame d’amore e che le indica il finale al quale tendere, è indubbiamente centrale riguardo a ciò che Husserl sente e conosce della divinità».66

Per delineare l’unione mistica e la contemplazione nel Sufismo Angela Ales Bello fa riferimento ai documenti pubblicati da Giuseppe Scattolin che commenta i testi della mistica Sufi del Decimo e Undicesimo secolo, sottolineando così le affinità e le differenze che riguardano esperienze simili nelle tre religioni monoteistiche. L’Islam considera Dio in una maniera meno presente nella vita degli esseri umani. Anche se questo potrebbe essere vero in generale, non vale per il Sufismo, che in realtà è una variante della religione ufficiale e che presenta numerose testimonianze dell’esperienza mistica. Esaminando i testi della mistica Sufi ci accorgiamo che le caratteristiche della unione con il divino sono presenti nel Cristianesimo anche con vari significati. Al-Gunayed, che è vissuto nella seconda metà del Nono secolo identifica Sufismo con la morte mistica. Angela Ales Bello rintraccia negli scritti dei mistici musulmani le testimonianze che descrivono la struttura tri-dimensionale della persona umana. Il punto d’arrivo, infatti, con la divinità in tutte le esperienze mistiche, incluso quello islamico, è la unione nel senso ontologico e questa unione accade in una maniera completamente personale.

Angela Ales Bello, sulla linea di Gerardus van der Leeuw, fenomenologo delle religioni, afferma che il soggetto umano nella sua struttura essenziale è aperto verso il sacro e il divino ed è possibile stabilire profonde relazioni nelle situazioni straordinarie che possono essere realizzate soltanto dall’Altro, il quale viene verso di noi per incontrarci. Quest’incontro con l’Altro può essere anche diverso ma si possono individuare i tratti comuni e di quelle mistiche che hanno le stesse caratteristiche in tutti i mistici e proprio per questo forse posso azzardare nel dire che il mistico non ha «una religione» ma durante il suo cammino gli viene incontro Colui che ha creato sia lui stesso che ciò che lo circonda.

7.3. La mistica del Sufismo

Descrive Faouzi Skali67 «religione estremamente austera dal punto di vista dogmatico e quasi interamente assorbita nella dimensione giuridico-comportamentale, l’Islam ha sempre trovato nella mistica un elemento che ha contribuito a ridare all’interiorità il posto che le spetta in ogni esperienza religiosa. Per meglio adempiere a questa sua essenziale funzione, la letteratura Sufi si è espressa principalmente in versi, poiché la poesia è la forma che meglio si adatta a riprodurre la forza evocativa della parola, tanto cara ai popoli orientali e così connaturata all’indole delle religioni che il Corano definisce «del libro». Pertanto, non sarebbe possibile compiere uno studio approfondito della storia islamica senza considerare la funzione fondamentale svolta nel corso dei secoli dai Sufi con il loro cammino spirituale che anela a una educazione totale dell’uomo in relazione profonda con Dio, al fine di farlo giungere alla perfetta realizzazione di tutte le sue possibilità. Complessa e densa di contrasti e di vicende, di maestri le confraternite, la storia del Sufismo è anche la storia trasversale di tutto l’Islam».68 L’etimologia del termine ‘Sufismo’può essere sia suf, la lana, che evoca il saio indossato in segno di umiltà, sia la parola safa, la purezza, il distacco da tutti gli oggetti terreni poiché come dice il maestro Ghibli: «il Sufi è colui che non vuole, nei due mondi, niente altro che Dio».

Già alcuni compagni del Profeta Maometto erano stati esempi di devozione e pietà particolari, ma solo con la generazione successiva il fenomeno del Sufismo si è sviluppato forse anche in reazione ad alcuni stili di vita assunti durante il periodo delle conquiste. A questa epoca appartengono figure come Hasan al-Basr (642-728) e quella della mistica Rabi’a (713-801). Solo successivamente i principi e le pratiche del Sufismo vennero sviluppate con chiarezza. Le varie tappe dell’ascesi furono precisate dall’egiziano Dhu l-Nun (m. 859); una sorta di regola di vita fu elaborata dall’iracheno al-Muhasibi (m. 857); la via della povertà venne predicata dal principe iranico Ibn Adam (m. 776); l’annichilimento del proprio «io» venne praticato da al-Bastami (m. 874); l’unione con Dio mediante le fasi dell’annientamento (fana) di sé e la sua sussistenza (baqa) in lui si ebbe con al-Junayd (m. 910).

Il contrasto con le autorità religiose, come si è detto, produssero drammatici scontri di cui fece esperienza un discepolo di al-Junayd che venne condannato a morte. Seguì un periodo di crisi da cui la spiritualità islamica riemerse grazie al grande teologo al-Ghazzali che operò una sorta di mediazione tra mistica e «ortodossia». Un altro grande maestro Sufi fu l’andaluso Ibn’Arabi (1165-1240), autore di numerose opere e fautore del superamento di ogni molteplicità per approdare al monismo esistenziale; egli è noto anche come il «Maestro massimo» del Sufismo. Altra figura eminente è stato Jalal ud-Din al-Rumi (1207-1273), anche lui autore, fra l’altro, di un’opera poetica sterminata, formata da ventiseimila versi, intitolata Mathnawi, definita una sorta di «Corano in lingua persiana». Egli è il padre spirituale della confraternità della Mawlawiyya, i cui adepti sono noti con il nome di «derivisci danzanti». Il termine confraternita viene utilizzato per tradurre il termine arabo tariqa o via spirituale che definisce vari movimenti mistici raggruppati attorno alla figura di un maestro. Al maestro si deve obbedienza assoluta e ciò, insieme a vari riti di iniziazione, caratterizza il cammino dei Sufi.

Il fenomeno mistico è di enorme interesse in quanto non solo i mistici di tutte le religioni arrivano ad acclamare Dio quanto amore ma anche i mistici stessi dell’Islam nonostante siano cresciuti in diversi contesti culturali, religiosi e siano stati lontani nel tempo ma anche nelle aree geografiche alla fine arrivano ad affermare l’unicità di Dio chiamandolo il Sommo Bene e l’Amore.

Bulle Shah,69 un mistico musulmani d’origine Pakistana, all’inizio delle sue poesie scrive:

  1. Alif Allah abita nel mio cuore e grazie a Lui il mio cuore è del suo colore, ora non conosco niente di ciò che possa essere il non-Allah

  2. Se rifletto sul non-Allah non ci capisco niente — solo in Alif Allah mi sento pieno e non penso al non-Allah

  3. Alif mi ha dato questa coscienza che non conosco più la differenza tra ain e ghain — tra loro c’è solo la differenza di un punto, ciò vuol dire che tra Dio e il maestro c’è solo la differenza del corpo umano.

  4. Tutti i significati del Alif sono completi ed eterni che purificano il cuore.

Un’analisi diversa dell’esperienza religiosa straordinaria del Divino che si chiama mistica è più ampia del Sufismo che dà le basi per vivere una vita in ascesi e per tendere verso purificazione dell’anima umana. È da specificare che non tutti i Sufi sono mistici così come ogni buon cristiano, consacrato o meno, che vive con coerenza la propria religiosità, non può essere considerato mistico nonostante conosca bene gli insegnamenti cristiani e cerchi di viverli in pienezza. Così non tutti siamo san Giovanni della Croce o santa Teresa d’Avila.

Vorrei prendere spunto dal testo di Paola Abenante:70 «Il rapporto tra Sufismo e stato egiziano soffre e ha sempre sofferto di un’ambiguità di fondo proprio perché i musulmani riformisti egiziani, sulla scia del fondamentalismo promosso dai sauditi e dell’Orientalismo dell’accademia occidentale, hanno considerato e tuttora considerano il Sufismo delle confraternite come una forma di religiosità popolare, lontana dalla sapienza dei colti mistici del primo islam».71 E «dalla prospettiva del Sufismo, la ricerca dell’amore spirituale viene condotta attraverso l’uso dei senso: il raggiungimento del wagd, dell’estasi, è uno dei momento più alti del metodo sufi nella ricerca dell’amore. Tuttavia, così mi mettono in guardia i confratelli della tariqa B. che ho seguito, perché questa pratica di stimolazione fisica deve rimanere strettamente sotto il controllo di una guida spirituale, lo Shaykh, perché può facilmente degenerare, se i sensi vengono sollecitati perdendo di vista lo scopo spirituale».72

Con l’ascesi e la ricerca interiore, il Sufi cerca di aprirsi ad altri sensi perchè il cuore e lo spirito hanno i sensi. Con esercizi e tecniche, il canto e la danza che sono vietati nell’Islam tradizionalista, per stimolare l’estasi (wagd) il sufi tentando di entrare in contatto con la realtà Divina (hob Allah) che è il fine ultime di tutto il cammino spirituale compiuto finora dal Sufi.73

Vorrei concludere con un verso di poesia Sufi Urdu:

Se vuoi avere l’esperienza del dolore del cuore devi servire i Faqir in maniera umile, non troverai questo gioiello a casa dei re!74

La spiritualità Sufi, per tradizione, indica di seguire una guida spirituale come la via maestra per incontrare Iddio che abita nel cuore umano.

Queste mie ricerche sul Sufismo e sulla mistica islamica sono state stimolate dalla lettura del libro di Angela Ales Bello, che sollecita e descrive i fenomeni religiosi attraverso il metodo proposto da Husserl e applicato ad un campo specifico di indagine.


  1. Angela Ales Bello, Edmund Husserl. Pensare Dio - Credere Dio, Edizioni Messaggero, Padova 2005. ↩︎

  2. D. A. Conci, «Il problema filosofico della morte», in: F. Minazzi (a c. di), Filosofia, scienza e bioetica nel dibattito contemporaneo. Studi internazionali in onore di Evandro Agazzi, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2007, p. 1083. ↩︎

  3. Tra queste ricordiamo soltanto: «L’incarnazione nella prospettiva della hyletica fenomenologica», Archivio di Filosofia, 1999, Anno LXVII, N. 1-3, pp. 105-113; «Teologia filosofica e hyletica fenomenologica: intersoggettività e impersonalità», Archivio di Filosofia, 2001, Anno LXIX, N. 1-3, pp. 263-277; «Essere grezzo e hyletica fenomenologica: l’ereditá filosofica di «Il visibile e l’invisibile»», Memorandum, 2008, N. 14, pp. 62-78. ↩︎

  4. «Where the hyletic term does not indicate the material, understood in the traditional sense, but a new type of materiality already proposed by Husserl in the section 85 of Ideas I» (Angela Ales Bello, The Divine in Husserl and Other Explorations, Springer, Dordrecht 2009, p. 48; d’ora in avanti DH). ↩︎

  5. «The hyletic first involves […] the affective and impulsive sphere that is at the base of noetic evaluation.» (Ibid.). ↩︎

  6. «Through a genetic analysis Husserl begins to discuss the formation of sense (Sinn) in order to arrive at the most hidden grades of passivity.» (Ivi, p. 49). ↩︎

  7. «From the genetic perspective, which, on the contrary, makes evident the passive sphere, hyle already possess an intentional structure that allows it to present itself in a configurated way.» (Ivi, p. 50). ↩︎

  8. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 167. ↩︎

  9. «The reductive question works on the single operations directed to determine the sense of something such that it leads us back to the originary sources, to the matrices, to the archai.» (DH, p. 87). ↩︎

  10. «In this sense, one can justify the reductive work carried out by the phenomenologist when s/he excavates the inside of human consciousness to under stand the cultural manifestations that characterize it.» (Ivi, p. 86s). ↩︎

  11. «The reductive path, in fact, can be of an historical and sociological nature […] In this case, however, we do not follow the first Husserlian step, namely, the one relative to a radical beginning; he demands that we bracket our already-constituted knowledge. It is necessary, therefore, to excavate deeper in order to search for roots, a non-relative starting point that permits the analysis to be rigorous.» (Ivi, p. 90). ↩︎

  12. Cfr. A. Ales Bello - D. A. Conci , «Il tempo e l’originario. Un dibattito fenomenologico», Il Contributo, 1978, Anno II, N. 5-6, pp. 5-42. ↩︎

  13. Cfr. D. A. Conci, La conclusione della filosofia categoriale. Contributi ad una fenomenologia del metodo fenomenologico, Edizioni Abete, Roma 1967.↩︎

  14. Cfr. D. A. Conci, «Per una fenomenologia dell’originario», Il Contributo, 1978, Anno II, N. 2, pp. 3-12. ↩︎

  15. Cfr. D. A. Conci, «Alle origini della secolarizzazione. Una prospettiva fenomenologica», Atti del Convegno dell’Associazione Holos International, Corpo Spirituale e Terra Celeste. La rinascita dello spirito nella materia, Ed. Holos International, La Tipografica, Lugano 2004, pp. 56-66. ↩︎

  16. D. A. Conci, «Le ragioni degli altri. Idee per una metamorfosi antropologica», Il Contributo, 1979, Anno III, N. 2, p. 17. ↩︎

  17. D. A. Conci, «Introduzione ad una epistemologia non fondante», Epistemologia, 1982, Anno V, N. 1, p. 12. ↩︎

  18. D. A. Conci, «Introduzione. Metodologia dell’analisi fenomenologica di residui di culture subalterne agro-pastorali toscane», in V. Dini - L. Sonni, La Madonna del Parto, Editrice Ianua, Roma 1985, p. 10. ↩︎

  19. Cfr. D. A. Conci, «Per un trattato fenomenologico di antropologia culturale», in C. Ciancio et al. (a c. di), Pensiero metafisico e pensiero ermeneutico, Città nuova, Roma 2003, pp. 63-91. ↩︎

  20. «This brief phenomenological discussion is necessary to understand how the meaning of the sacred and/or the religious dimension can lead to the complexity of the lived experiences that express this dimension.» (DH, p. 86). ↩︎

  21. «Examining the interior structure, it appears that the dimension that we can define as sacral or religious manifest itself with such amplitude that it constitutes the background of all consciousness» (ivi, p. 87). ↩︎

  22. D. A. Conci, «Alle origini della secolarizzazione. Una prospettiva fenomenologica», cit., p. 58. ↩︎

  23. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1965, p. 101. ↩︎

  24. Ivi, pp. 50-51. ↩︎

  25. E. Husserl, La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Milano 1960, p. 182. ↩︎

  26. E. Husserl. Idee, cit., p. 128. ↩︎

  27. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, in Husserliana, vol. XV, ed. Iso Kern, Martinus Nijhoff, Den Haag 1973, p. 610. ↩︎

  28. A. Ales Bello, The Divine, cit., p. 50. ↩︎

  29. Cfr. ivi, p. 53. ↩︎

  30. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, in Husserliana, p. 172-175. ↩︎

  31. E. Stein, Essere finito e essere eterno, tr.it. di L. Vigone, pres. di A. Ales Bello, Città Nuova Editrice, Roma 1988, p. 98. ↩︎

  32. Ivi, p. 96. ↩︎

  33. Ivi, pp.96-97. ↩︎

  34. E. Husserl, La Crisi, cit., p. 382. ↩︎

  35. Ivi, p. 387. ↩︎

  36. Ivi, p. 383. ↩︎

  37. A. Ales Bello, Sul problema di Dio, Edizioni Studium, Roma 1985, p. 121. ↩︎

  38. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr. it., Einaudi, Torino 20022, vol. I, § 51 («Annotazione»), p. 127. ↩︎

  39. Angela Ales Bello, Edmund Husserl e Anselmo d’Aosta. La via soggettiva a Dio, in: L. Messinese - C. Göbel (edd.), Verità e responsabilità. Studi in onore di Aniceto Molinaro, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 2006, pp. 460-461. ↩︎

  40. Anselmo di Canterbury, Proslogion, I [«“Entra nella camera” del tuo spirito, escludi da essa tutto all’infuori di Dio e di ciò che ti possa giovare a cercarlo e, «chiusa la porta», cercalo»]. ↩︎

  41. Angela Ales Bello, Edmund Husserl e Anselmo d’Aosta. La via soggettiva a Dio, cit., p. 462. ↩︎

  42. Ivi, p. 468. Si nota che per Husserl «razionale», «evidente» e «originario» sono termini teoreticamente e fenomenologicamente equivalenti. ↩︎

  43. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., vol. I, § 58 («La trascendenza di Dio messa fuori circuito»), pp. 144-145. ↩︎

  44. Allieva di Husserl, partecipa al corso introduttivo alla fenomenologia tenuto da Edith Stein a Friburgo. Muore nel monastero di Santa Lioba/Friburgo-Günterstal dove aveva preso i voti perenni nel 1935 come benedettina; Husserl assistette a questa cerimonia. Suor Adelgundis restò legata amichevolmente per molti anni a lui e alla sua famiglia. ↩︎

  45. E. De Miribel, Edith Stein. Dall’Università al lager di Auschwitz, Edizioni Paoline, Milano, 1987, p 214. ↩︎

  46. E. De Miribel, Edith Stein. Dall’Università al lager di Auschwitz, op. cit., p. 216. ↩︎

  47. Idem, p. 217. ↩︎

  48. E. Stein, Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins, in Edith Steins Werke, Band II, Herder, Friburgo i.Br. 1951; tr. fr., L’être fini et l’être eternel. Essai d’une atteinte du sens de l’être, Nauwelaerts, Parigi 1972; tr. it. di Luciana Vigone con revisione e presentazione di A. Ales Bello, Essere finito e essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, ed. Città Nuova, Roma 1988. ↩︎

  49. Ivi, p. 78. ↩︎

  50. Esse riguardano i contenuti della vita dell’Io i quali si presentano all’analisi in tutta la loro fragilità: «I contenuti ricevono da esso [l’Io] la vita, ma di volta in volta solo per un attimo, poi di nuovo sprofondano. Essi rimangono essere, ma in quel modo di essere trasformato che è proprio del non più vivo e non come sfera di dominio illimitata». Ivi., p. 90. ↩︎

  51. Ivi. p. 91. ↩︎

  52. La Stein ne cita l’opera intitolata Die Zeit (Il tempo). ↩︎

  53. Del suo Sein und Zeit, la Stein dice che è l’opera che, nel bene e nel male, ha influenzato gran parte della filosofia a lei contemporanea. ↩︎

  54. Sicuramente non univoco neanche negli autori appena citati. ↩︎

  55. De Miribel E., Edith Stein. Dall’Università al lager di Auschwitz, op. cit., p. 216. ↩︎

  56. A. Lamacchia, Edith Stein. Filosofia e senso dell’essere, ed. Ecumenica, Bari 1989, p. 47. ↩︎

  57. Edith Stein, Essere finito e essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, op. cit., pp. 68-91. ↩︎

  58. Ibidem, pp. 99-351. ↩︎

  59. Ibidem, p. 96. ↩︎

  60. Ibidem, p. 74. ↩︎

  61. Angela Ales Bello, L’universo nella coscienza, Introduzione alla fenomenologia di Edmund Husserl, Edith Stein, Hedwig Conrad-Martius, Edizioni ETS, Pisa, 2003. ↩︎

  62. Husserl, Idee I, § 31. ↩︎

  63. Angela Ales Bello, L’universo nella coscienza, p. 23-24. ↩︎

  64. Angela Ales Bello, The Divine in Husserl and other explorations, p. 17. ↩︎

  65. Edmund Husserl, Idee II. ↩︎

  66. Ales Bello, Universo nella coscienza, p. 104. ↩︎

  67. Faouzi Skali, Gesù nella tradizione sufi, Paoline, Milano, 2007,. ↩︎

  68. Ibidem., p. 6. ↩︎

  69. Bulleh Shah, Kalam Bulleh Shah, Ministero dell’Informazione, cultura e affari della Giovantù, Izhar Sons Printers, Lahore, 2006. p. 20. ↩︎

  70. Paola Arenante, I sensi politici del Sufismo, in Il fattore religioso nel tempo del meticciato Rivista di scienze sociali della religione, Anno XXIII, Maggio-Agosto 2008, Firenze University Press, Firenze, 2008. p. 56-65. ↩︎

  71. Ibid., p. 56. ↩︎

  72. Ibid., p. 57. ↩︎

  73. Faccio riferimento ad uno studio molto interessante sull’iconografia Sufi di Jürgen Wasim Frembgen, The friends of God, Sufi saints in Islam, Popular poster art from Pakistan, (In cooperation with the Museum of Ethnology, Munich) Oxford University Press, Karachi, 2006. ↩︎

  74. Ibidem, p. 80, traduzione di Mobeen Shahid. ↩︎