Il fiore azzurro. Considerazioni sul rapporto tra filosofia e poesia in Heidegger, Valéry e Novalis

Nell’azzurro cristallo Sta pallido un uomo, la guancia appoggiata alle sue stelle; O china il capo nel sonno purpureo. Ma il volo nero degli uccelli sfiora sempre Chi guarda, la santità di fiori azzurri, la quiete vicina pensa cose dimenticate, angeli spenti.1

1. Premessa

Per lo meno tre atteggiamenti fondamentali sono possibili, al fine di approssimarsi alla essenza della poesia — in particolare — e dell’arte — in generale:

  1. si può intendere l’opera d’arte come strutturalmente informata dallo spirito del tempo [Zeitgeist] in cui è sorta, come in qualche modo da esso determinata, sua manifestazione sensibile. In tale prospettiva, l’accento è chiaramente posto sul genio collettivo come elemento ermeneutico centrale;
  2. potremmo altresì interpretare l’opera d’arte a partire dall’intentio dell’artista che la ha prodotta, al fine di evincere ciò che in essa e tramite essa egli ha voluto esprimere. L’opera è in tal caso considerata come un mezzo per comunicare un certo messaggio; di guisa che ad agire è qui il genio individuale;
  3. il terzo approccio, ritenuto peraltro eterodosso dalla maggior parte dei critici, giacché trascende le due dimensioni testé illustrate, attribuisce all’opera d’arte un valore non già indipendente sibbene ulteriore rispetto a quello riconducibile al contesto d’origine e alla volontà dell’autore.

I tre livelli (che potremmo chiamare storico, psicologico e metafisico) non sono autonomi e separati, anzi vicendevolmente si reclamano; tuttavia essi non sono punto equivalenti: tra loro, infatti, è presente una precisa gerarchia, la quale contempla il terzo approccio ermeneutico come quello filosoficamente più fecondo.

Ad esempio, è evidente che il poema dantesco fornisce elementi preziosi per ricostruire lo spirito della cultura medievale; è parimenti ovvio e attestato che ogni dettaglio è stato abilmente concretato dal poeta, detiene nella di lui mente un preciso significato ed è collocato in una posizione che non potrebbe essere diversa nella formidabile e perfetta architettura complessiva: per tutti gli elementi in gioco sarebbe possibile risalire all’esatto valore storico e simbolico che Dante desiderava conferire loro (su questo, Charles Singleton e Erich Auerbach hanno scritto pagine memorabili e da cui certo non si può prescindere). Ciò nondimeno, commetteremmo una leggerezza qualora ci arrestassimo a quest’ordine di considerazioni. Il centro vitale della Commedia, a mio avviso, è da ricercarsi — contrariamente a quanto la critica ha sempre sostenuto — nei numerosi luoghi, soprattutto della terza Cantica, in cui il poeta confessa la propria inadeguatezza rispetto alla comunicazione dell’intuizione che gli è stata elargita. La grandezza del poema, insomma, risiede non solo e non tanto nella sua pur mirabile monumentalità, ma nella sua natura di esperienza mistica poeticamente narrata.2

Ancora: quantunque sia indubbio che con i tre solenni rintocchi che aprono il suo IX Sonetto (né — più — mai, sorta di Schicksalmotiv, come all’inizio della Quinta Sinfonia di Beethoven, della Quarta di Chaikovskij e anche della Seconda di Mahler) Foscolo volesse introdurre ad una tragische Weltanschauung ohne Erlösung, sviluppata compiutamente in ogni riga dei suoi scritti, il senso ultimo della poesia (di questa come di ogni poesia autentica) pare essere rinvenibile solo altrove.

Quando Dilthey si impegna nella ricostruzione della poetica dei massimi autori tedeschi della seconda metà del XVIII secolo (Lessing, Goethe, Novalis, Hölderlin), fonda le sue ricognizioni sui primi due dei tre aspetti che ho rintracciato, specialmente sul secondo: la poesia [Dichtung] è manifestazione dell’esperienza vissuta [Erlebnis] dell’autore.3

Ciò che intendo sostenere è semplice: esiste un significato dell’arte irriducibile alle condizioni storiche durante le quali essa è stata prodotta e alle intenzioni dell’artista che la ha concepita, nonché all’oggetto che è stato causa occasionale della sua origine.4 Se un’opera si presenta come una descrizione di qualsivoglia oggetto, non per questo dobbiamo necessariamente concludere che essa si risolva in una mera rappresentazione; ciò neppure quando l’artista programmaticamente intende la propria opera come esaurientesi in una Darstellung di natura realistica. Il suprematismo di Maleviè e l’astrattismo in genere mostrano come l’arte sia quintessenzialmente decisa da ogni ingenua «obiettivita».5

Aderisce completamente a una simile prospettiva Giuseppe Ungaretti, quando, in Ragioni d’una poesia, dice: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è una bestemmia».6

Che l’artista lo voglia o meno, terminus a quo e terminus ad quem del suo lavoro convergono e convengono in un unico punto: il Sacro [das Heilige]: «C’est une erreur contraire à la nature de la poésie, et qui lui serait même mortelle, que de prétendre qu’à tout poème correspond un sens véritable, unique, et conforme ou identique à quelque pensée de l’auteur».7

Thomas Mann ha compreso molto bene come in arte ci siano dimensioni che sfuggono al controllo dell’autore. Nella celebre lezione di Princeton sullo Zauberberg, egli afferma infatti:

Accetto volentieri gli aiuti della critica altrui, perché è errore credere che l’autore sia colui che meglio conosce e può commentare la propria opera. Lo è forse fintanto che vi indugia e vi sta lavorando. Ma un’opera compiuta e lasciata alle spalle gli diventa sempre più estranea, distaccata, e col tempo gli altri ne sono informati e vi si raccapezzano meglio di lui, sicché possono rammentargli molte cose che egli ha dimenticato o forse non ha neanche saputo mai con chiarezza. In genere, si ha bisogno di essere ricordati a se stessi.8

I primi due momenti ermeneutici (storico e psicologico) giustificano e implicano un lavoro di parafrasi onde acquistare una interpretazione univoca; il terzo (metafisico) rifiuta o supera la parafrasi,9 poiché riconosce il carattere originariamente evocativo e sorgivo del linguaggio poetico, e, inoltre, si fonda sul canone ermeneutico principale: quello della necessaria coralità delle interpretazioni — in conseguenza della inesauribilità semantica della poesia — e della convergenza dei veri in un unico punto inattingibile e inattuale che è la loro origine: «ogni strada nuova attraversa paesi nuovi e ognuna, alla fine, riporta a queste dimore, a questa patria sacra».10

Come dice Valéry — e lo vedremo più approfonditamente in seguito:

Quanto più un poema è conforme alla Poesia, tanto meno può essere pensato in prosa senza che venga distrutto. Riassumere o volgere in prosa un poema, significa ignorare semplicemente l’essenza d’un’arte. La necessità poetica è inseparabile dalla forma sensibile.11

Porsi in ascolto del linguaggio poetico nella sua originarietà allusiva alla fonte: è ciò che Heidegger chiama Erörterung.

2. Heidegger e l’irriducibile inattualità del linguaggio poetico

Ci sarà sempre qualcosa che la parola non può rendere compiutamente, e che non è il superfluo, ma l’essenziale.12

La mia opera consta di due parti: di ciò che qui è scritto, e di tutto ciò che io non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante.13

Una cosa è certa: Heidegger non avrebbe mai definito metafisico il proprio approccio ermeneutico alla poesia (e all’arte). Ma qui non si tratta di sottoscrivere in toto le sue tesi, men che meno quelle relative alla metafisica occidentale. Si vuole solamente recuperare il pondus, lo spirito, per così dire, che sostanzia le sue analisi al fine di ritenerne gli spunti più significativi.

Erörtern significa rapportarsi al luogo [Ort] in cui dimora l’essenza del linguaggio. Per raggiungere tale regione, ci si deve abbandonare al linguaggio medesimo, senza volerlo costringere entro le nostre anguste categorie. Esso si sottrae a una mera trattazione logico-filologico-scientifica.L’essenza del linguaggio perdura in ciò che è stato detto, perché nel detto il linguaggio si è già realizzato. Per questa ragione, nel primo dei saggi che compongono Unterwegs zur Sprache (1959), Heidegger si dispone al commento di una poesia di Georg Trakl (Una sera d’inverno). Fra le altre, troviamo questa frase fondamentale: «Che il poeta sia lui, non ha importanza: qui, come in ogni altro caso di poesia riuscita. La grandezza sta appunto in questo: che può prescindere da persona e nome del poeta».14

Una analisi particolareggiata della poesia non farebbe, a giudizio di Heidegger, che perpetuare una fuorviante precomprensione imperante da due millenni, ossia che

il linguaggio è l’espressione, attuata dall’uomo, di moti interiori dell’animo e della visione del mondo che li regge […] Il linguaggio [invece], nella sua essenza, non è né espressione né attività dell’uomo. Il linguaggio parla. Noi ricerchiamo ora il parlare del linguaggio nella poesia. Ciò che si cerca è, pertanto, racchiuso nella poeticità della parola.15

Il linguaggio nomina, non nel senso che attribuisca ad ogni cosa un nome, ma nel senso che chiama, e-voca. Chiamare è chiamare nella vicinanza; pertanto, ciò che è chiamato, qua talis, sussiste come l’ancora assente. Tale absens, che la poeticità del linguaggio evoca, è das Geviert, la quadratura hölderliniana di cielo e terra, uomini e dei. Il Geviert è adunanza di una doppia polarità, la quale, per sua natura, indica la fonte originaria da cui essa medesima scaturisce. La poeticità del linguaggio consiste in questo: che esso, evocando il Geviert, allude al principio inattuale e inattingibile, sorgente da cui il linguaggio proviene e che nel linguaggio si annuncia come evento [Ereignis]. Il linguaggio chiama nella prossimità un assente irriducibilmente remoto in quanto istituisce una dif-ferenza [Unter-schied] . Il linguaggio poetico, fondamentalmente, nomina la differenza. Non è linguaggio che determina e con-cepisce, ma parola che apre e rinvia alla propria condizione di possibilità.

Heidegger chiama il Geviert anche die Welt. Il mondo è ciò che consente la cosa, ciò in cui la cosa è cosa, così come il principio è ciò che consente il mondo. Il rapporto fra essi è segnato dalla differenza.16 Il linguaggio, evocando la differenza, nomina il rapporto di cosa, mondo e principio. L’intimità di tale rapporto, che nel linguaggio si annuncia e viene alla presenza, li acquieta nella semplicità della loro essenza.

La totalità dei componimenti di un poeta non esaurisce il senso del suo poetare. Ogni poetare autentico proviene da un unico poema originario che la totalità delle poesie addita senza risolverlo in essa. Il pensiero deve entrare in dialogo con la poesia per riattingere l’essenza pura del linguaggio; la quale consiste in ciò, che il linguaggio è l’Aperto in cui l’essere si eventua. L’essere, giacché possibilizza ogni definizione, non può venire compiutamente semantizzato; possiamo unicamente disporci al semplice annuncio del suo e-venire e del suo a venire: «La Erörterung che il pensiero viene compiendo può tutt’al più fare dell’ascolto un problema e renderlo, nel caso migliore, più pensoso».17

Ciò che i quattro del Geviert indicano e che nella Lichtung aperta dal linguaggio poetico si annuncia lo chiamiamo das Heilige; l’ultimo Dio ci salverà in quanto risveglierà la nostalgia [Heimweh] ormai obliata, in questo tempo di inedia [in diese dürftiger Zeit], per il Sacro:

Il linguaggio della poesia di Trakl attinge la sua parola dal trapasso. Il sentiero di questo conduce dal tramonto, che è rovina, al tramonto che è passaggio nell’azzurro crepuscolare del Sacro. Il linguaggio attinge la sua parola dal viaggio che porta oltre e attraverso il lago notturno della notte spirituale. Tale linguaggio canta il canto del distacco che è ritorno dalla tarda ora del disfacimento e rientro nel mattino di quell’inizio più quieto che ancora non è stato. In questo linguaggio parla das Unterwegs, attraverso cui si fa percepibile la musica e la luce degli anni spirituali dello straniero dipartito.18

Ventitré anni prima della pubblicazione di Unterwegs zur Sprache, Heidegger tenne un famoso ciclo di tre conferenze che andò poi a costituire il primo degli Holzwege col titolo Der Ursprung des Kunstwerkes (1936). Ur-sprung è il salto originario, ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è; allora il problema dell’origine coincide con il problema dell’essenza (dacché l’essenza [das Wesen] è ciò che qualcosa è essendo ciò che è — il positivo che risulta, secondo Hegel, dalla negazione determinata come secondo fondamentale momento del processo dialettico).

Ora, è l’opera d’arte che a noi si presenta e che esibisce l’arte nella sua essenza. Per coglier l’essenza dell’arte dobbiamo volgerci all’opera nel suo immediato apparire. Il dato più evidente è che l’opera è qualcosa, ossia non è un puro ni-ente (N-ichts). Che significa essere qualcosa? Che è la «cosalità» di una cosa? E, soprattutto, in che differisce l’esser-cosa di una cosa dall’esser-cosa di un’opera?

La cosa è stata intesa dalla filosofia via via come hypokèimenon (ricettacolo di accidenti), come àistheton (oggetto percepito dai sensi) e come synolon di hyle e morphè. Un oggetto naturale, ad esempio un blocco di granito, è un sinolo la cui forma è determinata dalla disposizione delle particelle che ne costituiscono la materia. Anche una brocca, una scure, una scarpa sono dotate di materia e forma; solo che, in questi casi, è la forma che si impone sulla materia e ne configura l’ordinamento. La materia è scelta sulla base di ciò cui l’oggetto dovrà servire: origine e fine di questi oggetti risiedono nella usabilità.

Il mezzo ha un nome adeguato alla sua natura: esso è un che di intermedio tra cosa e opera d’arte. Riposa in sé come la cosa ed è frutto di un’attività umana come l’opera d’arte, ma non possiede né la caratteristica dell’esser-sorta da sé propria dell’una né l’autosufficienza del suo esser-presente propria dell’altra. Le scarpe di un contadino sono un mezzo. L’esser-mezzo del mezzo consiste nella sua usabilità. Le scarpe sono mezzo nella misura in cui vengono calzate e utilizzate nel campo: sono tanto più mezzo quanto meno si pon mente al loro esser-mezzo, quanto più la coscienza del loro esser-mezzo si dilegua in chi le usa. Nell’usare il mezzo, la sua usabilità è dimenticata come costituente la sua essenza. Noi possiamo accedere all’esser-mezzo del mezzo solo quando il mezzo è sottratto alla sua destinazione, quando l’usabilità che lo fa essere mezzo viene meno. Nell’uso, l’esser-mezzo del mezzo si risolve nella usabilità; tolto l’uso concreto, l’usabilità attuale, emerge il mezzo nel suo puro esser-mezzo.

Un siffatto emergere avviene nell’opera d’arte. Quando Van Gogh disegna le scarpe da contadina, le sottrae al loro concreto impiego e le porta a stare nella stabilità del loro apparire. Nell’opera d’arte, l’ente si presenta nel suo non-nascondimento [Un-verborgenheit]:

Nell’opera è in opera l’evento della verità. Nell’opera d’arte la verità dell’ente si è posta in opera […] Nell’opera è in opera l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità […] L’opera d’arte apre, a suo modo, l’essere dell’ente. Nell’opera ha luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell’ente. Nell’arte è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera della verità.19

Quest’idea apocalittica, rivelativa dell’arte corrisponde al senso dello spirituale nell’arte, una conquista teorica tutta otto-novecentesca. A partire da Cézanne, la luce non illumina più gli oggetti manifestandoli nella loro semplice presenza (come accade nel Rinascimento e fino a Caravaggio), ma ne rivela la più intima essenza. La ricerca proustiana e joyciana delle claritates, che svelino la quidditas degli oggetti, è tutta su questa linea: gli oggetti sono — o possono essere a certe condizioni — epifanie dell’origine.

Ciò che distingue il mezzo dall’opera è il fatto che mentre il primo subordina a sé la materia in vista dello scopo cui deve servire, nella seconda la materia viene alla luce nella maniera più alta. Solo nel tempio la pietra dispiega le sue potenzialità essenziali; il pittore non usa la materia colorata, ma fa sì che essa si esprima, la illumina; il poeta non usa la parola come coloro i quali chiacchierano per abitudine, ma la conduce a divenire e a rimanere veramente parola.

L’essenza della verità, così come essa si dà nell’opera d’arte, è caratterizzata da un continuo sottrarsi, da un pertinace diniego. Il sottrarsi non è nulla di negativo, ma, anzi, il principio grazie a cui la Lichtung può aprirsi in mezzo all’ente. La verità non è mai un nascondimento definitivamente scovato dal suo riparo, compiutamente dis-velato. La verità si dà solo come dialettica di Verborgenheit e Unverborgenheit; l’opera d’arte s-vela e ri-vela la verità che in essa è posta in opera: «Le considerazioni che precedono concernono l’enigma dell’arte, quell’enigma che l’arte stessa è. Esse sono ben lontane dalla pretesa di sciogliere questo enigma. Ciò che conta è vederlo».20 Ogni tentativo estetico non può che essere misterioso, poiché l’arte è voce di un mistero, custodito in quanto tale dalla Terra, che impedisce al mondo aperto ed esposto dall’arte di perdere la sua «costante inoggettività» e di essere fra-inteso come la totalità della verità disvelata: «Esponendo un mondo e facendo esser-qui la terra, l’opera è l’attuazione di quella lotta in cui è conquistato il non-essere-nascosto dell’ente nel suo insieme: la verità».21

Nell’arte, la verità si annuncia in maniera sublime; del sublime fa parte la duplicità, la lotta, la dialettica: «Il limite estremo del sublime […] si trova la dove due mondi diversi e congiunti si separano a un tratto, e un’illuminazione fulminea ci consente di intravederli nello stesso momento, con un unico sguardo».22

Ogni nostro percorso verso la verità rimane pur sempre un Holzweg che indica il Centro del Bosco, frammento di una verità non raggiungibile che per intuizione ed allusione, sillaba dell’Unico Lògos che conferisce senso a tutti i discorsi. La verità, come dialettica fra nascondimento e illuminazione, e-viene in quanto poetata, si storicizza ponendosi in opera: «la poesia [Poesie] è soltanto un modo della progettazione illuminante della verità, cioè del poetare [Dichten] nel senso più ampio».23

Tuttavia, la poesia non è solo un’arte fra le altre: il linguaggio istituisce l’Aperto in cui l’ente in quanto ente è portato all’apparizione. Il linguaggio nominando l’ente, lo fa accedere alla parola e all’apparizione per la prima volta.24 Il linguaggio è essenzialmente Poesia, in quanto luogo dell’evento dell’essere dell’ente nel suo aprimento. Esso custodisce l’essenza originaria della Poesia; pertanto in esso la poesia si realizza: «l’essenza dell’arte è la Poesia. Ma l’essenza della Poesia è l’instaurazione della verità».25

L’origine dell’opera d’arte è l’arte, nella misura in cui l’arte è essenzialmente origine: l’arte fa scaturire la verità, la pone in opera con un salto [Sprung] che muove dalla sua provenienza essenziale: questo risuona nella parola Ur-sprung.

L’essenza dell’arte è detta dall’endiadi goethiana Dichtung und Warheit: l’arte è Poesia, la Poesia è luogo eminente dell’avvento della verità.

3. Valéry: ispirazione e costruzione

Quel che non si sente, non s’afferra. Ed egualmente quel che non sgorga con impeto dall’anima, o che non trascina gli spiriti degli uditori con simpatia profonda di natura. Ma sicuro: statevene pure a sedere! Impastate, rimpolpettate insieme gli avanzi dei desinari altrui; suscitate pure qualche miserabile fiammella dal vostro mucchiettino di cenere! Sarete la meraviglia delle scimmie e dei ragazzi, dato che ci troviate gusto. Ma un cuore al vostro cuore non avvicinerete mai, se quel che dite non viene dal cuore!26

Siamo ora in procinto di compiere un ulteriore passo in direzione della comprensione dell’essenza della poesia e del suo rapporto con la filosofia. Per ciò fare, ci affideremo a uno dei grandi poeti del Novecento, Paul Valéry, seguendo l’incedere leggiadro quanto inesorabile del suo saggio su Poesia e pensiero astratto.27 La positio di questa fondamentale quaestio avviene spesso nella forma della op-positio: Poesia e Pensiero, come dire Caldo e Freddo, Secco e Umido, Bene e Male.

Ogni parola, perfettamente perspicua allorché si presenti in un discorso ordinario, diviene «magicamente e stranamente resistente e ingombrante» qualora venga abs-tracta dalla circolazione, dalla sua dimora in-mezzo al linguaggio. Così, indifesa, la parola può essere soggetta ai più diversi usi e abusi, finendo per allontanarsi irrimediabilmente dalla sua origine. Si deve perciò fare attenzione quando ci si presentano innanzi questi due massi erratici (poesia e pensiero astratto).

Che cosa succede nell’anima di un lirico quando viene sorpreso dall’ispirazione? L’ispirazione, lo stato poetico, erompe quando la vita momentaneamente esce dal suo ciclo consueto e ne inaugura un altro, separato e insolito: la vita, per qualche tempo, si affaccia a sé con meraviglia e stupore, per poi ritornare al regime abituale dell’esistenza, del pensiero e del loro rapporto. Questa ec-stasis temporanea, questa fuoriuscita dalla normalità, si lascia dietro qualcosa, provoca una «capacità poetica». Questo salto è indispensabile affinché si dia poesia: non c’è un poeta solo poeta, né un logico solo logico, ma logici e poeti a un tempo, perché in grado di vivere molte vite entro una medesima vita.

La Poesia è un dire, appartiene al linguaggio; taluni accostamenti verbali hanno la facoltà di suscitare un’emozione poetica. Ciascuno degli oggetti circostanti resta lo stesso eppure è diverso, o stabilisce un diverso rapporto con i modi della nostra sensibilità. Le cose, che punteggiano il mondo abituale in (non) rapporto monadico l’una con l’altra prendono, a un tratto a corrispondersi e a richiamarsi in un movimento armonico e musicale: «l’universo poetico così definito presenta notevoli analogie con l’universo del sogno» (!). Ma siamo solo all’inizio: lo stato poetico, di per sé, non è sufficiente a fare un poeta, così come sognare un oggetto non basta a garantirne il possesso.

Il poeta non mira a generare entro sé lo stato poetico: sa bene che l’ispirazione è un evento eccezionale, inatteso, indisponibile; non è il poeta che la (pre) dispone, piuttosto egli è da essa disposto. Come dice Heidegger: «Non è stato il poeta a escogitarsi la peculiarità della sua poesia. Gli è stata assegnata. Egli si conforma alla destinazione e segue la vocazione».28 Quello che il poeta fa è tentare di suscitare lo stato poetico negli altri; ciò che corrisponde esattamente all’idea kandinskiana dell’arte:

In generale, il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. È chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire: principio della necessità interiore.^[29]

Il poeta si distingue per questo: egli fa del suo lettore un «ispirato». L’ispirazione poetica procura un ritmo inatteso che afferra e si impone imperiosamente come alcunché di estraneo. Ritmi diversi si sovrappongono e intrattengono l’un l’altro rapporti cromatici e musicali. Si possono raccontare e manipolare le idee; non così per la policroma e polifonica varietà dei ritmi inattesi.

Questa esperienza è il fondamento della poesia, ma non è ancora poesia; è, per dir così, condizione necessaria, non sufficiente. Arte è tèchne, consiste nel trovare strumenti opportuni per comunicare quella esperienza e farla rivivere ad altri, secondo l’idea per cui l’arte è anche «mezzo in funzione di un effetto determinato».29 L’arte si compone di due momenti: quello dell’ispirazione e quello dell’esercizio della tecnica artistica che la restituisce. Il secondo, da solo, non genera che vuote forme; il primo, da solo non è che il magma di un episodio eminentemente ed insuperabilmente privato. L’artista senza ispirazione è cieco e sordo, senza tecnica è muto. Ciò che consente a un artista di stagliarsi in maniera originale sul grande sfondo dell’arte è lo stile, e lo stile è precisamente l’insieme delle tecniche costruttive di cui l’artista si giova per esporre la propria ispirazione.

Il linguaggio — e qui siamo davvero al punto centrale — può ingenerare due tipi di effetto. Il primo è quello che mira a realizzare tutte le condizioni che annullano ed esauriscono il linguaggio medesimo. Se do una istruzione e questa viene correttamente eseguita, le parole che la hanno causata scompaiono, del tutto trasformate e riversate nel loro effetto pratico concreto. L’esecuzione di un algoritmo è la sua distruzione. Se quando parlo vengo capito, le mie parole subiscono nella mente di chi ascolta una metamorfosi in immagini, che possono in seguito essere nuovamente narrate con un linguaggio totalmente altro da quello che le ha suscitate. Un discorso che ambisca ad essere compreso è perfetto nel momento in cui ogni parola che lo forma è divenuta altro. Nella veste pratica del linguaggio, le sue forme non sopravvivono alla comprensione, ma vi si dissolvono.

Il secondo effetto del linguaggio si ha quando la forma, nonché esaurirsi, «acquista un’importanza tale da imporsi all’attenzione e da farsi, in qualche modo, rispettare». In musica, sussiste una differenza sostanziale tra rumore e suono: il rumore presenta alla nostra mente un avvenimento isolato — un cane, una porta, un’auto; il suono, invece, segna l’inizio di un mondo: evoca l’universo musicale nella sua totalità. Il poeta è in svantaggio rispetto al musicista, poiché il suo unico strumento è il linguaggio. La parola non è che un provvisorio connubio di suono e senso. Un discorso straordinariamente sensato e logico può essere affatto privo di ritmo. Reciprocamente, una ridda assolutamente assurda di parole può essere dotata di un ritmo superbo.30

Il poeta è come un bambino il quale, dopo avere imparato a camminare, scopre che le proprie membra possono organizzarsi anche per dar vita a quella forma di movimento che è la danza. La marcia è alcunché di monotono e invariabile; la Danza, invece, serba in sé infinite possibilità di creazioni, variazioni e figure. Il poeta scopre a poco a poco che il linguaggio non si dà nella sua mera declinazione pratica.

Il linguaggio pratico (o della prosa) è intenzionato verso un preciso scopo; alla stregua di una marcia, esso vi si dirige in modo rettilineo e senza deflessioni di sorta. Il linguaggio poetico, invece, è un insieme di atti che hanno il loro fine in sé. La poesia non è nulla come una marcia che proceda inarrestabile verso una determinata destinazione, ma è come una danza che non va in luogo veruno. La danza si serve pur delle membra, come la marcia, ma con un fine e un esito diversi. La poesia si serve delle parole, ma conferisce loro una funzione e un valore altri da quelli che vengono loro comunemente assegnati dalla prosa. Poesia e prosa si differenziano non già e non tanto in forza del materiale e degli strumenti di partenza di cui dispongono, che sono in fondo i medesimi, quanto in virtù delle associazioni che creano e istituiscono tra essi.

Quando l’uomo marcia, annulla l’atto nella sua totalità con il raggiungere lo scopo che perseguiva: l’effetto fagocita la causa, il fine assorbe il mezzo; dell’atto non resta che il risultato. Il linguaggio pratico non ha altro scopo che di annullarsi, trasformandosi in comprensione ed esecuzione. Dal proprio perire ottiene testimonianza della sua efficacia. Il discorso è totalmente sostituito dal significato, il fine di questo linguaggio è la fine: esso sorge come già destinato alla morte. Sua perfezione è l’autodistruzione: consummatun est.

La poesia, come l’araba fenice, perennemente rinasce dalle proprie ceneri, e viene ogni volta reintegrata nella sua forma danzante. Il suo andamento è circolare, come La danza di Matisse (1909-’10), di contro alla rectitudo della prosa. Giammai si esaurisce; sempre torna a danzare: resurrexit. Con tutto ciò, non si può ipotizzare una decisione radicale tra poesia e filosofia:

Ogni vero poeta sa condurre con rigore un ragionamento ed elaborare pensieri astratti […] La filosofia più autentica non risiede negli oggetti della nostra speculazione, quanto invece nell’atto medesimo del pensiero e nella forma della sua attività.

Nondimeno, la poesia si colloca a un livello più alto, in quanto dice l’ispirazione originaria che la ha causata con un linguaggio parimenti originario.

4. Novalis: sogno, poesia, essenza dell’arte

Nella terra buia riposa il santo straniero. Un dio gli colse il lamento dalla bocca soave Quando cadde nel fiorire degli anni. Fiore azzurro Vive ancora il suo canto nella casa notturna dei dolori.31

Novalis nasce come filo-sofo: ama il sapere in maniera quasi morbosa: «Non vi è gioia più grande che quella di comprendere tutto, di trovarsi dovunque come a casa propria, d’intendersi d’ogni cosa, di cavarsi d’impiccio dovunque sia» (13) .32 Egli cerca il libro ideale («Il mio primo libro deve diventare una Bibbia scientifica, un modello e germe reale e ideale di tutti i libri», 10), ossia quel libro che Borges,33 Calvino34 e altri35 ritengono naturaliter introvabile.36 Non è affatto un puro caso che il dire di Novalis sia sempre frammentario; non è legato al mero accidente della sua morte prematura il fatto che quasi tutte le sue opere siano incompiute. Solo le due brevi raccolte poetiche più celebri (Hymnen an die Nacht e Geistlische Lieder) sono, in qualche modo, finite. Ma la poesia è quintessenzialmente non-finita, la parola poetica è in sé frammentaria, anche quando assume una forma de-finita e determinata.37

La verità è che l’opera novalisiana è strutturalmente incompibile. Novalis va alla ricerca di un metodo enciclopedico (5 sgg, 352 [!], 356) che consenta di radunare e sussumere tutto il sapere, ma il suo impegno viene sistematicamente frustrato. È davvero così?

Anche Hegel cerca l’enciclopedia; e non deve certo alla lunghezza della sua vita rispetto a quella di Novalis (nasce due anni prima e gli sopravvive di trenta) il fatto di averla, oltre che cercata, anche trovata. Per Hegel, il sapere filosofico o è enciclopedico o non è. Egli ostracizza il tema della finitezza, che aveva informato tutta la critica kantiana (limitatezza sul piano teoretico, amoralità su quello pratico)^[39]: il fatto stesso che la ragione veda il limite testimonia la sua capacità di tematizzarlo e, riconoscendolo, superarlo. La filosofia è la prospettiva divina: o è vera del tutto o non lo è affatto. Non c’è una verità parziale; questo binomio è logicamente contraddittorio: il vero è l’intiero. La comprensione che la filosofia ha come proprio tèlos è totale e totalizzante: la filosofia si qualifica come sapere assoluto. Come si potrebbe ravvisare il limite senza essersi già posti in una dimensione ulteriore rispetto al limite medesimo? L’assolutezza è il presupposto da cui la filosofia sorge e che richiede di essere esplicitato. Il lungo, faticoso e doloroso cammino della Fenomenologia dello Spirito non è altro che l’esperienza del raggiungimento dell’autocoscienza, ossia della coscienza della assolutezza del proprio sapere, e — il che è lo stesso — del sapere tout court; è il duro cimento del soggetto che via via sottrae autonomia all’oggetto, erodendo la sua realtà in quanto estranea: al termine del suo percorso, il sistema filosofico è completo, privo di residui non tematizzati, assoluto. La filosofia è un colosso onnivoro e onnicomprensivo, è il Tutto. Enciclopedia, per Hegel, non significa altro che questo: il sapere è circolare, chiuso su se stesso, autoreferenziale. Ogni punto è un inizio, non c’è un fondamento. La filosofia sorge da sé e su di sé finisce; il suo centro generatore è interno, immanente. La filosofia è rigorosamente coerente perché rispecchia un mondo coerente e governato dalla Ragione. Quando, infine, la Ragione è compresa nella sua astuzia, allora essa è compresa tout court. Al limite, il Lògos Assoluto si risolve nelle determinazioni del lògos umano (scil.: filosofico).

È vero che, nelle intenzioni, il sistema hegeliano dovrebbe rendere conto di una realtà diveniente ed essere, ipso facto, altrettanto mobile e dinamico. Ma il divenire, come suprema legge dell’essere,38 finisce per tradursi in una stabilità radicale. Se il divenire, così come si configura nella Wissenschaftlehre, non è il passare dell’essere nel nulla e viceversa, ma il reciproco esser-già passati l’uno nell’altro, ne viene che il movimento, a causa della sua estrema rapidità, si tramuta in quiete assoluta, la stàsis si pietrifica in stasi; la lotta, esacerbata nel suo travaglio, diviene pace, una pace che blocca ogni possibile sviluppo ulteriore; la fluidità dei concetti, di cui parla Bloch,39 si congela. Il sistema dinamico dei propositi iniziali diventa un sistema statico, rigido e chiuso, già deciso ab origine, quantunque non ancora compiutamente saputo dal soggetto.

Nulla di tutto questo in Novalis. La sua enciclopedia è per vocazione e per struttura un sistema aperto; il suo stile frammentario non è uno spiacevole inconveniente, ma l’essenza intima del suo dire poetico:

I frammenti sono schegge di un Tutto (mancato) […] [essi] non sono in grado di rappresentare questo tutto. E rappresentano indirettamente questa assenza — come l’Irrappresentabile — attraverso la reciproca — ironica — negazione, correggendo in questo modo esteticamente la cattiva particolarità che li rende assoluti mancati […] Novalis si muove sul sottile spartiacque fra il parlare intenzionale e la visione dell’impossibilità di cogliere, attraverso di esso, ciò che propriamente ritiene degno di essere detto. Il Monolog risolve questo paradosso — esprimere, nonostante tutto, l’inesprimibile — nel momento in cui si volge alla ricchezza semanticamente indominabile della poesia. Solo un messaggio che non corra il rischio di essere esaurito da alcuna interpretazione pensabile potrebbe offrirsi come allegoria dell’Assoluto.40

Non si deve prendere troppo alla lettera Novalis, allorché dice di voler costruire una sintesi completa di tutto il sapere. I suoi frammenti sono come quelli postumi di Nietzsche: si negano l’un l’altro, e il loro senso più alto sta proprio in questa contradditorietà: «Creazione di frammenti mutilati a dimostrazione che il fondo di tutte le opinioni efficaci e di tutti i pensieri efficaci del mondo quotidiano è costituito da frammenti» (269).

Neppure a Novalis riuscì di rinvenire quel centro la cui indefessa e disperata ricerca afflisse Musil per tutta la vita41: «Sono troppo alla superficie; non ho una vita quieta, interiore — un nocciolo — che agisca dal di dentro, da un centro, ma alla superficie, a zig-zag, orizzontalmente, con irrequietezza e senza carattere, gioco, caso, non effetto di leggi, né traccia d’indipendenza, manifestazione di un unico essere» (17). Peraltro, la frammentarietà è la cifra stilistica di tutto il Novecento letterario42: come dice Saul Bellow — attraverso Moses Herzog — il pensiero non può svegliare dal sonno dell’esistenza se non smaschera «l’illusione delle spiegazioni totali».43

I frammenti di Novalis non sono aforismi: considerarli tali significherebbe fraintendere e perdere l’autenticità del suo poetare. L’aforisma è una precisa struttura stilistica dotata di due caratteri fondamentali: autosufficienza e autoconclusività. Gli aforismi sono monadi compiute in se stesse. Il frammento, invece, è per definizione insufficiente a se stesso e non concluso. Löwith ha definito la filosofia di Nietzsche un sistema di aforismi;44 ma essa né è un sistema né è costituita — nella sua dimensione più rilevante — da aforismi; anzi, forse neppure può essere definita «filosofia». Fondamentalmente, non può essere affatto de-finita. Il meditare nietzscheano è in-definito per sua natura, poiché il suo pondus (ammesso che sia dato trovarlo) risiede nei frammenti postumi, cioè nel non pubblicato e, al limite (ha ragione Heidegger), nel non detto.45

Il significato del frammento sta proprio nella sua complessione cagionevole e deficitaria: solo in quanto è lacero, interrotto, carente, senza capo né coda; solo qua talis può essere essenzialmente simbolico; solo in quanto incoerente può rinviare alla fonte di ogni coerenza, solo in quanto povero può invocare la sorgente di ogni pienezza e ricchezza. I frammenti stanno tra loro in una sin-fonia provvisoria, labile, aleatoria, che, proprio nella e per la sua prossimità al nulla, indica l’armonia universale garantita dal Silenzio originario che possibilizza ogni dire e ogni cantare.46

Novalis ha tenuto mano sempre ad un’unica opera, e non ha mai prodotto (né avrebbe mai potuto produrre) altro che frammenti. Se comprendiamo questo, acquistiamo a un tempo dimestichezza col fondamento poetico di tutto il suo dire. Solo la perenne e perennemente irrisolta dialettica di finito e infinito può conferire alla dimensione simbolica la pienezza di significato che le compete. È esattamente nel conservarsi dinamico di questa dialettica che il simbolo mantiene il suo senso. Se si desse definitiva Aufhebung della dialettica, crollerebbe eo ipso l’intero edificio poetico. La filosofia hegeliana, dal punto di vista di Novalis, segna la morte senza resurrezione della poesia.

Certo, anche per Novalis, come per Hegel, fare filosofia è dire l’Assoluto; ma per il secondo, filosofia è sapere assoluto nel senso che è sapere l’Assoluto: l’Assoluto è compiutamente risolto nelle e dalle categorie della ragione; o, se si preferisce, la ragione assurge alla coincidenza con l’Assoluto. In Novalis, di contro, l’Assoluto è detto e saputo sempre e soltanto come l’inoggettivabile e non presentabile assente; la abissale prossimità dall’Assoluto è detta nella forma della lontananza. Non c’è tentativo di comprehensio; Novalis non vuole penetrare il mistero per spiegarlo e illuminarlo, ma è consapevole del fatto che esso può essere saputo unicamente qua mysterio. Compito insuperabile della poesia è esibire la natura irriducibilmente misteriosa del Mistero.

«La poesia è il reale, il reale veramente assoluto. Questo è il nocciolo della mia filosofia. Quanto più poetico, tanto più vero» (1186). E ancora: «Il filosofo diventa poeta. Il poeta è solo il grado supremo di colui che pensa» (70). Pensare, per Novalis, è rapportarsi alla fonte del pensiero medesimo; pensiero è rapporto con l’origine; la dimora di Iside, signora di Sais e custode della verità, si trova risalendo il corso del fiume: questa è l’indicazione che i fiori danno a Giacinto.47 Filosofia è riflessione sulla condizione di possibilità del pensiero: «La filosofia non deve spiegare la natura, deve spiegare se stessa» (36). La poesia sorge dall’intuizione dell’originaria appartenenza alla fonte. Novalis evoca la sorgente di quella che Valéry chiama ispirazione poetica:

Ci sono in noi poemi che sembra abbiano un carattere del tutto diverso dagli altri, poiché sono accompagnati dal sentimento della necessità, eppure non hanno alcun motivo esteriore. L’uomo ha l’impressione di trovarsi in una conversazione e che qualche ente spirituale e ignorato lo induca in maniera arcana a sviluppare i pensieri più evidenti. Questo ente dev’essere un ente superiore perché entra con lui in una specie di rapporto che non è possibile per nessun ente legato a fenomeni. Dev’essere un ente omogeneo perché tratta l’uomo come un ente spirituale e lo esorta soltanto alla più rara attività personale […] Descrivere non si può questo fatto. Ciascuno lo deve vivere da se stesso (27. Il corsivo è mio).

L’esperienza dell’ispirazione è ineffabile e personale. Il senso poetico si sveglia nell’uomo allorché questi percepisce la presenza di un mondo ulteriore da cui tutto viene e a cui tutto deve il suo senso. La poesia è l’essenza del mondo come per Schopenhauer (e poi per Proust) lo è la musica.48 D’altra parte, «per Novalis la musica rappresenta il limite a cui tende la poesia per raggiungere la sua totale liberazione, cioè il puro arabesco, in cui si disvela simbolicamente la struttura dell’essere al di fuori di ogni determinazione linguistica e concettuale».49

La parola mira a purificare se stessa onde giungere a dire nel modo meno inadeguato il ritmo che si dispiega nel mondo e lo costituisce:

il poeta è colui che intona la sua parola al ritmo di questo spirito poetico universale [il quale rappresenta il nesso che collega le infinite apparenze del molteplice in una totalità, retta da un’unica legge], immedesimandosi con esso e seguendolo nel suo fluire, che lo conduce nel segreto di tutte le forme e di ogni divenire […] Una poesia intesa in tal modo è sempre protesa verso l’infinito oltre le distinzioni e i limiti delle forme finite.50

Il poeta si fa voce dell’essere nel suo eventuarsi come Poesia; la sua parola viola le leggi del lògos apofantico e si costituisce come lògos apofatico. La poesia abolisce la sintassi tradizionale e ne istituisce una nuova che consenta di giovarsi della intera ricchezza semantica potenziale del linguaggio. Il pregiudizio razionalistico della necessaria univocità del linguaggio, sulla base del quale Spinoza ha assimilato la profezia al delirio di un folle,51 è da Novalis rigorosamente proscritto.

Ogni rivelazione avviene tramite segni. Si rammenti il celebre frammento 22 B 93 DK di Eraclito: «Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice e non nasconde, dà segni (oute lègei oute kryptei, allà semàinei)». L’Apocalisse, nel suo particolarissimo andamento sintattico — che rendo qui con una versione letterale — si apre con parole decisive, sotto questo profilo: «Apocalissi di Gesù Cristo, che Dio gli diede perché fosse mostrata ai suoi servi, le cose che devono accadere in fretta, e [che Gesù Cristo] esèmanen»: la traduzione «manifestò» è errata. La comunicazione della rivelazione (apò-kàlypsis) avviene attraverso segni (sèmata), da cui la necessità del linguaggio simbolico per esprimerla. Il simbolo è richiesto dalla natura stessa della rivelazione, che non è mai palese ma solo ac-cennata.

La Poesia è il ritmo essenziale della Natura (l’idea romantica di Natura è, nel suo significato, molto più prossima alla Physis greca che non alla Natura cartesiana o galileiana);52 ma il suo presentimento da parte del poeta si qualifica come ritmo inatteso. Il poeta, cioè, non è, per così dire, in costante stato di grazia. L’ispirazione è un evento, alcunché di eccezionale.

Comunemente si ritiene che Heidegger si collochi in una posizione di alterità rispetto a Platone, il quale, nella Repubblica, condanna l’arte mimetica, in quanto distante di due gradi dall’idea (X, 595A — 598D). Ma qui Platone se la prende, appunto, con la deriva «realistica» dell’arte, intesa come riproduzione fedele, mìmesis, di un oggetto, non con l’arte nella sua espressione più alta. Questa, nel Fedro (244A — 245B), si chiarisce come mania, ovvero come enthousiasmòs:

In terzo luogo viene l’invasamento e la mania che proviene dalla Musa, la quale, impossessatasi di un’anima tenera e pura, la desta e la trae fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie […] La poesia di chi rimane in senno viene oscurata da quelli che sono posseduti da mania.

Dunque l’ispirazione è un’esperienza ineffabile, incomunicabile, personale, elargita dal dio (eventualmente attraverso il dàimon). Il poeta intuisce l’essenza intima (scil.: poetica) della realtà. L’ars poetica consiste nel restituire con linguaggio opportuno (o col meno inopportuno) tale intuizione: «poetare è generare» (1188). Il poeta diviene veramente «il novello Re Mida» che tutto trasfigura di cui parla Ladislao Mittner:

Non il poeta fa la poesia, ma la poesia che è diffusa in tutto l’universo ed è l’anima dell’universo fa il poeta, il quale, simile al rabdomante, scopre dappertutto le particelle di poesia nascoste nella natura.53

Lo stato poetico cambia la vita: esso trasforma in profeti che recano il verbo inattuale dell’essere che si annuncia. L’ispirazione è un dono che proviene dalle remote regioni del Sacro e che è suscitato dagli eventi significativi della vita dell’uomo. Per Novalis, l’evento fondamentale che ha destato l’ispirazione è costituito dalla morte. Fu la morte dell’amata Sophie von Kühn a far scaturire nell’anima del poeta la nostalgia per quel mondo verso il quale ogni pensiero rammemorante («Il ricordo ci apparirà come un presentimento necessario», 546) si sente irresistibilmente attratto. Sophie fu rapita agli alti spazi della Notte, dove regna una luce spirituale rispetto a cui quella del nostro giorno non è che un pallido bagliore, timida bragia fumigante.

Paragonato alla pienezza della notte, il giorno in cui Novalis resta suo malgrado (anche se a poco a poco recupererà il desiderio di vivere, ciò che peraltro farà vieppiù aumentare il suo senso di colpa nei confronti di Sophie) non è che un misero nulla, la sua fecondità e la sua vita non sono che sterilità e morte, la sua serenità e la sua pace non sono che inquietudine e travaglio. Solo nel mistico incontro con la Notte il dolore può trovare requie, solo la nuova vita può placare la malinconia del cuore. La morte trasfigura e dona nuova vita, la notte illumina e apre un nuovo mondo, la terrestre lacerazione trascolora in beatitudine celeste.

Nell’Atto secondo del Tristan und Isolde, Wagner rende in poesia e in musica la dialettica di giorno e notte. La Scena prima esordisce col Tagesmotiv, un tremolo d’archi intenzionalmente rozzo e adusto (il direttore deve premurarsi di farlo eseguire così all’orchestra). Brangäne tenta di persuadere Isolde a non incontrare Tristan, perché Melot non attende altro che un’occasione per coglierli in flagrante e poterli così denunciare a Marke. Ma Isolde è completamente in balia di Frau Minne — l’amore cantato dai Minnesänger medievali — e vede la realtà con occhi diversi rispetto alla sua fedele serva (la fanfara di caccia le sembra il dolce mormorio della fontana). Il suo unico pensiero è smorzare la fiaccola (il segnale per Tristan), spegnere il scheuchende Schein (v. 903), lo «splendore allontanante». La luce confina in solitudine e lontananza Frau Minne; è il principio della separazione.

Nella luce tutti i limiti sono chiaramente tracciati, in essa trionfano i valori ordinari della società feudale. Nella notte, tutto è straordinariamente confuso, passibile di profonda e completa unità. Isolde è disposta a tutto pur di spegnere la torcia e, nel nome di Frau Minne, lancia impavida al giorno la sua sfida (vv. 1039-1040). Tristan, a sua volta, scaglia contro il tückischen Tage (il «fraudolento giorno») una furiosa invettiva: «Al più crudele dei nemici / odio e accusa! / Come tu la luce, / oh potess’io la fiaccola, / per vendicare i dolori dell’amore, / al prepotente giorno spegnere» (vv. 1043-1048).54 Egli vorrebbe eliminare per sempre il giorno e calarsi in una perpetua notte. Isolde addita il giorno come origine di ogni frode (e rammenta l’inganno perpetrato ai suoi danni da Tristan in Irlanda). Tristan ribadisce il carattere distanziante del giorno: «nella chiara luce del giorno, / come poteva Isolde esser mia?» (vv. 1031-1032).

Dal v. 1106, la cesura musicale è evidente: fin qui si è parlato del giorno, e lo stile ha mantenuto un andamento procelloso e ansiogeno. Di repente, all’apparire della parola Nacht, tutto muta, e l’atmosfera si fa placida e soave. Da questo momento, le parole Tag e Nacht, col loro esser pronunciate, segneranno l’avvicendarsi dei due stili opposti. A un certo punto, il tema della notte e quello della morte si legano esplicitamente (vv. 1186-1201). Segue l’attacco finale di Tristan al giorno (vv. 1219-1245), che si conclude con uno splendido duetto (il cui senso è riassumibile con la parole del fliegende Holländer: «Ew’ge Vernichtung, nimm mich auf!», v. 84), al termine del quale i due amanti non possono che perdersi nella plenitudine dell’estasi (così recita la didascalia: «T und I versinken wie in gänzliche Entrücktheit»).

Forse che il sopravvenire della morte non rimuoverebbe per sempre anche l’amore? Non certo! Per Tristan, la morte non fa che eliminare tutti i meschini impedimenti che ostacolano l’eternità dell’amore: «Che cosa soccomberebbe alla morte, / se non quel che ci disturba, / se non quello che impedisce a Tristan / di amare sempre Isolde, / e di vivere eternamente per lei?» (vv. 1347-1351) .55

La Stimmung che pervade l’opera wagneriana è assai prossima a quella diffusa negli Hymnen an die Nacht di Novalis.56 L’esperienza di cui il primo inno ci dà contezza è quella di una pasqua, di un passaggio dalla tristezza della morte alla rivelazione della Notte. Dapprima, non si ha che la coscienza della fine, l’accorgimento della desolazione che la morte reca:

Lontano giace il mondo — / perso in un abisso profondo — / la sua dimora è squallida e deserta. / Malinconia profonda / fa vibrare le corde del mio petto. / Voglio precipitare / in gocce di rugiada / e mescolarmi con la cenere.57

Quando il giorno finisce, pare destinato a non più ritornare. I toni dominanti sono cupi, le tinte fosche. Ma ecco che la notte rivela il suo viso «devoto e soave» e si dimostra ben più preziosa del giorno:

Che cosa a un tratto zampilla / grondante di presagi / sotto il cuore / e inghiottisce la molle brezza / della malinconia? / Da noi derivi a tua volta piacere, / o buia notte? / Quale cosa tu porti sotto il manto / che con forza invisibile / mi penetra nell’anima? / Delizioso balsamo / stilla dalla tua mano, / dal mazzo di papaveri. / Le gravi ali dell’anima tu innalzi. / noi ci sentiamo oscuramente e ineffabilmente turbati — / con gioioso spavento / vedo un volto severo / che su di me si china / dolce e devoto, / e svela tra i riccioli / senza fine intrecciati / la cara giovinezza della madre.

Dopo che la Notte ha palesato il suo volto, gli splendori del giorno («die Wunderlichkeit des irrdischen Reichs») smarriscono il loro incanto. Prima sembrava che nulla di più alto ci fosse della luce del giorno e della vita terrena; ora, la vera realtà è evidentemente quella della notte, rispetto alla quale luce e vita non sono che mere parvenze, ingannevoli simulacri:

Come infantile e povera / mi sembra ora la luce — / come grato e benedetto / l’addio del giorno — / Solo perché la notte distoglie / e allontana da te i tuoi fedeli, / tu seminasti per gli spazi immensi / le sfere luminose, ad annunziare / l’onnipotenza tua — / il tuo ritorno — / nel tempo della tua lontananza. / Più divini / delle stelle scintillanti / ci sembrano gli occhi infiniti / che in noi la notte dischiude.

La notte desta in noi sensi che erano ottusi, occhi e orecchie che possono percepire una luce e una musica qualitativamente più alte. Sophie diventa l’angelo della Notte; sottratta al poeta nel corpo, gli è restituita in Spirito, come messaggera della Verità:

Lode alla regina del mondo, / alta annunciatrice / di mondi santi, / custode del beato amore, / che a me ti manda — / tenera amata — / amabile sole notturno, — ed ora veglio — / sono Tuo e Mio — / la notte mi annunziasti come vita — mi hai fatto uomo — / consuma con l’ardore / dell’anima il mio corpo, / perché lieve nell’aria / con te più strettamente io mi congiunga / e duri eterna / la notte nuziale.

La scoperta di una dimensione trascendente non implica il contemptus di questa realtà: è possibile, per Novalis, vivere in modo sovrasensibile una vita sensibile. E, di fatto, dopo la morte di Sophie, egli si trovò a condurre una sia pur breve doppia vita: quella in Cielo accanto a Sophie, e quella in terra, con Julia von Charpentier.

L’antitesi notte/giorno si esprime anche in quella analoga sonno/veglia. Nel secondo inno, il sonno, nella misura in cui libera dalla frenesia della veglia e dalle cure del giorno, rigenera una vita più profonda in noi e garantisce l’apertura di mondi misteriosi e superiori:

Deve il mattino sempre ritornare? / La potenza terrestre avrà mai fine? / Consuma un vano affaccendarsi il volo / celeste della notte. E mai l’offerta / segreta dell’amore / arderà in eterno? / Fu misurato alla luce il suo tempo; / ma il regno della notte è senza tempo / e senza spazio. — Eterno dura il sonno. / Sonno santo — / non fare troppo raramente lieti / i consacrati alla notte / in questa terrestre / quotidiana fatica […] uscita da antiche leggende / tu avanzi e schiudi i cieli, / portando la chiave / dei soggiorni beati, / silenzioso araldo / di misteri infiniti.

L’eternità si rivela non nella veglia ma nel sonno; chi veglia anela al sonno come sua liberazione in senso forte. Il sonno è l’unico vero fine. Ma la triste e faticosa vicenda terrena riprende a ogni levar di Sole; sicché il desiderio del sonno trascende se stesso in direzione della sua versione eterna: è il quarto inno:

Ora so quando sarà l’ultimo mattino — quando la luce non mette più in fuga la notte e l’amore — quando eterno sarà il sonno e un solo sogno inesauribile.

Il terzo, meraviglioso inno è, ancora, il luogo del passaggio; in esso la natura mistica della rivelazione, che rende partecipi della beata superiorità della notte di contro all’amarezza dolorosa della vita diurna, è poetata nella guisa più sublime. L’epifania coglie il poeta in un momento di dolore, angoscia e solitudine estremi; egli è gettato bocconi innanzi alla miseria della propria esistenza, paralizzato dallo sgomento:

allora venne dalle azzurre lontananze — dalle altezze della mia antica beatitudine un brivido crepuscolare — si spezzo d’un tratto il vincolo della nascita — la catena della luce. Svanì la magnificenza terrestre e il mio lutto con lei — confluì in un mondo nuovo e impenetrabile la malinconia — e tu, estasi della notte, sopore del cielo scendesti su di me — la contrada lentamente si sollevò; e sulla contrada aleggiò il mio spirito nuovo, liberato.

La fascinazione esercitata dal mondo della luce su Novalis è molto intensa. Ma egli «ne è il cantore di tanto più efficace in quanto egli è soprattutto il cantore della notte».58

La luce è regina di tutte la meraviglie che il quarto inno magnifica, ma è altresì l’agente che fa emergere ansia, infelicità, inquietudine; essa fonda un mondo che è essenzialmente mutevolezza, instabilità, transitorietà, lotta, divisione, morte. Pertanto non è la luce la vera patria dell’uomo; solo il volto della Notte è heimlich. Solo la notte è eterna e senza tempo. La luce è feconda, ma la notte lo è di più; questa è veramente feconda, poiché è l’origine della luce medesima:

Tu l’hai adornata / di colori e lievi contorni — / o fu lei che diede / significato più alto e più caro / alla tua grazia? / Quale voluttà, / quale godimento offre la tua vita, / che in fascino equivalgono / ai rapimenti della morte? / Non porta i colori della notte / tutto quanto ci esalta? / Lei ti porta / maternamente, / e tu le devi tutta la tua gloria. / Svaniresti in te stessa — / nell’infinito spazio / ti sperderesti, / se lei non ti tenesse, / né ti serrasse, / così che calda, accesa, / con la tua fiamma generassi il mondo.

La luce proviene dall’inesauribile abisso della notte, a cui l’uomo è, nella sua essenza, coeterno. La luce è nata e, come tutto ciò che nasce, perirà. Allora l’uomo, che era stato deputato dalla notte a consacrare il mondo della luce mediante la propria opera, tornerà a congiungersi con la sua Grande Madre. Ciò avverrà quando l’uomo avrà spiritualizzato e umanizzato il mondo nella sua totalità: l’uomo è il tramite per la redenzione del mondo.59

Il poeta, che ha avvertito la ricchezza della notte, vive il resto della sua esistenza terrena nello stato d’animo che dà il titolo al sesto inno: Sehnsucht nach dem Tode. Ogni mattino pone termine all’estasi del sonno; ma giungerà l’ultimo mattino, in cui il Sole persisterà nel suo riposo e il giorno non nascerà: la pace della notte continuerà, eterna. L’attesa di questo tempo sarà all’insegna della serenità, giacché confortata dalla rivelazione notturna: «Egli viveva nel mondo dell’al di là, che era realmente la patria del suo cuore».60 Il poeta canta la notte oscura da cui tutto viene, la fonte cui tutto è destinato e vocato a riedere: il dire poetico più autentico è prossimo al silenzio, a quel Silenzio originario da cui ogni parola scaturisce.

Nella storia dell’uomo, la rivelazione notturna ha acquisito un nome: sogno. Dopo Freud, siamo soliti considerare il sogno nulla più che l’espressione delle nostre pulsioni represse che, da qualche parte dovendo pur emergere, approfittano della momentanea latenza del controllo razionale per esibirsi. Ma il sogno ha una valenza simbolica potentissima, che ai giorni nostri ha rilevato, fra gli altri, Pavel Florenskij. Nella Germania di fine Sette e inizio Ottocento, a introdurre e studiare la natura profetica del sogno è stato Jean Paul. Ciò che più gli preme è chiarire la contiguità di sogno e poesia.61 Anche per lui, come per Novalis, poesia e sogno sorgono da una rivelazione, e, precisamente, dalla rivelazione del mondo soprannaturale. Egli ricevette questa divina intuizione in un tempo e in un luogo determinati (e determinanti): il 15 novembre 1790, a Schwarzenbach. L’immaginazione e il sogno, secondo lui, non sono affatto uno sbiadito riverbero dei sensi, come sostengono le scuole materialistiche, sulla scorta di Helvétius. Essi sono invece conseguenza del senso d’infinito e della brama di Assoluto che albergano in noi e che sono momentaneamente ricompensati con pegni che attendono di essere integrati nella vita futura. Tali pegni sono, per l’appunto, i sogni. Sogno e poesia sono frutto della magia dell’immaginazione:

Nel sogno come nella poesia, la verità non ci giunge affatto dal mondo dei sensi: essa sembra parlare dal nostro stesso cuore, ma è la voce di Dio. Il poeta è passivo, e così il sognatore; entrambi ascoltano il linguaggio ispirato della propria anima. Lo spirito del poeta è contemplativo, aperto alle rivelazioni della profondità, al linguaggio dell’inconscio. La nostra coscienza è illusoria, tutto il mondo della veglia non è più vero di quello dei sogni; è la celebre ‘ironia’dei romantici, per i quali la vita è un gioco, un sogno del creatore; la verità è altrove, e il poeta è colui che gioca con gli oggetti del mondo esterno, conferendo loro un valore simbolico, ricreandoli per un’altra verità.62

Le rivelazioni e le esperienze mistiche vengono sempre in momenti di sonno o di dormiveglia, ossia di totale o parziale sospensione della vigilanza razionale.63 Anche la vicenda di Heinrich von Ofterdingen è inaugurata da un’esperienza onirica. Il centro del capolavoro novalisiano è costituito dal tema del viaggio iniziatico. Non si dimentichi che Novalis era un profondo conoscitore ed estimatore della tradizione alchemica, la quale svolge un ruolo fondamentale in tutta la sua opera.64

Secondo uno stilema che sarà assunto e volto in chiave tragica dall’espressionismo, nulla di quanto descritto o narrato nel romanzo ha un carattere realistico in senso stretto. La realtà di cui si tratta è sempre e solo quella dell’interiorità del protagonista: l’iniziazione è ricerca di sé. Tutti gli elementi del racconto non sono che aspetti oggettivati dell’anima di Heinrich contemplata nel suo crescere. Ogni evento è da lui in qualche modo presagito: tutto è una potente metafora del suo io. Con ciò, non siamo in presenza di un soggettivismo o di uno psicologismo radicali: in Novalis, l’io non pone se stesso assolutamente, ma si trova e si realizza nella misura in cui riconosce che la propria verità è altrove. L’esprimersi dei personaggi (al di là della preponderanza del protagonista, il romanzo è un capolavoro di polifonia, in senso bachtiniano) è oscuro e faticoso nel momento in cui essi sono ignari della dimensione trascendente che li fonda, diviene chiaro e agile allorché si accompagna all’avvertimento di quella Unerkannte, di «quell’unica […] che nessuna pensò mente mortale / e nessuna virtù ha conquistato»,65 di quella fonte da cui tutto viene.

Il percorso di Heinrich, come dicevamo, è aperto da un sogno: il fiore azzurro (die Blaue Blume) ne è l’oggetto. Il tema dell’azzurro è abbastanza frequente nella lirica ottocentesca. Lo ritroviamo, ad esempio, in Mallarmé, il quale dichiarava di esserne addirittura ossessionato. In una lettera a Cazalis del 1864, a proposito della poesia L’Azur, dice:

L’azzurro tortura l’impotente in genere […] Voglio fuggire ancora, ma intuisco il mio torto e confesso di essere ossessionato. Era necessaria tutta questa straziante rivelazione per motivare il grido sincero e incongruo della fine, l’azzurro.

Nei suoi componimenti giovanili, l’Azzurro è una dimensione iperurania in cui egli vorrebbe rifugiarsi per emanciparsi dalla realtà che lo nausea (Les fenêtres). Anche il simbolo del fiore («l’azur des corolles» di Apparition) è centrale: i fiori sono messaggeri dell’Assoluto, sue manifestazioni in terra, veicoli di contatto con esso in quanto partecipi della sua essenza sovrumana. Essi recano notizia del supremo nulla che l’assoluto contiene («le gouffre» di Baudelaire: «Et mon esprit, toujours du vertige hanté, / Jalouse de néant l’insensibilité») e del dono della morte, estrema consolatrice (Les fleurs): «Vertiginosamente vuoto del Dio cristiano, il cielo persiste a figurare quello stato di sovrumana serenità, di purezza immacolata, di profondità e limpidezza intellettiva che è proprio della divinità, o meglio di una trascendenza tanto chiusa in sé da divenire crudele. Crudeltà che in essa non può esprimersi in altra forma se non in quella, calma e fredda, dell’ironia, che tanto più tortura ed esaspera l’uomo umiliato, il poeta impotente, quanto più egli si ribella, nel vano tentativo di scuotere il suo giogo».66

In Novalis, il simbolo del fiore azzurro ha un’importanza decisiva e una connotazione non tragica, come in Mallarmé, bensì magico-mistica. Il fiore azzurro non è solo il simbolo della poesia, della lontananza e della nostalgia, nonché dell’amore e della morte, come dice Claudio Magris.67 Queste indicazioni sono troppo vaghe; c’è un preciso significato alchemico e metafisico. Come ha intravisto Jung,68 il fiore azzurro rinvia all’età primigenia in cui conoscenza e natura non erano ancora separate, in cui tutto era voce dell’origine.69 Il fiore consente di rammemorare l’origine; il suo significato alchemico è quello della concordia70 oppositorum, intuita come fonte degli opposti stessi.

Il fiore azzurro è simbolo di un mistero che non potrà mai essere svelato, ma soltanto saputo nella sua inesauribilità, in una dimensione comunicativa metarazionale: «Si addormentò fra profumi celestiali, perché solo al sogno era permesso condurlo nella parte più sacra e riposta del tempio».71

Esiste una modalità della comprensione diversa da quella puramente intellettuale (sinonimo per Novalis di tecnica e scientifica), ed è questo uno dei motivi per cui Goethe deve essere superato (1283-1290, 1354: «Goethe è interamente poeta pratico […] Egli ha, come gli inglesi, un gusto naturalmente economico e un gusto nobile acquistato con l’intelletto». Fondate o meno che siano le critiche, i riferimenti polemici servono a chiarire la prospettiva di chi le elabora) .72

Il padre di Heinrich è simbolo di quella cultura intellettiva che ha perso la memoria dell’originario. È lui che sveglia Heinrich, facendolo ripiombare bruscamente nella realtà. Egli è un artigiano; pian piano la sua interiorità si è completamente risolta in una serie di competenze tecniche che lo hanno incatenato alla triviale quotidianità. Il padre incarna la negazione delle aspirazioni al mondo superiore che distinguono il figlio. Nondimeno, anch’egli ha un sogno da raccontare, un sogno di alcuni anni prima (ora non è più in grado di farne) la cui struttura e il cui oggetto (un fiore!) sono analoghi a quelli del sogno di Heinrich. Tuttavia, il padre, ormai da tempo dedito esclusivamente all’intelletto, ha perso dimestichezza coi sogni ed elasticità nella loro interpretazione (è la moglie che gli fa tornare alla mente il sogno): fatica infatti considerevolmente a ricomporre le immagini e, infine, il tentativo fallisce.

Il viaggio vero e proprio inizia al secondo capitolo. Anche i Lehrlinge zu Saïs si strutturano come un’iniziazione: nella fiaba di Hyacinth und Rosenblüthchen, Giacinto, sotto il velo della dea, scopre il volto della sua amata. Ma, già nei frammenti preparatori all’opera, o destinati alla sua integrazione, le varianti sono notevoli:

A uno riuscì — egli sollevò il velo della dea di Sais — Ma cosa vide? vide — miracolo dei miracoli — Se Stesso.73

Questo è lo scopo dell’Ofterdingen: cercare e trovare se stessi. Si parte da sé non conoscendosi e si torna a sé con più matura autocoscienza. Ma questo processo è lungo e faticoso e comporta la totale epoché dei riferimenti ordinari: per tornare in patria più ricchi bisogna allontanarsene, per rinascere si deve morire.

In tutto l’Ofterdingen, il compito di comunicare verità che trascendono la ragione è consegnato alla fiaba.74 Siamo condotti al mondo superiore mercé l’uso di strutture narrative e linguistiche che trascendono il rigido schematismo deduttivo: è il principio secondo il quale agisce la formula magica. Il mondo superiore può essere evocato, non descritto, è oggetto di comunione, non di comprensione.75 Immagine squisita di tale comunione è l’amplesso dei due amanti della fiaba raccontata dai mercanti nel terzo capitolo.

Amore e comunione sono dimensioni interiori; per questo l’iniziale entusiasmo per la Crociata si affievolisce: il Sepolcro vero è la nostra anima, noi siamo l’autentico tabernacolo di Cristo. Come sostiene Nietzsche in due dei suoi ultimi frammenti postumi: «Gesù mira direttamente a creare la condizione del ‘regno dei cieli’nel cuore […] è puramente interiore. Il regno dei cieli è uno stato del cuore».76

L’Heinrich von Ofterdingen è tutto volto alla dimensione intima — la miniera del quinto capitolo.77 Il minatore è figura di colui il quale scava dentro di sé per trovarsi; l’eremita è il suo complementare.

In uno dei libri dell’eremita, accanto a persone già conosciute (o ancora da incontrare), Heinrich vede se stesso. Soggetto e oggetto non sono poli opposti, ma si informano e influenzano vicendevolmente: ogni incontro con l’oggetto, implica un incremento di esperienza e, quindi, di coscienza — non essendo la coscienza altro che esperienza elaborata e sedimentata.

La lezione che Heinrich ha fin qui appreso è quella della concordia oppositorum. Si tratta ora di trasformare questa conoscenza in vita vissuta: egli deve scoprire il proprio «opposto» e congiungervisi. Nel sesto capitolo, Heinrich incontra il poeta Klingsohr e si innamora di sua figlia Matilde: l’amore realizza la conoscenza. Attraverso l’amore, Heinrich può divenire parte attiva nella vita dell’universo.

Giunto a questo livello, neppure la morte di Matilde può vanificare i risultati conseguiti; lungi dall’essere una fine, la morte è un inizio e un potenziamento: Novalis lo aveva imparato da Sophie. L’iniziazione di Heinrich si conclude, se così si può dire, con la raggiunta coscienza del significato dell’amore. Ma il progresso dell’anima non ha termine.

L’Ofterdingen si compone di due parti: Erwartung e Erfüllung, attesa e compimento. In un grande come Thomas Hardy, il compimento (Fulfilment, titolo della settima fase di Tess of the d’Urbervilles) è davvero tale, e, precisamente, si qualifica come compimento tragico con toni da Liebestod wagneriano: all’apogeo della sua parabola, l’amore pienamente raggiunto — incarnato nella sua versione più pura da Tess — non può non tradursi in morte — un destino tragico annunciato fin dall’inizio dell’opera (Prima fase, III), quando con tagliente ironia viene citato il «Nature’s holy plan» di Wordsworth.78

La seconda parte dell’opus maius novalisiano, invece, è interrotta, e non poteva non interrompersi: essa è un segnavia, indica al lettore una direzione. Il lettore è ora chiamato a procedere da sé sulla propria strada, a eleggere il proprio destino. Egli ha capito il libro se vi ha riconosciuto il proprio volto, come Heinrich nel volume dell’eremita. Solo così l’opera di Novalis può essere la Bibbia cui egli aspirava: solo, cioè, se chi legge capisce che questo libro — come ogni libro — non parla d’altri che del lettore medesimo. Ognuno ha una sua via per trovare l’unità e la pienezza annunciate da Astralis, figlio di Heinrich e Matilde. Rimanendo incompiuta, l’opera di Novalis realizza se stessa.

La nostra Erörterung dell’opera novalisiana ha assunto un andamento ondivago e ha finito per coinvolgere molteplici piani. Tuttavia, la ricchezza del dire di Novalis protegge il segreto della sua poesia, come il velo nero del pastore di Hawthorne;79 o come la casa dell’Impero delle luci di Magritte80: chi mai potrà svelare il mistero della luce che si nasconde dietro le sue finestre? La poesia di Novalis, come ogni autentica poesia, attende ancora — e attenderà sempre — di essere adeguatamente compresa.

C’era una bella battuta di Robert Browning […]: gli chiedono il significato di una poesia e lui la legge, la rilegge e finalmente dice: ‘quando fu scritta questa poesia, solo Dio e Robert Browning ne conoscevano il significato. Adesso lo conosce solo Dio’.81


  1. G. Trakl, Pace e silenzio (Ruh und Schweigen), in id., Poesie, Einaudi, Torino 1979, p. 97. ↩︎

  2. Mi rincresce di dover su questo punto contestare — absit iniuria verbis — il giudizio di Croce, il quale concorda con Cosmo «che di recente con maggiore accorgimento e ponderazione di altri ha discorso dell’ultimo canto della Commedia, — e con ragione, tra l’altro, ha negato che Dante vi diventi mistico e seguace di san Bonaventura, — ha ben riconosciuto che la poesia di questo canto non è nella rappresentazione della visione beatifica e in ciò che Dante ve ne riporta e ridice», B. Croce, Filosofia Poesia Storia, Ricciardi, Milano-Napoli 1951. ↩︎

  3. Cfr. W. Dilthey, Das Erlebnis und die Dichtung (1905), Teubner, Leipzig 1922; tr. it. Esperienza vissuta e poesia, Il melangolo, Genova 1999: «La poesia si offre al nostro esame dapprima determinata dallo spirito collettivo di comunità politico-militari piuttosto piccole. Essa espresse nella lirica lo spirito di tali società», p. 5; «Ciò che mi porta a Novalis è l’ambiziosa speranza di far vedere in lui alcuni fra i più importanti motivi della visione del mondo che si manifesta nella generazione successiva a Goethe, Kant e Fichte […] Ora la questione è soprattutto questa: se l’esame di una singola personalità possa permettere di penetrare nei motivi generali della cultura della sua generazione», p. 272. ↩︎

  4. «In arte ciò che conta è il prodotto, l’artista ne è lo strumento; ciò che egli aveva in mente non può essere ricostruito con rigorosa certezza, e in ultima analisi è irrilevante. Seguendo una propria legge immanente l’opera impone i lineamenti all’autore, il suo esecutore, senza che egli vi debba appositamente riflettere. Sarà tanto più riuscita quanto più compiutamente l’artista si aliena nella cosa. La sua subordinazione alle esigenze che l’opera presenta fin dalla prima battuta ha un peso incomparabilmente maggiore dell’intenzione dell’artista», T. W. Adorno, Alban Berg. Der Meister des kleinsten Übergangs, Verlag Elisabeth Lafite, Wien 1968; tr. it. Alban Berg. Il maestro del minimo passaggio, Feltrinelli, Milano 1983, p. 54. ↩︎

  5. Cfr. K. Maleviè, Suprematismo, Abscondita, Milano 2000, passim. I luoghi sono così numerosi che non mette conto citarli. ↩︎

  6. G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori, Milano 1969, p. LXXX. ↩︎

  7. P. Valéry, Commentaires de Charmes, in Variété III, Gallimard, Paris 1936, p. 80. ↩︎

  8. T. Mann, Adel des Geistes: Sechzehn Versuche zum Problem der Humanität (1945), S. Fischer, Frankfurt am Main 1955; tr. It. Nobiltà dello Spirito, Mondadori, Milano 1997, p. 1518 (Il corsivo è mio). ↩︎

  9. «Dove è possibile la parafrasi, le lenzuola non sono gualcite, la poesia non ha pernottato», O. Mandel’stam, Discorso su Dante, in id., Sulla poesia, Bompiani, Milano 2003, p.121. ↩︎

  10. Novalis, Die Lehrlinge zu Saïs; tr.it. I discepoli di Sais, Rusconi, Milano 1998, p. 115. ↩︎

  11. P. Valéry, A proposito del «Cimitero marino», in id., Varietà, SE, Milano 1990, p. 239. Con ciò viene negata la teoria lucreziana propugnata anche dal Tasso secondo cui le poesia non è che un sotterfugio per far assimilare una verità altrimenti dura da intendere o da accettare: «’l vero, condito in molli versi, / i più schivi allettando ha persuaso. / Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso: / succhi amari ingannato intanto ei beve, / e da l’inganno sua vita riceve», Gerusalemme liberata, I, 3, 3-8. cfr. Lucrezio, De rerum natura, I, 936-950. ↩︎

  12. W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, Insbesondere in der Malerei (19122); tr. It. Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989, p. 72. ↩︎

  13. L. Wittgenstein, Briefe an Ludwig von Ficker, Salzburg, 1969, Brief 23, p. 76. ↩︎

  14. M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache (1959), Klostermann, Frankfurt am Main 1985; tr. it. In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 32. ↩︎

  15. Ibid., pp. 32-33. ↩︎

  16. Perspicua è qui la reminiscenza hegeliana: è dal rapporto che qualcosa intrattiene con ciò che essa non è, che qualcosa è ciò che è. Una cosa è quella che è, perché non è ciò che non è. Nominando ciò che qualcosa è, evoco per ciò stesso quello che essa non è, poiché è esattamente in virtù di ciò che qualcosa non è, che quel qualcosa è ciò che è. Tale è il significato ultimo della dialettica quale si evince dalla Wissenschaft der Logik. ↩︎

  17. Ibid., p. 46. ↩︎

  18. Ibid., p. 74. ↩︎

  19. M. Heidegger, Holzwege (1950), Klostermann, Frankfurt am Main 1950; tr. it. Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 23. Quando Magritte scrive «Ceci n’est pas une pipe» nel suo celebre quadro del 1928-29 (e «Ceci n’est pas une pomme» in quello del 1964) coglie in pieno questa dinamica. La pipa è sottratta al contesto in cui può essere pipa, e perciò non è più tale: non può essere né riempita, né fumata, né usata in modo alcuno. ↩︎

  20. Op. cit., p. 62. ↩︎

  21. Op. cit., p. 40. ↩︎

  22. R. Wagner, Mein Leben (1870; I ed. pubblica 1911); tr. it. Autobiografia, Dall’Oglio Editore, Milano 1983, p. 290. ↩︎

  23. M. Heidegger, op. cit., p. 57. ↩︎

  24. «Kein ding sei wo das Wort gebricht» è l’ultimo verso della poesia di Stefan George che Heidegger commenta nel quarto saggio contenuto in Unterwegs zur Sprache. ↩︎

  25. M. Heidegger , op. cit., p. 58. ↩︎

  26. J. W. Goethe, Faust, Mondadori, Milano 1932, versione di G. Manacorda, vv. 534-545. ↩︎

  27. P. Valéry, Varietà, cit., pp. 277-302. ↩︎

  28. M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung (1981), Klostermann, Frankfurt am Main 1981; tr. it. La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 221. ↩︎

  29. A. Gide, Paul Valéry, in P. Valéry, Charmes, Crocetti Editore, Milano 1992, p. 130. Lo dice anche Novalis, ne I discepoli di Sais (cit., p. 213): «Ogni arte consiste nella conoscenza dei mezzi con cui raggiungere uno scopo prefissato e con i quali ottenere un particolare effetto o un particolare fenomeno, e nell’abilità nello scegliere e nell’utilizzare questi mezzi». ↩︎

  30. Da cui l’impossibilità oltre che della parafrasi anche della traduzione. ↩︎

  31. G. Trakl, A Novalis (An Novalis), in id., op. cit., p. 177. ↩︎

  32. Indico con il numero fra parentesi i Frammenti nell’edizione a cura di Ervino Pocar (BUR, Milano 1997). ↩︎

  33. «In un certo scaffale, di un certo esagono deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l’ha letto, ed è simile a un dio […] Molti peregrinarono in cerca di Lui, si spinsero invano nelle più lontane gallerie», La biblioteca di Babele, in J. L. Borges, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, p. 686. ↩︎

  34. «Lettore, è tempo che la tua sballottata navigazione trovi un approdo. Quale porto può accoglierti più sicuro d’una grande biblioteca? […] Ti resta ancora una speranza, che i dieci romanzi che si sono volatilizzati tra le tue mani appena ne hai intrapresa la lettura, si trovino in questa biblioteca […] Il libro non si trova […] Continui a riempire schede; per una ragione o per l’altra, nessuno dei libri che chiedi è disponibile», Se una notte d’inverno un viaggiatore, Mondadori, Milano 1994, Capitolo XI, p. 297. ↩︎

  35. «Ma io cerco un libro, da qualche mese. E in tutte le librerie che mi capita di vedere, quando ho la fortuna di andare in qualche città, non mi è riuscito di trovare quel libro […] Allora forse non è in nessuna parte del mondo», Un libro introvabile, in A. Delfini, Il ricordo della Basca, Garzanti, Milano 1992, pp. 173-174. ↩︎

  36. Molti nomi potrebbero qui figurare a proposito. Non posso esimermi dal citarne almeno altri due. Die Blendung termina con Peter Kien (sinologo, ossia aspirante decifratore di codici enigmatici, proprio come lo Stephen Albert del Giardino dei sentieri che si biforcano di Borges) che arde se stesso insieme alla sua biblioteca universale (Autodafé è stato tradotto prima in Inghilterra e poi in Italia l’unico romanzo di Elias Canetti). Nel microromanzo che chiude Centuria di Giorgio Manganelli la morte dell’unico scrittore necessario sancisce eo ipso la morte di tutte le immagini di scrittore, compresa quella dello scrittore autore di tutti gli scrittori. Non solo: nella premessa al volume, Manganelli immagina un grattacielo di tanti piani quante sono le righe di Centuria; ad ogni piano sta un lettore. Il Supremo Lettore precipita e al suoi passare ogni lettore leggerà la riga rispettiva. La fine della lettura coinciderà con la fine della vita (lo schianto al suolo). In entrambi i casi, l’esito del rapporto tradizionale tra lettore, scrittore e Scrittura è letale, mortifero. Si veda in proposito G. Guglielmi, La prosa italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1986. ↩︎

  37. Le due raccolte possono considerarsi compiute solo perché nella mente dell’autore non c’era un preciso progetto di ciclo poetico che debba ritenersi incompiuto. Del resto, Novalis non vide pubblicate queste composizioni, come avvenne per quasi tutte le sue opere. ↩︎

  38. «Man’s yesterday may ne’er be like his morrow; / Nought may endure but Mutability», P. B. Shelley, Mutability, in id., Opere, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, p. 10. ↩︎

  39. V. E. Bloch, Subject-Object. Erlauterungen zu Hegel, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1962, tr. it. Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, il Mulino, Bologna 1975, pp. 21-22. ↩︎

  40. M. Frank, Stil in der Philosophie (1992); tr. it. Lo stile in filosofia, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 92-93. ↩︎

  41. «Come tante opere del XIX secolo, la Recherche nasce dal ‘desiderio e dalla ricerca del Tutto’. I testi che le assomigliano sono il Faust II, la Comédie humaine, Guerra e pace, i Fratelli Karamazov, La Tetralogia — fino all’Uomo senza qualità, dove questo desiderio tende all’estremo e manda in frantumi il libro, perché l’architettura non riesce a esprimere la forza che la sostiene: un’analogia fatalmente incompiuta», P. Citati, La Colomba Pugnalata. Proust e la Recherche, Mondadori, Milano 1995, p. 243. ↩︎

  42. «Il romanzo europeo del Novecento si è distaccato dal modello dominante ottocentesco […] Il Novecento ritrova la libertà di genere che appartiene al romanzo […] L’ideale del ‘tutto configurato’ delle poetiche naturalistiche non è più suo […] La nuova narrativa, nella varietà dei suoi orientamenti, di tipo esistenziale, surreale e mitico-favoloso, presenta una riduzione dei nessi causali e temporali, e una struttura a segmenti liberamente articolati […] Anche le opere di grandi dimensioni sono ‘nucleate’: organizzate a nuclei. In esse si parte dal dettaglio. Ed è il dettaglio che riceve uno sviluppo, al limite abnorme, in estensione», G. Guglielmi, La prosa italiana del Novecento II. Tra romanzo e racconto, Einaudi, Torino 1998, pp. VII-VIII. Evocare i nomi di Kafka, Pessoa e Bernanos significherebbe scomodare solo una minima parte — quantunque la più rilevante — degli esempi a disposizione. Almeno i primi due debbono però essere menzionati, poiché la loro vicenda artistica presenta sconcertanti analogie con quella novalisiana. ↩︎

  43. S. Bellow, Herzog (1961), Mondadori, Milano 1985, p. 252. ↩︎

  44. K. Löwith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen (1935), Felix Meiner Verlag, Hamburg 1978; tr. it. Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Bari 1998, p. 9. ↩︎

  45. «Le sue immagini non sono che apparizioni e fantasmi d’un cervello allucinato e rarefatto nella tremenda fatica di carpire pensieri irraggiungibili», V. Cardarelli, Lo stile di Nietzsche, in id., Opere, Mondadori, Milano 1981-19985, p. 328. ↩︎

  46. Su questo punto decisivo si veda soprattutto il quinto capitolo di I. Berlin, The roots of Romanticism, tr. it. Le radici del Romanticismo, Adelphi, Milano 2001. ↩︎

  47. Novalis, I discepoli di Sais, cit., pp. 161-163. Lo stesso dice Heidegger: «La poesia è il corso delle acque che a volte scorre all’indietro, verso la sorgente», Was heiât Denken? (1954), Max Niemeyer Verlag, Tubingen, 1971; tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano, 1978, p. 45. ↩︎

  48. cfr. Die Welt als Wille und Vorstellung, § 52. ↩︎

  49. E. Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Einaudi, Torino, 1987, p. 147. ↩︎

  50. C. Magris, Itaca e oltre, Garzanti, Milano 1999, p. 45. ↩︎

  51. B. Spinoza, Etica — Trattato teologico-politico, UTET, Torino 1972, p. 393. Si vedano inoltre i primi due capitoli del Tractatus nella loro interezza. ↩︎

  52. Ancora una volta si prendono le distanze da Hegel per il quale la natura è il regno della pura accidentalità da cui ci si deve emancipare tramite il lavoro, ossia la trasformazione della materia bruta in coscienza deificata e dunque in auto coscienza acquisita. Il percorso della Fenomenologia consiste in una progressiva de-naturalizzazione del mondo. ↩︎

  53. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo III, p. 769. ↩︎

  54. Mi servo, d’ora in avanti, della splendida traduzione di G. Manacorda (R. Wagner, Tristan und Isolde, Le Lettere, Firenze, 1994). Ove, a fini divulgativi, le traduzioni non possano essere evitate, conviene giovarsi di quelle che meno tradiscano il senso originario e meglio restituiscano la sublimità del canto. ↩︎

  55. Si riguardi il rapporto che Wagner intrattiene con Schopenhauer: «L’elemento tragico della vita [come gli spiega Herwegh] è precisamente racchiuso nella coscienza che Schopenhauer ci dà della nullità del mondo fenomenico. Ogni grande poeta, e in generale ogni grande uomo ha avuto l’intuizione di questo nulla. Pensai allora al mio poema nibelungico e constatai con sorpresa che inconsciamente, nelle mie concezioni poetiche, avevo riconosciuto ciò che mi rendeva così perplesso in teoria. Solo in quel momento compresi realmente il mio Wotan», R. Wagner, Autobiografia, cit., p. 510. ↩︎

  56. Ricordo le commoventi pagine finali della prima parte di Tod des Virgil, dove Hermann Broch coniuga mirabilmente il tema goethiano delle Madri con una notturna corrente di coscienza di ispirazione chiaramente novalisiana (tr. it. La morte di Virgilio, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 96-107). Quello di Broch non è nulla di simile a un romanzo storico, neppure lato sensu. È invece l’applicazione personalissima di tecniche narrative di ascendenza joyciana e l’esplorazione di una regione che solo il romanzo può perscrutare, quella delle infinite possibilità esistenziali nella loro polifonica compresenza. ↩︎

  57. La traduzione è quella di Giovanna Bemporad (Novalis, Inni alla notte — Canti spirituali, Garzanti, Milano, 1999). ↩︎

  58. L. Pareyson, Il poeta e la morte in Novalis, in «Rivista di estetica», maggio-agosto 1972, p. 148. ↩︎

  59. È la trasfigurazione del punto di vista hegeliano sul lavoro umano che trasforma il mondo, portandolo con ciò alla verità. ↩︎

  60. W. Dilthey, op. cit., p. 318. ↩︎

  61. Come non rammentare, a tal riguardo, le parole di Hans Sachs nella Scena Seconda del Terzo Atto dei Meistersinger von Nurnberg? «Amico mio! Questa appunto è l’opera del poeta, / di interpretare e segnare i propri sogni. / Credetemi: la visione [Wahn] più vera dell’uomo / è quella che gli viene svelata in sogno: / ogni arte poetica [Dichtkunst] e ogni poesia [Poeterei] / non è che interpretazione di verità sognate [Wahrtraumdeuterei]». Nessuna caduta in vacui irrazionalismi con tutto ciò: le parole di Sachs che concludono l’opera (Atto Terzo, Scena Quinta), ribadite dal coro finale, enunciano leggi costruttive e strutturali confrontabili con quelle propugnate da Valéry! ↩︎

  62. A. Béguin, Jean Paul e il sogno, in Jean Paul, Sogni e visioni, Mondadori, Milano 1998, pp. XXVII-XXVIII. Questi temi sono stupendamente ed abbondantemente approfonditi in A. Béguin, L’âme romantique et le rêve, Librairie José Corti, Paris 1939, tr, it. L’anima romantica e il sogno, Il Saggiatore, Milano 2003. ↩︎

  63. Si pensi alla Commedia dantesca («tant’era pien di sonno a quel punto», Inferno I, 11 e anche Purgatorio IX, 11: «vinto dal sonno, in su l’erba inchinai»), o a Petrarca («vinto dal sonno, vidi una gran luce», Triumphus cupidinis I, 11), o a La coscienza di Zeno («Nel dormiveglia ricordo…», Preambolo), o, ancora, alla vocazione di Samuele («la lampada di Dio non era ancora spenta e Samuele era coricato nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: ‘Samuele!’», I Sam III, 4). ↩︎

  64. «La narrazione onirica; diciamo piuttosto: l’immaginazione, che, affrancata dal controllo della ragione e dall’assillo della verosimiglianza, penetra in paesaggi inaccessibili alla riflessione razionale. Il sogno è il modello di questa specie di immaginazione […] Come può il romanzo, che dev’essere, per definizione, un esame lucido dell’esistenza, accogliere l’immaginazione incontrollata? Come è possibile unire elementi così eterogenei? Ci vuole una vera alchimia! Credo che il primo ad aver pensato a questa alchimia sia stato Novalis. Nel primo tomo del suo romanzo Heinrich von Ofterdingen, Novalis ha inserito tre grandi sogni. Non si tratta di un’imitazione ‘realistica’ dei sogni come se ne trovano in Tolstoj o in Thomas Mann. Si tratta di una grande poesia che si ispira alla ‘tecnica immaginativa’ propria del sogno», M. Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 1988, pp. 118-119. ↩︎

  65. F. Hölderlin, Le liriche, Adelphi, Milano 1977, p. 167 (traduzione di E. Mandruzzato). ↩︎

  66. L. Frezza, in S. Mallarmé, Poesie, Feltrinelli, Milano 19983, pp. 187-188. ↩︎

  67. Loc. cit. ↩︎

  68. C. G. Jung, Psychologie und Alchemie, Olten; Freiburg i. B.: Walter 1976; tr. it. Psicologia e alchimia, Einaudi, Torino 1981, p. 85. ↩︎

  69. Novalis, I discepoli di Sais, cit., p. 105: «Gli uomini percorrono strade molteplici. Chi le segue e le confronta vedrà originarsi figure bizzarre; figure che sembrano far parte di quella grande scrittura cifrata che si scorge dappertutto». ↩︎

  70. Il termine concordia è tanto cusaniano quanto coincidentia, ma lo preferisco perché dà meno adito a fraintendimenti hegelistici. ↩︎

  71. Novalis, I discepoli di Sais, cit, p. 163. ↩︎

  72. «Là dove Goethe intravede la crisi o il dissolversi delle forme organiche nel caos della storia moderna, i romantici scorgono l’occasione di un’infinita libertà dello spirito che, non più condizionato dall’ordine organico di una natura in sé, può costruire a suo piacere, nell’euforia di una vera e propria cabbala estatica, infinite catene di analogie, metafore e similitudini, fino ad arrivare a Novalis che si immagina ‘racconti senza alcuna coerenza, ma pieni di associazioni, come i sogni’ oppure ‘poesie solo melodiose e piene di belle parole, ma anche senza senso e del tutto incoerenti’ […] Tutto può rinunciare al nesso organico e consequenziale, farsi gioco onirico di pure associazioni», G. Baioni, L’alchimia, la chimica e il fiore androgino, in J. W. Goethe, Le affinità elettive, Marsilio, Venezia 1999, p. 24. ↩︎

  73. Novalis, Opera filosofica, Einaudi, Torino, 1993, vol. I, 250, p. 525. Le due versioni, peraltro, non sono in contraddizione: il ritrovamento di sé, il progresso nell’autocoscienza — qui Hegel ha ragione — avviene solo attraverso il confronto con la realtà e, eminentemente, con un’altra coscienza. ↩︎

  74. «Credo di poter esprimere nel modo migliore il mio stato d’animo nella fiaba. Tutto è fiaba» (18). ↩︎

  75. «Dio è l’amore. L’amore è il sommamente reale — il fondamento originario», Novalis, Allgemeines Brouillon, in id., Opera filosofica, cit., vol. II, 79, p. 279. ↩︎

  76. F. Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano 1992, frr. 160-161, pp. 96-97. ↩︎

  77. «Noi sogniamo di viaggi attraverso il cosmo — Ma non è il cosmo in noi? Noi non conosciamo le profondità del nostro spirito — Il cammino misterioso va verso l’interiorità», Novalis, Osservazioni sparse, in id., Opera filosofica, cit., vol. I, 17, p. 362. L’interesse per la mineralogia risale in Novalis al suo fraterno rapporto col maestro A. G. Werner. ↩︎

  78. Se tale prospettiva non è ancora definitivamente acquisita nel primo romanzo importante di Hardy, Far from the Madding Crowd (1874), essa indiscutibilmente prende a chiarirsi almeno a partire da The Return of the Native (1878) e poi con The Mayor of Casterbridge (1886), per realizzarsi in Tess (1891) e in Jude the Obscure (1896). È ampiamente eccepibile il giudizio di Carlo Cassola che, per sostenere la sua tesi secondo la quale «Thomas Hardy è uno scrittore esistenziale» (il termine è inteso in accezione sartriana), contesta l’asserzione di Virginia Woolf: «Hardy è il più grande scrittore tragico di tutti i romanzieri inglesi» (cfr. C. Cassola, Introduzione a T. Hardy, Tess dei d’Urberville, Mondadori, Milano 1979). A mio avviso, è proprio quest’ultima la sentenza da sottoscrivere. ↩︎

  79. Il riferimento a Hawthorne non è solo una suggestione; è, invece, del tutto pertinente: il poeta di The Great Carbuncle è una sorta di caricatura dell’Heinrich novalisiano; inoltre, la prossimità dello scrittore americano a temi alchemici è nota, documentata e studiata, fra gli altri, da Zolla, nella prefazione alla sua traduzione del Septimius Felton; infine, gran parte della sua opera evoca il topos del viaggio iniziatico alla ricerca di una identità inizialmente indefinita: il «chiamiamolo Wakefield» all’inizio di uno dei suoi racconti più celebri riecheggia il «Call me Ismael» di Moby Dick (il viaggio del Pequod narrato dal grande amico di Hawthorne inizia così e si conclude con l’acquisita coscienza da parte del protagonista della sua condition humaine, uno stato di sconfortante orfananza. Considerare il capolavoro melvilliano, questo straordinario compendio di tutti i generi letterari, come il Baedeker della baleneria sarebbe altrettanto fuori luogo quanto considerare — come pure è stato e continua ad essere fatto — Death in the afternoon di Hemingway il Baedeker della tauromachia, perdendo tutta la dimensione tragica che lo sostanzia). ↩︎

  80. Soprattutto nella versione non finita del 1967 (L’empire des lumières, olio su tela, 45 x 50,3 cm, Collezione privata). ↩︎

  81. L’episodio è narrato da Orson Welles a Peter Bogdanovich nel celeberrimo libro-intervista This is Orson Welles (tr. it. Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano, 1996, p. 288). ↩︎