Verità e scelta. Considerazioni ontoteologiche sulla differenza del fondamento etico e veritativo in Kierkegaard e Heidegger

Le attuali discussioni sui fondamenti dell’etica vertono attorno ai completamenti decisivi e alle prospettive determinanti che rendono possibile l’adeguata comprensione del fenomeno morale (dell’agire morale). Tali prospettive fondanti suppongono l’essere umano come unità corporale-spirituale e come soggetto agente, dotato di una sfera affettiva- pulsionale- emotiva, capace di trascendersi dalla propria centralità egologica (attraverso atti intellettual-volitivi) per tendere liberamente “verso gli altri”. Tuttavia, alle teorie etiche e di riflesso ai tentativi di fondare delle “norme” etiche dell’agire mancano le suddette prospettive determinanti poiché la questione dell’eticità ha perso il suo valore. Se, dopo Nietzsche, la verità è solo un gioco interpretativo e una fuga di prospettiva (così come lo sono i valori che la rendono tale) com’è possibile parlare di un “fondamento ultimo”? Filosoficamente la questione diventa essenziale: è l’uomo libero e capace di raggiungere quel grado di libertà che permette l’apertura verso l’altro? Esposti alla “rischiosa” contingenza possiamo definirci signori del nostro agire?

Cerchiamo, anzitutto, di definire in cosa consista l’essenza dell’essere umano. «L’uomo è spirito. Ma cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. E l’io cos’è? È un rapporto che si rapporta a se stesso oppure è, nel rapporto, il rapportarsi che il rapporto si rapporta a se stesso; l’io non è il rapporto, ma il rapportarsi a se stesso»1. In realtà, l’esposizione di Kierkegaard si fonda sulle due determinazioni fondamentali dell’essere umano, finito – necessità, e sui loro rispettivi ed ulteriori contraltari: infinito – possibilità. Per il sé che deve liberamente divenire se stesso autentico, possibilità e necessità sono altrettanto essenziali. Per ogni determinazione del sé è essenziale la combinazione di infinito e finito (ἄπειρονπέρας), di possibilità e necessità. L’uomo è κατὰ δύναμιν ed è posto in se stesso come sintesi di finito ed infinito, è posto ed è in potenza poiché il sé è tanto possibile quanto necessario: è sì se stesso ma deve diventare se stesso. È necessario in quanto se stesso e fa vivere la possibilità nella misura in cui deve diventare se stesso. Se la possibilità travolge il sé ecco allora la disperazione della possibilità diversa sì, ma altrettanto disperata della gretta disperazione del finito, del limitato2. Conseguenza esistenziale di straordinaria portata filosofica è il seguente assunto: la necessità non è unità di possibilità e realtà ma la realtà è unità di possibilità e necessità. In Heidegger, è noto, riecheggiano categorie esistenziali di kierkegaardiana memoria: l’angoscia (condizione d’animo per mezzo della quale l’Esserci è rimesso a se stesso, alla propria singolarità), la conseguente capacità dell’esserci di comprendere la libertà dello scegliere-se-stesso in quanto contrapposta alla deiezione del si impersonale (che in Kierkegaard corrisponde allo «stadio etico»), l’esserci autentico (eigentlich) e l’esserci inautentico (uneigentlich).

Ciò non toglie la netta presa di distanza di Heidegger dall’analisi dell’esistenza di Kierkegaard. L’analisi condotta dal «Socrate danese» è accusata di essere rimasta su un piano ontico ed esistentivo, orientandosi verso una comprensione dell’esistenza umana in quanto essere nel mondo che, quindi, si presenta come essere-gettato e inautenticità: nel mondo, l’uomo si prende anzitutto cura degli enti intramondani che o sono semplicemente presenti oppure sono strumenti per la progettualità che attualizza delle possibilità le quali, in quanto intramondane, sono inautentiche; mentre la cura che l’esser-ci ha degli altri è mediata dal linguaggio quotidiano ed appare come chiacchiera, spersonalizzazione indicata dal pronome «Si». In Sein und Zeit l’etica non riesce ad occupare uno spazio indipendente perché a fallire è l’autonomia della coscienza morale: nel secondo capitolo della seconda sezione, dove si analizza il poter-essere autentico e la decisione, la coscienza morale è ricondotta a fondamenti ontologico-esistenziali e definita la chiamata della Sorge, proveniente dallo spaesamento (Unheimlichkeit) dell’essere-nel-mondo dell’Esserci autentico, che risveglia il Se-stesso dell’Esserci dalla sua dispersione deiettiva nel Si, risolvendo il tutto nella decisione anticipatrice.

Insomma, proprio l’etica si costituisce come il terreno su cui l’ontologia heideggeriana mostra i propri limiti essenziali: il rapportarsi in modo privilegiato all’essere mette in risalto una chiusura del soggetto rispetto al mondo circostante3. Il fallimento dell’autonomia della coscienza morale svela l’uomo nel suo modo di porsi rispetto alla realtà: un esistente che nel suo ek-sistere, nella trascendenza del sé e della realtà, produce possibili e fonda la sua stessa vita come insieme di potenzialità, realtà (incompiute) e tendenze. Eppure, soprattutto in Vom Wesen der Wahrheit sono espliciti un tendere proprio e uno improprio e l’energia di fondo che regge tale tensione è l’έρως nella qualità, appunto, di tensione ontologica.

Per Kierkegaard4, έρως esprime l’essenza dell’unione tra cielo e terra. Secondo Heidegger lo stesso essere è compreso nella tensione ontologica e in esso rientra quello che chiamiamo l’originario essere in uno stato d’animo da parte dell’esserci. Stati d’animo fondamentali come la serenità, la gioia e l’angoscia sono originari, anzi sono le modalità fondamentali in cui la natura dominante pre-dispone l’uomo, cioè dispone sempre in questo e in quel modo il suo originario essere in uno stato d’animo. Solo nel 1946, in Brief über den “Humanismus”, Heidegger parla esplicitamente di ἧϑος sostenendo che l’«etica» è presente per la prima volta, come ambito separato dalla «logica» e dalla «fisica», nella scuola di Platone. Tali discipline si strutturano autonomamente nel momento in cui il pensiero diviene filosofia e quest’ultima ἐπιστήμη. «Nel passare attraverso la filosofia così intesa, nasce la scienza e perisce il pensiero»5 perché prima di allora i pensatori non conoscevano né una «logica», né un’«etica», né la «fisica» e non per questo il loro pensiero è immorale o illogico: «Essi pensavano invece la φύσις con una profondità e un’ampiezza mai più raggiunte da nessuna fisica posteriore»6 poiché quel pensiero che pensa la verità dell’essere come strutturalmente co-originaria all’essere dell’Esserci è in sé etico. Bisogna dunque comprendere che l’uomo abita una «regione aperta» all’incontro e che questo abitare-tale-luogo ha nome ἧϑος. In particolare, l’esordio del Brief è utile per comprendere come anche la determinazione propria della ragione umana abbia una sua provenienza (dall’e-sistenza in quanto «stare nella radura – Lichtung – dell’essere»7): «Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza deciso l’essenza dell’agire. Non si conosce l’agire se non come il produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità.

L’essenza dell’agire, invece, è il portare a compimento (Vollbringen8. D’altronde, in altri luoghi del suo lungo percorso speculativo, Heidegger si domanda «che cosa pensassero i Greci di ciò che noi chiamiamo “verità”. Quale parola avevano per nominarla? La parola greca che sta per “verità” – non lo si sarà mai ricordato abbastanza, e bisogna sempre tornare a farlo, quasi ogni giorno – è ἀλήθεια, svelatezza. Qualcosa di vero è un ἀληθές, uno svelato»9. Anzitutto, che cos’è possibile scorgere da questa parola? Cosa “vediamo” per mezzo di essa? I Greci intendevano ciò che noi chiamiamo “il vero” come il dis-velato, il non più velato; ciò che è senza velatezza (Unverborgenheit) e dunque è stato strappato alla velatezza (Verborgenheit), ciò che le è stato, per così dire, rapito.

Il vero è quindi per il Greco qualcosa che non ha più in sé qualcos’altro, cioè la velatezza di cui si è liberato. Perciò, per struttura semantica e lessicale, essa ha un contenuto diverso rispetto alla parola tedesca Wahrheit e, significativamente, anche già rispetto alla parola latina veritas. È un’espressione privativa. La «verità» è un privativo; stranamente, vero significa qualcosa che non ha più qualcosa. Eppure, poco prima, Heidegger scrive: «La verità è conformità. La verità è quindi la concordanza, fondata sulla conformità, dell’asserzione con la cosa»10. Proprio tale “conformità” che deve essere necessariamente – ma al tempo stesso nella possibilità del sottrarsi e del restare sospeso – determina l’intera problematica logico-metafisica riguardo le relazioni che intercorrono tra i contenuti delle rappresentazioni e il loro statuto di oggettività e di valenza intersoggettiva. La verità gioca sul principio della sottrazione, del nascondimento, della sfumatura, della metafora e dell’allusione che Heidegger sa ben coniugare nella sua scrittura asciutta, essenziale ed emotivamente efficace11.

Tuttavia, stretta è l’unione tra tensione ontologica e svelamento (Entbergung), simile al percorso che dalla dóxa circa la comune conoscenza dell’ente giunge all’epistème della verità. La differenza fondamentale riguarda le diverse modalità di appartenenza, e quindi la stessa possibilità di riferimento, del vero all’ambito ontico oppure a quello ontologico: la verità, in ambito ontologico, non abbisogna di alcuna dimostrazione ma di corrispondenza, così come la verità per essere compresa in ambito ontico deve manifestarsi dimostrativamente. Si potrebbe dire che all’analitica procedurale dell’ontico fa da contraltare la sintesi corrispondenziale dell’ontologico. In altri termini, riguardo la prospettiva dell’essere bisogna parlare di evento (-appropriazione, Ereignis) e, conseguentemente, ci si colloca nella prospettiva del fondo originario che emerge, della risonanza profonda di ciò che permane nel frammezzo tra verità come radura per il non-velarsi dell’Essere e l’evento stesso quale lampante manifestatività dell’Essere. Ora, nel Brief il linguaggio è designato come «casa dell’Essere»: l’evento della verità dell’Essere accade originariamente nella parola. Tale designazione sembra una destinazione per il futuro filosofare poiché inevitabile diviene la riflessione sulla questione del rapporto tra pensiero e linguaggio. La Bestimmung come “determinazione” del significato e del concetto, “definizione”, esprime anche il senso della “destinazione”, dello “scopo”, del “compito”. Difatti, il discrimine tra la semplice definizione nominale di verità come accordo della conoscenza con il suo oggetto e la heideggeriana concezione della verità che si fa evento appropriante (Er-eignung) e al tempo stesso espropriante (Ent-eignis, come esproprio dall’inautentico) consiste nella modalità relazionale con cui l’intelletto umano si rapporta alla svelatezza appropriandosi della verità. Noi veniamo al mondo e dipartiamo da esso in una reciproca co-appartenenza appropriante rispetto alla verità. La stessa realtà fattuale o esperienza vissuta che mi sta dinanzi non può essere additata come un semplice oggetto; essa può essere appropriata perché, essenzialmente, si fa appropriare nell’evenire dell’evenienza in quanto processo dinamico di appropriazione12.

Per Kierkegaard, invece, il rapporto dell’essere umano con la verità è segnato dal paradosso. Nessuna certezza, solo aspirazione e perfezionamento. Questo il motivo per cui, nella sua opera, sembrano risuonare sempre nuove le parole di Lessing che chiudono il primo capitolo della Controreplica13. Lévinas, in Nomi Propri, afferma che la grandezza della verità trascendente e il suo stesso essere trascendente sono conseguenza della sua umiltà (come se la verità non osasse dire il suo nome perché il rischio sarebbe quello di confondersi con gli altri fenomeni, di fondere il proprio altrove alla contingenza). Il carattere indecifrabile della verità trascendente consiste nel suo strutturarsi in modo esistenziale, vivo, storico ma nella peculiarità, per l’uomo, del sempre incomprensibile, del non-conoscibile. Inconoscibile per la ragione. Diverso è il rapportarsi alla verità trascendente per mezzo della Fede (Tro) o, per meglio dire, secondo il senso esistenziale attribuito da Kierkegaard al credere, nella Fede. Il cristianesimo come fede è un problema di esistenza non di scienza. È questione soggettiva e non oggettiva. Solo gli occhi della Fede vedono ed accettano lo «scandalo assoluto» dell’Uomo-Dio, lo scandalo dell’«umiltà della verità perseguitata»14. E Cristo, Verità incarnata, scandalizza in quanto a Lui l’umiliazione appartiene in modo essenziale.

A confrontare tali differenti ricostruzioni onto-teo-logiche emergono subito le due componenti fondamentali dell’etica: la trascendenza e l’immanenza. Insomma, il divario rispetto al problema del fondamento consiste proprio nel differente modo di rapportarsi all’essere originario. Kierkegaard riconosce come fondamento l’assoluta differenza qualitativa tra l’uomo e Dio, pertanto la determinazione del rapporto tra il singolo e Dio si attua per mezzo della fede; mentre in Heidegger il fondamento è disseminato15 e ne siamo parte nell’incontro dell’Esserci con l’essere dell’ente in generale, del nostro essere che, essenzialmente, è con e nell’evento dell’essere. In ogni caso dobbiamo riconoscere che nell’uomo c’è di più dell’immanenza, qualcosa che non dipende dal tempo della nostra vita storica, un che d’eccessivo che proviene dalla notte dei tempi e che ci fonda destinandoci attraverso l’eccedenza dell’essere. Naturalmente, sia l’incontro con l’essere trascendente che la vicinanza al prossimo hanno origine nella coscienza umana e sono espressione del vissuto coscienziale-temporale. Poi, il fatto che la coscienza umana sia sempre necessariamente anche autocoscienza, definizione almeno implicita che l’uomo dà di se stesso, decifrazione del proprio enigma, risposta alla sua domanda radicale, fa sì che il contenuto di questo atto, come risulta nella nostra esperienza interiore, sia un dato che permane e muta nello stesso tempo. Etica, in tal senso, è la coscienza di una permanenza sotto la dispersione, di un divenire nell’identità di se stesso con sé. Ciò significa che l’autentico atteggiamento etico di fronte alla propria storicità evita sia la vanità di una innovazione radicale e totale, sia l’impotenza di un puro ricordo.

Per ambedue gli autori di riferimento è la parola ad essere il centro di emanazione di ogni senso teoretico e morale. Una sintesi tra posizioni così diverse è possibile solo ab origine: proprio nella comunicazione come libero rapportarsi all’altro in senso assoluto e fondativo è possibile superare la fissità della stasi concettuale. Se la disseminazione di cui ci parla Heidegger nasce specificamente dal rapporto tra libertà e fondamento (poiché la libertà fondando «» e «prende» fondamento), solo la Parola (sintesi di tempo ed eternità) oppure il Linguaggio (luogo del soggiorno nell’apertura all’incontro) possono creare nell’uomo un’identità morale. L’uomo può essere espressione fontale di ogni diritto solamente se la radice di ogni relazione morale è il rapporto autentico con il prossimo. Che si parli di «salto nella fede» o di «corrispondenza all’essere», non c’è miglior modo di fondare un’etica che iniziare ad agire in direzione e nel rispetto del prossimo. La verità della Parola o l’epifania ontologica del Linguaggio devono comunicare e rendere testimonianza delle opere. Il plurale esprime il senso esistenziale della ripetizione che, a nostro avviso, costituisce anche l’essenza di ogni autentico atto etico: l’unico modo per fondare norme etiche è agire eticamente portando a compimento la pienezza del «condurre-fuori», dell’agire morale gratuito. Torna in mente l’arguta rievocazione presente all’inizio de Gjentagelsen (1843): «Visto che gli Eleati negavano il movimento, intervenne Diogene nel ruolo di oppositore; intervenne davvero, in quanto come noto non disse una parola, ma camminò semplicemente avanti e indietro due tre volte, col che stimò di averli refutati a sufficienza»16.


  1. S. Kierkegaard, Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1988, p. 625. ↩︎

  2. Simile alla distinzione kierkegaardiana tra una disperazione attiva e una passiva, è quella nietzscheana tra una forma di nichilismo passivo (dècadence), la Verfall, intesa come desiderio che manca di attuazione e uno attivo che ha come sua caratteristica la Wille zur Macht, che crea e interpreta (Auslegung) la vita. ↩︎

  3. Bisogna riconoscere che la chiusura del soggetto in se stesso e l’indifferenza per la sfera etica sono l’inizio di ogni orrore avvenuto nel «Secolo breve». Th. W. Adorno, riferendosi al pensiero di Heidegger, parla di un «sistema dell’agorafobia» (Th. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1954, p. 61). Cfr. G. VACCARO, Dall’esistenza alla morale. Studi sull’etica del Novecento, Edizioni Cadmo, Fiesole 1996, pp. 9-24. ↩︎

  4. Molto belle le pagine della Postilla nelle quali ritroviamo una straordinaria, seppure breve ma funzionale al suo discorso sulla «differenza qualitativa», ricostruzione teogonica. ↩︎

  5. M. Heidegger, Wegmarken, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1976; tr. it. a cura di F. Volpi, Segnavia, Mondadori, Milano 2008, p. 305. ↩︎

  6. Ibidem. ↩︎

  7. Ivi, p. 277. ↩︎

  8. Ivi, p. 267. ↩︎

  9. M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit. Zu Platons Höhlengleichnis und Theätet, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Mein 1988; tr. it. a cura di F. Volpi, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone, Mondadori, Milano 2010, p. 32. ↩︎

  10. Ivi, p. 24. ↩︎

  11. Il testo heideggeriano in questione continua con la straordinaria ed affascinante analisi del platonico «mito della caverna» fino a giungere ai gradi della svelatezza fuori della caverna e alle quattro domande sui riferimenti dell’ἀλήθεια riscontrabili nell’accadere della liberazione: 1) Qual è la connessione fra idea e luce? 2) Qual è la connessione tra luce e libertà? 3) Qual è la connessione fra libertà ed ente? 4) Qual è l’essenza della verità – nel senso della sveltezza – che riluce dall’unità di queste connessioni? ↩︎

  12. Cfr. M. Heidegger, L’essenza della verità, pp. 72-73. È noto che, dopo la Kehre, maggiore attenzione sarà posta riguardo la radice eigen (proprio) dei termini eigentlich e uneigentlich. Già nel § 9 di Essere e tempo si legge che i termini in questione devono essere intesi in senso rigorosamente letterale. Dopo la svolta, Heidegger accentua la connessione con la radice eigen e quindi con eignen (essere proprio, appropriare) e Eignung (proprietà) per arrivare a collegare il termine a Ereignis↩︎

  13. «Se Dio tenesse nella sua mano destra tutta la verità e nella sinistra il solo eterno impulso verso la verità, seppur con la condizione di dover andare errando per l’eternità, e mi dicesse: scegli! Io mi precipiterei umilmente alla sua sinistra e direi: concedimi questa, o Padre! La verità pura è soltanto per te». ↩︎

  14. Il paradosso assoluto è l’Uomo-Dio, Gesù Cristo. «Comprendere che non si può (ne si deve) comprendere» è una formula usata spesso da Kierkegaard per spiegare il rapportarsi dell’uomo a Dio nello scandalo del paradosso. La verità espressa da Cristo è l’amore inteso come caritas che può essere «comandato solo perché prima è donato» (come riconosce giustamente il Papa emerito Benedetto XVI). Notiamo, tra l’atro, che il contenuto principale della Lettera di Giacomo (l’epistola «preferita» di Kierkegaard) è proprio l’osservanza del comandamento dell’amore che impedisce l’esibizione di parzialità e la mancanza di compassione per il povero: la radice di ogni relazione morale cristiana è la carità. ↩︎

  15. «L’essenza del fondamento è la triplice disseminazione, che scaturisce a livello trascendentale, del fondare: disseminazione nel progetto di un mondo, nel coinvolgimento nell’ente e nella sua fondazione ontologica». Cfr. M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, Halle 1929; tr. it. di F. Volpi, Segnavia, Mondadori, Milano 2010, p. 127 ↩︎

  16. S. Kierkegaard, La ripetizione, a cura di D. Bossio, Bur, Milano 2000, p. 11. ↩︎