La parola luogo della Rivelazione. La dottrina del linguaggio nella teoresi giobertiana

1. La parola: partim divina partim umana

La teorica giobertiana1 del linguaggio si incardina su tre nozioni fondamentali: l’intuito, la parola e la riflessione. Sarà necessario, fin da subito, ricordare che per intuito bisogna intendere l’apprendimento dell’idea nella sua oggettività, ossia, la sua natura propria e originale — senza la contaminazione soggettiva —, ciò è possibile perché il soggetto accoglie, a questo livello, passivamente l’oggetto. Gioberti ereditava la concezione di passività della anima sia dalla lezione gerdiliana su Malebranche sia dal principio vichiano del verum ipsum factum2 (lectio continua degli giovanili).3 Il cardinale Sismondo Gerdil, infatti, nei Principi metafisici, così scrive:

nella percezione degli obbietti, che percepiamo coi sensi, l’anima è puramente passiva. La è questa una verità conosciuta dai più celebri filosofi: Aristotile, S. Tommaso, Malebranche, Locke e tanti altri. E non ha mestieri d’altra prova, che l’esperienza costante, la quale ci fa sentire che teniamo gli occhi aperti, e rivolto verso un obbiettivo, non possiamo fare a meno di vederlo.4

Gioberti, ribadendo l’importanza dell’esperienza, sostiene che l’intuito porti al soggetto una vaga notizia di sé che non è bastevole a generare conoscenza; solamente quando il soggetto, post hoc, si ripiega su di sé e riflette, mediante lo strumento della parola, sulla vaga notizia dell’intuizione primigenia avviene la conoscenza dell’oggetto (senza che l’atto del conoscere comporti una alterazione della sua natura peculiare). Questo il punctum crucis di ogni gnoseologia, da Giovanni Gentile nel suo arcinoto Rosmini e Gioberti,5 ma, prima ancora, da Bertrando Spaventa ne La filosofia di Vincenzo Gioberti.6 Dobbiamo all’importante saggio di Giorgio Derossi La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e il suo significato storico e speculativo7 e alle riflessioni sullo «schematismo linguistico» giobertiano di Gianluca Cuozzo8 una ermeneutica della filosofia del linguaggio più aderente all’imprescindibile fondamento della Rivelazione ebraico-cristiana. Con Derossi possiamo, dunque, affermare che la parola per Gioberti è un sensibile sui generis, o meglio, lo è solamente in quanto involucro dell’originaria Rivelazione divina. La parola va intesa partim di origine divina: la lingua naturale ricevuta in dono da Dio; partim di origine umana: il linguaggio artificiale e convenzionale.9 Tale distinzione, appartenente legittimamente al bonaldismo e alla scuola scozzese — in capite Thomas Reid — viene integrata dal contributo originale di Gioberti che, stando a quanto scrive nella nota II dell’Introduzione, si avvalse del Dialogus de connexione inter res et verba di Leibniz, nel quale la lingua è avvistata come «specchio» dell’intelletto.10 Dalle riflessioni di Derossi integrate e rivisitate da Cuozzo, ho preso le mosse per analizzare la relazione tra segno e parola nella circolarità gnoseologica di intuizione e riflessione. Ho ritenuto un passo ulteriore sottolineare, all’interno della dialettica di videre-auscultare, lo status di «segnatura» della parola, intesa sia come symbolum pictum sia come verbum musicum.11

2. La visione ideale della parola nella riflessione ontologica

Gioberti, a differenza di Reid, fonda nella rivelazione verbale (piuttosto che nel senso comune) la struttura del linguaggio e, fornendone una interpretazione speculativa (il principio simbolico di base, la struttura grammaticale, il fondamento metalinguistico di origine sociale o frutto della rivelazione divina), assume la parola come lo strumento atto a consentire al pensiero di far propria l’idea dell’essere o dell’ente intercettata dall’intuito senza soggettivarla.

La parola, assente nell’intuito, operante nella riflessione, consente di tenere distinto il livello della riflessione ontologica da quello della intuizione intellettuale. La riflessione ontologica utilizza, ripetendoli dentro di se, i dati dell’intuizione immediata e recettiva; ma si tratta di una ripetizione apparente, visto che il «coglimento obiettivo» dell’intelligibile nel caso dell’intuito è privo di mezzi per veicolarlo.12 A ben vedere la riflessione si declina in modo duplice:

  1. La riflessione psicologica, quale atto del pensiero — ripiegato su se stesso — coglientesi in quanto atto (si tratta di un «sensibile interno» che, oggetto stesso della riflessione, è verosimilmente un «fatto»);
  2. La riflessione ontologica è da tenersi quasi come uno «intuito secondario» che, mediante l’ausilio della parola, conosce distintamente il riverbero dell’oggetto contemplato nell’intuito primario, ovvero l’Intelligibile.

Per sintetizzare: la differenza tra la riflessione psicologica e quella ontologica si appunta sulla distinzione tra il contenuto della prima e l’oggetto della seconda, e si fonda sulla dialettica — nel significato proprio giobertiano di opposizione polare — tra ideale e reale.13 La parola,14 nella versione gentiliana del giobertismo, sparisce tra le maglie della funzione dello spirito, ma, in realtà, segna il passaggio dalla visione alla cognizione15: essa è propriamente il signaculum (segno sensibile) del ripiegamento riflesso dello spirito su «quel punto indivisibile in cui il soggetto tocca l’oggetto, e abbraccia quindi l’oggetto medesimo, come intuìto dal soggetto».16 La cognizione del vero — punto di contatto tra l’intuente e l’intuìto — trova l’intelligibile sotto l’involucro della parola, che quasi veste si offre come «incorporazione mentale di un segno».17 Il conoscere, allora, è inizialmente una «partecipazione» per visionem dell’essere finito all’Essere ideale-reale, il quale, restando inaccessibile a livello di essenza (comprese le tre Persone divine e la loro distinzione, di fatto conoscibili per Rivelazione), si mostra imperfettamente percepibile per l’aiuto superiore di «un lume di Gloria». Si tratta — come afferma Gioberti stesso in questo noto passaggio dell’opera sugli errori in filosofia del Roveretano — di un «intuito immanente e perenne del concreto assoluto reale e ideale, e delle idee contenute in esso, come sostanza, e individuate da esso, come causa, coll’atto creativo»18 ovvero della «celebre visione ideale, presentita dai più celebri filosofi antichi della Grecia e di Oriente, e insegnata più espressamente da santo Agostino, da San Bonaventura, dal Ficino, dal Malebranche e da Sigismondo Gerdil».19 La parola come signacolum e strumento, in questa fase del conoscere, pertiene alla sfera visiva.

3. La relazione dialettica di intuito-vista e parola-udito

L’intuito è, in primo luogo, una visione intellettuale, un vedere con gli occhi della mente per speculum il reale assoluto riflesso nel reale contingente. Essa coincide con l’intuizione contratta e complicata (secondo l’uso di Cusano) del nesso creativo fra Ente ed esistente, ma questo videre opaco, in nuce, schiude alla mente l’ombra della «formola» giobertiana, «L’Ente crea l’esistente e l’esistente ritorna all’Ente». Gioberti affida proprio alla riflessione il compito di svolgere lo spectaculum perplesso e confuso, quasi sinestico, della percezione intuitiva. La riflessione, come un astronomo che ricorre al telescopio per ingrandire ciò che il suo occhio non riesce a distinguere, utilizza lo strumento della parola per determinare l’oggetto intelligibile: la parola-strumento fa «muovere» la riflessione, generandola mediante un giudizio espresso da una proposizione originale, che Gioberti definisce principio protologico, ossia «L’Ente crea l’esistente».20 La parola, strumentale alla riflessione, è, veramente, la matrice della riflessione ontologica sulla «formola primigenia», nello stesso tempo logicamente svolta e rivelata «bella e fatta» alla mente umana.21 Avviene ciò che Derossi ha definito «un vero e proprio rivolgimento» della parola: «da una posizione marginalmente strumentale assurge a matrice originaria del processo “logico”».22 La parola, svolgente la «sintesi complessiva e primitiva dell’intuito», è strumento logico di conoscenza ed opera in modo tale da apparire «raziocinante», tuttavia, un’analisi più minuta mostra che essa sia invece il riverbero ecoico di un processo rivelativo: la sintesi primitiva, presupposto di ogni ragionamento, è donata «da Dio stesso parlante allo spirito».23 La parola-strumento della riflessione è suscitata dall’ascolto della rivelazione divina, che si rivolge allo spirito umano sulla scena del «dramma intellettuale»; l’obbedienza dell’Ente, Primo Parlante, trabocca nella ecometria comunicativa che trae in essere un secondo parlante, suo vaso risonanto. La parola sensibile (segno del Verbo ideale) è l’echeion,24 imago vocis, attraverso cui il Primo Parlante «fa sentire la sua voce». S’instaura — nel passare dall’immediatezza dell’intuito alla mediatezza della riflessione — una dialettica sui generis tra intuito-vista e parola-udito; si assiste, cioè, al progressivo sostituirsi (non di secondaria importanza per il tema di questo contributo) dell’udito alla vista e della parola alla luce, del suono al colore. Il seguente passo di Gioberti è molto chiaro al riguardo oltreché stilisticamente bello ed elegante, non paia eccessivo lo spazio della citazione:

lo spirito intuito vede l’idea col giudizio in essa incluso senza saper di vederla, e quindi non giudica, né conosce, propriamente parlando, perché conoscenza, come suona lo stesso vocabolo, vuol dire coscienza. Ma come tosto l’atto riflesso si aggiunge all’intuitivo, mediante lo strumento della parola, l’Idea dianzi mutola fa sentire la sua voce, o piuttosto, per parlare con una metafora più esatta, l’orecchio dello spirito, cioè la riflessione, accogliendo la parola sensibile, si apre a ricevere con essa il verbo ideale, che dianzi invano risonava all’intuito veggente ma sordo, e si abilita a ripeterlo dentro a sé stesso e di fuori agli altri uomini. Il primo pronunziato dell’Idea in questo colloquio interiore è la parola udita da Mosè nel rubo ardente e miracoloso di Madian: Io sono colui che sono. Il secondo pronunziato esposto storicamente e nella terza persona dallo stesso Mosè, nell’esordio del Genesi, suona nella persona prima, in quanto esce dalla voce ideale: Io creo il cielo e la terra. Questi due oracoli che si succedono logicamente, secondo l’ordine espresso, sono simultanei cronologicamente, e s’intrecciano insieme nell’unità dell’Idea per formare un solo giudizio organico e complessivo, il cui soggetto esprime un giudizio speculativo, e il predicato un giudizio pratico, cioè l’uno un assioma divino, e l’altro un fatto divino, donde tutti gli assiomi e fatti dipendono, e che commessi e ridotti a una sola proposizione, mediante il loro organismo, costituiscono il principio unico di tutto lo scibile. Ho detto che ciò succede in un colloquio interiore; perché in effetto, quando spunta la riflessione, ed elice il primo suo atto, il monologo dell’intuito diventa dialogo, l’Idea non è più solitaria com’era dianzi a rispetto nostro, ma diventa viva e sociale, e il parlante divino, essendo udito dallo spirito, produce la prima parola umana, la quale non è che l’assenso dell’uomo a quel primo verbo. Laonde se la voce ideale personificata nell’Idea era: Io sono [Es. 3, 14], la risposta dello spirito dee significarsi colla forma vocativa e colla seconda persona: Tu sei [Mt 26, 16]; la qual forma esprime il primo atto riflessivo, e compie, per così dire, la prima scena di quel dramma intellettuale, che comincia fra lo spirito umano e il suo Creatore. Ma quando la riflessione ha risposto in questo modo affettuoso e drammatico all’eloquio personale e intimo dell’Idea creatrice, ella sente il bisogno di replicare a sé stessa e di separare dalla personalità propria la verità espressa dalla voce ideale, per esprimerne l’indole assoluta; onde ricorrendo alla terza persona, ella dice: Egli è; e compie l’assioma protologico esprimendo la formola ideale in modo assoluto e indipendente dall’individualità umana, e dicendo: L’Ente crea l’esistente; e questo è il secondo atto della riflessione. Questo passaggio successivo della formola ideale per le tre persone del verbo, espresse dalle tre forme: io sono, tu sei, egli è, spiega e determina a capello l’origine del giudizio. Il quale apparisce divino nella prima forma, umano e divino nella seconda, umano nella terza; ma siccome la terza è una semplice ripetizione della seconda, e la seconda della prima, ne segue che il giudizio umano non è mai che la ripetizione del giudizio divino onnipresente all’intuito e per esso riverberante nella riflessione.25

Gioberti, sempre avvertito del pericolo incombente del «misticismo degenere» — disgregatore della integrazione di fede e ragione nonché della religione con la «civiltà» —, cerca di colmare l’incomunicabilità e intraducibilità della visibilità pura mediante la nozione di «verbo ideale» (che non è il Verbo tout court),26 vincolum tra l’Idea e la parola sensibile e traduttore dell’irraggiamento iniziale nella presenza risonante della parola. Vediamo l’Idea irradiante divenire parlante e, contemporaneamente, mutare la struttura dell’«organismo» conoscitivo che, sostituendo l’udito alla vista, accentua la dimensione rivelativa della cognizione.27 Il «colloquio interiore» descritto da Gioberti si articola su tre pronunziati corrispondenti a tre rivelazioni scritturistiche: 1. Es, 3, 14: Io sono Colui che sono; 2. Gn, 1, 1: Io creo il cielo e la terra; 3. Mt, 26, 16: la nota confessione petrina, Tu sei il Cristo. I primi due consistono nel «verbo ideale» e il terzo, che viene replicato nella terza persona Egli è, consta della parola sensibile. Le tre persone del verbo: io sono, tu sei, egli è fondano l’origine del giudizio, il quale è divino nella prima forma, umano-divino nella seconda, umano nella terza; il giudizio umano «riverbera» nella riflessione di quello primigenio divino, restando distinto da esso. Gioberti, affermando l’origine divina sia delle idee che del linguaggio, può sostenere che per «l’occhio allenato del filosofo» tutti gli elementi della formola sono visibili in ogni sentenza e sono rintracciabili in ogni atto conoscitivo che proceda da una proposizione sensata.

4. Verbum mentis e sermo interior

Penso serva ancora sostare sul verbo ideale, primario e fondante rispetto al conoscere, chiarendo il legame esplicito con la Rivelazione cristiana nella distinzione tra sermo interior, verbum mentis e il Verbo. Possiamo prendere le mosse — volendo operare una lettura trasversale delle opere del Torinese — dalla nota XLI dell’Introduzione che offre un paragone dell’«eloquio interiore dell’Idea» secondo le posizioni di S. Agostino, Malebranche e Leibniz.28 Gioberti pone sullo stesso livello i luoghi del De magistro, nei quali S. Agostino «discorre mirabilmente di questo eloquio interiore dell’Idea», con alcuni passi tolti dagli Entretiens sur la métaphysiques (entr. IV)29 e dalla Recherche de la vérité (éclairciss. X)30 di Malebranche, dove il filosofo parigino espone la relazione dialogica immediata tra la ragione umana e la Ragione Universale: «la Raison que nous consultons quand nous rentrons dans nous-mêmes, est une Raison universelle»; ad essi, sempre secondo l’opinione del Torinese, corrisponde il Leibniz della Lettera a Veit Ludwig von Seckendorf del 29 dicembre 1684: «Deus est enim lumen illud, quod illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum. Et veritas quae intus nobis loquitur, cum aeternae certitudinis theoremata intelligimus, ipsa Dei vox est, quod etiam notavit D. Augustinus».31 Gioberti individua — come si può evincere già dall’opera prima Teorica del soprannaturale — i theoremata nei verbi della locuzione edenica direttamente donati-rivelati da Dio:

l’infusione sovrannaturale del linguaggio fu accompagnata necessariamente dall’inspirazione di un ordine intero d’idee, e perciò come i vocaboli importano i concetti, e un corpo di lingua è essenzialmente un sistema di scienza, la filologia primitiva fu una specie di enciclopedia sovrumanamente inspirata. Infatti, secondo il vincolo misterioso dell’idea colla parola […] la comparsa di questi due fenomeni è simultanea, tanto che, se il segno è sovrannaturalmente dato, come accade nel nostro caso, il concetto che gli corrisponde dee avere la stessa origine. Se Adamo creato adulto e perfetto (giacché non sarebbe potuto vivere bambino), e dotato della favella nel primo istante della creazione, ricevette a un tratto nella mente una successione di segni vocali, le idee espresse da questi segni dovettero rampollare simultaneamente nello spirito di quello, ciascuna di esse col suo segno appropriato; quindi furono inspirate a rigor di termini, e non acquistate col lento lavoro delle facoltà intellettive. Non se ne dee già riferire, che tutta la sapienza del primo uomo sia stata infusa: la tecnologia trovata da lui nel fatto degli animali prova il contrario: ed è probabile, che succedesse il medesimo rispetto a tutti gli ordini della natura. Adamo poté nominare i sensibili coi loro propri nomi, come dice il Genesi, deducendoli dagl’intelligibili, cioè dalle radici; ma gl’intelligibili, e specialmente il verbo (cioè l’espressione dell’Ente), destituiti d’immagine sensibile, non sarebbero stati concetti da lui senza l’aiuto della parola.32

Il verbo ideale è una ripetizione in interiore hominis del Verbo divino ad esso totalmente esteriore:

Il Figlio di Dio è detto Sapienza perché è intelligenza; Verbo perché è la parola e il Verbo e la Sapienza sono una cosa sola […] le scritture ci danno la sublime lezione che la parola dell’uomo e il suo pensiero sono una cosa; e che il linguaggio umano è la sapienza della società; e che l’apprendimento di quel linguaggio è la vera, precipua sociale filosofia.33

La visione intuitiva, lasciando il campo al riverbero della riflessione, non solamente comporta il passaggio del videre all’auscultare, ma soprattutto la dialogica della soggettiva cognizione con l’oggettiva rivelazione. Detto altrimenti, l’oggetto della conoscenza conserva una irriducibile autonomia rispetto al processo conoscitivo del soggetto, il quale, non potendo essere inglobato nell’atto del contemplare, con esso «dualizza» nel prestargli ascolto.

5. La parola come signum e revelatio

Il linguaggio, strumento della riflessione, a secondo della «maggiore o minore sua perfezione e finezza» influisce sull’uso che si fa della riflessione stessa; l’esistenza di gradi di perfezione della lingua — riferita non alla struttura grammaticale, ma al deposito lessicale — comporta il riferimento a un modello ideale fungente da unità di misura; la parola è lingua, «dizionario di voci» che è «vocabolario d’idee», «rivo» della «fonte divina e primitiva». I linguaggi ideali, direttamente rampollanti dalla fonte divina, sono due: la rivelazione ebraico-cristiana e il Verbo divino ed ideale; essi sono due manifestazioni della «parola ontologica» già emerse nella dottrina tradizionalista di Bonald e Lamennais. La posizione di Gioberti, come si evince dalla lettera quinta degli Errori filosofici, è intermedia tra i tradizionalisti e i convenzionalisti che seguivano la posizione codificata da Condillac.34 Bisogna porre in rilievo che, al contrario del ragionamento convenzionale, Gioberti quando tratta della sua teorica linguistico-gnoseologica ha in mente non una unità, ma bensì una dualità tra la forma sensibile e il significato ideale (rivelazione dell’Ente) di cui si compone la parola — ovvero tra signum e revelatio; infatti, essa «sarebbe il suono vuoto e sterile, se non fosse preceduta e accompagnata dall’intuito spettatore del vero, e quasi raccoglitore de’raggi che piovono dell’eterno sole in modo confuso, e che sono dalla parola distinti e chiarificati».35 Ora, se contro Lamennais sottolinea la «strumentalità» della parola, contro Condillac rafforza la dimensione rivelata della «favella» generata dalla rivelazione primordiale:

il linguaggio di tutti i popoli — soggiunge Gioberti — dal più salvatico sino al più gentile, non è che un dono di quella rivelazione, un avanzo di quella fede cattolica che fu originalmente data a tutto l’uman genere avanti e dopo il diluvio, nel primo e nel secondo nostro progenitore». E dunque si deve tenere ogni idioma per «un rivo di quella fonte divina e primitiva» («rivo scarso — precisa il Nostro — torbido, melmoso […] per colpa degli uomini, nel quale colla linfa salutifera è misto al veleno») dotato in se stesso di quegli elementi necessari a «condurre innanzi nel cammino della scienza, e guidare altrui fino al vestibolo della cristiana rivelazione.36

Notiamo che, volendo sottrarsi all’autoritarismo della parola di marca tradizionalista, Gioberti, ricorrendo sia implicitamente sia esplicitamente al principio di creazione, passa dalla funzione strumentale-sensibile del signum, così come appare al «lume intuitivo», a quella rivelativa della parola, «voce interiore» che non ha bisogno di segni esteriori, per la quale lo stesso Dio «si era manifestato fin dal primo istante della nostra vita, e vi diceva continuamente: io sono».37 La distinzione tra visione (lume-telescopio-intuito) e audizione (voce ideale-parola sensibile-riflessione) rende esplicita la dualità appena evidenziata tra parola divino-umana, ideale-sensibile, interiore-esteriore: la visione serve per dire la dimensione sensibile della parola-signum, mentre l’audizione ribadisce l’essere il linguaggio un dono della stessa voce dell’Ente che perennemente risuona attraverso il corpo sordo-opaco dei segni sensibili,38 «frantumi e ruderi (svisati certo e smozzicati in modo incredibile) di quella parola originale».39 Sembrerebbe insorgere un vero e proprio paradosso quando si intrecciano nella parola la dimensione segnica (l’idea raggiante all’intuito) e quella verbale della autocomunicazione rivelante primitiva (a sua volta luce), se Gioberti non abbia tenuto a sfondo della sua speculazione la dialettica della coincidentia oppositorum. Si noterà, inoltre, che essa dialettica nell’Introduzione converga sostanzialmente con la nozione di idea, per risolversi, gradualmente, in quella di Verbo nelle cosiddette «postume» e assumere la dimensione cosmica della vibrazione musicale creata dal «dixitque Deus» genesiaco.40 La filosofia «nata colla prima riflessione dell’uomo parlante sui celesti insegnamenti»,41 deve tenere in grande considerazione lo strumento di cui si serve per pensare — la lingua — non per le sollecitazioni stilistico-retoriche (una vera moda al suo tempo) ,42 ma per il nesso teoretico che Gioberti riscontra tra idea e forma; l’idea, come abbiamo visto poc’anzi, si lascia afferrare dalla riflessione proprio perché vestita della forma linguistica, sicché «chi crede le parole non esser che parole, erra di gran lunga».43 Concetto e parola s’imprimono nella mente umana simultaneamente,44 parendo inseparabili, «tanto è vero che la parola, quando è perfetta, fa parte integrale e indivisa dell’idea».45 Questa espressione, se non viene colta, archeologicamente, come segnatura di una rivelazione primigenia, appare l’affermazione di un superamento formale del linguaggio nella convergenza di idea e parola così come si raccolgono indistinte nel lucore dell’intuito.46 Se da un lato dobbiamo rilevare la peculiare convergenza di idea e parola, dall’altro non dobbiamo passare sotto silenzio una evidente ambiguità di questa Identificazione, specialmente quando teniamo presente la definizione di idea che Gioberti — prendendo le distanze da Hegel e dagli «psicologi sensisti» — offre nel III capitolo dell’Introduzione: «con questo vocabolo legittimato da Platone alla lingua filosofica di tutti i paesi civili d’Europa, da me preso in modo analogo al Platonico, voglio significare […] l’oggetto della cognizione razionale in sé stesso, aggiuntivi una relazione al nostro conoscimento».47

Resteremmo non poco interdetti, dinanzi alla perentorietà dell’essere l’idea termine immediato dell’intuito, se non portassimo alla mente il processo di duplicazione che Gioberti ripete per tutti i concetti capitali della sua filosofia: l’idea è sia il «sole intellettuale» che «irraggia sé medesima e l’universo col proprio fulgore»48 e illumina la mente umana della sua propria intelligibilità direttamente, senza mediazione linguistica; sia «parola rivelante» che, grazie al dono del linguaggio primitivo, grammatica del sapere, permette di costruire alla mente umana le tavole dell’enciclopedia «ideale», vera scienza universale.49 Ma, l’Idea, mostrandosi primariamente all’intuito, attraverso una «cognizione vaga, indeterminata, confusa»50 come orizzonte trascendente di senso, prende mediante l’intuito secondario (ovvero la riflessione), i contorni definiti della conoscenza. Essa s’instaura nel soggetto quando egli diventa cosciente, il che ha luogo allorché il pensiero «si ripiega sovra di sé», cioè riflette: «la riflessione — precisa Gioberti — chiarifica l’Idea, determinandola; e la determina, unificandola, cioè comunicandole quella unità finita, che è propria, non già di essa idea, ma dello spirito creato. Per tal modo i raggi della luce ideale confluiscono e si raccolgono in un solo foco, traendo da questa convergenza la lucidezza e la precisione proprie dell’atto ripensativo».51

6. Verbum pictum e verbum musicum

L’integrazione dell’intuito con la riflessione avviene quando la riflessione, determinando l’oggetto intuito, gli dà «forma», quando appuntando su di esso lo sguardo, lo coglie quasi misto di ombra e linea paragonabile ai tratti del disegnare o meglio ai grafemi dello scrivere:

Il pensiero si ripiega sovra di sé, e si gemina, per così dire, nella riflessione, mediante i segni; i quali sono lo strumento, onde si serve lo spirito, per ritessere in sé medesimo il lavoro intuitivo, o piuttosto per copiare intellettivamente il modello ideale. Il che i nostri buoni antichi chiamavano ripensare, e noi men propriamente e meno squisitamente, diciamo riflettere. I segni sono, come i colori, che mettiamo in opera per adombrare e incarnare questo disegno della mente; quindi è che il linguaggio si richiede per le idee riflesse.52

Nella nota I Gioberti specifica che i segni sono le parole, anzi esse sono «i segni principali» così come si evince dalla «breve e nitida esposizione» di Giuseppe Biamonti che egli cita:

tutta l’operazione de’sensi non è che una scrittura, […] noi da bambini altro non facciamo che imparare a leggere, prima notando e distinguendo fra loro i moti, come gli elementi o le lettere, e poi accoppiando un segno con l’altro, e così formando una parola intera: indi paragonando una parola con l’altra finalmente arriviamo a distinguere, giudicare, a ragionare […] noi per via di segni impressi acquisiamo immagini delle cose sensibili.53

La scrittura — come leggiamo dal Del Bello — «nel suo largo significato è la rappresentazione delle idee per mezzo di segni visuali» ed è largamente usata nelle antichi edifici sacri, le piramidi egizie ad esempio, per rappresentare «la virtualità delle contenuta nello spazio divino e assoluto» («onde l’edifizio tutto quanto è quasi un geroglifico immenso […] nel complesso e nelle sue parti rende viva immagine del Teocosmo»). Ma non dobbiamo riferire i segni verbali — funzionali alle operazioni analitiche e sintetiche del linguaggio stesso — alla scrittura ideografica, essi corrispondono ai caratteri fonetici della scrittura alfabetica, la quale «è la parola, morta disciolta, disorganizzata, ridotta allo stato informe di mera potenza».54 Questa ultima considerazione giustifica la seguente affermazione dell’Introduzione: «il linguaggio, come quello che non risiede nei vocaboli morti e disciolti, ma nella loro composizione organica ed animata, vuol essere posto in opera, e inspirato da una voce viva; imperò il favellare interno, per cui lo spirito conversa seco stesso, ha d’uopo della parola esteriore, e dell’umano consorzio».55 Vediamo, perciò, ipso facto, voltare la scena visiva dei grafemi nella sfera puramente uditiva, sonora dei fonemi: la vox viva capace di «animare», sia mediante il colloquio interiore sia mediante quello esteriore-sociale, i caratteri «morti e disciolti» della scrittura. Dobbiamo, però, puntualizzare il legame genetico della scrittura alfabetica con la parola (parlata). Gioberti riteneva la scrittura geroglifica56 — quale rappresentazione mimetica del reale — legata alla sfera visiva57 e cronologicamente posteriore alla scrittura cuneiforme, invece, derivata dalla sfera uditiva — giacché «l’abbiccì dovette nascere dai segni acustici e dalla favella anziché dai simboli visivi»;58 inoltre ipotizzò essere la scrittura alfabetica, in accordo alle conoscenze paleografiche del tempo,59 più vicina al tempo della dispersione babelica e, perciò, prossima a quella lingua adamitica, riverbero della musicale armonia cosmica (le sfere celesti), creata «in principio» dalla Voce divina, quale partecipazione umana all’attività formatrice di Dio (il Verbo, «parola creatrice in quanto effettua i tipi intelligibili delle cose nel mondo» e «parola rivelatrice in quanto li manifesta all’intuito delle menti create»).60 La parola rivelata, nella sua manifestazione sonora, come «parola parlata» è strettamente legata alla musica,61 infatti, essa è innanzitutto voce, viva, armoniosa, cantilenata, che infonde il ritmo, la metrica alla parola,62 altrimenti symbolum pictum «di sua natura inerte, inanime, taciturno».63 La musica, che nel Primato è definita con una certa scioltezza «prerogativa divina», «per mezzo del suono esprime la forza creata nella sua monadica semplicità, e ne adombra la natura interiore»64 e come una «corda vibrata immediatamente dall’anima»65 «si apparenta colla voce e collo spirito» perciò «in molte lingue, dalla più sacra e veneranda sino alla nostra pelasgica, un solo vocabolo esprime lo spirito fattivo della musica, e l’invisibile motore, che lo produce e lo tempera».66 A partire dalla testimonianza di Gn 4, 21 (fondamento insieme alla concezione musicale apollinea della Musica picta Rinascimentale che ha ispirato l’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello)^[67] dove si afferma che Iubal, della stirpe di Caino «fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto», Gioberti stabilisce che «la musica vocale provenne dalla parola» e «fu certo antichissima, poiché dovette precedere l’instrumentale, quasi coeva ai principi del mondo».67 La musica allora, «s’immedesima colla parola originale e parlata», la «parola primitiva, recitata, letta, cantata»68 che esprime a livello umano l’armonia reggitrice l’intero cosmo; «onde il suono è il solo elemento sensitivo per cui il concetto dell’Eterno può rendersi accessibile all’immaginazione».69 L’armonia della «parola musicale», «idoleggiando» l’Idea,70 esprime il sublime per il modo dell’aritmetica — la musica «lavora sul numero e sulla successione dei suoni, è l’aritmetica della matematica estetica»71 — infatti «il suono rappresenta la parte intima dell’assoluto matematico, cioè l’immanenza eterna, come la luce ne Idoleggia la parte esteriore, cioè l’onnipresenza nello spazio senza limiti».72 Vediamo, nel ricomporsi della dialettica di luce e suono, connotare del principio rivelativo proprio la parola viva e musicale — la quale nel suo essere mimetico ed estetico di «[arte] dei suoni dee soggiacere più di tutte agl’influssi della religione».73 Il verbo sonoro sia come trasposizione delle voci angeliche delle sfere celesti sia come parola poetica o eloquente «va al di là della sua funzione segnica e rappresentativa e, in quanto parola obiettiva e rivelante, si mostra in tutta la sua pregnanza ontologica. La proprietà della parola, la sua purezza, sta infatti nella facoltà ad essa propria di lasciar trasparire attraverso il segno sensibile quel tipo ideale […] che essa deve comunicare».74


  1. Prospetto delle abbreviazioni: Mss = I Manoscritti giobertiani della Biblioteca Civica di Torino, 54 voll. DBL = Del Bello, Ediz. Naz. delle Opere edite e inedite di V. Gioberti diretta da E. Castelli (Promossa dalla Società filosofica italiana), a cura di E. Castelli, Bocca, Milano 1939. DBN = Del Buono, Ediz. Naz. delle Opere edite e inedite di V. Gioberti diretta da E. Castelli (Promossa dalla Società filosofica italiana), a cura di E. Castelli, Bocca, Milano 1939. EF = Degli errori filosofici di Antonio Rosmini, Ediz. Naz. delle Opere edite e inedite di V. Gioberti diretta da E. Castelli (Promossa dalla Società filosofica italiana), a cura di U. Redanò, 3 voll., Bocca, Milano 1939. FR = Filosofia della rivelazione, Ediz. Naz. delle Opere edite e inedite di V. Gioberti (Promossa dall’Istituto di Studi filosofici «E. Castelli» e dal Centro internazionale di Studi Umanistici), a cura di G. Bonafede, CEDAM, Padova 1989. IF = Introduzione allo studio della filosofia, Ediz. Naz. delle Opere edite e inedite di V. Gioberti (Promossa dall’Istituto di Studi filosofici «E. Castelli» e dal Centro internazionale di Studi umanistici), a cura di G. Calò, 2 voll., Bocca, Milano 1939-1941. Per il terzo volume di quest’opera, assente in Ediz. Naz. ho fatto ricorso all’edizione riveduta e corretta dall’autore sulla seconda di Bruxelles, Tipografia Elvetica, Capolago 1846. PM = Del primato morale e civile degli italiani, Ediz. Naz. delle Opere edite e inedite di V. Gioberti diretta da E. Castelli (Promossa dalla Società filosofica italiana), a cura di U. Redanò, 2 voll., Bocca, Milano 1938-1939. PeM = Pensieri di V. Gioberti. Miscellanee, in Opere inedite di V. Gioberti, Torino, Eredi Botta, 1859-1860, V-VI. PT = Protologia, Ediz. Naz. delle Opere edite e inedite di V. Gioberti (Promossa dall’Istituto di Studi filosofici «E. Castelli» e dal Centro internazionale di Studi Umanistici), a cura di G. Bonafede, 4 voll., CEDAM, Padova 1983-1986. RN = Del rinnovamento civile d’Italia, Ediz. Naz. delle Opere edite e inedite di V. Gioberti (Promossa dall’Istituto di Studi filosofici «E. Castelli» e dal Centro internazionale di Studi umanistici), a cura di Luigi Quattrocchi, 3 voll., Abete, Roma 1969. ↩︎

  2. «Dai latini verum e factum sono usati scambievolmente o, come si dice comunemente nelle scuole, si convertono l’uno con l’altro. Di qui è dato supporre che gli antichi sapienti d’Italia convenissero, circa il vero, in queste opinioni: il vero è il fatto stesso; perciò in Dio c’è il primo vero perché Dio è il primo fattore: infinito, perché fattore di tutte le cose, perfettissimo, perché rappresenta, a sé, in quanto li contiene, sia gli elementi esterni sia quelli interni delle cose. Sapere è allora comporre gli elementi delle cose: sicché il pensiero è proprio della mente umana, l’intelligenza propria di quella divina. Infatti Dio legge tutti gli elementi delle cose, sia esterni che interni, perché li contiene e li dispone; ma la mente umana, che è finita, e ha fuori di sé tutte le altre cose che non sono essa stessa, è costretta a muoversi tra gli elementi esterni delle cose e non li raccoglie mai tutti: sicché può certo pensare le cose ma non può intenderle, in quanto è partecipe della ragione ma non è padrona di essa. Per chiarire tutto ciò con un paragone: il vero divino è l’immagine solida delle cose, come una scultura; il vero umano è un monogramma o un’immagine piana, come una pittura; e come il vero divino è ciò che Dio, mentre conosce, dispone ordina e genera, così il vero umano è ciò che l’uomo, mentre conosce, compone e fa. E così la scienza è la conoscenza della genesi, cioè del modo con cui la cosa è fatta, e per la quale, mentre la mente ne conosce il modo, perché compone gli elementi, fa la cosa: Dio, che comprende tutto, fa l’immagine solida; l’uomo, che comprende gli elementi esterni, fa l’immagine piana» (G. Vico, De antiquissima Italorum sapientia, in La scienza nuova ed altri scritti, UTET, Torino 1976, 194-195). ↩︎

  3. Sul rapporto tra il principio vichiano e quello giobertiano sono ancora valide le brevi osservazioni di A. Galasso, Del criterio della verità nella scienza e nella storia secondo G. B. Vico, U. Hoepli, Milano 1877, p. 8 ss. ↩︎

  4. S. Gerdil, Principi metafisici e difesa del sentimento del p. Malebranche sulla natura e origine delle idee contro l’esame di Locke, G. Monti, Bologna 1856, p. 10. E ancora «essendo che i rapporti trovansi nelle cose stesse, indipendentemente da ogni opera della nostra riflessione; lo spirito nostro può solamente scoprire tali rapporti, ma non già farli» (Ibid., p. 33). ↩︎

  5. Cfr. G. Gentile, Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, in Opere, XXV, 3a ed., Sansoni, Firenze 1958, p. 264 s. A parer suo la conoscenza prodotta dalla riflessione, necessariamente, causa una «certa» modifica nell’oggetto intuito; giacché la cognizione determinata e distinta dell’oggetto riflesso (e non più solamente intuìto) è improntata dall’unità finita propria dello spirito creato. Dunque, Gioberti sarebbe da collocarsi, nonostante la professione di antisoggettivismo e antipsicologismo, nei canoni del «soggettivismo» moderno. Gentile, verosimilmente, fu indotto dalla lezione di Bertrando Spaventa a considerare l’intuito giobertiano una derivazione di quello rosminiano, ma è affatto complicato ridurre la visio giobertiana a un mero soggettivismo. ↩︎

  6. «La distinzione platonica delle due vite e l’aristotelica della potenza e dell’atto, diventa per Rosmini e Gioberti due ordini psicologici, due ordini di cognizione: l’intuitivo e il riflesso. Per Gioberti l’ordine riflessivo comincia dalla percezione dÈ sensibili; per Rosmini la percezione dei sensibili non è veramente riflessione, ma non è neppur semplice intuizione. La differenza fra i due nostri filosofi qui non è che di parole; ambedue fanno precedere un ordine intuitivo alla percezione dÈ sensibili, Gioberti chiama riflessivo tutto il secondo ordine; Rosmini distingue in esso il primo grado — la percezione — e chiama riflessione tutto il resto, cioè il processo da questo grado alle idee» (B. Spaventa, La filosofia di Vincenzo Gioberti, Federico Vitale, Napoli 1863, pp. 223-224). Sappiamo che Spaventa ha potuto mettere sullo stesso piano l’intuito giobertiano e la cognizione diretta rosminiana perché non ha avvertito in Gioberti la marcata differenza tra «coscienza» e «soggetto». Inoltre in Rosmini si arriva all’intuizione dell’essere per un processo di «notomizzazione» che è ben distante dall’immediatezza rivendicata da Gerdil per il suo ontologismo. Il Roveretano, infatti, nel Nuovo Saggio così scrive a riguardo: «Abbiamo veduto, che prendendo una nostra idea di qualsiasi ente vogliamo, e cominciando per così dire a notomizzarla, noi possiamo tagliar da lei prima le parti sue specialissime, ed appresso le meno comuni, appresso ancora le più comuni; e che quando noi l’abbiamo così spolpata e scarnata, l’ultima cosa che ci rimane, e quasi direbbesi l’ossatura comune di tutte le altre qualità che abbiam rimosse, è l’essere, che perciò solo dicesi la più astratta di tutte le idee: tolta via la quale, ogni altra idea e pensiero ci è reso impossibile: mentre ella soprastà alla mente, anche tutta sola e nuda come la si giunge a contemplare a forza di quelle astrazioni. Dunque ella non ha bisogno d’altro per essere intuita, è intuibile e conoscibile per se stessa» (A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, a cura di G. Messina, in Opere edite ed inedite di Antonio Rosmini. Edizione nazionale promossa da Enrico Castelli. Edizione critica promossa da Michele Federico Sciacca, Città Nuova, Roma 2004, vol. IV, p. 28). ↩︎

  7. G. Derossi, La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e il suo significato storico e speculativo, Marzorati, Milano 1971. ↩︎

  8. G. Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un’interpretazione del pensiero filosofico di Vincenzo Gioberti alla luce delle opere postume, Mursia, Milano 1999, pp. 70-94; 95-103; 198-224. ↩︎

  9. «Il contributo più originale della filosofia della linguaggio consisterà nel riconoscere, all’interno stesso della struttura (grammaticale) del linguaggio, una parte di origine divina e un’altra d’invenzione umana (in coerenza del resto con la nativa propensione giobertiana a mediare gli opposti e in particolare i due estremi, che si affrontavano ai suoi tempi, del sovrannaturalismo e del razionalismo). Originale è da considerarsi invero soprattutto l’uso speculativo fatto da Gioberti — specialmente nella Protologia — della detta ripartizione» (G. Derossi, La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e il suo significato storico e speculativo, cit., p. 183). ↩︎

  10. «Parecchi scrittori moderni assai noti, fra’ quali il Bonald merita un luogo particolare, anno avvertita la necessità del linguaggio per l’esercizio del pensiero. Ma ciò che non si sa comunemente si è, che il Leibniz aveva già avvisata distintamente e messa in rilievo tale necessità, (non ignota agli antichi, e segnatamente a Platone,) nel brano seguente di un suo dialogo: «B. Cogitationes fieri possunt sine vocabulis. A. At non sine aliis signis. Tenta quaeso an ullum arithmeticum calculum instituere possis sine signis numeralibus? (Cum Deus calculat et cogitationem exercet, fit mundus) B. Valde me perturbas, neque enim putabam characteres vel signa ad ratiocinandum tam necessaria esse. A. Ergo veritates arithmetices aliqua signa seu characteres supponunt? B. Fatendum est. A. Ergo pendent ab hominum arbitrio? B. Videris me quasi praestigiis quibusdam circumvenire. A. Non mea haec sunt, sed ingeniosi admodum scriptoris. B. Adeone quisquam a bona mente discedere potest, ut sibi persuadeat veritatem esse arbitrariam et a nominibus pendere, cum tamen constet eandem esse Graecorum, Latinorum, Germanorum, Geometriam. A. Recte ais. Interea difficultati satisfaciendum est. B. Hoc unum me male habet, quod nunquam a me ullam veritatem agnosci, inveniri, probari animadverto, nisi vocabulis vel aliis signis in animo adhibitis. A. Imo si characteres abessent, nunquam quicquam distincte cogitaremus, neque ratiocinaremur. B. At quando figuras geometrise inspicimus, saepe ex accurata eorum meditatione veritates eruimus. A. Ita est; sed sciendum etiam has figuras habendas pro characteribus, neque enim circulus in charta descriptus verus est circulus, neque Id opus est, sed sufficit eum a nobis pro circulo haberi. B. Habet tamen similitudinem quandam cum circulo, eaque certe arbitraria non est. A. Fateor, Ideoque utilissima characterum sunt figuras. Sed quam similitudinem esse putas inter denarium et characterem 10? B. Est aliqua relatio seu ordo in characteribus, qui in rebus, imprimis si characteres sint bene inventi. A. Esto; sed quam similitudinem cum rebus habent ipsa prima elementa, verbi grafia, O cum nihilo, vel A cum linea? Cogeris ergo admittere saltem in his elementis nulla opus esse similitudine. Exempli causa, in lucis aut ferendi vocabulo, tametsi compositum Lucifer relationem ad lucis et ferendi vocabulo habeat ei respondentem, quam habet res Lucifero significata, ad rem vocabulis lucis et ferendi significatam?…. B. Hoc tamen animadverto, si characteres ad ratiocinandum adhiberi possint, in illis aliquem esse situm complexum ordinem, qui rebus convenit, si non in singulis vocibus (quanquam et hoc melius foret), saltem in earum conjunctione et flexu, et hunc ordinem variatum quidem in omnibus linguis, quodammodo respondere. Atque hoc mihi spem facit exeundi e difficultate. Nam etsi characteres sint arbitrarii, eorum tamen usus et connexio habet quiddam quod non est arbitrarium, scilicet proportionem quandam inter characteres et res et diversorum characterum, easdem res exprimentium, relationes inter se. Et haec proportio sive relatio est fundamentum veritatis. Effecit enim ut sive hos sive alios characteres adhibeamus, idem semper sive aequivalens seu proportione respondens prodeat, tametsi forte aliquos semper characteres adhiberi necesse sit ad cogitandum. A. Euge: preclare admodum te expediisti. Idque confirmat calculus analyticus arithmeticusve. Nam in numeris eodem semper modo res succedet, sive denaria, sive ut quidam fecere, duodenaria progressione utaris, et postea quod diversimodo calculis explicasti, in granulis, aliave materia numerabili exsequaris; semper enim idem provenit» (IF, II, nota II, cfr. G. W. Leibniz, Dialogus de connexione inter res et verba, et veritatis realitate, in Ouvres philosophiques latines et françoises. Tirées de ses manuscrits qui se conservent dans la bilbioteque royale a Hanovre et publiées par Mr. Rud. Eric Raspe, chez Jean Schreuder, Amsterdam et Leipzig 1765, pp. 509-511). Gentile ha operato una certa forzatura quando ha accomunato Bonald e Reid sotto lo stesso titolo di continuatori «inconsapevoli» della rivoluzione vichiana in opposizione all’empirismo inglese e al sensismo francese; ma seguiamo da vicino il suo ragionamento: «È noto che l’empirismo inglese e il sensismo francese si proponevano di spiegare il linguaggio umano, come una invenzione dell’uomo. Tommaso Reid per primo, (poiché le profonde intuizioni del Vico passarono inosservate), nelle sue Ricerche sull’intendimento (1763), dimostrò che il linguaggio nel suo amplio significato è naturale prima che artificiale» (G. Gentile, Rosmini e Gioberti, cit., p. 266). ↩︎

  11. «Et veniunt ad te quasi si ingrediatur populus et sedent coram te populus meus et audiunt sermones tuos et non faciunt eos quia in canticum oris sui vertunt illos et avaritiam suam sequitur cor eorum et es eis quasi carmen musicum quod suavi dulcique sono canitur et audient verba tua et non facient ea» (Ez. 32, 31-32). ↩︎

  12. «L’intuito apprende il suo oggetto, benché non lo contenga, come l’occhio vede il sole, senza averlo in sé. S’imprime bensì nell’intuito un’effige dell’oggetto, cioè la sua pensabilità umana, come l’immagine del sole si dipinge nella pupilla; e quest’impronta mentale è rappresentata dalla riflessione psicologica fedelmente, com’è in se stessa» (EF, I, 139). ↩︎

  13. «Qual è, infatti, il termine della riflessione psicologica? È lo stesso spirito che riflette. La riflessione in questo caso non è che l’intuito dell’intuito, e un vero ripiegamento dell’animo sovra sé: il senso del vocabolo è qui metaforicamente esatto, e conforme all’etimologia. Lo spirito che riflette psicologicamente non può uscire dalla considerazione di sé stesso, come non può lasciar di essere quello che è, e trasformarsi in un altro; perché Ivi il termine della cognizione è identico al suo principio, e il soggetto conoscente s’immedesima coll’oggetto conosciuto. Ma ciò non si può dire della riflessione ontologica; la quale avendo per oggetto l’ente intuito, e non l’intuito dell’Ente, non può restringersi fra i limiti dello spirito. L’oggetto della riflessione ontologica non è il concetto del possibile come ripensato dall’uomo, non è la percezione del possibile come pensato da Dio, non è la percezione che l’uomo ha del reale assoluto; ma è questo reale medesimo, in quanto è percepito dall’uomo unitamente al possibile eterno che in lui si racchiude. Dunque egli è chiaro che questa specie di riflessione non è un semplice ripiegamento dello spirito su sé stesso; il quale non contenendo in sé il termine di essa riflessione (come ho mostrato dianzi), e apprendendolo solo come cosa estrinseca, non può certo somministrarlo a quella. D’altra parte la riflessione ontologica non è l’apprensione immediata e diretta dell’oggetto ideale; ché altrimenti coll’intuito si confonderebbe. L’intuito è la dell’Ente semplicemente; laddove la riflessione ontologica è la percezione dell’Ente, non già semplicemente, ma come intuito. Essa è adunque un’operazione speciale, la cui proprietà in ciò consiste, che ella partecipa della natura delle due altre; afferrando da un canto l’oggetto ideale, come fa l’intuito; apprendendo d’altro canto esso intuito, come fa la riflessione psicologica; e contemperando insieme queste due azioni per sì fatta guisa, che l’una di esse perda quello che esclude l’altra, e reciprocamente, onde insieme si accordino. Imperciocché l’intuito, affisandosi unicamente sull’oggetto, esclude la cognizione del soggetto; a riflessione psicologica occupandosi solo del soggetto, non può stendersi all’oggetto: laddove la riflessione ontologica, tramezzando fra le due altre operazioni, abbraccia congiuntamente il soggetto e l’oggetto, e li contempla con un atto unico. Nell’intuito e nella riflessione psicologica il termine dell’operazione è unico, e assorbisce, per così dire, tutto l’animo, che si concentra là nell’oggetto, qua nel soggetto: laddove nella riflessione ontologica il conoscimento è come diviso fra il soggetto e l’oggetto, che ne partecipano insieme, senza che niuno di essi possa tutto attribuirglisi, possedendolo a pregiudizio del suo compagno» (Ibid., vol. I, pp. 144-145). ↩︎

  14. La parola è indispensabile per ripensare liberamente il nostro proprio pensiero, infatti, con l’aiuto del linguaggio si possono «dividere, chiarificare, compire le idee espresse nÈ suoi elementi, distinguendo ciò che è confuso, separando ciò che è unito, svolgendo ciò che è implicato, e riducendo a pienezza e maturità di finimento ciò che è greggio o solamente abbozzato» (Ibid., vol. I, 1, pp. 70). Essa, proprio come il dato sensibile del metodo sperimentale, permette di fornire al pensiero riflessivo — che al livello ontologico non «versa sui sensibili» — un oggetto sul quale appuntare la speculazione sollecitata dai dati sovrasensibili contenuti nell’intuizione. Infatti, soggiunge Gioberti, se ci basiamo sulla nostra esperienza di ricerca possiamo asseverare che «le grandi scoperte speculative muovono sempre da una proposizione, da una frase, talvolta dalla semplice etimologia di un vocabolo, che, fermando l’attenzione del filosofo sovra un dato intuitivo coperto da esso, gliene desta quel confuso sentore che, lavorato dalla meditazione, diventa talvolta, come il pomo del Newton, un magnifico sistema. Tal parola passò le migliaia di volte per le mani degli uomini, senza essere considerata, o senza trovar occhi capaci di conoscerne il pregio; finché capitata innanzi a un raro ingegno avvalorata dalla riflessione, egli s’accorse ch’era una gemma preziosa, e ripulitala con grand’arte, l’incastonò in prezioso anello, dove ora ciascun ammira la sua bellezza. Se si discorre adunque delle materie ontologiche, il primo concetto che coll’idea confusa del termine somministra il punto di partenza scientifico, è sempre occasionato dalla parola» (Ibid., vol. I, pp. 210-211). ↩︎

  15. Gioberti ci ricorda che la cognizione è il risultato della riflessione ontologica, non la semplice adiacenza dell’intuito e dell’Ente in quanto conoscibile, ma la relazione tra l’un termine e l’altro, la quale consiste in «una unità nuova e semplicissima, come il predicato si organizza e si unifica col soggetto nell’unità del giudizio» (Ibid., vol. I, p. 145). ↩︎

  16. Ibid., vol. I, p. 173. ↩︎

  17. Essa è lo strumento che mostra l’intelligibile «come l’occhio non può scorgere, verbigrazia, l’anello di Saturno, senza l’aiuto del telescopio» (Ibid., vol. I, p. 179). ↩︎

  18. Ibid., vol. I, p. 266. ↩︎

  19. Ibid. Gioberti nella corposa nota XXXVII del secondo volume dell’Introduzione illustra sinteticamente la dottrina della visione ideale di Malebranche: «Il Malebranche, che considera le idee divine ed archetipe, come il termine obbiettivo della percezione umana, esclude da questa condizione un solo concetto, cioè l’idea stessa di Dio questa condizione un solo concetto, la quale non è già come le altre idee una percezione dell’idea divina, ma l’intuito o l’apprensione immediata della divina natura. Sentenza, che si connette strettamente col suo sistema; giacché, se tutte le idee nostre sono rappresentative degli oggetti, perché non sono propriamente nostre, ma di Dio, in cui le veggiamo, l’idea di Dio, che è il fondamento di tutte, dee essere di un’altra sorte: non può, come le altre, ridursi a una mera idea divina, che ci venga participata; altrimenti, si dovrebbe chiedere, dove si vede questa idea, e così si andrebbe in infinito; ma vuol essere un’apprensione immediata dell’oggetto medesimo, cioè di Dio, intuito da noi nella sua realtà sostanziale. Iddio insomma è il contenente delle idee nostre; il quale non può essere appreso nello stesso modo del suo contenuto. Noi veggiamo ogni cosa in Dio, e Dio in sé medesimo. L’apprensione, che abbiamo della Divinità, risponde a capello alla percezione, che la scuola scozzese ammette in ordine ai corpi, e salva dallo scetticismo il sistema delle idee rappresentative, dandogli per base la cognizione immediata dell’Ente, in cui si contiene l’archetipo di ogni cosa» (IF, vol. II, p. 316). ↩︎

  20. «Questa proposizione primigenia, per essere compiuta e perfetta nel suo genere, dee esprimere nel modo più sommario il contenuto e l’organismo genuino della formola. Tal è il principio protologico da me stabilito ed espresso in questi termini: L’Ente crea l’esistente; la qual proposizione esprime integralmente, ma nel modo più complessivo, il contenuto e l’organismo della formola ideale. Se le si aggiungesse qualche cosa, e si dicesse per esempio: Iddio crea il mondo spirituale e il mondo materiale, la proposizione come protologica peccherebbe per eccesso, arrecando nell’intuito ideale maggior distinzione di conoscenza riflessiva che non è necessaria per poter cominciare logicamente il processo scientifico; onde ella non sarebbe elementare, né costituirebbe il primo anello della scienza. Se le si sottraesse qualcosa, e si dicesse verbigrazia: L’Ente è, verrebbe meno una parte del contenuto ideale; laddove serbando i tre termini, ma variandone la giacitura e dicendo, per cagion di esempio: L’esistente è creato dell’Ente, se ne vizierebbe l’organismo, introducendo nel processo ideale il metodo prepostero dei psicologisti. Vedesi adunque che la formola ideale contiene confusamente tutta a scienza in virtù dell’intuito che l’accompagna e ne è il fondamento, e non ci reca che quella prima ed elementare distinzione dÈ suoi tre termini, che è necessaria per cominciare l’esplicazione scientifica in tutte le sue parti» (Ibid., vol. I, p. 268). ↩︎

  21. «La formola contiene in modo distinto tre soli elementi, nei quali gli altri si racchiuggono solo in quel modo confuso che è proprio dell’intuito. Ciò che mi dà la formula non è il raziocinio, ma la parola. Imperocchè, quando uno intende quel corto pronunziato: L’Ente crea l’esistente, ha la formola bella e fatta» (Ibid., vol. I, p. 269, corsivi miei). ↩︎

  22. G. Derossi, La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e il suo significato storico e speculativo, cit., p. 194. ↩︎

  23. EF, vol. I, p. 271, corsivo mio. ↩︎

  24. Gli echeia sono i vasi bronzei che nel V libro De architettura Vitruvio suggerisce come rimedio per amplificare le voci degli attori, sull’esempio degli antichi teatri di Scitopoli, Cesarea, Gioiosa Ionica o Taormina. ↩︎

  25. EF, vol. I, pp. 280-281. ↩︎

  26. Ci sia sufficiente questa puntualizzazione espressa da Gioberti in una nota nel volume primo degli Errori filosofici: «Se si ammette l’opinione di alcune teologi cattolici, che l’intelligibilità divina sia il Verbo o più tosto abbia una relazione speciale e misteriosa col Verbo, si dee dire che v’ha distinzion reale fra l’intelligibilità e le altre relazioni divine, non in quanto essa è naturalmente conoscibile, ma in quanto è sovrintelligibile e appartiene al mistero dell’essenza. Imperocché è dettato di filosofia cattolica, che in Dio, per quanto è razionalmente conosciuto o conoscibile, non vi ha e non vi può essere alcuna distinzione reale» (Ibid., vol. I, p. 266 n). ↩︎

  27. In un passaggio della «Lettera Quinta» Gioberti aveva ricordato a Tarditi che: «la rivelazione, di cui affermo la necessità per la riflessione universale, è la rivelazione, primitiva institutrice del linguaggio» (Ibid., vol. I, pp. 179-180). ↩︎

  28. IF, vol. II, pp. 359-360. ↩︎

  29. «Toutes les réponses de la raison sont éternelles et immuables, elles ont toujours été dites, ou plutôt elles se disent toujours sans aucune succession de temps, et quoiqu’il nous faille quelques moments pour les entendre, il ne lui en faut point pour les faire, parce qu’effectivement elles ne sont point faites. Elles sont éternelles, immuables, nécessaires» (N. Malebranche, Entretiens sur la métaphysiques, in Œuvres de Malebranche: Entretiens métaphysiques. Méditations. Traité de l’amour de Dieu. Entretien d’un philosophe chrétien et d’un philosophe chinois, par J. Simon, Charpentier, Paris 1846, vol. I, p. 92). ↩︎

  30. Id., «III éclaircissement sur e troisieme chapitre», in De la recherche de la vérité, Rivoire, Lion 1829, vol. IV, pp. 136-139. ↩︎

  31. G. W. Leibniz, «Epistola ad Seckendorffium», in Opera omnia, nunc primum collecta, in classes distributa praesationibus & indicibus exornata, studio Ludovici Dutens, apud Fratres de Tournes, Genevae 1768, vol. II, p. 264, cfr., IF, vol. II, pp. 359-360. ↩︎

  32. TS, vol. II, pp. 24-25. Nella corrispettiva nota XIX puntualizza: «da questo fatto raccontato della Genesi nascono assai plausibilmente tre conseguenze importanti, che ci contentiamo d’indicare. L’una, che la prima lingua era semitica, e ch’essa avea probabilmente coll’ebreo [sic] dei tempi mosaici una proporzione analoga a quella che l’arabo, il persiano e il greco antico hanno con questi Idiomi nella loro forma moderna. La seconda, che il verbo precedette il sostantivo, e le altre parti della favella. La terza, che il primo uomo non creò i verbi originali, ma se ne valse bensì per formare i nomi, e che perciò la lingua primitiva ebbe due parti. L’una divina, e l’altra umana. Per tal modo si accorda la spontaneità dello spirito umano coll’invenzione divina del linguaggio, e si tiene una via di mezzo tra quelli che reputano tutto il corpo della prima lingua un dono sovrannaturale di Dio, e quelli che la ripetono unicamente dall’industria dell’uomo» (Ibid., vol. II, p. 220, corsivi miei). ↩︎

  33. PeM, vol. I, p. 84. ↩︎

  34. La dottrina del linguaggio di Gioberti non può essere assimilata tout court a quella del teologo francese, come spesso accade a livello manualistico, senza dover misconoscere il j’accuse rivoltogli dal Torinese in più di un passaggio delle sue opere. Lo studioso attento ben conosce che questa distanza critica rimonta già agli anni giovanili, quando Gioberti, pur subendone l’influsso, in uno scritto edito nei Pensieri a cura di Massari osserva: «l’universal consenso degli uomini è il fidato interprete della voce della ragione e del cuore. Non tutti sono buoni ad udir questa voce: in molti […] colla voce della natura corrotta viene confusa. L’universale consenso è la pietra di paragone per ravvisarla. Ecco il vero rango che dee occupare l’autorità. Il dargliene uno più basso è l’errore dei filosofi: il dargliene uno più alto è l’errore del Lamennais» (EF, vol. II, p. 472). L’accusa principale rivolta al francese rileva la confusione tra riflessione ed intuito, il qual fatto lo costrinse a teorizzare la preminenza della parola. Quest’ultima «parla» per il «lume intellettivo» — latore della corretta ermeneutica del soggetto — che s’irradia nell’intuito fino a porgere «il vestito della parola» alla riflessione. Nella lettera V degli Errori filosofici che stiamo analizzando, Gioberti puntualizza la differenza fra la sua dottrina e quella del «francese scrittore»: «per me la parola è un semplice instrumento necessario per mettere la riflessione in commercio coll’intuito, ma inetto a produrre l’evidenza e la certezza che rampollano sempre dall’oggetto intuìto, cioè dal vero concreto parlante direttamente allo spirito senza concorso di segni. Pel signor Lammenais, all’incontro, la parola non è uno strumento, ma la stessa cosa, poiché produce l’idea che dianzi non preesisteva, ed è la radice, e l’unica radice della evidenza e della persuasione. Io dico che senza l’aiuto dÈ segni lo spirito non può riflettere sulle proprie intuizioni» (EF, vol. I, pp. 178-179). ↩︎

  35. Ibid., vol. I, p. 179. ↩︎

  36. Ibid., vol. I, pp. 174-175, corsivi miei. Sulla rapporto tra rivelazione e lingua è significativo il seguente passo: «Il Creuzer dice che l’opera degli antichi savi, i quali sotto l’involucro delle imagini insegnavano ai popoli le verità razionali, era una rivelazione. Oltre che mi par poco dicevole l’abuso, che si fa oggi di questa voce, travolgendola a sensi alieni da quello, che ebbe per molti secoli, come espressiva di una manifestazione sovrannaturale delle verità divine, io trovo cotali applicazioni e in ispecie quella del Creuzer poco consentanee al significato etimologico della parola; dove che l’uso antico gli è al tutto conforme. Ora quando l’etimologia concorre coll’usanza a determinare l’intendimento di una voce, non v’ha più alcuna buona ragione per alterarlo. Rivelazione suona rimozione di un velo; metafora appropriatissima per esprimere l’insegnamento dei sovrintelligibili; i quali essendo quasi coperti dai sensibili e dagl’intelligibili, come da un velo, agli occhi della mente, questo velo è rimosso o squarciato in parte da una parola sovrannaturale, e il concetto latente fatto palese, per mezzo delle analogie. All’incontro l’insegnamento simbolico e allegorico delle verità razionali, cioè l’essoterismo, vestendo e coprendo con imagini alcuni veri dotati d’intrinseca e immediata evidenza, per muover l’’ntelletto a considerarli in sè stessi, invitandovelo colle attrattive della fantasia, segue un processo opposto a quello della rivelazione, benché il suo scopo finale sia il medesimo. Il Creuzer cadde in errore, perché intese la rivelazione nel senso dei razionalisti, i quali fanno di essa un essoterismo umano relativo ad un acroamatismo parimente umano, invece di farne un essoterismo divino comunicato agli uomini, e risguardante un acroamatismo divino, inaccessibile alla mente nostra» (IF, vol. III, pp. 511-512). Creuzer, infatti nel saggio Religions de l’antiquité scriveva: «c’étaient les rudes accens d’un chantre sacré, qui, dans une image transparente, dépose une parole profonde, qui commande à la mémoire comme à la volonté, et dédaigne toutes ces vaines séductions par lesquelles un poëte épris du beau captive l’imagination des peuples. C’était donc une sorte de révélation, et nullement une exposition développée, que cette antique méthode. Expliquons notre Idée et le sens que nous attachons ici au mot de révélation; et d’abord, reprenons les choses de plus haut» (G. F. Creuzer, ?Religions de l’antiquité?: considérées principalement dans leurs formes symboliques et mythologiques?, traduit par J. D. Guigniaut, Treuttel et Würtz, Strsbourg et Londres 1825, vol. I, p. 6). ↩︎

  37. Facciamo conto che «il cannocchiale sia la parola, e le stelle medicee, scoperte da Galileo collo strumento in gran parte inventato da lui, siano le verità rivelate agli uomini dallo strumento della loquela. Senza il telescopio, il vostro occhio non può afferrare quÈ globetti luminosi che incoronano il nono pianeta, come senza la parola il vostro spirito non può conoscere riflessivamente le verità ideali presenti all’intuito. Ma coll’aiuto di vetri concavi e convessi, e col soccorso di segni sensati voi conseguite l’uno e l’altro di questi due effetti, e credete che in effetto il re dei nostri pianeti non è vedovo e solo nel suo viaggio celeste, e che l’uomo non è orfano sopra la terra, ma sa di avere un padre creatore e rimuneratore nel cielo. […] La radice della vostra credenza è obbiettiva, e riposa su quegli effluvi luminosi che arrivano all’occhio vostro, e di cui siete certo in virtù di quella apprensione immediata che ci attesta generalmente l’esistenza dÈ corpi. Ma tali effluvi essendo minutissimi, non potreste accorgervene e afferrarli distintamente, discernendoli da quelli che vengono dal proprio corpo di Giove, senza l’aiuto del cristallo; onde questo viene ad essere un semplice sussidio per afferrar distintamente l’oggetto, non già la causa della sua luce obbiettiva, e della certezza che ne avete. Dite il medesimo della parola; senza la quale non potreste riflessivamente conoscere quel Dio che inonda di luce spirituale il vostro intelletto; […] lo stesso Dio, che si era manifestato fin dal primo istante della vostra vita, e vi diceva continuamente: io sono; ma voi non potevate ripetere a voi stesso quel supremo oracolo, perché vi mancava colla parola lo strumento della riflessione» (EF, vol. I, pp. 184-185). ↩︎

  38. «L’occhio e il telescopio son del pari richiesti all’astronomo, come l’intuito e la riflessione al filosofo. Ora l’intuito ha d’uopo della luce ideale, e la riflessione del riverbero di questa luce, il quale non può aver luogo, se i raggi dell’idea non s’imbattono in un corpo opaco, cioè nei segni sensibili, che gli rinfrangano e rimandino alla pupilla» (Ibid., vol. I, p. 186). ↩︎

  39. Ibid., vol. I, p.189. Gioberti puntualizzando che «il vero si può conoscere anche fuori dalla Chiesa, posseditrice privilegiata della parola perfetta», grazie al dono della «parola imperfetta […] sufficiente a conseguire le verità naturali» facendo ricorso ad un classico argomento tommasiano afferma «che senza la parola perfetta v’ha una difficoltà grandissima e moralmente insuperabile a conoscere la verità perfetta eziandio nel giro naturale, come si trova una impossibilità fisica e assoluta ad asseguirla negli ordini che soverchiano la natura; onde segue la doppia necessità della rivelazione per tutti gli uomini, e del magistero ecclesiastico, uno, visibile, perpetuo, universale, per poter godere a compimento il benefizio della rivelazione. Dal primo di questi bisogni s’argomenta la necessità del Cristianesimo, e quella della Chiesa dal secondo» (Ibid., vol. I, p. 176, corsivo mio). Sicché la parola perfetta è connaturata nella «parola ecclesiastica» che, «infallibile depositaria e maestra di dottrine che la mente umana trascendono», è necessario aiuto «per le verità filosofiche e i preamboli della fede; è maestra e mallevadrice per le verità teologiche» (Ibid., vol. I, p. 187). ↩︎

  40. Gn. I, 3. ↩︎

  41. IF, vol. I, p. 8. ↩︎

  42. Sul carattere superiore della lingua italiana, veramente sintetica e analitica, sul rapporto tra gli Idiomi e i geni nativi, Gioberti ha disseminato nelle sue opere numerose pagine, dottissime e ricchissime. Vale ancora la pena scorrere l’antologia sul tema preparata da F. Ugolini, Pensieri e giudizi di Vincenzo Gioberti sulla letteratura italiana e straniera, Barbera, Firenze 1856. ↩︎

  43. IF, vol. I, p. 40. ↩︎

  44. Così Gioberti nella Teorica del sovrannaturale: «secondo il vincolo misterioso dell’idea colla parola […] la comparsa di questi due fenomeni è simultanea, tanto che, se il segno è sovranaturalmente dato, come accade nel nostro caso, il concetto che gli corrisponde dee avere la stessa origine» (TS, vol. II, pp. 24-25). ↩︎

  45. Ibid., vol. I, p. 41. ↩︎

  46. Non dobbiamo perdere di vista il binomio intuito-riflessione ontologica «nei due momenti che sono rispettivamente dati dal «pensiero immanente», la precognizione confusa e ancora del tutto indistinta dell’idea dell’Ente, e dall’»esegesi o interpretazione ideale», la quale non è che l’articolazione interpretativa di ciò che è già virtualmente noto all’intuizione intellettuale» (Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica, cit., p.71). ↩︎

  47. IF, vol. II, p. 1. ↩︎

  48. Ibid., vol. II, p. 5. ↩︎

  49. «La vera enciclopedia — scrive Gioberti nella corposa «Avvertenza» premessa a Del Buono — non è una raccolta di scienze particolari, ma una scienza universale che comprende le prime in quanto ne mostra le congiunture e attinenze reciproche; non è una compilazione, ma una religione che studia le attinenze intelligibili degli oggetti nell’Intelligenza Creatrice, e ha per termine immediato Dio stesso; onde mi venne detto altrove che Iddio è l’oggetto universale del sapere [Introd. allo stud. Della filos., Brusselle, 1840, tom. Il, pag. 299-306]» (DBN, p. 6). Religione è da intendersi, vero tópos letterario giobertiano, nel significato propriamente etimologico di re-ligare. A proposito del riferimento all’Introduzione Gioberti nella nota annessa puntualizza: «Quando si afferma che Iddio è l’oggetto universale della scienza, questa proposizione si può prendere in senso ortodosso o in senso eterodosso e panteistico. I panteisti, immedesimando la sostanza delle cose finite con quella dell’infinito e negando la creazione, riferiscono universalmente a Dio stesso la materia degli esseri conosciuti, ancorché essi siano limitati e imperfetti; onde quando dicono che esso Dio è l’oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome d’oggetto la forma o idea dei dati scientifici e la loro materia egualmente. Per me Iddio è l’oggetto scientifico, in quanto quest’oggetto consiste propriamente, non già nella materia delle forze finite, ma nella idea che vi riluce; la quale idea è Dio stesso. Quanto alla sostanza delle cose create, essa non appartiene che indirettamente all’oggetto scientifico, cioè come un effetto dell’atto creativo, indiviso dall’idea stessa, considerata qual causa libera e creatrice; giacché l’Idea, come onnipotente, crea la cosa che imperfettamente la rappresenta, e nella percezione di quest’atto creativo, per cui la forma si conjuga colla materia risiede la sintesi maravigliosa dell’intuito umano. Ora non potendosi la materia creata disgiungere dall’azione creatrice ne segue che anche rispetto alla prima l’oggetto scientifico è Iddio stesso, non come Identico alle sue fatture, ma come causa creante e immanente di esse» (ivi, n). ↩︎

  50. IF, vol. II, p. 8. ↩︎

  51. Ivi↩︎

  52. IF, vol. II, p. 7. ↩︎

  53. IF, vol. II, p. 265 [G. Biamonti, «Del Bello», in Id., Orazioni, G. Fodratti, Torino 1831, vol. I, pp. 72-74]. ↩︎

  54. DBL, p. 126. ↩︎

  55. IF, vol. II, p. 8. ↩︎

  56. Ovvero gli Ideogrammi «dei «Sabi d’Egitto, i Cinesi, i popoli del Messico, del Guatemala, e del Perù» (DBL, p. 127). ↩︎

  57. «I simboli Ideografici essendo tolti dalle cose create e in specie dall’uomo, l’artista ritraendoli dovette pigliare per norma gli oggetti reali a cui si riferivano e studiarsi di rappresentarli quanto meglio sapeva; e questa materiale similitudine, che non conteneva ancora la bellezza, forza è che suscitasse nella mente di lui i tipi fantastici correlativi, e lo invitasse a esprimerli collo scarpello e coi colori» (Ibid., p. 128). ↩︎

  58. Ibid., 127. ↩︎

  59. Non sarà superfluo segnalare le opere che Gioberti cita in proposito nell’opera dedicata all’estetica: J. F. Champollion, Panthéon égyptien: collection des personnages mythologiques de l’ancienne Egypte d’après les monuments, Firmin Didot, Paris 1823; A. Court de Gebelin, Histoire naturelle de la Parole, ou Grammaire universelle, Plancher, Paris1816; A. von Humboldt, Vues des Cordillères et monuments des peuples indigènes de l’Amérique, N. Maze, Paris 1824 I, 54; II, 355-356; Id., Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau continent, fait en 1799, 1800, 1801, 1802, 1803 et 1804, par Al. De Humboldt et A. Bonpland, chez F. Schoell, Paris 1814, vol. I, pp. 84-85; 128; 189-194; K. W. F von Humboldt, Prüfung der Untersuchungen über die Urbewohner Hispaniens vermitteltst der Vaskischen Sprache, Berlin 1821; R. Ker Porter, Travels in Georgia, Persia, Armenia, ancient Babylonia, &c. &c: during the years 1817, 1818, 1819, and 1820, Longman, Hurst, Rees, Orme, and Brown, London 1821, vol. II, pp. 275-280; 283-296; F. Lajard, Recherches sur le culte, les symboles, les attributs et les monuments figurés de Vénus en Orient et en Occident, chez Bourgeois-Maze, Paris 1837; A. Mazzoldi, Delle origini italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano all’Egitto, alla Fenicia, alla Grecia, e a tutte le nazioni asiatiche poste sul mediterraneo, Guglielmini e Radaelli, Milano, 1840 (cfr. DBL, pp. 51; 111; 114; 116; 118;127-128; 130; 135;140-141). ↩︎

  60. «Il principio del sublime dinamico è la forza infinita e creante che piglia qualità di sublime, accompagnandosi a una forma sensibile, cioè diventando parola, o Verbo; parola creatrice in quanto effettua i tipi intelligibili delle cose del mondo, e la parola rivelatrice in quanto li manifesta all’intuito delle menti create» (DBL, p. 123). ↩︎

  61. «La parola parlata diede nascimento al simbolico musicale che contiene in potenza il Bello poetico e oratorio» (Ibid., pp. 128-129) ↩︎

  62. «Il parlare animato condusse li uomini al canto; e il canto unito alla parola articolata li fece passare di mano in mano dalla semplice prosa al parallelismo di alcune lingue semitiche, e quindi al ritmo, al metro, alla versificazione, all’assonanza, alla rima» (Ibid., p. 129). ↩︎

  63. Ibid., p. 133. ↩︎

  64. PM, vol. II, p. 134. ↩︎

  65. Ivi↩︎

  66. Ibid., vol. II, p. 135. ↩︎

  67. DBL, p. 129. «La musica instrumentale nacque dalla vocale, per mezzo degl’instrumenti da fiato, che furono probabilmente, (almeno presso alcuni popoli) i più antichi, come più imitativi della voce umana» (PM, vol. II, p.136). ↩︎

  68. DBL, p. 132. ↩︎

  69. Ibid., p. 133. ↩︎

  70. «Platone, premendo le orme di Pitagora, riferì alla musica, cioè alla facoltà delle Muse, la filosofia, e ogni artifizio e discorso, ond’è capace l’ingegno umano. Così la poesia e tutta l’estetica di Platone hanno una base ontologica e divina al pari delle austere scienze; e la fantasia artefice muove dall’atto creativo, come la mente speculatrice. L’arte umana non è meno opera di Dio che la natura, e camminando di conserva colla sua sorella sotto l’impulso onnipotente e il magisterio del primo motore, cospira seco a produrre le meravigliose vicende delle civiltà e della storia, e il concento mirabile dell’universo» (DBN, pp. 27-28). ↩︎

  71. Quando Gioberti tratta della fantasia col suo theatro fantasmagorico dei loci e delle immagines (un retaggio dell’ars memorandi imparata sulle pagine di Bruno), afferma che il tempo e lo spazio fantastici hanno bisogno di essere trattati in una materia speciale che egli chiama matematica estetica. Come in ordine alla verità alle quantità spazio-temporali si applica lo studio della matematica tout-court, così in ordine alla bellezza, che è essa stessa una dimensione della verità, la matematica trattando delle figure fantastiche si configura come una parte speciale dell’estetica. Essa, osserva Gioberti, «si aggira nell’euritmia quantitativa delle figure nello spazio, dei suoni armonici nel tempo, dei moti e dei gesti nelle due forme»; allo stesso modo la fisica estetica «versa sull’euritmia dei colori, di certi suoni melodici e delle affezioni» (DBL, p. 36). «Quindi nascono varie maniere di arti, alcune delle quali come l’architettura, la mimica, la danza, si travagliano sui tipi intelligibili che si riferiscono all’armonia quantitativa, altre, come la scultura, la pittura, la poesia, l’eloquenza, la musica sui tipi concernenti in specie l’armonia quantitativa, o l’una e l’altra egualmente, e sono di mista natura. La musica, che lavora sul numero e sulla successione dei suoni, è l’aritmetica della matematica estetica, l’architettura ne è la geometria, la mimica e la danza ne sono come la meccanica; laddove la pittura e la scultura sono principalmente l’antropologia dell’arte, la poesia e l’eloquenza spaziano per tutti i generi, sono universali ed enciclopediche» (ivi, corsivo mio). ↩︎

  72. Ibid., p. 133. ↩︎

  73. «Il santuario, l’inno e la monodia sono per ordinario i tre primi parti indivisi, nascenti ad un corpo dalle credenze, e immedesimati colle due parti essenziali del sacro culto, cioè col sacramento e col sacrificio. Ma la parola musicale e lirica riceve dalla fede che l’inspira una forma propria e pellegrina, prima ancora della muta architettura; onde, come concetto nuovo ed estetico, e non semplice imitazione di un tipo anteriore, suggerita e necessitata dall’ uso, la cappella vocale e la salmodia precedettero il duomo e la basilica» (PM, vol. II, pp. 135-136). ↩︎

  74. Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica, cit., p.61. ↩︎