Benjamin Fondane, la poesia e il grido

La poesia è un bisogno e non un godimento, un atto e non un abbandono, un’affermazione di realtà.

B. Fondane, Faux traité d’esthétique

Benjamin Wechsler o, con il nome che sceglierà per firmare le sue opere in francese, Benjamin Fondane, nasce a Iasi (Moldavia) il 14 novembre 1898. Partecipando della vicenda comune ad ogni vivente, ma allo stesso tempo in modo più particolare in quanto destinato alla poesia, egli nasce come un avvenimento da sempre previsto nello spettacolo della storia, eppure, anche come qualcosa di imprevisto, di inquietante:

che poteva cambiare tutto, il senso dell’azione, la trama dei moventi che aveva sul testo da sempre stabilito l’ascendente prodigioso, strano del vivente il diritto di farfugliare le migliori repliche di improvvisare un mondo a margine dell’Autore e, all’improvviso, malgrado il Piano, di introdurre se stesso in seno al personaggio gridando, esasperato, verso il pubblico dei palchi “Non c’è abbastanza reale per la mia sete!”1

A 25 anni, nel dicembre del 1923, Fondane lascia la Romania per stabilirsi a Parigi. L’esperienza del viaggio si confonde, in lui, con quella dell’esilio, di un esilio che non è tanto esteriore, fisico, ma che sembra doversi manifestare, innanzitutto, come un’urgenza interiore se è possibile ammettere, con Julia Kristeva, che è l’essere «già un estraneo dell’interiorità»2 ciò che rende primariamente estranei e stranieri in un paese altro. L’importanza dell’esilio, la sua relazione con la creazione, è essenziale in Fondane, il quale, per altro, vive a più livelli ed in più sfaccettature la condizione di estraneo: dentro di sé, come individuo legato ad una doppia tradizione culturale, quella ebraica e quella rumena, come straniero a Parigi, come intellettuale che si pone in opposizione netta, decisa rispetto alla cultura ed al pensiero dominanti. Illimitato e irrisolto migrare.

Emigranti, diamanti della terra, sale selvaggio io sono della vostra razza, io porto come voi la mia vita nella mia valigia io mangio come voi il pane della mia angoscia io non domando più quale sia il senso del mondo io batto il mio pugno duro sul tavolo del mondo io sono di quelli che non hanno niente che vogliono tutto — io non potrei mai rassegnarmi.3

Per Fondane, il parallelismo, il nesso da portare alla piena luce è quello tra la condizione poetica, l’Esodo e l’erranza di Ulisse. Tale erranza non è pensata, da Fondane, nei termini di una circolarità propria della tradizione greca, per la quale il mondo è chiuso, la finitudine perfetta. Piuttosto, nella riflessione fondaniana, la figura dell’emigrante moderno rimembra quella del «navigatore mitico, ma l’archetipo omerico si inscrive, nel presente, in una nuova visione dello spazio caratterizzata dalla frammentazione e dalla dispersione».4 Ulisse va introdotto all’interno di quella spaccatura rappresentata dalla tradizione giudaica: «Ebreo, naturalmente, tu eri ebreo, Ulisse»;5 al cuore dell’esperienza fondamentale di essa: «Che cos’è dunque l’Esodo? / se non è davvero qualcosa di eterno/ — cos’è allora?».6 Si tratta, dunque, di una condizione «diasporica» le cui prove «possono apparire simili alla messa in condizione propria della scrittura: estraneità, marginalità, affermazione della differenza, perdita di sé, erranza, malessere, separazione».7

Un’erranza, quindi, che appare perpetua, indefinita, di esilio in esilio, di assenza in assenza la quale, tuttavia, è stata, sin dalle origini, «uno degli elementi costitutivi del meccanismo della creazione. Prima ancora dell’esistenza del poeta, prima ancora dell’esistenza del concetto di “scrittore”, c’era questo rapsodo, questo viaggiatore venuto da lontano, colui che recava racconti di contrade lontane a proposito di popoli sconosciuti».8

L’esilio e l’assenza come una sorta di limbo, luogo in cui il sé si disperde, si incrina; un passaggio o, meglio, una discesa obbligatoria, per quanto pericolosa e tormentosa, per ritrovare, infine, la propria profondità e per recuperare, finalmente, la chiave per poterla cantare. «Prova iniziatica per eccellenza, cammino nel labirinto o discesa agli inferi, l’esilio è fonte di ispirazione e rivelazione di se stessi. L’essere che vive in esilio — obbligato o volontario — conosce una rottura ontologica: egli muore alla sua vita anteriore per rinascere alla sua nuova vita».9

Fondane abbandona il proprio luogo natìo, la propria lingua madre, scegliendo il francese come lingua di scrittura, per affrontare a viso aperto la frattura, il rischio della sterilità creativa (concretizzatosi in quattro anni in cui si dice «muto» e «mutilato» a causa della insicurezza linguistica) e, financo, la defezione da parte della poesia.

Poesia! Quante speranze ho riposto in te! Quale certezza, quale messianismo! Ho creduto, infatti, che tu potessi offrire una risposta là dove la metafisica e la morale hanno, da tempo, chiuso le imposte. […] Ho mangiato il frutto dell’albero proibito ed ho immediatamente saputo di essere nudo, che il Bello non era meno incerto della Verità, il Bene, la Civiltà. Le parole si sono sbarazzate di me; nella notte, ho iniziato a gridare senza parole.10

D’altra parte, la fede nella poesia, le parole (per quanto «selvagge» nella doppia, straziante, impossibilità di padroneggiarle: da una parte, quelle della lingua materna che gli sfuggono ormai; dall’altra, quelle della nuova lingua che ancora non sono del tutto ospitali per il suo grido), infine, tornano e ritornano accompagnando, ponendosi come segno rivelatore di un intimo mutamento avvenuto nell’io.

Il giorno in cui essa [la poesia] è tornata, tutta sola, senza bussare alla porta, come un pozzo artesiano, abbagliandomi i muscoli di un arcobaleno, ho compreso da quale profonda miseria fossi uscito, quanto benefico fosse l’amico che mi aveva lanciato un salvagente. Ho compreso che non si può sbarazzarsi della poesia, né la si può prendere al laccio quando si vuole. Essa ha aperto la porta e ha gridato “uh! uh!”. A partire da questo istante, ho capito che il poema era un’altra cosa… Cosa? Non ho capito molto bene… non comprendo ancora… Qualcosa che modifica la realtà? No… Qualcosa che mi modifica… Me? Ma chi? E chi sono io?11

L’istanza di fondo si snoda, dunque, in Fondane, a partire dalla domanda «chi sono io», dalla questione della propria identità e si svolge, ampliandosi, nel tentativo di tenere, precariamente, insieme tutti quegli elementi che rischiano, lacerandola e disgregandola, di far deflagrare l’identità. La scrittura diviene il luogo in cui il grido può, finalmente, liberarsi, urlando la propria frammentarietà e azzardandosi, al contempo, a non abbassare lo sguardo davanti alla disarmante complessità del proprio sé.

Una voglia di gridare, di piangere, […] dentro di me un bambino singhiozza sulle mie ginocchia, la strada è lunga e dilaniata, e io non posso camminare ed io non posso cantare, una canzone come un sole una canzone che vorrebbe vivere, una canzone che apre l’occhio una canzone di grida e balbettii — una canzone così stupida, così stupida… […] Niente, dunque, zampillerà fino al bordo delle parole! […] una canzone in me, un singhiozzo, un singhiozzo di più nel mondo, […] che monta, che monta e che grida: ABBASTANZA — ABBASTANZA e non ancora ABBASTANZA! Non abbastanza della morte, e tuttavia, abbastanza della vita! Abbastanza di tutto, e non abbastanza di niente… — Vi dono la mia morte, che ve ne pare? la mia vita, che ne farete? che cos’è la mia vita? una canzone un singhiozzo un singhiozzo tanto piccolo nelle orecchie del mondo, un singhiozzo in una foresta di singhiozzi… Un singhiozzo — NON ABBASTANZA!!! Ecco il mondo — se potessi lacerarlo se potessi lacerarmi.12

Un’individualità che appare incapace di riposo, sempre incalzata da un anelito verso l’altrove, sempre sul punto di lasciarsi disperdere, fluire infine frazionata nei suoi componenti ormai disgiunti gli uni dagli altri e, però, sempre pronta a rialzare la testa, fieramente, nell’accettazione irrassegnata delle proprie divisioni, antinomie, contraddizioni che, semplicemente, ancorché disperatamente, sono la traccia dell’essere uomo.

Ecco la mia firma: voglio che mi si risponda Ecco il mio grido: quale è l’orecchio che mi ascolta? Chi gira intorno a me? chi beve la mia vita dal mio bicchiere? Io voglio la mia parte di cose create e increate La mia parte di rumore umano La mia parte di solitudine […] La mia parte di roccia. La mia parte di niente La mia parte di Dio.13

La scrittura in Fondane si plasma, quindi, come percorso esistenziale attraverso cui egli va delineandosi poeticamente, religiosamente, filosoficamente, sorretto dal coraggio di salpare verso il mare aperto, le sue piatte bonacce e le sue impietose tempeste.

Si tratta di un io che si incarna in una scrittura che è, di volta in volta, letteraria (poesia, teatro, saggi), cinematografica (Rapt, Tararira), filosofica. Quest’ultimo è, ancora, un ennesimo campo di conflitto aperto, mai ignorato ma fronteggiato senza timori; la lotta che qui Fondane ingaggia, sulle orme del maestro L. Šestov, è quella «contro le evidenze», contro la tradizione filosofica dominante. Il bersaglio critico di Fondane è una filosofia che non è più o, forse, non è mai stata, quello che correttamente dovrebbe essere: come la credenza religiosa non è più, attualmente, che una «volgare credenza filosofica», così la filosofia non porta più con sé una promessa di felicità, ma solo «un consiglio alla rassegnazione»; ogni filosofia tende, dunque, ad essere «una edificazione, una morale dissimulata, ma attiva di negazione».14 Contro tutto ciò Fondane dichiara necessaria, vitale la rivolta dello ‘schiavo’, dell’uomo soffocato da gabbie logiche troppo anguste. La missione storica della filosofia termina con l’attuazione dello scopo che essa ha sempre dissimulato e che solo l’intuizione geniale di Nietzsche ha rivelato all’uomo: «il sacrificio di Dio al nulla» e l’obbligo per l’uomo di «adorare la pietra, l’insulsaggine, la pesantezza ed il destino».15 Dall’annuncio disperante della morte di Dio, ciò che si svolge sotto lo sguardo impotente dell’uomo è la «perdita progressiva del reale» che costituisce «il dramma che mina visibilmente le nostre civiltà “superiori”», crescendo «in ragione diretta della loro emorragia di reale».16 La crisi esistenziale dell’uomo si scontra, quindi, con un «idealismo che è diventato il paradigma dell’ermeneutica esistenziale».17 A fronte di ciò, sta la protesta di Fondane e la sua rivendicazione del pensiero, delle sue regioni «polari», «iperboree», della radicalità dell’affermazione dell’uomo come «dinamite» e della necessità filosofica di una «insurrezione» da parte dell’uomo schiavo delle sole categorie del razionale e della necessità ontologica. Fondane, mutando il senso della conclusione nietzscheana del § 195 di Al di là del bene e del male, per cui, con il capovolgimento dei valori realizzato dagli ebrei, «inizia l’insurrezione degli schiavi nella morale», sostiene che deve, piuttosto, iniziare «la rivolta degli schiavi nella filosofia».18

Sodale con la filosofia ‘delle evidenze’, il pensiero scientifico afferma che le proprie verità sono incontrovertibili, da sempre comprese e pacificamente accettate; tuttavia, esso finge di non ricordare che, in realtà, sono stati necessari duemila anni di filosofia per giungere a tali verità e alla loro supposta evidenza. In questo punto, Fondane tende a distaccarsi anche da Šestov: mentre quest’ultimo ritiene che la caduta inizi con l’atto stesso della consumazione del frutto proibito, per Fondane la caduta, intesa come la separazione tra ragione e pensiero mitico, è progressiva, incrocia il fluire della storia ed in essa avviene. È in questo ineluttabile momento di lacerazione che Fondane fissa la nascita della poesia, la quale viene a configurarsi come una sorta di «forza di restaurazione», una specie di collante elastico che cerca di compensare, nell’uomo, «la nostalgia della verità prima» che è questo stato di equilibrio immaginato da Fondane. In tale passato lontanissimo e, quasi, immemore sta il vero reale, nascosto e adombrato da quel «coefficiente di irrealtà»19 non interamente distrutto dalla conoscenza razionale, grazie al quale l’uomo può tentare di ribellarsi al reale razionale-scientifico, la cui figura è quella di un pallido fantasma rispetto al reale nella sua concretissima pienezza. Esiste, dunque, un reale legittimo ed un reale illegittimo. Ma è proprio quest’ultimo reale «bastardo», «paria» ad essere reale in quanto «presa sul reale»; esso si presenta, contemporaneamente, «come dato dei sensi, come dati immediati della coscienza e come tradizione — voglio dire come esistenza».20

La smarrimento erompe, si concretizza, appare nella dicotomia tra un «pensiero in quanto esistenza, pensiero di ciò che è, esperienza interna, unica, segreta, incomunicabile, solidale con l’esistenza individuale di cui è come la secrezione» ed un pensiero, invece, «filosofico che si pensa, che si guarda pensare e vivere». Si tratta di un «secondo pensiero che è discorso, descrizione di strutture in rapporto al pensiero esistenziale che è essere, creazione di strutture» e che «oppone il numero alla persona, il generale al particolare, l’astratto al concreto, l’ideale al reale, la ragione all’esistenza».21 L’uomo si trova così sdoppiato in se stesso, sospinto verso un ritorno o una riconquista di uno stato edenico ed impossibilitato a cessare di riflettere; sballottato in un vano tentativo di compromesso tra le due tendenze e la confessione che, non essendo possibile ricomporre la frattura, sia inevitabile la resa ad un conflitto incessante e lancinante.

La coesistenza nell’uomo di questi due pensieri, di cui l’uno, immancabilmente realizza l’affermazione esistenziale e l’altro, non meno immancabilmente, nega l’esistenza e le sostituisce un mondo di strutture ideali che, per rimanere assolute, devono essere sottratte ad ogni oltraggio di un’esistenza caratterizzata dal proprio perpetuo cambiamento, dal proprio flusso eracliteo — la coesistenza di questi due pensieri, pensieri antagonisti, irriducibili, ugualmente costitutivi dell’essere umano, tale è la causa originaria del nostro intimo dissenso, della nostra lacerazione profonda, della infelicità della nostra coscienza. Il Reale ci è dato, contemporaneamente, come esistenza e come riflessione dell’esistenza, come potere e come sapere; l’esistenza non può vincere il sapere, né il sapere sopprimere l’esistenza. […] Sembra, dunque, che la verità di questo mondo sia quella di un conflitto […], che la ricerca sia data nella contraddizione, che il Reale sia dato nello scacco di ogni tentativo di apprenderlo.22

Cionondimeno, ammessa la insopprimibile coesistenza di pensiero mitico e di pensiero razionale, c’è uno scarto in Fondane, c’è la risoluta decisione di non rassegnarsi, c’è la convinta affermazione che la filosofia, alla propria sorgente più profonda, non sia, in quanto è, non in quanto conosce, semplicemente «un verificatore di pesi e di misure — o come essa dice: di evidenze», quanto, piuttosto, «l’atto medesimo attraverso cui l’esistente pone la propria esistenza, l’atto medesimo del vivente che cerca, in sé e fuori di sé, con o contro le evidenze, le possibilità stesse del vivere».23 In questa situazione, diviso tra l’essere ed il conoscere, in qualche modo affascinato da entrambi, «l’uomo testimonierà», comunque, «con il poema, con il grido, con la fede o con il suicidio», «la propria irrassegnazione, dovesse essere — o apparire — questa irrassegnazione assurdità e follia. Non è detto, infatti, che la follia non debba mai aver ragione della ragione».24

Tale tentativo di narrare una poesia esistenziale ed una filosofia esistenziale, che siano entrambe cioè «atto» del vivente, è, per sua natura, travagliato, doloroso, il suo esito instabile ed insicuro. Fondane è, tuttavia, pronto a provare, fin sulla propria pelle, questo sforzo, questa operazione alchemica che susciti un ritornare o un salvarsi da un mondo di fantasmi per muoversi verso (o, almeno, avvicinarsi il più possibile) quel luogo da cui sorgono pensiero razionale e pensiero mitico, affettivo, partecipativo, là dove il primitivo rimane nel reale. Là dove il primitivo, stando in un reale essenzialmente penetrato di soprannaturale, resta prossimo alla sorgente unitaria e sembra poter essere simultaneamente poeta e filosofo. «Se lo “stupore” è l’inizio della filosofia, bisogna convenire che i cosiddetti “primitivi” sono dei veri filosofi: perché è più conforme alla natura dello stupore meravigliarsi di ciò che viola e rompe il corso monotono delle cose, piuttosto che il fingere di stupirsi che le cose si imitino regolarmente».25

Fondane tenta, dunque, di mantenere in un rapporto complesso, che non accetti facili e smunti compromessi, tutte le sfaccettature che compongono il suo essere, presentandole nella loro specifica, abissale, ricchezza, in un equilibrio che, lungi dall’essere sintesi pacifica, è, piuttosto, un balenare che non elimina le contraddizioni ma che se ne nutre come di un pane irrinunciabile, per quanto aspro, come di acqua indispensabile per quanto amara, come di «ortica». Così, in qualsiasi ambito, Fondane dispieghi la propria personalità, ciò che egli cerca di trovare è il luogo, il punto in cui la poesia non ceda il passo alla filosofia, né questa lasci spazio a quella. Un simile luogo di contatto, di confine comunicante e, allo stesso modo, silenzioso, sembra poter essere l’esistenza umana, considerata nella propria pienezza anche in quella che turba, inquieta, scandalizza. Anche alla vita che fa problema, che è inciampo per un pensiero troppo sublime, non si può e non si deve, per essere integralmente umani, rinunciare. Per questo, anche per questo la poesia di Fondane «è del tutto consustanziale a lui e alla sua vita: la sua poesia non illustra una filosofia, essa è un’altra filosofia. Essa è l’esercizio di un’altra libertà: filosofia dell’eccezione che esige un’altra vita e un’altra morte».26 Ciò che pare dare origine e pervadere tutto il percorso di Fondane è la ricerca di una relazione tra poesia e filosofia che non sia inficiata alla base da una latente, reciproca sopportazione, per cui una delle due si rivolga all’altra elargendo, quasi sbuffando, un posto che non le spetterebbe se non le si volesse usare una cortesia, farle una concessione mal sopportata. In Fondane, se si legge il poeta non si può «fare astrazione dal filosofo. In effetti, i riferimenti espliciti o impliciti a testi filosofici (Nietzsche, Šestov e altri) abbondano nella poesia di Fondane e, inversamente, la poesia gode di uno statuto originario negli scritti critici e filosofici».27

Se la poesia è un atto e non un abbandono, anche la filosofia, in quanto è, è un atto del vivente. La poesia, è vero, è custode del reale vivente, ma la filosofia deve lasciare che la vita permei i suoi processi riflessivi. «Contro i dualismi della filosofia egli è nel continuo della vita a partire dal poema e del poema a partire dalla vita».28 Ma i dualismi contro cui si batte Fondane sono quelli insiti in una filosofia che sia solo ed aridamente pensiero logico che bandisce da sé, come materiale sporco e volgare, l’esistenza. In contrapposizione a una tale filosofia, in ragione della sua arroganza, sta la difesa strenua, gridata, della poesia, sta la dichiarazione risoluta del suo essere «grido, preghiera, atto magico». Non è, in questo, essenziale dirimere la questione dello statuto della poesia, è fondamentale, piuttosto, che l’uomo ne riconosca il potere e l’urgenza: «che colui per il quale essa è un grido, gridi! Che preghi, colui per il quale essa è preghiera! E che si faccia stregone, veggente o profeta, colui che vi vede un atto magico!».29

La poesia sembra, in effetti, assurgere anche ad un atto magico, essa manifesta una «virtù misteriosa».30 Il poema è, in Fondane, consustanziale a noi, anche se il suo senso non ci è completamente disvelato; esso è consustanziale alla vita di ognuno di noi e, dunque, al poema sì può domandare il segreto della vita, si può cercare di presentire il proprio destino nelle linee ombreggiate delle parole. E tra questi tratti, e in questi tratti, fragili, effimeri Fondane lesse il nome del proprio, tristemente condiviso, destino: Shoah. Durante gli anni della guerra egli prova l’impressione penosa di rivivere ciò che nel poema del 1933, Ulisse si configura, adesso, come profezia avverata. La chiara coscienza del proprio destino e di quello del suo popolo, Fondane la affida alla sua Prefazione in prosa, datata 1942, due anni prima del suo arresto, avvenuto a seguito di denuncia nel 1944 (avrebbe potuto essere liberato, in quanto marito di una francese, ma egli rifiutò per non abbandonare sua sorella, Line).

Il poeta irrassegnato ha, come compagni nel suo viaggio lungo tutte le contrade e verso nessuna meta o verso la meta del più oscuro inabissarsi della civiltà occidentale, le parole, la poesia che esse compongono come un bisogno improcrastinabile e gemente, il dono, follemente gratuito, che egli fa di sé nel suo atto creativo. La poesia può, essa sola, narrare, nel suo linguaggio del tutto particolare, quel reale che non ha, altrimenti, voce né per il poeta né per gli altri uomini cui egli si offre gratuitamente. Perché se «il poeta ha bisogno di realtà», egli condivide tale urgenza «fraternamente con l’uomo moderno».31 La scrittura poetica si delinea, altresì, come luogo di una filosofia tragica che sia, anch’essa, grido ed irrassegnazione, che sia costruzione e rivelazione dell’uomo in quanto uomo, in quanto Ulisse ebreo, in quanto uomo tra gli uomini. Si tratta di un punto di delicatissimo equilibrio fra il grido di affermazione esistenziale ed una ragione che accetti, coraggiosamente, la voragine dell’alterità, che non si risolva in una gelida carezza di bisturi a invadere il tepore della carne, ma che, piuttosto, abbia la forza di affrontare il fremito, il timore ed il tremore dell’abisso di quell’alterità che è, a ben vedere, in primis la sua, quella sua parte opaca che essa deve desistere dall’espungere da sé per non consumarsi, infine, nell’automutilazione.

Il poeta irrassegnato ha con sé la sete, il grido come propri momenti esistenziali che si tendono in un continuo andirivieni tra la propria intimità e le intimità altrui. Un io individuale che comunicandosi, scrivendosi, si vivifica, si afferma avendo sempre nel proprio orizzonte la comunicazione all’altro, il contatto sperato, voluto, cercato tra le proprie profondità e le altrui. Anche, e soprattutto, ad Auschwitz, nel luogo della massima spersonificazione e tragedia individuale e collettiva. «Gli amici superstiti hanno testimoniato che è rimasto, fino alla fine, lo stesso, malgrado le sofferenze e gli stenti: recitava delle poesie di Baudelaire, ne scriveva per i compagni, che cercava di confortare. Pare che, la vigilia della morte, sia riuscito a far passare a un compagno una poesia che aveva appena redatto».32

André Montagne, sopravvissuto, ricorda gli ultimi giorni che Fondane passò all’infermeria di Auschwitz.

Mi ricordo molto chiaramente come camminava attraverso le fila dei letti, con una coperta sulle spalle e sotto una camicia scadente […], facendo visita ai suoi amici francesi ospedalizzati come lui. Egli rimaneva, tuttavia, molto dignitoso, raccontava i suoi ricordi letterari, discuteva della situazione internazionale, esattamente come se si fosse trovato a Parigi in un salone, in mezzo ai suoi amici. A volte, saliva sul suo letto, vi si sedeva e parlavamo a lungo. […] Due giorni più tardi, il lunedì 2 ottobre, nel pomeriggio, dei camion vennero a cercarli. Restavano solo gli israeliti; gli ariani erano stati rinviati nel campo, al loro lavoro. Pioveva. All’appello del loro nome, uscivano l’uno dopo l’altro e salivano sui camion. Erano settecento. Vidi Fondane uscire dal blocco, passare molto dritto davanti alle SS, mentre chiudeva il bavero della giacca per preservarsi dal freddo e dalla pioggia, montare sul camion. L’uno dopo l’altro, pesantemente carichi, i camion partirono verso Birkenau. Due ore più tardi i nostri compagni venivano gassati.33

Anche, e soprattutto, ad Auschwitz, la scrittura, il suo ricordo, la sua trasmissione, la sua partecipazione ad altri, diventano ultimo, strenuo, baluardo contro la barbarie, esile diga che contenga il disfacimento e la perdita completa di sé stessi, inghiottiti dai segni di un numero anonimo e dal buio.

È a voi che parlo, uomini degli antipodi, parlo da uomo a uomo, con il poco che in me rimane dell’uomo, con il poco di voce che mi rimane in gola, il mio sangue è sulle strade, possa esso, possa esso non gridare vendetta! L’hallali è dato, le bestie sono braccate, lasciate che vi parli con queste stesse parole che condividemmo - resta poco di intelligibile! Un giorno verrà, è sicuro, in cui la sete sarà placata, noi saremo al di là del ricordo, la morte avrà ultimato i lavori dell’odio. Io sarò un ciuffo di ortica sotto i vostri piedi, — ebbene, allora sappiate che avevo un viso come voi. Una bocca che pregava, come voi. Quando la polvere entrava, o anche un sogno, nell’occhio, questo occhio piangeva un po’di sale. E quando una spina cattiva graffiava la mia pelle, colava un sangue rosso come il vostro! Certo, proprio come voi ero crudele, avevo Sete di tenerezza, di potenza, d’oro, di piacere e di dolore. Proprio come voi ero cattivo e angosciato solido nella pace, euforico nella vittoria, e titubante, stravolto, nell’ora dello scacco! Sì, sono stato un uomo come gli altri uomini, nutrito di pane, di sogno, di disperazione. Eh sì, ho amato, ho pianto, ho odiato, ho sofferto, ho comprato dei fiori e non ho sempre pagato la mia rata. La domenica andavo in campagna a pescare, sotto lo sguardo di Dio, dei pesci irreali, facevo il bagno nel fiume che cantava fra i giunchi e mangiavo delle patatine fritte la sera. Dopo, dopo rientravo a coricarmi stanco, il cuore lasso e pieno di solitudine, pieno di pietà per me, pieno di pietà per l’uomo, cercando, cercando invano in un grembo di donna questa pace impossibile che abbiamo perso un attimo fa, in un grande frutteto in cui cresceva, al centro, l’albero della vita… […] Eppure, no! Non ero un uomo come voi. Non siete nati sulle strade, nessuno ha gettato nella fogna i vostri piccoli come gatti ancora senz’occhi, non avete errato di città in città braccati dalle polizie, non avete conosciuto le catastrofi all’alba, i carri bestiame e il singhiozzo amaro dell’umiliazione, accusati di un delitto che non avete compiuto, di un assassinio di cui manca ancora il cadavere, cambiando nome e volto, per non portar con sé un nome schernito, un volto che aveva servito a tutti da oggetto di sputo! Verrà un giorno, senza dubbio, in cui il poema letto Si troverà davanti ai vostri occhi. Esso non domanda Niente! Dimenticatelo, dimenticatelo! Non è Che un grido, che non si può mettere in un poema Perfetto, avevo forse il tempo di finirlo? Ma quando calpesterete quel ciuffo di ortiche Che ero stato io, in un altro secolo, in una storia che per voi sarà desueta, ricordatevi solo che ero innocente e che, come voi, mortali di quel giorno, avevo avuto, anch’io, un volto segnato dalla collera, dalla pietà e dalla gioia, un volto d’uomo, semplicemente!34


  1. B. Fondane, Le mal des fantômes, Éditions Verdier, Lagrasse 2006, p. 21 (salvo diversa indicazione, le traduzioni sono da intendersi di mano dell’autore). ↩︎

  2. J. Kristeva, Les Grecs entre Barbares, suppliants et métèques, in Étrangers à nous-mêmes, Fayard, Paris 1988, p. 26. ↩︎

  3. B. Fondane, Le mal des fantômes, cit., p. 35. ↩︎

  4. G. Vanhese, De l’étranger à l’hôte. L’émigrant dans la poésie française de Benjamin Fondane, in Rencontres autour de Benjamin Fondane, poète et philosophe, Actes du colloque de Royaumont édités par Monique Jutrin, Parole et Silence, 2003, p. 132. ↩︎

  5. B. Fondane, Le mal des fantômes, cit., p. 20. ↩︎

  6. Ivi, p. 176. ↩︎

  7. M. Bilen, Le sujet de l’écriture, éd. Greco, Paris 1989, p. 86. ↩︎

  8. I. Kodaré, Le voyageur venu de loin, in Les mondes de l’exil, Le Courrier de l’Unesco, ottobre 1996, p. 20. ↩︎

  9. B. Nedelcovici, La littérature pour patrie, in Les mondes de l’exile, cit., p. 17. ↩︎

  10. B. Fondane, Mots sauvages, prefazione a Privelisti, in Le mal des fantômes, Paris-Méditerranée, 1996, p. 21. ↩︎

  11. Ivi, p. 22. ↩︎

  12. B. Fondane, Le mal des fantômes, cit., p. 41. ↩︎

  13. B. Fondane, Le mal des fantômes, cit., p. 144. ↩︎

  14. Id., La Conscience malheureuse, Denoël et Steele, Paris 1936, p. 17. ↩︎

  15. Ivi, p. 18. ↩︎

  16. Ivi, p. 34. ↩︎

  17. O. Salazar-Ferrer, Benjamin Fondane lecteur de Nietzsche, lecture d’une lecture, http://www.fondane.org/nietzsche.htm↩︎

  18. B. Fondane, La Conscience malheureuse, cit., p. 20. ↩︎

  19. Cfr., B. Fondane, Faux Traité d’esthétique, Denoël, Paris 1938, Plasma, Paris 1980, Paris-Méditerranée, 1998. ↩︎

  20. Id., La conscience honteuse du poète, in «Cahiers du Sud», 199, 1938, p. 630. ↩︎

  21. Id., La Conscience malheureuse, cit., pp. 20-21. ↩︎

  22. Ivi, pp. 23-24. ↩︎

  23. Ivi, p. X. ↩︎

  24. Ivi, p. XVII. ↩︎

  25. B. Fondane, La conscience honteuse du poète, cit., p. 631. ↩︎

  26. M. Jutrin, Un lecteur nommé Ulysse, in Rencontres autour de Benjamin Fondane, poète et philosophe, cit., p. 123. ↩︎

  27. É. Stambor, Le mal des fantômes, in Rencontres autour de Benjamin Fondane, poète et philosophe, cit., p. 145. ↩︎

  28. H. Meschonnic, Benjamin Fondane, le retour du fantôme, in B. Fondane, Le mal des fantômes, cit., p. 13. ↩︎

  29. B. Fondane, La conscience honteuse du poète, cit., p. 649. ↩︎

  30. Id., Faux traité d’esthétique, cit., p. 18. ↩︎

  31. B. Fondane, La conscience honteuse du poète, cit., p. 637. ↩︎

  32. D. Amsallem (Università di Chambéry), Au nom du mort qui fut sans nom”: la poesia del Lager in Francia, conferenza in occasione della giornata della Memoria 25-26 gennaio 2005, Poesia e Lager, “Sollevare dal buio del sottosuolo”, Museo Diffuso della Resistenza della Deportazione, della Guerra dei Diritti e della Libertà, Torino, 25 gennaio 2005, p. 8. ↩︎

  33. A. Montagne, Les derniers jours de Benjamin Fondane, in Les Lettres Françaises, 26 aprile 1946, riprodotto in Non Lieu, 1978. ↩︎

  34. B. Fondane, Le mal des fantômes, cit., Préface en prose, pp. 151-153. ↩︎