Madame Bovary, tra letteratura e filosofia. Jules de Gaultier ed il Bovarismo

1. Introduzione bio-bibliografica

Jules de Gaultier non rientra, per sua stessa ammissione, nella cultura, nel ‘dogma’ universitario, o, per riferirci al titolo di una sua opera, nella philosophie officielle francese a cavallo tra il XIX ed il XX sec.; a questo tipo di ufficialità, infatti, egli contrappone la propria peculiare philosophie.1 Si tratta, quindi, di un autore che si pone al di là di ogni speculazione di tipo tradizionale, ‘universitario’; il suo è un «sogno speculativo»,2 non una professione, piuttosto una vocazione, una sorta di missione per la vita. Questa missione non ha, peraltro, lo scopo di istituire una riforma, o di persuadere che le cose possano migliorare, qualora si apporti qualche cambiamento proposto dall’autore.3 In realtà, scopo specifico di tutta l’opera di de Gaultier è quello di analizzare, attraverso un’ottica diversa da quella ufficiale, l’evoluzione nell’umanità, cioè i modi del mutamento nello spettacolo fenomenico.4 Non si tratta, quindi, di una missione, per così dire, morale e moralizzante, piuttosto essa si risolve nel mettere in mano al lettore un dispositivo di ottica mentale, un binocolo da teatro5 che permetta una visione estetica, altrettanto serena di quella dell’autore, del fenomeno umano.

De Gaultier nasce a Parigi il 2 giugno del 1858 e muore a Boulogne-sur-mer nel 1942. Baruzi6 suggerisce una particolare lettura della vita dell’autore: la carriera amministrativa (che Baruzi definisce con il termine di «fatti esteriori») al Ministero delle Finanze, prima, e poi alla direzione delle esazioni in piccole città di provincia, era destinata ad assicurare i mezzi necessari alla realizzazione di quel sogno speculativo cui già accennato. L’unica, forzata, interruzione in questa duplice attività, la professione e la ricerca filosofica, coincide con gli anni della Grande Guerra; dal 1919, questa è la data del collocamento a riposo di de Gaultier, egli si è dedicato in modo esclusivo alla cura del proprio interesse speculativo.

Nella seconda parte di Bovarysm: the art-philosophy of Jules de Gaultier7 Ellis riproduce una sorta di autobiografia che l’autore francese aveva redatto su sua esplicita richiesta. L’infanzia dell’autore passa tra Parigi e la Normandia dalla quale subisce una profonda influenza «fisiologica»8 generata dalla particolare conformazione del terreno e dalla vicinanza del mare e di Mont S. Michel. In giovanissima età è costretto ad intraprendere la carriera al Ministero delle Finanze a causa della decadenza economica della famiglia. De Gaultier non parla della propria formazione culturale probabilmente perché ritiene più importanti, per il proprio ‘spirito’, gli avvenimenti interni a questo. È verso i sedici anni che, comunque, si verifica la personale rottura con ogni teismo, la scelta tra Dio e se stesso, ricordata come l’evento più felice della sua vita intellettuale.9 Intorno ai trentasei anni, le idee che hanno sempre sollecitato la sua meditazione cominciano ad essere redatte in articoli ed in libri. La collaborazione con la Revue blanche inizia con una serie di articoli intitolata «L’introduction à la vie intellectuelle», per terminare nel 1898. Un anno più tardi, pubblica sul Mercure de France alcuni articoli che verranno inseriti nel primo libro De Kant à Nietzsche del 1900. Nei successivi cinque anni al Mercure de France escono anche Le Bovarysme e La fiction universelle che, tra l’altro, raccoglie anche articoli apparsi precedentemente nella Revue blanche. Nel 1903 lascia Parigi, stabilendosi per un periodo di sei anni a Condé sur Escaut; sono editi, in successione, Nietzsche et la réforme philosophique, Les raisons de l’idéalisme e La dépendance de la morale et l’indépendance des mœurs. Dal 1910 al 1912, mentre si trova a Dieppe, vede la luce Comment naissent les dogmes. Infine, nel 1913, anno di pubblicazione di Le génie de Flaubert, è a Roanne dove rimane per sei anni; in questo spazio di tempo sospende l’attività di scrittura ma non quella speculativa che, anzi, si accentua.

All’inizio degli anni Venti, de Gaultier riprende il suo rapporto con il Mercure de France e con il Monde Nouveau. Scrive, cercando, per sua stesa ammissione, di trovare una corretta gerarchia per la mole dei propri pensieri, La philosophie officielle et la philosophie e La vie mystique de la nature. Nel 1925 stipula un contratto con le Editions du Siècle per la pubblicazione di una serie di lavori sulla filosofia “intellettualistica”, inaugurando la serie con La sensibilité métaphysique. Negli anni successivi redige introduzioni per libri di autori diversi (tra cui Léon Chestov) e altri articoli tra cui «Jésus Homo Estheticus» (sic! ); il suo ultimo lavoro si intitola Nietzsche, pubblicato nel 1933.

I primi scritti risalgono, come visto, all’ultimo decennio dell’Ottocento ed hanno, per lo più, carattere letterario; è proprio nel campo della critica letteraria che si delinea il nocciolo della sua filosofia, quel «bovarismo» di cui tante opere e tanti personaggi sono ammalati. Se, però, il nome di de Gaultier è rimasto legato alla nozione di bovarismo, questo non deve far pensare ad una carenza di visione filosofica nell’opera dell’autore. L’idea del bovarismo ha un carattere essenzialmente filosofico, mentre la critica letteraria serve a de Gaultier come ambito cui rifarsi per il reperimento di esempi concreti in grado di descrivere questa «potere di concepirsi diversamente da ciò che si è».

2. Il bovarismo

Il Bovarismo rende le caratteristiche di questo vizio chiare e puntuali, specificandone rigorosamente portata e importanza: è un’opera che raccoglie le fila del discorso, riassumendo quello che già era stato detto, con notevoli approfondimenti e ampliando ulteriormente la sfera di analisi. Innanzi tutto, appare doverosa una precisione di tipo metodologico. Partendo dalla premessa secondo cui i procedimenti conoscitivi sono i medesimi, sia che essi vengano applicati alle «cose dello spirito», sia che vengano adottati in campo «fisiologico», de Gaultier si rifà, appunto, a questo ambito poiché qui il particolare stato, capace di rivelare il meccanismo normale delle funzioni, sarebbe la malattia, l’alterazione. Generalmente, de Gaultier inizia le sue analisi sul bovarismo dai casi patologici, morbosi, descritti da Flaubert, per poi scoprire, al di sotto di questi, la normale fisiologia del meccanismo bovaristico, fino a fare di questa tara una legge essenziale della specie umana, riconoscendole, addirittura, utilità e necessità, ponendola come causa e mezzo imprescindibile dell’evoluzione umana.10 Al fondo di questa malattia stanno la debolezza della personalità e, per quanto diversi possano essere i caratteri presentati da Flaubert, un principio di suggestione che li costringe, come ipnotizzati, ad immaginarsi differenti da quello che sono.

Dunque, da una parte la faiblesse spinge questi personaggi a scegliersi, o ad immaginare, un carattere diverso; dall’altra, invece, l’impuissance impedisce loro anche solo di sperare di poter uguagliare il proprio modello. Interviene, a questo punto, un nuovo elemento che vela lo sguardo di questi imitatori, accecando il loro giudizio riguardo l’impotenza: l’amour-propre, grazie al quale essi non si renderanno mai conto dell’impossibilità di diventare il modello che si sono prefissi. È a causa di questo accecamento che essi si identificano con il modello sostituto della loro persona e cercano di rendere questa identificazione il più reale possibile, dando il via ad una imitazione senza tregua, ad una parodia incessante: imitano tutto ciò che è possibile del personaggio che hanno deciso di incarnare.11 Inoltre, arrivano a misconoscere le proprie tendenze, impiegano le proprie energie non verso mete accessibili, perché realmente appartenenti all’intimità del personaggio, ma verso quelle del modello andando incontro all’unico risultato possibile: il fallimento.

L’impotenza sembrerebbe, in tale dinamica, essere l’unico legame con la realtà (e non la causa concatenata alla debolezza della personalità) poiché, in effetti, pare poter essere l’unico elemento in grado di frenare la parodia. Se ciò che spinge l’individuo a rivolgersi ad un modello è una tendenziale debolezza, d’altra parte, solo il sentimento di impotenza, di incapacità, verso una compiuta imitazione dell’ideale potrebbe, in qualche modo, ‘risvegliare’ l’uomo dalla suggestione che lo stringe. L’impotenza, che potrebbe dimostrarsi positiva per riportare l’uomo alla propria personale dimensione, risulta, però, stretta nella morsa della debolezza e dell’amor-proprio. Il fallimento del progetto di imitazione avviene per un errore fondamentale sulla natura dei propri scopi e sulla orgogliosa cecità riguardo questo errore; se quelle mete fossero le proprie (quelle di cui ognuno è naturalmente fornito) le energie sarebbero sufficienti a raggiungerle, anche se in grado diverso a seconda di attitudini e capacità differenti; infine, senza l’intervento funesto dell’amor-proprio sarebbe, forse, possibile riprendersi in qualche modo il proprio volto,12 smascherando quello del modello. Per quanto concerne il principio di suggestione, questo può essere di due tipi. Uno, essenzialmente interno, come in Madame Bovary, è un entusiasmo, un’ammirazione, un interesse, quasi una necessità vitale, originato dalla conoscenza, intellettuale ed emotiva, anticipata della realtà. L’altro, più strettamente esterno, deriva dall’ambiente sociale, dalla professione e dalla ‘casta’ e dà ai personaggi che ne sono preda una identità, una vita, uno scopo. Simili individui sono privi di originalità, sono nulla di per se stessi; essi, in mancanza di un’autosuggestione venuta dall’intimo, diventano qualcosa solo obbedendo alla suggestione esterna:13 pensano, vestono, agiscono in conformità all’ambiente che li circonda e, prima di essere uomini, sono l’incarnazione mediocre del lavoro che svolgono.

Riassumendo, schematicamente, possiamo immaginare, con de Gaultier, una specie di diagramma bovaristico, in cui la persona umana (che, per comodità, chiameremo A) sia il punto di origine di due linee, dotate entrambe di uno specifico valore psicologico; l’una (B) rappresenterà tutto il contenuto reale e virtuale, la disposizione naturale di un essere umano e l’altra (C) raffigurerà, invece, l’immagine, data dall’esterno tramite educazione, costrizione o altro, di ciò che A vuole divenire. In caso di normalità, quando cioè l’impulso di C agisce sulla stessa linea di forza di B, le due linee coincidono. Ma in Flaubert questa situazione di equilibrio non si verifica mai; anzi, succede sempre che C, l’impulso più forte, agisca in maniera opposta a B, di modo che le due linee dipartano da A, divergendo e formando un angolo più o meno ottuso in proporzione al contrasto dell’energia individuale con se stessa. Tale indice bovaristico misura il divario che sussiste in ogni individuo tra l’immaginario e il reale, tra ciò che esso è e quel che crede di essere.14

3. Il bovarismo: precisazioni e delucidazioni

L’introduzione di Le Bovarysme si apre con la precisazione, da parte di de Gaultier, che il bovarismo stesso non gli è stato suggerito dalla lettura di Madame Bovary di Flaubert. Questa constatazione si rende necessaria, secondo l’autore, per salvaguardare il carattere espressamente artistico della visione flaubertiana. Infatti, il bovarismo che si esprime nei suoi personaggi è un caso particolare del termine generico, sebbene sia, qui, talmente tipico e manifestato con tale rilievo da assurgere, senza esitazione da parte del filosofo, a segno rivelatore, confermante, con immagini concrete, gli sviluppi speculativi che egli ritrae. De Gaultier afferma che l’idea del bovarismo gli è apparsa in un periodo molto anteriore al suo primo contatto con Flaubert, collocando questa metamorfosi interiore nell’infanzia, classificandola come assolutamente spontanea, al limite dell’irrazionale poiché non è figlia di alcun travaglio dialettico, ma è al di là di qualsiasi meditazione su nozioni filosofiche acquisite. In origine, questo profondo mutamento appare, all’autore, confuso con uno stato di semplice sensibilità per assumere, quasi immediatamente, i tratti di un problema angosciante, la cui soluzione si dimostrava impellente per le implicazioni espressamente pratiche del problema. La sensazione nasceva, infatti, da un pensiero di natura morale; aveva l’aspetto di uno scrupolo, quello di celare eventuali virtù possedute dall’autore. Il significato di questo nascondere, spiega l’essenza della sensazione stessa: la virtù, una volta conosciuta, manifestatasi all’esterno, sarebbe svanita, si sarebbe sminuita e, soprattutto, non avrebbe potuto essere allo stesso tempo nello spirito degli altri e negli atti di de Gaultier. Questi ha l’impressione che ogni esteriorizzazione della propria attività interiore sia colpita da una sorta di esibizionismo che tende a sottrarre energie a questa attività. Lo scrupolo verso la manifestazione esterna si aggrava, in breve tempo, tanto da provocare una specie di corto-circuito. De Gaultier teme che il solo fatto di conoscere egli stesso la propria azione e di darle un giudizio favorevole o, anche, solo, un giudizio, diminuisca l’azione stessa in forza e in pienezza; preoccupazione che, del resto, viene seguita da una sensazione già vicina ad una veduta intellettuale, definibile come un’impotenza causata da un ostacolo insormontabile perché essenziale alla natura delle cose. L’autore cercava, allora, di sminuire, fino all’annientamento, la coscienza del suo agire in modo da dirigere verso la realizzazione di questo tutta l’energia disponibile.

Il sentimento di impotenza doveva nascere, però, proprio dal rendersi conto che, allo stesso tempo, l’azione cessava di realizzarsi e, anzi, il tentativo di perfezionarla si concludeva con la sua soppressione. De Gaultier paragona la sua vita, in quell’epoca, a quella del mistico che per raggiungere lo stato di beatitudine si applica ad annullare in sé tutte le sensazioni e tutta la coscienza. A differenza del mistico che arriva a trovare la propria felicità nella completa perdita di coscienza, il filosofo, nel corso di questa esperienza ossessiva, si persuade dell’impossibilità di realizzare l’azione indipendentemente da uno stato di conoscenza il quale, inevitabilmente, devia e sminuisce l’energia devoluta all’agire. In altri termini, il bovarismo si presenta, originariamente, come un problema di comunicazione: un vissuto morale nell’atto stesso in cui viene partecipato agli altri (o, anche solo a se stessi) svanisce o, per lo meno, si depotenzia. Esso si trasforma repentinamente in un problema di conoscenza, la quale (intesa come comunicazione a se stessi) tende anch’essa a neutralizzare quel vissuto; nonostante ciò, l’agire mantiene uno spessore, un rilievo, solamente e proprio in ragione di quell’auto-coscienza che, pure, lo indebolisce.

È solo perché quell’originario stato di sensibilità si è, ormai, completamente trasformato in un chiaro stato di conoscenza che l’autore decide di divulgarlo pubblicamente, cercando, nel contempo, di cautelarsi da qualsiasi possibilità di fraintendimento, primo fra tutti quello lessicale. A tale scopo, conia il nuovo termine di bovarismo non essendo questo confondibile, perché peculiare, con termini filosofici, forse, più tecnici ma, ormai, usurati dai numerosi adattamenti alle esigenze ed alle accezioni più diverse.

La filosofia del bovarismo si configura, da subito, agli antipodi delle «filosofie tradizionali», accomunate dallo sforzo di raggiungere o, per lo meno, di immaginare uno stato in cui l’esistenza fenomenica, riassorbendosi nell’uno, si riappropri di se stessa in una conoscenza assoluta di sé. De Gaultier cerca, invece, di dimostrare che l’esistenza e la conoscenza, essendo i due termini di un’unica e medesima realtà, sono dati esclusivamente nella relazione di una parte del reale con un’altra parte del reale e che ogni sforzo tendente ad uscire da questa relazione si risolve in una soppressione delle condizioni della realtà.15 Questa concezione, riassunta col ‘nuovo’ termine di bovarismo, è, in senso filosofico, la necessità per cui ogni attività che prenda coscienza del proprio agire deforma l’azione stessa attraverso il gesto di conoscenza con il quale se ne impadronisce.16

Si tratta, quindi, del fondamentale dinamismo per cui la coscienza/conoscenza di un atto modifica, irreparabilmente, l’atto in questione. Gli elementi fondamentali implicati dal bovarismo sono: la constatazione che, sebbene ci sia propria, la conoscenza ha un solo modo di darci la realtà, ossia in una «relazione fenomenica» illimitata e mai compiuta. Il fatto che l’esistenza è condizionata dall’assoluta impossibilità di una conoscenza adeguata e completa; il fatto che questa impossibilità sia il garante del perpetuo movimento vitale e della infinita genesi del reale. La constatazione, infine, che questa «mancanza di coincidenza tra l’essere ed il conoscere»17 sia il sottile, ma insormontabile, abisso che ci separa du néant.

Le filosofie tradizionali, ispirate dal culto dell’armonia assoluta, sarebbero la manifestazione del pessimismo più radicale, della ricerca più chimerica; a questa «nozione morta» di armonia, e al culto della verità implicatovi, l’autore oppone la «vivente nozione» della realtà, riconoscendo nell’«inadeguatezza metafisica» (l’impossibilità costitutiva di coincidenza tra «l’essere e la conoscenza» che, pure, sono elementi essenziali dell’esistenza) la vera radice dell’esistenza.

Le necessarie conseguenze di tale inadéquat sono le uniche fessure attraverso cui filtra, sulla mobilità della realtà, un sole rischiarante; esse hanno essenzialmente tre aspetti.

Una volta fatta salva la portata filosofica del pensiero (di una parte di esso, seppur la fondmentale) di de Gaultier, l’attenzione si volge su un esempio concreto (letterario) che incarna il concetto di bovarismo: Emma Bovary.18 Figura tipica, dal temperamento accentuato, riesce a creare dentro di sé un essere immaginario, in contraddizione con il suo essere reale. La costruzione di questo fantasma, dotato dei suoi desideri, dei suoi sogni, al cui servizio è messa tutta l’energia vitale e nervosa di cui è capace la donna, prende le mosse da un entusiasmo originato dalla conoscenza anticipata della realtà che è un elemento costitutivo del bovarismo, dal fatto di conoscere l’immagine della realtà prima ancora della realtà stessa.19 Ai tentativi di rivolta dei suoi veri istinti, ella reagisce con un ostinato rifiuto di accettarli, anche solo di vederli, arrivando, attraverso questa lotta, ad una lacerazione completa tra il suo io reale «misconosciuto» e quello che lo ha esautorato, trasformandosi di fatto in un essere ibrido.20

Le basilari caratteristiche di Emma sono, da una parte, il temperamento sano e robusto della contadina, dall’altra, un istintivo impulso a credersi diversa da quel che è, tendenza accentuata e alimentata anche dall’esterno, dall’educazione ricevuta al convento delle Orsoline. L’atmosfera mistica del collegio, i sermoni incentrati sulla figura dell’amante celeste, dell’eterno matrimonio, le letture, più o meno furtive, di opere romantiche, non fanno altro che suscitare le tendenze e gli istinti della giovane sopiti nella sua anima, ma pronti a risvegliarsi.21 In effetti, c’è in lei, come più o meno in ogni essere umano, un principio di reazione, una personalità individuale (nel caso specifico è questa necessità di creare se stessa, di dotarsi di una personalità di un certo tipo) che, ad uguali sollecitazioni esterne (l’educazione, le letture, ecc.), reagisce in modo diverso. Al primo posto nella psicologia di Emma sta questa predisposizione patologica che sceglie, tra le possibilità esterne, quelle più consone al soddisfacimento del bisogno interno.22

Emma ignora che le emozioni siano spontanee; le percepisce, invece, come effetti di uno sforzo; così, avvertendo l’intensità dei sentimenti dei personaggi, reali o fittizi, che la circondano quale prova di perfezione morale e nobiltà d’animo, cede al fascino dell’ideale; spinta dall’ammirazione tenta di incarnare le eroine dei romanzi. Tutto in lei viene a modellarsi secondo l’essere chimerico che la abita23 a tal punto che la giovane non riesce più a distinguere il suo vero io da quelli falsi che si è scelti. Il mondo reale, gli oggetti che ne fanno parte le si presentano perciò filtrati, deformati, da un continuo sforzo immaginativo; solo per mezzo di queste alterazioni, realtà che a Emma sembrano insignificanti possono diventare attraenti.24 Il suo potere di deformazione deve applicarsi ad ogni fatto, ad ogni realtà, deve riuscire nell’opera di traslazione di ogni oggetto. In questo senso Mme Bovary sarebbe, secondo de Gaultier, un’idealista: non riuscendo ad accettare la realtà come opera collettiva di tutti gli uomini è costretta, prima di entrare in contatto con qualsiasi cosa, a ricrearla per il proprio consumo, ad un punto tale che nemmeno il suo stesso io sfugge a questa operazione.25

Non si lascia prendere dal richiamo di un’esperienza di fede cristiana perché troppo in disaccordo con il suo temperamento; l’unico sentimento capace di accecarla completamente, perché in grado di accordarsi con i suoi istinti reali, è l’amore che, secondo lei, va provato in tutta la sua violenza.26 Una volte che questo falso ideale viene smantellato dalla luna di miele e dalla vita coniugale con Charles Bovary, Emma decide di non amare e l’essere immaginario che è in lei, piombato ormai nella noia, riesce ad acquistare nuova forza solo grazie al ballo al castello di Vaubeyssard. Nella fastosa atmosfera mondana l’essere chimerico di Emma si risveglia, riprende a recitare il proprio personaggio di gran dama destinato a ben altro che alla vita in provincia, volgare e asfissiante.

La vita reale è, a questo punto, completamente compromessa, solo ciò che è lontano, fuori portata, riesce, perché alterabile a piacimento da parte di Mme Bovary, a procurarle emozioni. Le letture, le cartine di Parigi, l’interesse verso tutto ciò che accade nella capitale, la meticolosa preparazione del necessario per scrivere lettere d’amore o di confidenze a nessuno, semplicemente per essere pronta a farlo, tutta questa frenetica attività ha il solo scopo di soddisfare l’essere immaginario: ad esempio, l’organizzazione di uno scrittoio in attesa di un amante per il quale escogitare intrighi e con il quale scambiare tenerezze, fa già credere alla donna di amare. Nella vita reale questi gesti sono incomprensibili, ma, nel suo mondo immaginario essi hanno un fine, un compimento, un senso.27 Per convincersi di essere ciò che crede è costretta a compiere atti veri, non solo decorativi; purtroppo per lei, però, i mezzi con cui agisce sulla realtà valgono solo nel mondo che la sua immaginazione ha creato.28

La tendenza, secondo de Gaultier, «isterica», che domina la donna, il male che la governa la spingono a vivere in una eterna menzogna la cui legge necessaria è, appunto, la finzione, l’irreale, il falso. Lo sforzo continuo che la spinge a ricreare la realtà collettiva porta con sé una prospettiva di insuccesso, non tanto legata alla sproporzione tra la realtà ed il sogno individuale, quanto piuttosto figlia dell’odio per la realtà nutrito da Emma. Tale odio essenziale, effetto dell’idealismo della donna, prevede la rovina e la distruzione di qualsiasi elemento che sia riuscito ad emergere da una dimensione di semplice virtualità, di potenzialità, la soppressione, cioè, di tutto ciò che sia divenuto reale. Il principio frenetico dominante è quello dell’insaziabilità, della rottura di ogni forma di equilibrio, della fuga; l’odio si confonde, in lei, con la stessa facoltà di credersi diversa, la confusione, del resto, è tale da rendere impossibile stabilire quale delle due tendenze generi l’altra.29

L’amore di Emma per Léon nasce perché il giovane è in preda al suo identico male, perché le parole che le dice le ricordano la sua falsa concezione dell’amore; entrambi amano tutto ciò che non conoscono, sospirano all’unisono per tutti i luoghi comuni del sentimentalismo, grazie ai quali, esseri aridi dalle emozioni nulle, si convincono di aver superato le più alte cime dell’ideale, i loro reciproci sentimenti sono artificiali, fabbricati e si esprimono secondo le forme convenute del féuilleton. Tuttavia, questa passione nata dalla finzione, ma in qualche modo incarnata nella realtà dalla figura di Léon, non può, per quel principio “isterico”, rimanere nella realtà; questa grande passione deve avere un ostacolo immaginario.30 Emma è innamorata e, allora, si convince della propria virtù; non ama suo marito, la religione o la morale non hanno presa su di lei, tuttavia decide che il sacrificio di un amore tanto perfetto per un dovere austero sia segno di un nuovo tipo di ideale che merita di essere perseguito.

La dualità tragica31 della donna genera una lotta costante tra l’essere fittizio ed il temperamento, per così dire, originale; in personaggi dal carattere meno accentuato la finzione è opposta alla finzione, oppure, ha facilmente ragione dell’essere reale. In Emma, al contrario, questi due stati sono di pari forza e, se con Léon, è stata diretta dall’essere chimerico, con Rodolphe il personaggio reale comanderà i suoi atti.

Rodolphe, uomo esperto in fatto di donne, classifica Emma nelle due o tre categorie in cui ha suddiviso il sesso femminile e ne capisce il desiderio, in questo caso, fisico e la voluttà. Egli comprende, del resto, che per sedurla dovrà recitare il ruolo che la donna gli ha destinato, quello dell’amante ideale, dovrà attenersi ad una rigorosa fraseologia romanzesca tutta tenerezza e sospiri. In questo modo, sembra che i due termini della natura di Mme Bovary riescano a conciliarsi: da una parte, ella riesce a soddisfare la passione; dall’altra, l’essere chimerico, che dissimula questa passione, può credere di aver infine trovato in Rodolphe l’eroe ideale, l’amore perfetto. Egli, del resto, profondamente conscio della propria recita, sa distinguere con precisione la realtà, ossia il possesso fisico, dalla finzione, ovvero la parte del personaggio romantico che continua a recitare per abitudine. Si rende conto con esattezza che questa rappresentazione non può durare davanti al progetto di rapimento: questo atto segna il limite invalicabile, al di là del quale, c’è la realtà con le sue conseguenze. La conciliazione delle due tendenze di Emma si dimostra, così, solo apparente, perché l’accordo temporaneo si basa sulla doppia menzogna costitutiva di questo rapporto: l’una, ingenua (il sogno della donna di un amore romantico), l’altra, calcolata (la recita di Rodolphe),32 non possono che urtarsi. La rottura di quello che lei considerava un amore assoluto, la getta in uno stato di infelicità tale da frantumare l’essere chimerico che ella si era creata.

La violenta crisi mette in moto, dentro di lei, uno spirito critico che le chiarisce la vera natura dei suoi sogni (cioè, la loro falsità), così come la reale pusillanimità delle sue passioni (che si rivelano impetuose solo perché esaltate da una discutibile ricezione di creazioni artistiche). Malgrado ciò, ha bisogno di provare le emozioni che la realtà non riesce ad offrirle, perciò, questa volta in modo cosciente, tenta di riannodare alla meglio la trama della sua «illusione» . Il riavvicinamento a Léon non è altro che questo tentativo, conscio; è lo sforzo di applicare al suo volto la maschera dell’amore ideale, sapendo, stavolta, che l’essere a cui si rivolge è un fantasma ed avendo compreso di non essere, come, invece, aveva sognato, l’ispiratrice di sconvolgenti passioni. La caratteristica di Emma è, qui, l’impotenza consapevole, una volta svanita l’illusione di un amore assoluto, di creare quella finzione necessaria a fecondare,33 ad alimentare e sviluppare l’illusione, l’impotenza di suscitare un qualunque sentimento (che si tratti di amore, gioia o dolore), l’impotenza, persino, di provocare la morte. L’estremo gesto della donna, il suicidio, non fa altro, anch’esso, che manifestare tale incapacità: la morte non arriva, non giunge improvvisamente, la morte si rivela un atto della sua volontà, una decisione ragionata, meditata, voluta.

In Le Bovarysme spiccano alcune interessanti precisazioni su questo punto. Innanzitutto, la morte viene vista come uno scotto della mancanza di spirito critico (qui, equivalente alla formula bovaristica), come una sorta di punizione della presunzione idealistica che spinge la donna al tentativo di piegare la realtà alle capricciose leggi della fantasia.34 Inoltre, la ridestata capacità critica, nella vicenda con Léon, non sarebbe affatto un sintomo di guarigione, piuttosto il segnale che il principio vitale sta per abbandonarla, il segnale della definitiva perdita di quella capacità di usare il sogno, frapposto tra la realtà e la sua peculiare visione, come una sorta di schermo protettivo.35 Secondo de Gaultier, non solo il suicidio di Emma, ma il dolore o il ridicolo di tutti i personaggi preda di questa falsa concezione di sé, sono vendette della vita nei confronti della menzogna, sono espiazioni che la realtà pretende da tutte le vittime, più o meno incoscienti, del proprio essere chimerico.36

4. Istinto vitale e istinto di conoscenza

Prima di continuare l’esposizione della teoria del bovarismo nelle sue più ampie applicazioni, può risultare opportuno compiere alcune osservazioni di carattere generale. La filosofia di de Gaultier trova le sue fondamenta nell’«Introduction à la vie Intellectuelle», in cui la tesi emergente, evidenziata anche nel lavoro di Georges Palante,37 è quella, essenziale nella costruzione della realtà fenomenica secondo le leggi del bovarismo, di un’antitesi tra «istinto vitale» ed «istinto di conoscenza» . Palante non solo insiste sull’importanza dei saggi che compongono l’«Introduction», poiché in essi si esprime già il pensiero filosofico di de Gaultier, ma precisa anche come essa sia stata redatta quasi interamente prima della conoscenza di Nietzsche. Prova di ciò è un articolo apparso sulla Revue blanche, con il titolo di «Frédéric Nietzsche», nel numero del dicembre 1898 (quindi in data posteriore rispetto alla stesura ed alla edizione dell’«Introduction»), pubblicato in occasione della traduzione di Also sprach Zarathustra a cura di H. Albert e dell’apparizione sul Mercure de France di Jenseits von Gut und Böse.38

De Kant à Nietzsche si apre, dunque, con una serie di citazioni da Nietzsche,39 autore col quale de Gaultier si confronterà a più riprese nella propria produzione filosofica. L’ipotesi nietzscheana, presa come punto di partenza, è quella secondo cui condizione della vita non sia ciò che è vero, quanto piuttosto l’apparenza, la volontà di illusione. De Gaultier non si pronuncia in modo positivo nei confronti della vita, del sì alla vita di Nietzsche, o a favore della condanna e del pessimismo di Schopenhauer, i quali rappresenterebbero esclusivamente diversi rapporti verso il vitale generati da differenti percezioni del fenomeno in questione, l’una gioiosa e l’altra dolorosa. L’autore, piuttosto, ricava da entrambi i filosofi la convinzione di un’antinomia fondamentale tra esistenza e conoscenza: la vigoria della vita risiede precisamente nella solidità della menzogna da cui è sostenuta, laddove la conoscenza, volendo entrare in possesso del meccanismo vitale, avendo lo scopo di svelarlo, tende a sottrarre autorità all’inganno stesso.

Nell’ottica di de Gaultier, dunque, a quanto detto da Nietzsche sul valore vitale dell’illusione va aggiunto un corollario secondo cui lo stato di conoscenza tende a distruggere il fenomeno vita. In effetti, l’istinto di conoscenza, tra tutti gli altri istinti che a turno arrivano a filosofare, occupa un posto del tutto peculiare: da una parte stanno tutti gli istinti il cui compito è quello di servire e fortificare la menzogna vitale; dall’altra, sta, solitario, l’istinto di conoscenza, minaccia per la vita ed istanza essenzialmente nichilista.40 L’interrogativo che esplode qui riguarda il perché ed il come la vita possa lasciare spazio al proprio contrario, ben sapendo come questo sia foriero di un pericolo assoluto essendo sua naturale tendenza lo scioglimento dell’“illusione” che mantiene la vita.41

De Gaultier traccia un’ipotesi circa la formazione dei due opposti istinti, le rispettive funzioni ed il rapporto intercorrente tra essi nella «narrazione leggendaria», ora tragica ora comica, che li vede protagonisti da sempre. Il primo a formularsi è l’«istinto vitale»; la questione di base alla sua origine è quella dell’utilità o meno per l’insieme di uomini in cui esso sorge. Un gruppo umano è, ai propri primordi, simile ad un corpo naturale il quale obbedisce ciecamente alle condizioni esterne; caratteristica peculiare è quella di essere un elemento distinto dagli altri, con proprietà particolari e speciali capacità di azione e reazione. Accade, però, che tale gruppo nel prendere coscienza di se stesso acquisisca anche la coscienza di ciò che è utile e di ciò che è dannoso alla propria sopravvivenza. Da questo momento saranno adottate, nei confronti dell’ambiente circostante, delle misure di difesa: ciò che si è rivelato utile sarà prescritto, ciò che, al contrario, può nuocere sarà interdetto. In questa epoca di fondazione, figura preminente è quella di un grand homme, in cui l’«istinto della razza» sia riuscito a prendere compiutamente coscienza di sé e dei propri bisogni vitali. Costui, che opera in qualità di sacerdote e legislatore, in nome dell’istinto vitale, formula una vera e propria «igiene fisica e morale»,42 fatta di tutte le regole atte ad assicurare e mantenere il più a lungo possibile il grado di forza proprio del momento fondativo. Tali formule vengono presentate sotto forma di precetti, di leggi esteriori la cui osservanza è garantita da tutto un sistema di pene e ricompense immediate e da tutto un edificio di «finzioni» portatrici di promesse, o di minacce, in vista di una sicura presa sugli spiriti degli uomini.

In questa fase primordiale, l’istinto vitale è nel pieno della propria forza ma, prevedendo il proprio progressivo esaurimento, si cautela conferendo alla menzogna fondante e conservatrice un carattere di autorità e di sovranità. Scopo di questo istinto e dell’illusione che lo sostiene è quello di vivere ed il più a lungo possibile; di conseguenza, ogni elemento che può rivelarsi utile in questo senso viene dotato di un’esistenza reale. Le morali non sono, dunque, altro che sistemi ordinati di modi di essere opportuni per la conservazione dell’istinto vitale; «paradisi, teogonie e religioni» non sono che ‘invenzioni’ in grado di fortificare suddetti sistemi.

La genealogia di queste nozioni è al di là di ogni controllo intellettuale e sperimentale; tuttavia proprio tale situazione indica come siano in gioco le migliori energie e le forze più robuste di un particolare gruppo. Ogni nozione che da questo discende in questo momento assicurerà, per un tempo lunghissimo, il maximum di felicità e di vigore per il gruppo umano.

La forma primigenia della finzione è, dunque, quella del «dogma»43 e tale rimane finché non muta il grado di forza del gruppo umano. Quando questo decresce (facendo così diminuire la capacità di creare l’illusione necessaria alla vita), ecco allora che alle finzioni verrà richiesta (dal gruppo medesimo) una giustificazione circa la loro realtà. Non sarà più sufficiente che esse siano state utili, dovranno avere un argomento, dovranno sopperire all’indebolimento dimostrando di essere vere.

In questa epoca, l’istinto di conoscenza entra in scena; esso è già dotato del potere di distruggere ma si trova ancora in uno stato di totale sottomissione all’istinto vitale. In effetti, se la meta della conoscenza, cioè la verità, rappresenta un pericolo per la vita, risulta comprensibile che il desiderio di conoscere appaia in coloro in cui la vita tende a scemare. Tuttavia ciò accade e viene accettato perché, in qualche modo, risulta ancora utilizzabile per gli scopi della vita. Anche se la verità non è un traguardo interamente raggiungibile, nondimeno, la semplice ricerca risulta sufficiente ed in grado di assolvere la propria funzione. Il compito di una ricerca corretta è duplice: distruggere vecchie modalità esistenziali ormai esaurite in modo da lasciare spazio a nuovi «culti» più adatti alle mutate condizioni dello «spettacolo»; fortificare questi modelli più recenti con l’appoggio dei mezzi razionali e formali più rigorosi applicati a contenuti che, invero, non sono quelli specifici di un corretto metodo conoscitivo.

La vita è caratterizzata da un’inclinazione alla dissimulazione ininterrottamente agente, da una infinita capacità di reinventarsi, da un numero indefinito di maschere sempre diverse sotto le quali celare il proprio niente o il proprio mistero. La vita è il «trionfatore sempre eletto dalla sorte»;44 è il vincitore che riesce ad utilizzare il proprio opposto, che si presenta come una minaccia, in modo proficuo, come un «mezzo» (moyen) per nuove e più efficaci finzioni. L’istinto vitale tenta di compromettere, danneggiare, alla sua origine l’istinto di conoscenza. Prevedendone la portata distruttiva, cerca di pervertirlo, di deformarlo, di trasformarlo in una delle facciate dell’edificio illusionistico che quello dovrebbe naturalmente far crollare. La funzione che l’istinto di conoscenza è, così, obbligato suo malgrado ad assolvere, ai propri primordi, è quella di stabilire un’identità tra utile e vero, quella di sostituire ai dogmi religiosi, una nuova finzione, concretizzata nei dogmi filosofici e razionali.

La preoccupazione dell’istinto vitale è, semplicemente, quella di vivere, esso è pratico, interessato, cupido; l’altro, dotato di «chiaroveggenza» (clairvoyance), riflette, medita, sviscera, oltrepassando con la scaltrezza dell’analisi intellettuale ogni partito preso. L’uno e l’altro sono privi di qualsiasi scrupolo riguardo le proprie opposte esigenze. L’uno è in ogni uomo in quanto essere vivente, l’altro trova posto in poche coscienze individuali, nell’uomo in quanto soggetto della conoscenza. Infatti, se l’istinto vitale è il trionfatore predestinato, tuttavia l’istinto di conoscenza riesce, eccezionalmente e temporaneamente, a sfuggire, ergendosi in tutta la propria potenza in menti filosofiche come quella del Kant della Kritik der reinen Vernunft.45 Ma, se l’istinto vitale, che costituisce il substratum necessario alla conoscenza, venisse completamente sopraffatto non sarebbe possibile nessun tipo di contemplazione: l’attitudine corretta del sapiente è, secondo de Gaultier, quella dello spettatore, ma questi ha necessariamente bisogno di uno spettacolo da guardare.

Si tratta di due istinti fratelli e, contemporaneamente, nemici mortali. Il drama fenomenico si gioca, dunque, su un equilibrio, precario, tra istinto vitale, quindi, tra un’incessante necessità di illusionismo, di incantesimo, di Vorstellung (in senso strettamente schopenhaueriano), ed istinto di conoscenza, ovvero, lo sforzo indefesso di alcuni spiriti che lacerano questo velo di Maia mostrando la nudità dell’ingranaggio della menzogna vitale. Alcuni, peraltro, dimostrano di non aver avuto il coraggio di andare fino in fondo e tradiscono le proprie conclusioni, come fa Kant con le opere successive alla prima Critica; altri come Schopenhauer e Nietzsche resistono fino alle estreme conseguenze alla vista bruciante di Maia squarciata.

Infine, elemento imprescindibile per l’una e per l’altra di queste due tendenze appare essere la forza. L’istinto vitale, primo a formularsi, è alla propria origine potente, capace di eludere ogni tipo di controllo razionale in vista del trionfo della vita, capace di creare idee robuste che durino nel tempo. Tuttavia, sa del proprio progressivo infiacchimento e, al primo sintomo, ricorre all’istinto di conoscenza che, nelle proprie fasi iniziali, è debole, lo snatura e si serve dei suoi mezzi per continuare a mantenere vigorose formule ormai affievolite. Questa forza, questa esuberanza in grado di sottomettere l’istinto di conoscenza, è la causa principale della genesi degli idoli del passato, come l’idea di Dio, e di quelli del presente, come le idee di verità, libertà e giustizia.

5. Dio come fiction

Una delle finzioni più antiche e più forti tra queste appena menzionate, nonché nella storia dell’Occidente, è quella di un Dio fuori dal mondo e creatore del mondo, capace di indicare tutto il male da evitare e tutto il bene da compiere, dispensatore di pene e/o ricompense. È la concezione di un Dio unico quale ispiratore (nonché reggente) dell’intero edificio di regole e nozioni che fanno parte del concetto di monoteismo, soprattutto nel suo aspetto cristiano, distinto dal monoteismo islamico il quale, secondo de Gaultier, sarebbe più semplice e più completamente dogmatico.

La finzione costituita, da più di diciotto secoli, dall’istinto vitale per essere la risorsa della sua evoluzione tra le razze dell’Occidente è, in una parola, il monoteismo. Un Dio fuori dal mondo e creatore del mondo, una legge rivelata, sia miracolosamente, sia naturalmente, alla coscienza dell’uomo, che gli indichi un bene da praticare, un male da evitare, l’uomo fornito di un libero arbitrio che gli permette di osservare o di infrangere le regole imposte, dunque, responsabile dei propri atti, capace di merito e di demerito, giudicabile con pene e ricompense, concepite tanto secondo il realismo più elementare, tanto sotto delle forme più raffinate, tale è il sistema di finzioni che la concezione monoteista abbraccia nel suo aspetto cristiano.46

La concezione monoteista cristiana si è rivelata, dunque, quella maggiormente adatta per lo sviluppo dei gruppi che l’avevano formulata, quella più capace di assolvere la funzione di utilità propria di queste razze.47 «Suscitare lo sforzo presso razze capaci di uno sforzo»,48 tale fu l’utilità della finzione monoteista.

De Gaultier ritiene, a questo proposito, necessario interpretare il termine effort perché, secondo lui, vocabolo illusorio. In effetti, secondo l’autore, lo sforzo ha il medesimo significato sia applicato alle più complesse attività psicologiche umane, sia applicato ad un’attività esclusivamente fisica. In questo senso, l’elasticità di una forza rappresenta la capacità di questa, in presenza di opportune circostanze, di tendersi da un minimo ad un massimo. In campo psicologico, ogni essere vivente dotato di una qualche energia in grado di accrescersi in un certo ambiente, si accorge di tale accrescimento se viene fornito l’ambiente favorevole. Il problema dell’essere umano è che questi, prendendo coscienza dell’aumento delle proprie energie, si illude di esserne la causa e l’autore meritorio quando, in realtà, egli non è che il soggetto di una fortunata variazione del grado di vigore interno. L’uomo, persuaso di essere responsabile e padrone del verificato accrescimento di energia, chiama effort ciò che altro non è se non la reazione della sua elasticità interiore sollecitata dall’azione di cause esterne. La finzione monoteista cristiana si innesta, con le idee di cui è portatrice (libero arbitrio, responsabilità, etc.), in questo essere che si crede, appunto, libero e responsabile.

Qualsiasi particolare istinto vitale che riesca ad oggettivarsi in una forma concreta, desume la propria forza da una finzione provocata da due cause, l’una vitale, l’altra che ha a che fare con la conoscenza. Il processo, nel caso specifico del monoteismo cristiano (che è, poi, l’ambito cui si rivolge con maggiore interesse la critica degaulteriana), è il medesimo. La prima causa, originaria, scaturisce in ambito giudaico. La seconda, successiva, emerge all’interno della cultura greca. L’una, nascendo dalla Bibbia, fornirà sostegno agli elementi dogmatici, l’altra, essendosi formata entro la dialettica platonica, farà da supporto agli esiti del razionalismo. Dunque, il monoteismo cristiano è il prodotto, da una parte, di una componente essenzialmente religiosa, dall’altra, di un fattore laico, profano. Il monoteismo cristiano presenta, all’origine, una parte vitale, cioè, un particolare istinto di sopravvivenza, qui, quello del popolo ebraico concretizzatosi nella Bibbia. Allorché ci si rende conto del diminuito potere coercitivo di questa componente (o, si prevede che ciò possa accadere) si ricorre ai mezzi razionali, usati in modo improprio. Si fa appello, in effetti, a quella parte conoscitiva, la quale porta con sé strutture e procedimenti razionali e, però, ha già subito un’alterazione: l’istinto vitale è già riuscito a metterla al proprio servizio.

Il monoteismo, come fenomeno generale, sboccia in seno al politeismo e, da questo, differisce di poco; determinante e comune ad entrambe le due forme religiose è considerare l’antropomorfismo come principio esplicativo dell’universo.49

Platone, dunque, si presenta come filosofo al servizio dell’istinto vitale ma, nondimeno, pone, anche se in modo spurio, il problema della conoscenza, la necessità di una critica preliminare della conoscenza stessa, il sospetto, per la prima volta, che un oggetto sia diverso dalla propria rappresentazione. Platone, quindi, seguendo il metodo del dubbio socratico, sembra tentare l’impresa di una critica formale della conoscenza; ma le esigenze da cui muove il suo pensiero sono, fondamentalmente, altre, diverse da quelle dell’istinto di conoscenza. Egli, infatti, coglie, secondo de Gaultier, il cruciale nodo epistemologico (l’irriducibile alterità tra l’oggetto e la sua rappresentazione), tuttavia, essendo filosofo dell’istinto vitale, non ha il coraggio di accettare le conseguenze di tale consapevolezza. Platone, cioè, da una parte, ammette che il mondo fenomenico sia illusione, dall’altra, però, salva il mondo delle idee (che egli stesso crea appositamente) da ciò e, anzi, lo elegge a depositario della vera essenza del reale. Platone, per un verso, obbedisce alla valenza ‘decostruttiva’ dell’istinto di conoscenza (come critica delle illusioni vitali), ma, per un altro verso, ponendo l’istinto di conoscenza al servizio della vita, reifica i contenuti della conoscenza (le idee archetipiche) facendone nuove illusioni vitali.

Dunque, il problema della conoscenza si pone a Platone sotto un triplice aspetto: quello scientifico, concernente oggetti del mondo esterno e quelli riguardanti altre categorie già create, pur se in modo rudimentale, dall’istinto vitale, ossia gli oggetti del mondo morale e quelli del mondo metafisico. Si tratta, per queste categorie particolari, di creazioni dello spirito, di concetti che non si collocano né nello spazio, né nel tempo. Tuttavia, l’artificio dello spirito si applica qui per dichiarare l’esistenza reale, ed al di fuori dell’intelligenza che li ha formulati, di questi oggetti. Si tratta, insomma, di un’inversione del problema: non potendo spiegare il fenomeno della conoscenza attraverso l’esistenza, lo spirito capovolge i termini della questione dotando la conoscenza del potere di creare l’Essere.50 Tale procedimento è essenzialmente umano (e, secondo de Gaultier, anche la longevità del meccanismo in questione e della sua utilizzazione proverebbe la sua origine umana) e rivela il funzionamento stesso dell’istinto vitale.

Il perfetto metodo dialettico impiegato porta, effettivamente, Platone a risultati ineccepibili sotto il punto di vista della conoscenza pura. La conoscenza di un oggetto implica una definizione dell’oggetto in questione, la quale non può risiedere nell’oggetto stesso, ma deriva dagli archetipi, dalle Idee di cui l’oggetto è la manifestazione o, meglio, la deformazione. Nella critica di de Gaultier, la parte valida della filosofia platonica (corretta perché, qui, il genuino desiderio di conoscenza riesce, ancora, a sottrarsi agli interessi dell’istinto vitale) è quella concernente l’oggetto esterno come phénomène, lo scarto tra la nostra percezione e l’oggetto di questa, l’idea platonica considerata come moyen di conoscenza degli oggetti esterni. Inoltre, secondo l’autore, questa parte della filosofia platonica rivela in modo del tutto appropriato il senso della parola idealismo: la deformazione, la cui portata va valutata, che necessariamente l’oggetto, in quanto conosciuto, deve subire da parte del soggetto della conoscenza.

Il procedimento attraverso cui, invece, Platone introduce elementi estranei alla conoscenza sarebbe una indebita «realizzazione di astratti» .51 La nozione delle Idee come tipi eterni, immutabili, al di fuori dell’intelletto e del mondo come apparenza vana, dotata di realtà grazie all’azione di una ragione divina, è questo, secondo de Gaultier, il primitivo modo di procedere all’origine di ogni teologia.

In un senso più specifico, il procedimento platonico consiste nel distaccare le idee dalle attività che le hanno prodotte, rendendole così anteriori alle attività stesse. Consiste nel fare di ciò che si presenta come termine finale e condizionato di una serie di atti precedenti, un principio legislativo immutabile, di modo che ciò che è conseguenza di un atto, giudicabile secondo il successo o meno dell’atto, diventa modello per gli atti. Tale metodo rende, peraltro, impossibile un legame causale tra l’atto e l’idea, generando la prima e fondamentale condizione nella costruzione di una «filosofia dualista», condannata a tentare di risolvere (tentativo, del resto, chimerico) tutte le contraddizioni che derivano da questa operazione.52 Da una parte, quindi, Platone utilizza metodi, come l’astrazione,53 formalmente irrefutabili per descrivere le strutture della conoscenza; dall’altra, l’astrazione stessa viene impiegata come mezzo per cogliere oggetti metafisici. Platone costituirebbe, così, un’ontologia servendosi di materiali propri di una scienza della conoscenza.

La menzogna è, in questa maniera, formata; essa consiste, come detto, nel realizzare degli astratti (ovvero, nel conferire realtà e concretezza), in una fondamentale confusione tra la forma della conoscenza ed il suo contenuto: l’idea è una forma vuota, è un mezzo della conoscenza, non il suo contenuto.

Si tratta, a ben vedere, di un circolo vizioso. Il pensiero non è in grado di pensare ciò che non esiste; dunque, l’oggetto dell’azione del pensiero deve, necessariamente, essere dotato di esistenza. Essendo il pensiero capace di pensare i generi, essi, coerentemente, esistono. Nell’esempio dell’idea di esistenza, il genere esistenza che accompagna la forma vuota idea, esistendo, è capace di generare il concetto di esistenza reale, in sé e assoluta. «Il pensiero crea l’essere, il concetto di Dio crea Dio» .54 L’obiezione dell’istinto di conoscenza alla presunzione dell’istinto vitale, secondo la quale tutto ciò che viene pensato esiste, è logicamente la possibilità dell’esistenza del niente. Qualora, cioè, (conformemente al meccanismo che abbiamo appena precisato) il pensiero pensasse il nulla, questo nulla dovrebbe, di necessità, esistere. Secondo de Gaultier, tale contestazione è epistemologicamente ineccepibile, ma, di fronte alla potenza dell’illusione teologica creata da Platone (e, riguardo, le esigenze vitali fortissime che questa dissimula), essa si rivela inadeguata. È una questione di forze e l’istinto vitale, con le sue ‘armi’, risulta, comunque, più vigoroso dell’istinto di conoscenza.

Dunque, secondo de Gaultier, il concetto di Dio tenderà a diventare (grazie al decisivo apporto di Platone che, quindi, è, per l’autore, il precursore della menzogna monoteista) il depositario di concetti quali perfezione morale ed intellettuale, le idee astratte dei fenomeni sia naturali sia morali, dell’idea di potenza. «Con Platone, tutte le idee di perfezione morale ed intellettuale, astratte dei fenomeni del mondo visibile e del mondo morale divengono prerogativa di Dio, del Noús»,55 Aristotele non farebbe altro che formulare come dottrina il principio della menzogna qui in gioco con la nozione di identità tra essere ed essere conosciuto. «Essere ed essere conosciuto è la medesima cosa, formula Aristotele ergendo a dottrina il principio stesso dell’illusione» .56

Nell’interpretazione di de Gaultier, il primo a scardinare il concetto divino formulato da Platone, è Plotino. Egli, al contrario del filosofo ateniese, impiega l’astrazione in modo del tutto logico e senza reticenze. Priva, perciò, il concetto divino di attributi quali intelligenza, bontà e potenza; ammette, solamente, l’unità, come termine negativo, come ‘luogo’ del néant. Nonostante Plotino mantenga un concetto, nominale, di trinità,57 è la definizione medesima di Uno che, secondo de Gaultier, può dimostrarsi fatale per l’istinto vitale. Una divinità razionalmente inafferrabile, ineffabile, indifferente alle urgenze umane, risulta del tutto inutile per le umane esigenze pratiche e, a livello speculativo, descrive, in maniera netta e precisa, i limiti invalicabili della facoltà di conoscere.58

Ma, Plotino, Roscellino ed ogni spirito al servizio dell’istinto di conoscenza rappresentano un pericolo costante per le mire dell’istinto vitale, il quale ha anch’esso i propri servitori, figure comiche che, appropriandosi dei mezzi formali della ragione, ne ricavano contenuti impropri atti a mantenere la menzogna vitale.

Personaggi come Victor Cousin, nella propria Histoire générale de la philosophie,59 assolvono il compito di difensori dell’istinto vitale, quindi, della menzogna monoteista. Cousin, in particolare, tenta di rigettare ogni tipo di sistema metafisico che possa rivelarsi minaccioso e, conseguentemente, cerca di ridurre la peculiare nozione plotiniana di uno ad una semplicistica urgenza ascetica. Evita, inoltre, che le opere concepite secondo un autentico istinto di conoscenza siano troppo ‘vicine’ (si tratta di una vicinanza quasi fisica nell’architettura del libro di Cousin) alle opere in cui, invece, esso viene utilizzato in modo inappropriato e per gli scopi dell’istinto vitale. Una tale prossimità rischierebbe di innescare un paragone tra le produzioni dei rappresentanti dei due opposti istinti che potrebbe costituire un pericolo enorme per la robustezza della finzione vitale; non solo, potrebbe eliminare, o, comunque, ridimensionare la fiducia dei lettori nella menzogna vitale. Non solo, potrebbe, anche, minare la stessa convinzione nel serviteur medesimo di questa. Dunque, questi ed altri tentativi di strenua protezione non fanno che dimostrare, secondo de Gaultier, l’essenzialità del monoteismo per il fenomeno della vita.

D’altro canto, l’idea di Dio è «filosoficamente, il luogo stesso dell’assurdo»,60 si tratta di un concetto realizzato attraverso un’appropriazione, avvenuta ai primordi delle società, da parte dell’istinto vitale, delle nozioni metafisiche in possesso dell’istinto di conoscenza, successivamente deformate e manipolate per uno scopo ben preciso.

Prova dell’assurdo implicito nell’idea di Dio, dal punto di vista della conoscenza, sarebbe il numero imprecisato di antinomies che tale concetto presenta. Fondamentale fra tutte, iniziata dal sistema platonico, è la possibilità di una coesistenza tra finito ed infinito, il problema della creazione compiuta grazie alla bontà divina e la contraddizione tra questo anthropomorphisme morale, introdotto da Platone, ed il dolore. «Platone si è già chiesto perché Dio, infinitamente perfetto, infinitamente potente, infinitamente felice, abbia creato il mondo ed ha risposto senza imbarazzo: per bontà, introducendo così un antropomorfismo morale» .61

La soluzione teologica, il dogma del peccato, il principio del libero arbitrio per giustificare il dolore, legando a questo la colpa in modo indissolubile, non fanno che idealizzare e perfezionare l’assurdo. Se l’uomo sceglie il male, sapendo di sceglierlo, è necessario comprendere il perché di una scelta che porta inevitabilmente al dolore. Se, invece, l’uomo decide in uno stato di ignoranza, rientra necessariamente in causa quel concetto di un Dio benevolo, il quale, però, sembrerebbe (in una ipotesi del genere) tutt’altro che amorevole: il creatore buono, il padre affettuoso non dovrebbe poter permettere che una tale sventura si abbatta sulle sue amate creature.

Nell’interpretazione degaulteriana quella di Platone è definita una «filosofia deista»62 in cui sono frequenti argomentazioni teologiche. In effetti, il monoteismo in quanto, appunto, filosofia non avrebbe potuto, autonomamente, evolvere in una forma religiosa capace di svolgere un’importante ed autoritaria azione sociale;63 per tale motivo, secondo l’autore, il cristianesimo data l’incontro tra il razionalismo greco ed il dogma giudaico.64 In effetti, sia le città greche sia Roma mantennero i propri culti i quali servivano benissimo alle necessità del momento, molto più che una filosofia erudita ed altezzosa. L’apporto fondamentale è, come detto, quello giudaico, il messaggio biblico che, lungi dal rifarsi ad una razionalità esplicativa, ordina e diffonde una chiara e precisa idea monoteista.

L’unione del dogma di fonte ebraica e della filosofia greca genera due attitudini contrastanti, eppure coesistenti, in seno alla chiesa. Il dogmatismo giudaico il cui compito di proteggere la rivelazione, quindi l’istinto vitale, dalla conoscenza è confermato dal credo quia absurdum cristiano e dalla concezione del mistero; dall’altra parte, invece, si trova una teologia razionale la quale vuole mettere al servizio della vita, dopo averli deformati, i mezzi della conoscenza. Una teologia siffatta deriva, sì, dal dogma, in cui si rifugia in caso di argomenti troppo insidiosi, ma risulta maggiormente debitrice verso l’idea teista. È essa che frastorna gli spiriti: laddove il dogma, semplicemente, nega l’efficacia della ragione, essa tende ad alterarla; è questa falsificazione che ha permesso la sopravvivenza della «menzogna teista»65 al dogma che pure l’ha creata.

Il dogma, secondo de Gaultier, si sarebbe già esaurito se una schiera di spiriti al servizio dell’istinto vitale non avesse continuato a promuovere un tipo di filosofia platonica e deista. Nell’elencazione dell’autore, si va naturalmente da Agostino ed i filosofi del Medioevo, a Cartesio e Leibniz, fino a Voltaire e gli enciclopedisti. Altri pensatori, rifacendosi in modo sincero alla Bibbia ed all’assurdo elevato a credo, non fidando nella ragione e consapevoli dell’antinomia, si schierano in favore della vita. Rigettano, cioè, la ragione quale base di fondazione della vita a motivo della sua contraddittorietà. Ma questa opera negativa, senza snaturare la ragione, fa sì che, in qualche modo, la ragione pervenga a perfezionarsi grazie, soprattutto, all’azione critica di queste correnti di pensiero e al disinteresse (essenza stessa della conoscenza) che le guidò.66 In questo senso, secondo de Gaultier, dobbiamo essere grati alle speculazioni di dogmatici puri come Roscellino, Lutero (solo nel suo aspetto polemico, critico), al Giansenismo di Port-Royal, a Pascal. Altri, invece, decisero di immolarsi in nome dell’istinto di conoscenza, ma la scelta di Bruno, Vanini, Galileo infrange un fondamentale consiglio di Nietzsche: «Guardatevi dal martirio, dalla sofferenza in nome della verità!» . Essi, più che alla perfezione dell’istinto di conoscenza, hanno contribuito a quella di un ascetismo che, invece, secondo de Gaultier, andrebbe superato in quanto interessato, orgoglioso, bellicosamente gioioso (e, quindi, funzionale all’istinto vitale ma contrario ad un «puro» istinto di conoscenza).

6. Il bovarismo dell’Essere e la costruzione del reale

Il bovarismo nel suo aspetto psicologico, empirico, in un certo senso, essoterico,67 si annida in ogni uomo come potere deformante di credersi diversi da quel che si è; si tratta, dunque, di un mal comune ad ogni individuo come ad ogni collettività. Esiste, tuttavia, un’accezione metafisica, astratta, esoterica del bovarismo68 secondo la quale questo potere diviene una modalità essenziale dell’Essere universale. De Gaultier, nella propria metafisica bovaristica, si serve dell’ipotesi dell’Essere come di un artificio di esposizione, di un mezzo di esplicazione, di una metafora interpretativa. In questo suo significato metafisico il bovarismo fa sì che l’Essere universale si concepisca necessariamente diverso da quello che è: in questo primordiale atto di illusione starebbe la genealogia del mondo e del reale.

Primo gradino nella costruzione di tale reale è, secondo de Gaultier, la produzione della realtà psicologica. Lo spirito,69 dotato di un potere doppio e contraddittorio, si formula, innanzitutto, attraverso una divisione che avviene all’interno della sostanza del pensiero. Questo atto, isolando l’io dal mondo esterno, il quale viene concepito come un oggetto per un soggetto, istituisce, dunque, una realtà obiettiva. Ma, subito dopo, nello sforzo conoscitivo, questo tentativo di tracciare limiti precisi tra ciò che appartiene all’io e ciò che, invece, appartiene al mondo esterno appare vano; risulta, al contrario, chiaro che le divisioni prodotte dal primo movimento dello spirito non esistono nella natura delle cose.

In effetti, da un punto di vista psicologico, appare impossibile isolare una percezione dalla sensazione di piacere, o di dolore, che accompagna l’immagine che si presenta all’io. Si può tentare di sopprimere la sensazione per trattenere esclusivamente il residuo e distinguere, in modo volontario, l’immagine dall’io. Tuttavia ciò che rimarrà saranno forme che l’io stesso ha contribuito a comporre: quello che rimane è, ancora, una parte dell’io, ragion per cui l’apparizione dell’immagine risulta indissolubilmente legata alla curiosità psicologica, l’oggetto presentandosi o negandosi all’io secondo che l’interesse aumenti o diminuisca. Lo spirito, dunque, può conoscersi solo nella relazione con il mondo esterno e non in modo immediato, bensì, nel passato, nelle proprie manifestazioni che sono già state e, comunque, sempre distaccato da se stesso, in una proiezione esterna sia nel tempo sia nello spazio. In un certo senso, la presa di possesso che può attuare lo spirito nei propri confronti non è nitida, netta, ma sempre confusa con il mondo esterno. L’origine di questo e dell’io è, infatti, comune; essi si presentano, alla loro fonte, intimamente legati, nonostante che l’io, nei propri procedimenti, finga un’alterità tra sé ed il mondo esterno.70

La realtà psicologica, come ogni altra realtà, deve la sua esistenza alla persistenza dell’antagonismo tra due aspirazioni opposte di una stessa forza, laddove la vittoria dell’una significa non solo la morte dell’altra forza ma, anche, la propria. Questo vale sia nel caso che l’esistenza della realtà esterna venga negata, sia nel caso contrario. La conseguenza diretta del primo caso prevede che l’io sia l’unica sostanza, l’Essere universale, appunto; in questo modo, l’io stesso può giungere ad uno stato di conoscenza solo scindendosi in oggetto e soggetto. La tendenza soggettiva nello sforzo di perfezionarsi, si muove verso un assorbimento totale dell’oggetto; tuttavia, se questa meta venisse raggiunta, il soggetto stesso (apparendo solo nella relazione con un oggetto), avendo coscienza di sé solo come oggetto, piomberebbe nell’incoscienza. Nel caso contrario, in cui l’opposta propensione oggettiva annullasse il soggetto, l’oggetto, senza una sostanza che lo percepisse come tale, perderebbe ogni linea, ogni forma per scomparire nell’inafferrabile.71

Nell’ipotesi in cui venga accettata l’esistenza del mondo esterno, va precisato che gli oggetti diventano realtà per l’io in ragione della sensazione di gioia, o di dolore, che questo prova al loro contatto; vengono, dunque, distinti dal soggetto grazie ad un’emozione, la sostanza della quale confluisce nella rappresentazione che l’io si fa di un determinato oggetto. È l’emozione (una parte più o meno grande di essa) a fornire il materiale della rappresentazione allorché il soggetto conosce l’emozione stessa. Se l’attività, il desiderio di conoscenza subisce un’ipertrofia, ecco che le passioni svaniscono: appena ci poniamo a conoscere in modo completo un’emozione, le sottraiamo forza e la condanniamo a svanire come oggetto di conoscenza, come nostra attività passionale e come nostra attività spontanea.

Dunque, l’esagerazione della facoltà di conoscenza, al suo culmine, produrrebbe dei puri contemplativi i quali, nel supremo tentativo di trasformare in oggetto di conoscenza anche la gioia della curiosità (che è parte integrante del processo di conoscenza), sarebbero soppressi essi stessi in quanto soggetti che hanno esaurito ogni realtà, emozione, oggetto che li determini.72 D’altra parte, una strenua perseveranza nel compiere solo atti «perfetti», cioè senza alcun interesse conoscitivo ma solo vitale (quindi senza sottrarre all’emozione niente della sua forza realizzativa, ma solo in vista delle conseguenze e dell’utilità) causerebbe un automatismo dell’azione che ha dell’assurdo. Solamente alcuni atti sono automatici, quelli fisiologici e quelli che diventano tali con la consuetudine, quelli cioè che, pur essendo originariamente compiuti sotto la direzione della coscienza divengono, per la forza di una ripetizione abitudinaria, incoscienti. Un totale automatismo, al posto di uno saltuario e di portata relativamente irrilevante, provocherebbe una vita impensabile. Se nell’esistenza, la quale è caratterizzata da accidenti ed imprevisti, subentrasse un perfetto calcolo degli esiti, tutto sarebbe compiuto nel nulla del soggetto:73 ogni azione, cioè, avrebbe lo stesso grado di automatismo degli atti fisiologici e di quelli divenuti abitudinari.

Si può affermare che, secondo un bovarismo «essenziale», la realtà psicologica è, in qualunque modo la si possa interpretare, un compromesso tra due forze. L’una si presenta come una tendenza ad agire; l’altra si manifesta attraverso l’opposta tendenza a prendere coscienza degli atti compiuti, trasformandoli, di fatto, in uno spettacolo nel quale il soggetto conoscente, lo spettatore, è inevitabilmente invischiato anche nel ruolo di attore. La realtà intellettuale si configura, dunque, come il movimento secondo cui il pensiero si divide in oggetto e soggetto; la realtà di entrambi dipende, in modo completo, dalla fragmentation del pensiero: laddove questa non si dia, non si danno né oggetto, né soggetto.74

Possiamo, altresì, notare che, essendo l’io il luogo in cui la sostanza (la materia prima, per così dire, dello spirito) si distingue, e prende coscienza di sé, secondo gradazioni infinite e secondo altrettanto infiniti compromessi tra una tendenza attiva ed una contemplativa, in oggetto e soggetto, l’oggetto stesso, considerato in modo isolato, appare grazie ad un compromesso tra un principio di movimento ed uno di arresto. Nell’ambito di un’osservazione strettamente empirica, la realtà fenomenica si rivela in un fluire, in un continuo divenire.

Dal punto di vista dell’ipotesi metafisica utilizzata da de Gaultier, come in campo psicologico esiste una primaria unità della sostanza che compone l’io, così tale unità primordiale si trova anche nell’Essere. Il gesto primitivo dell’Essere è, dunque, un gesto analitico (analitico, qui, nel senso del termine greco di scomposizione, di divisione); è l’atto con il quale l’Essere, ponendosi come un oggetto per un soggetto, crea la realtà fenomenica in un moto infinito. In questa ottica, l’analyse non è un gesto distruttore, piuttosto, si dimostra atto eminentemente creatore; nonostante sia ostacolato dal suo opposto, il gesto sintetico (che, in questa congettura metafisica, assume il significato preciso di composizione, di ordinamento), non cessa mai di operare. Qualora non ci fosse nessun tipo di contrasto (operato dalla sintesi), la realtà diventerebbe inintelligibile nella sua frenetica corsa, in un certo senso, essa si disperderebbe nella molteplicità. Se, invece, svanisse l’influenza della facoltà analitica, allora, la vita fenomenica scomparirebbe: l’Essere rimarrebbe nello stato di unità precedente il gesto analitico creatore.75

Le realtà attuano questo loro continuo movimento (necessario alla vita) secondo le prospettive dello spazio. Esse possono, altresì, essere collegate secondo il meccanismo della causa e, quindi, divenire uno spettacolo per uno spettatore, solo con l’istituzione della dimensione temporale in cui tutte le cose si incontrano, si considerano, si scrutano nel sempre rinnovato (e, sempre, frustrato) desiderio di una conoscenza esaustiva. Qualora il flusso del tempo sparisse, l’universo fenomenico si ritroverebbe paralizzato in una dimensione esclusivamente spaziale in cui ogni relazione (che si attua solo grazie a quel meccanismo causale mediato dal tempo) svanirebbe; ogni stato di coscienza si dileguerebbe gettando, così, nell’inimmaginabile la totalità dell’esistenza fenomenica.76 Lo spazio, dunque, è, per de Gaultier, la dimensione in cui i fenomeni si muovono disordinatamente, senza possibilità di relazione tra di loro; il tempo (che, secondo l’autore, caratterizza il principio di causalità) crea, precisamente, una relazione tra i vari fenomeni, li lega tra di loro, li organizza. In tale interpretazione, quindi, lo spazio sembra essere il dominio proprio della vita (intesa come movimento perpetuo e inarrestabile); il tempo, invece, sembra concetto predominante nell’ottica dell’istinto di conoscenza, considerando il suo legame indissolubile con il principio di causalità. Bisogna, tuttavia, tenere presente che la filosofia di de Gaultier è una filosofia del paradosso; una filosofia delle antinomie nella quale i due opposti istinti non possono fare a meno l’uno dell’altro, pena la morte di entrambi e, dunque, anche di quella del fenomeno generale vita.

Senza il moto la realtà non esiste, ma questo non può, da solo, edificare la realtà in quanto non è in grado di produrre alcuna rappresentazione. C’è una fondamentale necessità di un principio di arresto, di associazione che blocchi, pur se in modo parziale, temporaneo, l’instabilità del principio di dissociazione. De Gaultier porta, come prova, la presa di coscienza dell’oggetto da parte del soggetto. Una parte di questo si allontana, nelle veci di spettatore, dal soggetto stesso e coglie l’oggetto. L’oggetto in questione viene riportato indietro, verso il soggetto, come fatto ormai compiuto nel quale è, quindi, chiaramente intervenuta una facoltà di arresto. L’oggetto, in questo modo, viene colto come fatto nel passato rispetto all’azione del soggetto. Il soggetto, in definitiva, prende coscienza grazie ad un elemento fondamentale della coscienza stessa, la memoria, la quale fissa, riporta oggetti che sono stati colti nel passato e, allo stesso tempo, sfuggono verso il futuro. Il momento in cui la coscienza possiede gli oggetti è quello in cui il moto viene rallentato, tanto maggiore è l’arresto tanto più completo è il possesso da parte della coscienza.77

Notiamo che se i fenomeni appaiono grazie alla loro «durata», allora è innegabile il legame essenziale che intercorre tra la facoltà di sintesi (come rilevamento di nessi causali) e la memoria (che fissa, nel ricordo, questi stessi nessi).

È questo stesso luogo quello in cui appare l’esistenza fenomenica, vale a dire che la realtà emerge «in uno stato di rallentamento del movimento»: la realtà fenomenica è «movimento divenuto percepibile» .78 Se il movimento di frammentazione fosse infinito, il mondo sarebbe sì popolato di fenomeni di pensiero, ma gli uni senza possibilità alcuna di relazione con gli altri. Se non esistesse una facoltà di arresto «l’universo passerebbe trascinato in una fuga vertiginosa, si sottrarrebbe ad ogni tentativo di sintesi»;79 i fenomeni stessi sarebbero connotati da una semplicità che, al contrario, è del tutto smentita dall’esperienza.

La realtà intellettuale richiede, quindi, un fatto iniziale di divisione e un opposto fatto di arresto, di sintesi, di una ripetizione, vasta come il fatto della divisione, che sia in grado di fornire una base comune, un piano di incontro, per ogni movimento del pensiero. Tale potere di arresto, in effetti, determina, intervenendo sulla fuga del pensiero dal proprio centro, un fatto di identità che permette ai diversi frammenti (dispersi qua e là nello spazio dall’opera dell’analisi) di ritrovarsi su un piano di coesistenza,80 su una base comune fornita dalla funzione della sintesi e da quella del tempo.

La realtà, pertanto, appare nel «punto di intersezione» di due forze antitetiche. Uno di questi luoghi è rappresentato dall’opposizione tra il continuo fluire temporale (la catena di cause anteriori ed effetti posteriori) e l’immobilità dello spazio.81 In effetti, anche se i fenomeni scorrono continuamente, se fossimo privi dei concetti di tempo e causa noi non potremmo mai percepire né questo loro movimento né, in realtà, la loro esistenza. In particolare, nella realtà intellettuale, gli oggetti concreti sono caratterizzati ora dall’analisi, primo fatto di frammentazione che genera parti distinte nella continuità del pensiero, ora dalla sintesi, grazie alla quale tali parti si assemblano secondo le più svariate combinazioni.

La realtà materiale (intesa nel senso prettamente fisico) non sfugge a queste due tendenze, consistendo anch’essa in un compromesso tra una forza di dissociazione, di disgregazione, di indefinita divisione del continuo e dell’omogeneo ed una forza di associazione, la quale, tentando di tenere uniti elementi frammentari, riesce, con un parziale trionfo, a far emergere queste parti relate nel discontinuo e nella fuga provocata dallo scontro delle due attitudini.82

Da un punto di vista strettamente biologico, de Gaultier si rifà alla teoria evoluzionistica di René Quinton.83 La tesi generale è che la vita, in un’accezione puramente fisiologica, basti come spiegazione a se stessa, che tutti i fenomeni da essa generati siano esaustivamente esplicati da un’interpretazione biologica del mondo e non rimandino ad alcuna esegesi metafisica.84 La materia vivente dell’organismo, ossia la cellula, nasce nel mare e, secondo una «legge di costanza marina», si sforza di mantenere attorno a sé, nelle diverse trasformazioni degli organismi da essa generati, le favorevoli condizioni primordiali.85 La cellula, cioè, essendo perfetta sin dalla propria apparizione, non si muove verso alcun apice evolutivo. La vita, nella sua tensione tra l’ineluttabile fatalità di un movimento di natura cosmica e la fondamentale necessità di mantenere condizioni propizie, inventa, secondo de Gaultier, tutta la serie di forme animali, di organismi sempre più complessi, in cui cerca di ricavare dei laboratori che presentino le caratteristiche primordiali dell’ambiente in cui ha avuto inizio la cellula.86 Il significato di tale idea di evoluzione è, perciò, che la vita non si muove affatto in vista di un proprio progressivo perfezionamento; la cellula vivente non fa altro che tentare di rimanere nello stato di forza e pienezza in cui si trova alla propria origine, cercando di mantenere, o ricreare, le condizioni favorevoli al proprio benessere. L’evoluzione non si presenta più, quindi, come un’ascensione verso uno scopo sconosciuto e mai completamente raggiunto. Il processo evolutivo, piuttosto, si manifesta come lo sforzo continuo attraverso cui la vita cerca di mantenere simile a sé quello stato definito, noto e dai contorni precisi, che il continuo mutamento della situazione ambientale87 rischia di distruggere. L’evoluzione è un mezzo per assicurare uno status quo.

Ulteriore nozione fondamentale nella genesi della realtà è il determinismo della forza. La Réforme philosophique si apre con il richiamo alla trattazione compiuta in De Kant à Nietzsche della filosofia nietzscheana. Questa ridotta ad un’espressione sintetica si rivela, secondo de Gaultier, una tautologia: non c’è forza al di sopra della forza. Il termine forza è definito come l’insieme delle qualità grazie alle quali una cosa agisce su un’altra. In un sistema in cui ogni fenomeno è in rapporto ad un altro, in cui ogni fenomeno agisce e reagisce rispetto ad un altro, ogni realtà di tale sistema deriva, così, la propria esistenza ed il proprio rango (strettamente determinato) dalla forza di cui è dotata. Da un punto di vista teorico, questa affermazione appare evidentissima e, effettivamente, secondo de Gaultier, essendo antichissima, la «credenza» in un tale tipo di determinismo è «la nostra rappresentazione più oggettiva del mondo» .88

Da un punto di vista storico e concreto, come già detto, si sono formate, sulla scia del credo ebraico e cristiano, altre concezioni del tutto contraddittorie rispetto al determinismo della forza, come ad esempio, l’idea del mondo morale. Il modello di valutazione morale, predominante in Occidente, si basa sull’accettazione di un principio esterno e superiore alla forza (il quale innalza, in modo, però, inappropriato, il fisico al metafisico) datore di senso e regista di quello. Anche nei casi in cui si sia esaurita la fede nei dogmi religiosi, l’idea di finalità (e, con essa, le virtù teologali, divenute, grazie a lievi modifiche, virtù sociali) va a confluire, ancora venerata come un tempo, in ogni tipologia di morale contemporanea.89

Il mondo delle idee, da Platone in poi, è il tentativo (compiuto e concretizzato nelle forme più differenti) di elevare, in ambito speculativo, un principio al di sopra della forza. L’idea nasce in seguito ad un atto; tra tutte le cose (a partire dell’io) esiste una lotta per emergere, per dominare; ogni cosa, quindi, implica un fatto di forza, la quale solamente è in grado di affermare la realtà (facendola prevalere) di un particolare fenomeno.90 La perfezione di una qualsiasi realtà sta in questa capacità di prevalere. Secondo de Gaultier, in realtà, la maggior parte dei fenomeni spiegati (per le esigenze dell’istinto vitale) attraverso termini metafisici è facilmente riconducibile a cause fisiche; vale a dire, ogni idea si rivela essere un’attitudine utile ad una fisiologia umana data, la sua forza dipende dalla debolezza o meno della fisiologia in cui si è sviluppata.91 L’idea, dunque, non è affatto anteriore alla forza che la impone, ne è, bensì, una conseguenza, una dipendenza: allorché un’idea si afferma come legge, significa che in seguito ad un conflitto è stata stabilita una superiorità.92 La caratteristica di un’idea che si presenti nella forma di un imperativo è quella di essere secondaria e derivata, termine di un processo fisiologico, figlia di uno stato di belligeranza; l’idea è, insomma, «un’espressione della forza, le cose diventano buone e belle perché durano e durano perché sono forti» .93 Il bene, la giustizia, in sé non sono niente; sono, piuttosto, delle etichette apposte sul fatto della forza in modo da risparmiare questa, cercando così di conservare il potere: una sorta di economia di forza e potere contro sprechi inutili.94 La realtà, tuttavia, è in continuo movimento.

Se il mondo morale viene creato da una vittoria per cui il vincitore può sostituire al bruto fattore della potenza (sempre a rischio di nuovi scontri) una menzogna, secondo la quale la supremazia attuale è legittimata dalla medesima natura delle cose; se, dunque, questo accordo rappresenta una pausa nello stato di guerra permanente, può, del resto, accadere che ciò che è stato forte cessi di esserlo, che il mondo morale giunga ad essere avvertito come «segno mentitore della potenza, la maschera della forza sui tratti della debolezza un’impostura un bluff ideologico» .95 In questa eventualità, sulla scia di Nietzsche, de Gaultier ritiene ineluttabile la ripresa dello scontro. Il migliore che deve governare è colui che è più forte e non colui che fu forte; si tratta di sovvertire, grazie alla veemenza di forze tenute a freno dalla venerazione che ricopre ancora la morale, uno stato di supremazia che non è più tale poiché è divenuto debole; la lotta dovrebbe pertanto concludersi con una sostituzione di un’aristocrazia, ormai solo nominale, con una di fatto.96

In ambito concreto, il determinismo (inteso come meccanicismo) della forza è la causa del fatto di costanza, di ripetizione che permette di fermare temporaneamente il continuo movimento e di far emergere una realtà. Questa realtà ha come attributo la durée, unico criterio, sempre parlando in senso relativo, che la differenzi dall’irreale e, dunque, la definisca. In de Gaultier durata indica la capacità di un fenomeno di restare immobile il più a lungo possibile, di fermarsi, quindi di riuscire ad essere percepibile. In questo senso, la durata implica che alcuni elementi (o alcune combinazioni di elementi) predominino su altri, quindi, un fatto di forza secondo cui quelli che riescono, si ripetono e (grazie alla costanza) danno luogo ad una realtà, altri non raggiungono, invece, il grado di stabilità e durata che li potrebbe rendere percepibili, dunque, non esistono.

Si è parlato, da un lato, di un universo, di un Essere, caratterizzato da una sorta di bovarismo metafisico per il quale esso stesso sfugge alle prese di una conoscenza esaustiva; dall’altro, però, si è anche parlato di leggi di costanza, di stretto determinismo. Sembra, dunque, interessante soffermarsi su questa apparente contraddizione, la quale si risolverebbe, peraltro, secondo Palante, in una delle più originali teorie di de Gaultier.97 In senso assoluto, tutto è incalcolabile, ma esistono dei modi e dei gradi di questo incalcolabile.98 Nella prima parte della Dépendance de la morale et…,99 l’autore stabiliva un legame indissolubile tra fenomeni morali e fenomeni fisici, in quanto la morale stessa veniva fatta dipendere dalla fisiologia: non esistono differenze di natura tra i fenomeni calcolabili e quelli incalcolabili, dal momento che la loro phýsis e la loro origine sono uniche. Se i fenomeni fisici possono essere interamente definiti dalla scienza, ciò accade perché essi sono, nella loro grande maggioranza, ormai divenuti (ossia, sono stabili, fermi). Invece, i fenomeni morali (che non sono esito di un corretto istinto di conoscenza, ma dell’uso inadeguato che di questo fa l’istinto vitale) sfuggono a tale operazione perché si inseriscono al termine dello sviluppo della catena causale fisica. Nondimeno, tra queste due categorie non esiste un abisso insuperabile.

I fenomeni morali risultano, quindi, non calcolabili perché sono più instabili dal momento che appaiono all’estremità (essendo i più recenti, gli ultimi emersi) di una catena che, invece, è, anche se secondo diversi gradi, ormai salda. Per un’utilità conoscitiva, è possibile distinguere, nella sostanza omogenea dell’universo, classi diverse di fenomeni; è possibile, senza tuttavia intaccarne la comune origine, classificare detti fenomeni discernendoli tra loro per grado di calcolabilità, cioè, per il grado di generalità, di necessità o di contingenza che essi presentano.100 Alla luce di questo criterio, a livello formale, i fenomeni morali appaiono sfuggenti ad una completa determinazione quanto al loro divenire, quelli fisici, invece, sopportano, o possono sopportare, tale determinazione.

Esiste, nondimeno, un incalcolabile che sfugge alle prese di qualsiasi intelligenza, che risulta dalla natura medesima delle cose. In ogni momento, attraverso le prospettive della durata, allo sviluppo dell’esistenza si aggiungono nuove manifestazioni dell’esistenza le quali ne costituiscono il fieri. Questo qualcosa che si aggiunge (secondo il più stretto determinismo) e che rende impossibile la definizione completa del mondo, è di necessità incalcolabile. Il determinismo presuppone il principio di causalità, quale imperativo per cui ogni fenomeno, per giustificare la propria esistenza, richiede l’esistenza di un fenomeno antecedente. Il principio di causalità implica, inoltre, una catena di fenomeni che si delimitano vicendevolmente, ma non prevede la possibilità di interrompere la catena con la scoperta di un primo fenomeno all’origine della catena medesima. Inoltre, risulta impossibile distinguere la forma precisa di un fenomeno in via di formazione; ciò è impossibile in sé, proprio per il principio di causalità e perché gli effetti anteriori inconoscibili hanno un potere di determinazione di cui non possiamo prevedere gli effetti se non quando questi cadono sotto la prospettiva empirica. Inoltre, le due entità, quella iniziale e quella finale, sono delle x ignote; vale a dire che tutte le serie causali sono aperte a parte post e a parte ante.

La differenza, derivata dalla necessità dell’incalcolabile, tra fenomeni divenuti e fenomeni che appartengono all’ordine del divenire, è la stessa per cui differiscono i fenomeni fisici da quelli morali. Esistono, dunque, due categorie dell’incalcolabile: nella prima rientrano i fenomeni che risultano incalcolabili per una nostra ignoranza riguardo alcune delle cause anteriori che li hanno generati; nella seconda, invece, stanno tutti quei fenomeni che non sono ancora divenuti. Se nel primo caso, un progresso dello sforzo intellettuale può aumentare il grado di calcolabilità, nel secondo, ciò potrà accadere solo grazie ad un progresso del divenire.101 L’attività intellettuale, in effetti, è anch’essa sotto la dipendenza dell’attività che crea lo spettacolo su cui speculiamo. La scoperta da parte dell’intelligenza delle leggi di una delle serie fenomeniche (la quale permette una maggiore precisione nella definizione dei fenomeni ivi compresi) non è altro che la scoperta del movimento spontaneo del divenire; è l’azione del divenire sul divenuto. È necessaria, quindi, l’esistenza del divenuto perché il divenire vi possa agire; è necessario, per di più, che, oltre un certo limite, l’attività del divenire sul divenuto, ossia, l’attività intellettuale, lasci il più ampio spazio alla sola attività del divenire che improvvisa il reale secondo il principio di aléa.

Dunque, l’evoluzione è caratterizzata dall’invenzione, da parte della cellula vivente, di organismi in cui vivere e grazie ai quali resistere al continuo mutamento dell’ambiente.102 La crescente complessità di tali organismi aumenta a causa, appunto, di un’esigenza vitale. L’intelligenza stessa (intesa come organismo altamente complesso) appare come un mezzo individuale per resistere all’ambiente ostile e per conservarsi. Lo stesso vale, a livello, per così dire, macroscopico, per la morale che (intesa quale condizione della vita sociale) è in grado di unificare gli sforzi umani per aumentare la potenza dell’umanità. Intelligenza e morale, dunque, sono modalità dello sviluppo scientifico e del potere di agire sull’ambiente esterno.103

In questo senso, una prima ‘incarnazione’ di un principio di aléa è la figura del moralista, il quale è colui che si interessa all’universale: identifica, cioè, il proprio interesse individuale con quello del destino della vita.104 L’azione del moralista è, però, inficiata da un’ignoranza circa l’effettiva legge che governa la pratica; perciò esso determina la pratica attraverso i partis pris della propria sensibilità. Egli stabilisce, imperativamente, regole di condotta di vita diverse dalla causalità generale (caratterizzata dal «determinismo della forza») implicata nell’universo. Così, a fianco di questa causalità, propria della struttura del mondo, l’azione del moralista necessita di un peculiare processo causale che deve far interpretare la sensibilità umana in modo del tutto speciale: deve far apparire, come inclinazione dominante dell’essere umano, l’operazione per cui l’interesse particolare viene assunto ad universale, il che è una forma del desiderio e dell’istinto, del tutto personale. Tale interesse scopre, nell’evoluzione, elementi su cui poter agire, vi trova dei pretesti per formulare degli imperativi, ma è, comunque, un interesse particolare in lotta con tutte le altre specie di desiderio: il vincitore di questo scontro sarà decretato, esclusivamente, dal grado di forza di ciascuno di questi desideri.

Questa ignoranza originaria, che caratterizza come incalcolabile il tentativo biologico sotto ogni aspetto, pone all’intelligenza un quesito insuperabile. Ogni atto intellettuale umano, ogni presa di possesso delle leggi delle cose, è inficiato dalle proprie radici sconosciute; siamo, perciò, all’oscuro del valore delle misure che adottiamo di volta in volta; esse sono, invero, un impulsion a cui obbediamo. La loro opportunità, o meno, sarà verificabile solamente a seguito del loro avvenimento;105 anche nel caso in cui tali misure adatte esistessero indipendentemente dall’uomo, perché potessero essere prese, sarebbe necessario che la causalità sconosciuta ci suggerisse queste piuttosto che altre. L’evoluzione, in quanto fenomeno generale «è la conseguenza di una serie di tentennamenti»,106 il potere di concepirsi diversi comporta molteplici tentativi a vuoto e molteplici avventure perigliose.

All’interno di tale struttura, appare, inoltre, la nozione di erreur créatrice, il quale sembra un concetto paradossale perché si scontra con la credenza nella verità, intesa come armonia di ogni parte dell’universo, radicata dalla filosofia platonica, da quella giudaico-cristiana e da quella kantiana.107 L’errore è, tuttavia, elemento primo e creatore della realtà, condiziona la stessa produzione della realtà metafisica.108 La verità, nel significato di un’utilità per gli uomini secondo l’uso che ne fa de Gaultier, è l’espressione di un’armonia e implica, cioè, che alcuni fenomeni si ripetano essendo sottoposti ad una legge di costanza. Si tratta, però, di verità parziali la cui utilità è specificamente pratica; in sistemi siffatti, quindi, costanti, l’errore è il male, laddove la conoscenza precisa delle condizioni dei fenomeni è il bene.109

L’errore è, dunque, pragmaticamente negativo ma, a livello ontologico, dove evita che il fatto di un’armonia assoluta precipiti la realtà nell’incoscienza e, al limite, nel nulla, esso è principio imprescindibile. L’ipotesi dell’errore, come sorgente del reale, è giustificata sia dalla tendenza di un mondo totalmente armonizzato verso il niente, sia dal fatto che, essendo l’esistenza legata alla conoscenza di sé, poiché il soggetto ha origine dalla stessa materia da cui sorge l’oggetto, lo sforzo del soggetto in vista di una conoscenza integrale causa una continua genesi di stati approssimativi, ma incompleti, nel possesso del sé da parte del sé. Nel corso di tale frazionamento indefinito di ciascun soggetto per autopossedersi, tutto il reale viene generato nell’indefinito della relazione: l’à peu près è la caratteristica del mondo.110 Condizioni della realtà sono l’inadeguato, il disarmonico, l’approssimazione; se, dunque, nel campo della relazione è possibile avvalersi di verità parziali, una ricerca in questo senso è, a livello metafisico, un’aspirazione al niente.111 L’errore creatore si presenta, così, sotto la forma di un «errore di sé su sé», di un «misconoscimento» . Secondo una definizione più positiva e generale, il bovarismo è «il fatto secondo cui ogni attività che ha coscienza di sé e della propria azione si concepisce necessariamente altra rispetto a quello che è» .112

Alla radice di tale misconoscimento ci sono due cause. La prima, di tipo ontologico-epistemologico, è inevitabile, ha a che fare con il fatto per cui l’esistenza è costretta a conoscersi e con il meccanismo dell’atto cognitivo, secondo cui una parte dell’io sfugge (in quanto spettatore) alla possibilità di un autopossesso;113 in questo sforzo, spinto sino al limite, rimarrà sempre un residuo di “misconoscimento”. La seconda causa è di tipo psicologico e deriva in qualche modo dal fattore di instabilità insito nella prima: non esiste un io fisso, stabile con cui sia possibile comparare false concezioni che, a causa dell’amour de soi,114 possano formarsi di esso. L’io, amandosi, vuole riuscire a realizzarsi secondo il migliore ideale di persona umana che ha concepito, è disposto a fare di tutto per riuscire nell’interpretazione di tale ideale. Nondimeno, l’individuo non è affatto in grado di capire quanto l’ideale derivi dalle proprie inclinazioni e quanto dall’ambiente, dal non-io.

Il misconoscimento ha, ancora, due modalità operative. La prima è quella après l’acte. L’io si rappresenta in modo positivo le realizzazioni della propria attività secondo un’illusione ottica che lo aiuta. La seconda modalità è, invece, avant l’acte. La suggestione del «modello ideale» determina le azioni in modo che queste si adeguino all’attività del modello: così, l’energia viene deviata dalle mete suggerite dai propri impulsi a quelle che derivano da una fascination esterna.

7. Il bovarismo, l’uomo, l’umanità

Secondo de Gaultier attraverso la lettura dei caratteri descritti da Flaubert durante l’arco di tutta la sua produzione, si è quasi completamente esaurito il problema del bovarismo a livello di psicologia umana concreta, essendo questi personaggi tipologie precise di psicologie particolari.115 Il meccanismo del bovarismo si presenta, dunque, indissolubilmente legato alle nozioni di errore di sé su sé,116 di «finzione bovaristica» .117 Tali concetti riguardano, a livello psicologico, individuale, la credenza nell’unità dell’io, che de Gaultier ritiene alla stregua di una présomption ed il sentimento dell’amor proprio118 che spinge gli uomini a costruirsi, o a rivolgersi verso un’immagine migliore di sé, secondo un principio di autoipnosi incosciente, che è una sorta di sogno sincero. Questi concetti riguardano, tanto nell’individuo, quanto nelle collettività, quanto nell’umanità medesima, le credenze nel libero arbitrio, nella responsabilità (prima conseguenza di questo), nelle forme di verità che scandiscono le tappe dello sviluppo umano.

Nell’ottica di de Gaultier, la causa prima dell’evoluzione va ricercata nell’individuale, nel fisiologico, nell’incosciente; in dimensioni, dunque, in cui, non essendo ancora comparsa la coscienza, non si dà neanche bovarismo. Secondo l’autore, il mentale sorge dal biologico allorché un individuo di eccezione imita se stesso. Dapprima, si tratta di un gesto involontario, casuale; poi, attraverso un fatto di ripetizione che rafforza il primo movimento di imitazione inconscio, l’imitazione stessa diventa sempre più consapevole. È in questo momento che appare il fenomeno della coscienza.119 E’, dunque, un individuo di eccezione, non l’ambiente sociale, che crea, in virtù di tale primo movimento, una nuova legge o nuove regole per l’umanità.120 L’invenzione è strettamente individuale, ma si propaga per via imitativa, essendo essa stessa figlia dell’imitazione di sé da parte dell’individuo geniale, il quale, inoltre, si presenta come adattamento organico, risultato, termine di varie fasi di accrescimento ereditario.

Il passaggio dalla fisiologia alla psicologia è fondamentale, poiché è nella coscienza che il movimento, che è riuscito a ripetersi, diventa principio di un’ipnosi, di una suggestione. Ogni invenzione si presenta, anzitutto, allo stato di sogno;121 diventa una realtà solo nel momento in cui questo sogno riesce ad esercitare su un individuo un potere totalizzante, costringendolo a mettere la sua energia al servizio di quel sogno: «l’intensità del sogno si dilata e si ferma nella sostanza del reale» .122 È questa concezione fittizia di se stesso che muove l’uomo e tutti i suoi sforzi; essa è sempre necessaria. È la concezione ipotetica del reale, che precede il reale, ad essere determinante perché il reale si attui; l’uomo costruisce il reale grazie alla «sostanza del suo desiderio»;123 del resto, il valore di una finzione consiste, innanzi tutto, nella sua corrispondenza con un desiderio profondo dell’umanità.

Il bovarismo si configura, dunque, anche come un apparato di movimento. L’uomo, totalmente calato nel fluire del divenire che caratterizza tutto ciò che è reale, non può sottrarsi alla legge del cambiamento. Per questo motivo diventa un altro,124 sia fisicamente sia intellettualmente sia moralmente. Il mezzo specifico di questo mutamento è la nozione. In virtù di essa ogni essere umano partecipa della somma delle conquiste risultanti dallo sforzo di precedenti generazioni. La nozione è efficace proprio perché la facoltà bovaristica permette all’individuo di appropriarsi (e di assimilare) di risultati ottenuti dall’impresa altrui. Il bovarismo si confonde, qui, con la facoltà di educazione;125 esso è, quindi, un progredire, una facoltà di elevazione.

La nozione, la possibilità di formare immagini-nozioni in numero elevatissimo, è caratteristica, però, anche in un senso negativo del bovarismo; il pericolo, innanzi tutto, è quello di un errore. La grande ricchezza delle acquisizioni passate e trasmesse via via, non richiede da parte dell’attuale fruitore lo sforzo, l’energia di coloro che le hanno inventate; il fruitore non può controllare, attraverso la propria esperienza, la mole dei dati che dovrà essere, perciò, accettata «con un atto di fede» .126 L’educazione, inoltre, ha un consistente potere di seduzione, è in grado di presentare alla coscienza, che non è una cera duttile, ma è sensibile al fascino delle immagini che le vengono presentate, mete irraggiungibili, le quali devieranno l’energia individuale dalle proprie naturali inclinazioni, generando, così, un contrasto. Il fattore della suggestione sociale (veicolato dall’educazione) incontra, a livello di gradi superiori di cultura e di civiltà, il fattore ereditario che fornisce all’individuo un’energia già specializzata. Se le mete proposte dal primo fattore si accordano con le virtualità ordinate e gerarchizzate dall’eredità, la personalità fittizia dell’individuo sarà per lui un mezzo di esaltazione ed un principio di ordine; in caso contrario, si parlerà di un mezzo di deformazione e di un principio di disordine.127

Negli individui in cui il fattore ereditario è preponderante rispetto a quello sociale, si riscontra una sorta di autonomia: l’impotenza che costringe costoro a svilupparsi solo entro determinati limiti si dà, anche, come una potenza straordinaria che permette loro di recepire dall’ambiente sociale solo le circostanze che favoriscono la loro tendenza originaria.128 Nel caso inverso, le forze ereditarie vengono messe in secondo piano, solo alcune delle energie che compongono l’io parteciperanno al compimento dell’atto; questo, invece di essere un’addizione, una felice convergenza, si dimostrerà prodotto di una sottrazione, di un conflitto; il fatto di essere divenuto altro sarà un danno piuttosto che un beneficio.129

Due aspetti altrettanto caratterizzanti del bovarismo sono il «bovarismo passionale» ed il «bovarismo scientifico», i cui due campioni sono, rispettivamente, il «genio della specie» ed il «genio della conoscenza» .130 Il primo è l’uomo che, in preda alla passione amorosa, mentre crede di perseguire interessi propri, realizza lo scopo della specie. La specie promette agli amanti una felicità smisurata per ottenere da essi il massimo della forza e della serietà; essi pensano di realizzare il loro ardente desiderio, in realtà, raggiungono un’unica meta: assicurare la perpetuazione della specie; la disillusione, peraltro, si presenta ogni qualvolta il fine è stata realizzato.131 L’inganno è, secondo de Gaultier, un ennesimo effetto di ciò che egli chiama «bovarismo della personalità»:132 il ritenere, cioè, che l’io sia un’unità reale, mentre è «una ragione sociale», «un’astratta rappresentazione» .133 L’io è il luogo di scontro o di associazione in cui degli istinti formano dei governi più o meno stabili: su questa situazione, solo temporaneamente in quiete, si fonda la mitologia di un io compatto. Durante il regno dell’istinto amoroso, questo (scambiato per la persona intera) utilizza, in vista dei suoi scopi, tutti gli altri istinti e le altre forze del corpo. Si sviluppa, inoltre, al di fuori dell’io individuale. Si innesta in altri istinti, in altri innumerevoli io e corpi, che, in questo modo, sono tutti al servizio degli scopi dell’istinto amoroso e che, così, dimostrano come il fine particolare per un certo io sia un fine generale per l’umanità.134

Il genio della conoscenza sta di fronte al genio della specie come simbolo di una diversa finalità generata da una differente illusione. Lo scopo, ed il «capriccio», del genio della conoscenza è quello di penetrare leggi e regole dell’universo; a ben vedere, però, anche qui è in atto un’illusione: l’uomo, mentre crede di aumentare il numero delle sue cognizioni, aumenta solo il numero di pene che non intendeva e di bisogni che non immaginava. Se, del resto, questo disagio, se questa facoltà di sentire delle necessità svanisse, la noia si impadronirebbe dell’uomo; la conoscenza si dà, così, come un mezzo per soddisfare l’interesse umano, laddove essa persegue scopi suoi propri.135

Il movente che pungola l’individuo verso lo sforzo cognitivo è doppio: uno è un movente metafisico per cui l’uomo, mortale, vuole essere immortale. Se la maggior parte dell’umanità soddisfa questa necessità per mezzo delle religioni, lo stesso bisogno spinge pochi verso uno sforzo intellettuale da cui nasce «la filosofia e tutte le scienze che essa ha legato al suo servizio» .136 L’uomo, spinto a filosofare da questa leva metafisica, non riesce a raggiungere la propria meta: la ricerca intellettuale, distolta, deviata, dallo scopo iniziale è stata utilizzata in vista di una mirabile costruzione logica, strutturata in idee e concezioni astratte. Il secondo movente è di interesse immediato, per il quale l’uomo pretende di aumentare il proprio benessere attraverso la comprensione delle leggi della natura: tale pretesa, inoltre, genera la religione del secolo, ossia, la religione del progresso137 la quale promette un ennesimo miraggio della felicità. Ma ciò che veramente distingue l’uomo è, secondo de Gaultier, una facoltà di essere insoddisfatto che viene utilizzata dal genio della conoscenza per i propri scopi.

Dalle strutture del genio della specie come da quelle del genio della conoscenza si può evincere un’ulteriore, essenziale legge che si aggiunge ad arricchire il panorama descritto dalla facoltà del bovarismo: la legge ironica.138 Questa, interpretata sulla scia di de Maistre, Amiel, Proudhon, comporta che l’uomo, ed ogni creazione umana, persegua scopi ritenuti propri, quando, al contrario, i medesimi scopi sono irraggiungibili (ma abbastanza lontani da non poterne scorgere l’impostura), al di fuori della portata umana. Queste mete sono, inoltre, di natura fortemente instabile, sono sempre diverse da quelle che l’uomo insegue, all’origine; tendono (grazie alla lontananza che le rende incontrollabili) a spostarsi progressivamente, fornendo, così, un continuo pungolo all’attività umana; tendono, ancora, a trasformarsi ai nostri occhi.139

Questa legge ironica vale tanto in ambito psicologico, concreto, individuale, quanto al livello delle grandi costruzioni culturali umane; é, di più, una legge insita in quel primordiale atto di scissione dell’Essere in soggetto ed oggetto, atto originariamente creativo; è un’ironia profondamente presupposta nella teoria del bovarismo come mezzo di produzione del reale. Il senso ancestrale dell’esistenza è il desiderio di un autopossesso nella conoscenza. Tale desiderio è la causa prima che spinge, come detto, l’Essere a scindersi, a scomporsi in soggetto ed oggetto.140 La prima causa del bovarismo è, per de Gaultier, il fatto che l’Essere si concepisce necessariamente diverso da quello che è. In questo modo, esso spezza la fondamentale unità metafisica tra un principio di azione (implicato nell’oggetto) ed uno di contemplazione (proprio del soggetto).141 L’io individuale (frammento dell’entità metafisica anteriore) può conservare una reminescenza di tale atto e della precedente unità. In questo caso, si ricorda vagamente di essere stato (aver partecipato, come elemento, all’atto di divisione) «impresario del proprio destino», quindi, libero nel solo significato positivo possibile. La realizzazione del desiderio fondativo si configura, quindi, come attitudine estetica: l’individuo, davanti allo spettacolo del proprio destino, si trova nella situazione di uno spettatore appagato e sereno.

L’Essere, come l’io è caratterizzato da una primordiale unità, in cui, però, regnano la più completa indistinzione e l’inconsapevolezza di sé e dell’altro; dove, dunque, non si dà vita fenomenica. Spinti dal desiderio di conoscenza (indifferente verso gli interessi vitali), Essere ed io si concepiscono diversi da ciò che sono: si dividono, nella propria intimità, in soggetto ed oggetto (ma non riusciranno più a ricomporre, attraverso la conoscenza, l’unità precedente) e danno inizio alla vita, anche se, paradossalmente la motivazione del loro gesto risiede in un desiderio (di conoscenza) che, se correttamente applicato, potrebbe distruggere la vita stessa.

Nella filosofia degaulteriana, del resto, solo un numero limitato di individui riesce, per mezzo di un puro desiderio di conoscenza, a porsi in qualità di spettatore per uno spettacolo (la vita). Se, però, questo spettacolo giungesse al termine, svanirebbero gli stessi «spettatori» . Per questo motivo, pur essendo degli spettatori, essi sono anche disposti a diventare attori dello spettacolo vita qualora questo rischi di dissolversi. Sono pronti a lasciare il ruolo di semplici contemplativi per agire, in qualche modo, in favore della vita; cercano, cioè, di portare soccorso a tutte le menzogne e le illusioni necessarie alla vita (anche creando delle finzioni utili).

Tuttavia, il desiderio della conoscenza, che è, allo stesso tempo, causa e fine dell’esistenza fenomenica, perviene assai eccezionalmente alla propria gioiosa realizzazione estetica. La maggioranza degli uomini, in effetti, si annoierebbe dell’atteggiamento semplicemente estetico, perderebbe interesse alla propria recita. Per tale motivo, nell’umanità agiscono, in maniera determinante, due finzioni basilari. La prima riguarda, come ricordato, la credenza nell’esistenza e nell’unità della personalità: è in virtù di questa illusione che il ricordo del gesto dell’Essere metafisico (e del legame dell’individuo con esso) svanisce. L’individuo smarrisce, così, non solo il ricordo, ma anche il reale valore dei propri atti (ossia, quello rappresentativo) e rivolge la propria attenzione solo verso la felicità o il dolore che derivano dalle proprie azioni. In questo modo, però, l’essere umano si muove, agisce, si traveste e partecipa a quel drama che è essenziale per l’esistenza fenomenica. La seconda finzione (propria di spiriti, per così dire, più raffinati) è la fede nell’esistenza del libero arbitrio; la fiducia nella possibilità, nel potere di cambiare il proprio destino spinge, anch’essa, l’uomo ad interessarsi allo spettacolo.

Tutte le mirabili costruzioni intellettuali, le verità, le virtù (sia teologali, sia sociali), la morale, le grandi idee che hanno segnato, e segnano, la storia dell’umanità discendono da queste due finzioni primigenie. Sono, anch’esse, dei modi, utili, instaurati da un conflitto, alla fine del quale emerge una modalità di maggiore forza, rispetto alle altre in gioco, capace, per tale motivo, di istituire una credenza assoluta nella menzogna necessaria alla vita. Questa, del resto, in quanto spettacolo, è affatto indispensabile per il fine di autoconoscenza dell’Essere, secondo una circolarità che appare svilupparsi lungo le prospettive dell’indefinito. Questo fine è, in effetti, del tutto fuori dalla portata dell’umanità nella sua interezza.

La realtà non è che un modo della finzione, dimodoché reale e fittizio non possono nettamente distinguersi tra loro: sono, in verità, due differenti stati di un medesimo fenomeno.142 La vita è opera della nostra immaginazione: immaginandola, la creiamo.143 C’è, dunque, a livello conoscitivo, una parte di imprevisto, di irreale, un elemento di irrazionale e di mistero.144 Così come esiste la necessità di leggi di costanza, grazie alle quali si può parlare di determinismo, della forza per emergere e della “durata” nel ripetersi, esiste un’altrettanto assoluta necessità che, al fondo di un fatto di permanenza, continui ad operare un fattore di movimento che, in questo senso, sembra essere più originario del fatto di stabilità. Sono questi i mezzi essenziali perché, nel continuo fluire, affiorino dei fenomeni relativamente stabili e, quindi, percepibili. E poiché la realtà sorge nel punto di intersezione tra fissità e movimento, tra associazione e dissociazione, nessuna delle due tendenze può sopravvivere alla totale soppressione dell’altra. Deve, in realtà, permanere una fessura attraverso cui la vita possa sfuggire alle prese di una conoscenza esaustiva che la distruggerebbe.145

Il bovarismo, come legge psicologica sia individuale, sia collettiva, sembra implicare l’esistenza di una personalità veritiera su cui l’illusione prenda il sopravvento. Siffatta personalità autentica risulta, tuttavia, molto dubbia. Nell’interpretazione di Palante, il bovarismo, nel suo senso profondo, si presenta come un prolungamento della supposta personalità reale; gli stati bovaristici apparterrebbero alla personalità così come gli stati non bovaristici.146 In questo suo utilizzo empirico, il bovarismo è un mezzo per conoscere, apprezzare e valutare; è, come qualsiasi altro termine che voglia immobilizzare una realtà instabile, una metafora, un à-peu-près.147 È un meccanismo che non sfugge alla finzione universale, un «apparecchio» che può essere applicato ai casi particolari della vita individuale e collettiva; è, infine, un criterio di valutazione dell’importanza, del ruolo vitale di uomini, istituzioni, evoluzioni e rivoluzioni.

L’analisi di de Gaultier, del resto, comporta, anche, una sorta di metafisica bovaristica. Il concetto dell’Essere universale, posto di una symbolique illusioniste,148 è, esso stesso, un artificio espositivo, una finzione provvisoria da lasciar cadere una volta esaurito il suo compito; conseguentemente a ciò, il bovarismo è, nel suo uso essenziale, astratto, un principio di esplicazione universale, la primordiale menzogna. Tutto si risolve, in questo modo, in una mitologia; possiamo dare dell’universo unicamente delle «rappresentazioni simboliche» .149 Le nostre spiegazioni hanno la forma di metafore le quali sono tali solo in rapporto ad altre metafore che mostrano il carattere approssimativo delle prime. In un universo in cui la forma oggettiva del reale non esiste o sfugge indefinitamente, il bovarismo è la metafora più adeguata poiché in grado di abbracciare l’orizzonte più vasto e di unificare su un medesimo piano molteplici problemi. La nozione di bovarismo fornisce, delle numerose questioni, esplicazioni plausibili, ipotesi, ma mai verità. Il bovarismo come à-peu-près è un modo, peculiare, probabilmente il migliore per de Gaultier, di presentare le cose diversamente da come esse sono, cioè di presentarle nell’unica forma attraverso cui è possibile farle apparire.150


  1. J. de Gaultier, La philosophie officielle et la philosophie, Paris 1922, pp. XV -153. ↩︎

  2. J. Baruzi, Philosophes et savantes Françaises du XX siècle, I, Paris 1926, pp. 186-187. ↩︎

  3. J. de Gaultier, Le Bovarysme, Paris 1913, p. 316 (trad. it. Milano 19922). ↩︎

  4. Ivi, p. 13. ↩︎

  5. Ivi, p. 14. ↩︎

  6. J. Baruzi, Philosophes et savantes… , pp. 186-187. ↩︎

  7. W. E. Ellis, Bovarysm: the art-philosophy of Jules de Gaultier, Seattle 19282, pp. 40. ↩︎

  8. Ivi, p. 27. ↩︎

  9. Ivi, pp. 36-37. ↩︎

  10. J. de Gaultier, Il Bovarismo, cit., p. 18. ↩︎

  11. Ibidem. ↩︎

  12. L’uso della parola volto non è, qui, casuale; infatti, de Gaultier descrive in questi termini quella malattia della personalità cui ha dato il nome di bovarismo: «egli (l’individuo) è in preda a desideri e repulsioni nei quali la sua sensibilità non prende alcuna parte, tutto ciò che egli era si cancella poco a poco per fare posto a non so quale caricatura grottesca che fa strane smorfie sulle linee di un volto -visage- fatto per altre espressioni» . J. de Gaultier, Le Bovarysme. La psychologie dans l’œuvre de Flaubert, Paris 1892. Successivamente riprodotto in Le génie de Flaubert, Paris 1913². ↩︎

  13. J. de Gaultier, Il Bovarismo, p. 26. ↩︎

  14. Ivi, p. 19. ↩︎

  15. Ivi, p. 10 — 11. ↩︎

  16. Ivi, p. 6. ↩︎

  17. Ivi, p. 12. ↩︎

  18. Ci riferiamo, soprattutto alla Brochure, perché più dettagliata; qualora ci siano ulteriori e posteriori precisazioni, ci riferiremo a Il Bovarismo↩︎

  19. Il Bovarismo, cit., p. 25. ↩︎

  20. Brochure, cit., p. 226. ↩︎

  21. Ivi, p. 228. ↩︎

  22. Il Bovarismo, cit., pp. 27 — 28. ↩︎

  23. Brochure, cit., p. 231. ↩︎

  24. Ivi, p. 229. ↩︎

  25. Il Bovarismo, cit., p. 28. ↩︎

  26. Brochure, cit., p. 232. ↩︎

  27. Ivi, p. 235. ↩︎

  28. Il Bovarismo, cit., p. 23. ↩︎

  29. Ivi, p. 29. ↩︎

  30. Il Bovarismo, cit., p. 237. ↩︎

  31. Ivi, p. 238. ↩︎

  32. Ivi, p. 240. ↩︎

  33. Ivi, p. 242. ↩︎

  34. Il Bovarismo, cit., p. 24. ↩︎

  35. Ivi, p. 31. ↩︎

  36. Brochure, pp. 243 — 244. ↩︎

  37. G. Palante, La philosophie du Bovarysme: Jules de Gaultier, Paris 1924, p. 26. ↩︎

  38. Ivi, p. 8. ↩︎

  39. J. de Gaultier, De Kant à Nietzsche, cit, pp. 13 -14. ↩︎

  40. Ivi, p. 18. ↩︎

  41. Ivi, p. 16. ↩︎

  42. Ivi, p. 21. ↩︎

  43. Ivi, p. 22. ↩︎

  44. Ivi, p. 19. ↩︎

  45. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781 (trad. it. Roma 1976³). ↩︎

  46. De Kant à Nietzsche, cit, p. 24. ↩︎

  47. Si rende necessario chiarire il senso in cui de Gaultier utilizza il termine race: esso designa ogni ambiente in cui si manifesti l’azione della mentalité, vale a dire, una comune sensibilità, un comune ideale che uniscono e caratterizzano una civiltà, una nazione, un qualsiasi gruppo umano, sociale, generazionale. ↩︎

  48. De Kant à Nietzsche, cit, p. 24. ↩︎

  49. Ivi, p. 27. L’universo, la sua architettura, le sue leggi vengono desunte, rette e spiegate, dall’opera di un creatore (ovviamente, nel caso del monoteismo) o da quella di varie divinità. Ma, a ben vedere, in entrambi i casi, i concetti di Dio unico e di dei molteplici sono, secondo de Gaultier, creazioni semplicemente umane, espedienti esplicativi (inadatti, comunque, ad una conoscenza seria) e consolatori; da qui, la peculiare accezione degaulteriana di antropomorfismo che ricorda la concezione feuerbachiana secondo cui l’antropomorfismo sarebbe la prova che la religione e Dio hanno una genesi umana. ↩︎

  50. Ivi, p. 30. ↩︎

  51. Ivi, p. 32. ↩︎

  52. Ivi, p. 25. ↩︎

  53. L’astrazione, così come la intende de Gaultier, è l’operazione attraverso la quale l’intelletto ricava concetti universali dalla conoscenza di oggetti individuali, prescindendo dalle determinazioni particolari degli oggetti stessi; significa, anche, separazione, isolamento di un concetto, di una nozione da altri. ↩︎

  54. De Kant à Nietzsche, cit, p. 39. ↩︎

  55. Ivi, p. 40. ↩︎

  56. Ibidem. ↩︎

  57. Ivi, p. 44. ↩︎

  58. Ivi, p. 45. ↩︎

  59. V. Cousin, Histoire générale de la philosophie depuis les temps les plus anciens jusqu’au XIXe siècle, Paris 1872. ↩︎

  60. De Kant à Nietzsche, cit, p. 46. ↩︎

  61. Ibidem. ↩︎

  62. Ivi, p. 55: la philosophie déiste de Platon. De Gaultier usa frequentemente l’aggettivo deista così come quello di teista (cfr., infra). La iniziale sorpresa circa l’uso di un termine che nel lessico storico-filosofico mantiene un preciso significato è scomparsa, però, analizzando le pagine degaulteriane. In effetti, l’autore tende a riportare il significato di queste espressioni alla loro accezione strettamente etimologica. Nel caso specifico, sembrerebbe potersi riscontrare l’uso dei due termini come sinonimi recuperato, forse, da Voltaire; ma potrebbe essere ammissibile un’altra interpretazione. La filosofia platonica potrebbe, paradossalmente, essere definita deista da de Gaultier perché antecedente alla rivelazione cristiana: la sua tendenza a trasformarsi in una religione (sempre nell’ottica degaulteriana) sarebbe perciò edificata su basi esclusivamente naturali e razionali. Al contrario, de Gaultier sembrerebbe riservare l’appellativo di teista alla filosofia posteriore alla rivelazione cristiana ed interessata al mantenimento di questa peculiare oggettivazione dell’istinto vitale (che, proprio per questo interesse non puramente conoscitivo, ma, piuttosto, vitale, sarebbe, in realtà, teologia). ↩︎

  63. Per quanto riguarda la critica ad Ebraismo e Cristianesimo, essa è presente in molte altre opere. Rimandiamo, in particolare, a J. de Gaultier, Nietzsche et la réforme philosophique, Paris 1904³, pp. 100-114. ↩︎

  64. De Kant à Nietzsche, cit, p. 55. ↩︎

  65. Cfr., ivi, p. 57, dove de Gaultier chiama, esplicitamente, la teologia una mensonge théiste↩︎

  66. Ivi, p. 59. ↩︎

  67. G. Palante, La philosophie du Bovarysme, cit. , p. 47. ↩︎

  68. Ibidem. ↩︎

  69. De Gaultier sembra fare del termine spirito un duplice uso. Da una parte, con spirito egli indica l’entità che si rivela come pensiero, sentimento e volontà, considerata in relazione al singolo individuo. In questo senso, sembra che de Gaultier non distingua, in modo netto, i termini spirito e io, quanto, piuttosto, che se ne serva come di due sinonimi. C’è, forse, uno slittamento più specificamente psicologico nell’accezione di io, ma, alla luce dell’interpretazione degaulteriana (per cui l’io è rappresentato, di volta in volta, dall’elemento particolare che è uscito vittorioso dallo scontro tra tutte le parti — razionali, istintuali, etc. — costitutive della persona umana) pensiamo di poter confermare la valenza di sinonimi dei due termini. Del resto, come vedremo successivamente, de Gaultier critica tutte quelle ‘scuole’ filosofiche che, al posto di un tale uso corretto, includono nel concetto di spirito qualità che non gli afferiscono affatto. ↩︎

  70. J. de Gaultier, La philosophie officielle et la philosophie, Paris 1922, pp. 355-357. ↩︎

  71. Il Bovarismo, cit., p. 165. ↩︎

  72. Ivi, pp. 166-167. ↩︎

  73. Ivi, p. 168. ↩︎

  74. J. de Gaultier, Les raisons de l’idéalisme, Paris 1906³, p. 215. ↩︎

  75. La fiction universelle, cit., p. 359. ↩︎

  76. Il Bovarismo, cit., p. 170. ↩︎

  77. Ivi, pp. 170-171. ↩︎

  78. La fiction universelle, cit., p. 360. ↩︎

  79. Les raisons de l’idéalisme, cit., p. 233. ↩︎

  80. Ivi, pp. 234 — 235. ↩︎

  81. Ivi, p. 236. ↩︎

  82. Il Bovarismo, cit., p. 172. ↩︎

  83. R. Quinton, L’eau de mer, milieu organique, Paris 1904. ↩︎

  84. J. de Gaultier, La dépendance de la morale et l’indépendance des mœurs, Paris 1907³, p. 206. ↩︎

  85. Ivi, p. 214. ↩︎

  86. Ivi, p. 230. ↩︎

  87. Ivi, pp. 253-254, cfr., inoltre, J. de Gaultier, Comment naissent les dogmes, Paris 1912², p. 376. ↩︎

  88. Les raisons de l’idéalisme, cit., p. 17. ↩︎

  89. Ivi, p. 18. ↩︎

  90. Ivi, p. 26 e 32. ↩︎

  91. Ivi, p. 25. ↩︎

  92. Ivi, p. 27 e 33. ↩︎

  93. Ivi, p. 28. ↩︎

  94. Ivi, p. 30. ↩︎

  95. Ivi, p. 33. ↩︎

  96. Ivi, pp. 34-35. ↩︎

  97. G. Palante, La philosophie du Bovarysme, cit., p. 57. ↩︎

  98. J. De Gaultier, Comment naissent les dogmes, cit., p. 287. ↩︎

  99. La dépendance de la morale et…, cit., p. 97 ss., p. 318 ss. ↩︎

  100. Comment naissent les dogmes, cit., p. 292. ↩︎

  101. Ivi, p. 305. ↩︎

  102. La Dépendance de la morale et…, cit., p. 341. ↩︎

  103. Ivi, pp. 343-344. ↩︎

  104. De Gaultier si rifà alle teorie di A. Fouillé, La morale des Idées-forces, Paris 1908. ↩︎

  105. Dépendance de la morale et…, cit., p. 354. ↩︎

  106. La fiction universelle, cit., pp. 15-69, 1903, p. 39. ↩︎

  107. Le génie de Flaubert, cit., p. 30. ↩︎

  108. De Gaultier usa, come nel caso del termine spirito, il vocabolo metafisica secondo due accezioni: la prima descrive la sua ipotesi di una «metafisica del bovarismo», in cui, comunque, le varie componenti (in primis, l’Essere) risultano essere considerate come supposizioni conoscitive, come metafore esplicative. In un secondo caso, invece, l’autore considera, nella propria critica, alla stregua di una metafisica’tutti quei sistemi falsamente epistemologici che, in realtà, sono funzionali all’istinto vitale ed usano impropriamente i mezzi adeguati ad una pura conoscenza. ↩︎

  109. Le génie de Flaubert, cit., pp. 35-37. ↩︎

  110. Ivi, p. 45. ↩︎

  111. Ivi, p. 46. ↩︎

  112. Ivi, p. 48. ↩︎

  113. Ibidem. ↩︎

  114. Ivi, p. 51. ↩︎

  115. Rimangono da analizzare gli spunti degaulteriani circa le due condizioni di «bovarismo trionfante» che si manifestano nell’infanzia (stato naturale in cui la facoltà bovaristica si presenta e si sviluppa attraverso il potere dello spirito del bambino di deformare la realtà) e nello snobismo (non potendo sopportare la propria debolezza lo snob, guidato dal proprio istinto di conservazione, se la nasconde: evita l’azione, demandando ad un giudizio eccentrico, al gusto per il prezioso, per l’insolito, per lo stravagante il compito di innalzare il suo valore al di sopra della moltitudine e se si avvicina ad altri uomini, dopo questo isolamento, è solo verso snob come lui, per darsi forza a vicenda nei confronti dell’esterno). Da notare come queste argomentazioni, come del resto molti altri temi affrontati da de Gaultier, ricordano tematiche proprie dello Girard di Mensonge romantique et vérité romanesque, in cui per inciso viene citato de Gaultier a supporto delle tesi girardiane sul romanzo europeo, luoghi da cui è partita, e continua, la ricerca di chi scrive. ↩︎

  116. Le génie de Flaubert, cit., pp. 95-96, 98, 100. ↩︎

  117. La fiction universelle, cit., p. 17, 19-21. ↩︎

  118. Ivi, p. 25. ↩︎

  119. Ivi, p. 49. ↩︎

  120. Ivi, p. 47. ↩︎

  121. Ivi, p. 50. ↩︎

  122. Ivi, p. 51. ↩︎

  123. Ivi, p. 59. ↩︎

  124. Il Bovarismo, cit., p. 139. ↩︎

  125. La fiction universelle, cit., pp. 27 — 28, pp. 37-39. ↩︎

  126. Il Bovarismo, cit., p. 46. ↩︎

  127. La fiction universelle, cit., p. 31. ↩︎

  128. Ivi, p. 34. ↩︎

  129. Ivi, p. 33. ↩︎

  130. La tesi qui esposta dall’autore presenta notevoli assonanze con la figura di Hegel dell’«astuzia della Ragione» e, anche se de Gaultier non fa qui riferimento al filosofo tedesco, ne conosce l’opera. ↩︎

  131. Il Bovarismo, cit., p. 111. ↩︎

  132. La fiction universelle, cit., p. 23. ↩︎

  133. Il Bovarismo, cit., p. 113. ↩︎

  134. Ibidem. ↩︎

  135. Ivi, p. 115. ↩︎

  136. Ivi, p. 116. ↩︎

  137. Le génie de Flaubert, cit., p. 125. ↩︎

  138. Ivi, p. 119. ↩︎

  139. G. Palante, La sensibilité individualiste, Paris 1923 (trad. it. Bergamo 1997), p. 74. ↩︎

  140. Le génie de Flaubert, cit., p. 156. ↩︎

  141. Ivi, p. 155. ↩︎

  142. pp. 65-66. ↩︎

  143. La fiction universelle, cit., p. 68. ↩︎

  144. M. Choisy, La Chirologie, Paris 1927, prefazione di J. de Gaultier, pp. VII — XV, cfr., p. VII. ↩︎

  145. Ivi, p. X. ↩︎

  146. G. Palante, La Philosophie du Bovarysme, cit., p. 52. ↩︎

  147. La fiction universelle, cit., p. 402. ↩︎

  148. G. Palante La philosophie du Bovarysme, cit., p. 50. ↩︎

  149. La fiction universelle, cit., p. 412. ↩︎

  150. Ivi, p. 413. ↩︎