Il principio di inclusione

Il testo che segue è stato proposto nel luglio del 2011, ma qualche mese più tardi l’autore è venuto a mancare. Sapendo quanto egli desiderava l’inserimento in Dialegesthai, alla quale si sentiva particolarmente legato, pubblichiamo l’articolo in sua memoria, anche se l’argomento non rientra direttamente nel campo di interesse della rivista.

L’algoritmo «variazione casuale/selezione naturale», enunciato circa 150 anni fa da Darwin, è stato fecondo sia per affermare il concetto di Evoluzione nella cultura, sia per orientare la ricerca. Dopo la grande sintesi neodarwinista, che ha assimilato il sapere moderno delle scienze biologiche, altre acquisizioni della conoscenza degli ultimi anni si propongono per una nuova assimilazione nell’algoritmo darwinista o per un ridimensionamento di esso. Ci riferiamo in particolare ai dati provenienti dalla genetica delle popolazioni (rilevanza delle mutazioni neutre di Kimura, 1968), dalla Paleontologia (teoria degli equilibri punteggiati di Eldridge e Gould, 1972) e dalla Biologia dello sviluppo (teoria evo-devo, vedi Goodman e Coughlin 2000, Carroll 2005).

Intanto si offre all’attenzione degli studiosi il risultato di un’osservazione fatta nel mondo delle basse complessità, dove è difficile pensare all’intervento della selezione naturale, in quanto questa si basa sul fattore competitività, impossibile da definirsi per i corpi che cristallizzano e/o che gelificano.

Nel mondo delle basse complessità, dall’atomo fino alle macromolecole prebiotiche, l’osservazione dei fenomeni mette in rilievo una particolare modalità dell’evoluzione, connessa alla proprietà chimico-fisica di interazione dei corpi. Da tale osservazione deriva ciò che abbiamo chiamato «principio di inclusione».

1. Metodo

Dopo Kant, è stato evidente che un principio non è il «punto di partenza» delle cose, ma del pensiero. Il «principio» è una proposizione generale, desunta dall’osservazione dei fenomeni, che si propone come «inizio» di una migliore spiegazione di essi.

Un principio deve essere esposto con adeguate convenzioni. A tal fine utilizziamo due tipi di proposizioni razionali, che abbiamo denominato con i termini latini Logus e Cologus.

Per Logus intendiamo una proposizione rappresentativa di un fenomeno o di un processo. Ogni Logus viene contrassegnato con un numero ordinale.

Per Cologus invece intendiamo una proposizione negativa fatta per precisare meglio quanto è espresso nel Logus. Ogni Cologus è contrassegnato con un numero cardinale, seguito dal numero ordinale del corrispondente Logus.

La definizione del principio di inclusione è contenuta in un logos contrassegnato non da un numero, ma da una lettera: logus P.

I connettivi usati nelle formule sono quelli della logica matematica, tranne il simbolo Λ che qui sta per «relatore di complessità». Gli altri simboli sono spiegati nel testo.

2. Enunciazione

2.1. Logus I

C’è un corpo complesso.1 Un corpo C (atomo, cellula etc.) è costituito da un insieme di elementi (o corpuscoli) che combina attorno a sè, tramite un relatore L, dei complementi (o organuli), in una unità chiusa in sè, di raggio definito (raggio di complessità, δ).

Se conveniamo di chiamare nucleoplasma (n) l’insieme di corpuscoli e periplasma (p) l’insieme di organuli, possiamo scrivere:

C = n Λ p (1)

Inoltre conveniamo di chiamare ecoplasma l’insieme dei corpi coesistenti, che possono interagire col corpo C.

È utile caratterizzare l’appartenenza di un corpo a un genere mediante un indice: Ci.

Cologus 1, I

Un corpo complesso non è un aggregato (A), ossia un insieme indefinito di unità (a), che possono essere aggiunte o sottratte senza che l’insieme perda la sua identità (come avviene ad esempio per un cristallo o un corpo celeste):

A = n a (2)

Cologo 2, I

L’ecoplasma non è ogni cosa che si trova nell’intorno di un corpo, ma ogni cosa che interagisce con esso; dunque se una cosa si trova vicina al corpo C e non interagisce con esso, non fa parte dell’ecoplasma.

2.2. Logus II

Considerato dal punto di vista dinamico, ogni corpo C è un evento2 di complessità che è dotato, a sua volta, di una funzione generatrice di complessità (funzione di complessità, Φ). Tale funzione si manifesta nell’interazione con gli altri corpi dello stesso genere di complessità, presenti nell’ecoplasma.

Cologus 1, II

La funzione Φ non è una grandezza, ossia qualcosa che è comune a vari corpi, anche se di genere diverso (come è per la carica elettrica), ma come già detto, è una proprietà, ossia qualcosa che un corpo possiede e per la quale esso produce un determinato effetto. Perciò, all’interno di uno stesso genere di complessità, la Φ non varia in un intervallo continuo e indeterminato, ma in un ambito definito, fra la minima complessità possibile, al di sotto della quale un corpo degenererebbe e la massima complessità possibile, oltre la quale il corpo non interagisce più (Φ = zerovalente).

Nell’ambito di uno stesso ordine di complessità, a partire dal corpo di minima complessità fino al corpo di massima complessità, il corpo «intermedio» ha la funzione di complessità ambivalente, ossia con due aspetti antisimmetrici, uno recessivo e l’altro dominante, mentre tutti gli altri corpi sono univalenti, ossia con un solo aspetto ben definito, dominante o recessivo.

Chiamiamo bione il corpo che, all’interno dello stesso grado di complessità, presenta la funzione di complessità ambivalente, rispetto agli altri corpi che, prima e dopo di lui, hanno funzione di complessità univalente. Nel mondo atomico, la funzione di complessità è espressa dalla valenza chimica; il carattere recessivo è attribuibile ai metalli (che cedono elettroni), il carattere dominante è ascrivibile ai non metalli (avidi di elettroni), mentre i gas nobili sono zerovalenti. La migliore manifestazione della funzione di complessità è il legame covalente, in cui i corpi sono codominanti (mettono in comune gli elettroni). I bioni più importanti sono il Carbonio e il Silicio.

Per restare in un discorso generale, invece di usare gli esponenti − e +, è utile significare la valenza della funzione di complessità di un corpo con gli esponenti <, >, rispettivamente per la valenza recessiva e per quella dominante, con l’esponente >< l’ambivalenza, e con l’esponente <> la zerovalenza.

Chiamiamo inoltre coagoniste due funzioni di complessità, appartenenti a due corpi diversi (ma dello stesso genere di complessità, tra loro complementari, tali cioè che i due corpi, nell’interazione, originano un nuova unità, con funzione di complessità zerovalente.

2.3. Logus III

La funzione di complessità non ha un significato fisico, perché è una proprietà Può acquistarlo se viene relazionata ad una dimensione fisica del corpo δ, (per esempio, nel mondo inorganico, questa può essere il raggio atomico). Tale rapporto diventa allora una capacità.

Chiamiamo plasticità evolutiva del corpo (Pe) il rapporto:

Pe = Φ / δ (3)

e intendiamo con questo termine (Pe) la capacità di evolvere di un corpo, ossia la sua capacità di passare da uno stato di complessità ad un altro, quando interagisce con gli altri corpi dello stesso genere di complessità.

Cologus 1, II

La plasticità evolutiva non è la capacità di evolvere verso qualsiasi stato, a caso, ma soltanto verso stati possibili dal punto di vista strutturale-energetico.

Consideriamo i casi elementari. Due corpi con funzione di complessità coagoniste, c1< ed c1> si uniscono dando origine ad un altro corpo a complessità variata nel grado, ma appartenente allo stesso genere (c1) :

c1< ∧ c1> = c1 (4)

Il corpo risultante C non può evolvere ulteriormente perché ha la funzione di complessità zerovalente.

Invece il bione, grazie alla sua funzione di complessità ambivalente, presenta il fenomeno notevole della polimerizzazione, attraverso il legame fra i poli opposti di due o più unità:

c1>< ∧ c1>< = c2><>< = c2>< (5)

Il risultato è un evento che è passato a un rango di complessità superiore (dal genere 1 al genere 2) e che può evolvere ulteriormente.

2.4. Logus P: principio di inclusione

Si passa da un genere di complessità Λ ad un altro genere di rango superiore H per replicazione di un bione del genere Λ e sua inclusione, per autorganizzazione, in un nuovo centro più complesso. È conveniente scrivere:

ΔHL = (C><L)n+1 (6)

con n ≠ 0, dove cxL (il bione del genere L) è il «quale» di trasmutazione del genere e è il segno che indica la trasformazione dal genere Λ al genere più complesso H.

Il nuovo genere presenta una plasticità evolutiva tanto più alta quanto più alta è la plasticità evolutiva del bione di origine.

Il processo può essere rallentato o accelerato da fattori esterni, ma si svolge secondo leggi fisiche interne ai corpi complessi, ossia mediante il processo che poco prima abbiamo chiamato di autorganizzazione e che può essere così descritto: nella polimerizzazione del bione, la catena bionica resta inclusa nel centro a costituire il nucleoplasma, mentre gli elementi coagonisti (complementi), che sono uniti ai monomeri bionici tramite il relatore L, restano in periferia, a differenti livelli di energia, e costituiscono il periplasma.

Vediamo ora il principio di inclusione applicato ai vari livelli molecolari a complessità crescente.

a) livello molecolare inorganico-livello molecolare organico:

Il tipico bione è costituito dall’atomo di Carbonio. Per polimerizzazione di monomeri carboniosi, si passa dal mondo molecolare inorganico a quello molecolare organico. La catena carboniosa (-C-C-C-C-…) resta inclusa nel centro a formare il nucleoplasma, mentre il periplasma è costituito dagli altri atomi (R) combinati al Carbonio. Il relatore Λ è costituito dall’elettrone.

Un altro bione del mondo atomico è il Silicio. Quest’atomo però ha un raggio di complessità superiore a quello dell’atomo di Carbonio e quindi, per la (3), una plasticità evolutiva inferiore.

b) livello molecolare organico-livello macromolecolare:

Il mondo organico presenta una grande varietà di molecole e quindi numerosi bioni. Si portano qui due esempi uno per i composti lineari, l’altro per i composti ciclici

b1) composti lineari

Il bione rilevante è l’aminoacido, con la funzione di complessità ambivalente, aminica e acida. Per unione polimerica di vari aminoacidi e dunque per inclusione in nuovo nucleo del polimero peptidico, si passa al mondo macromolecolare delle proteine. Il periplasma è costituito dai radicali dei vari aminoacidi che compongono la macromolecola. Il relatore Λ è costituito dall’atomo di carbonio.

b2) composti ciclici

Fra i composti ciclici, il bione rilevante è costituito dal nucleotide, con la funzione di complessità ambivalente costituita dal fosfato e dalla base azotata. Per unione polimerica di vari nucleotidi, e dunque per inclusione in un nuovo nucleo della catena fosfodiesterasica, si passa al mondo macromolecolare degli acidi nucleici. Il periplasma è costituito dalle basi azotate (purine e pirimidine). Il relatore Λ è costituito dal pentosio.

c) livello macromolecolare—livello biologico

Qui si compie un grande salto nella complessità. Data la grandezza enorme delle macromolecole, la «polimerizzazione» avviene in un modo particolare: per reiterata replicazione nel tempo, per cui i corpi complessi sono legati fra loro in modo dinamico: «non nello spazio» ma «nel tempo» (riproduzione).

La macromolecola dell’RNA (R) può essere considerata il bione più significativo, con le due funzioni di complessità coagoniste, replicativa — che dà un’altra molecola di RNA (R*) — e metabolica, costituita dalla Proteina (P).

Image

L’RNA costituisce con molta probabilità il bione attraverso il quale il mondo si «vitalizza». È questa l’ipotesi accreditata presso vari autori (Joyce and Orgel 1993, Orgel 1994).

Il relatore Λ è costituito da t-RNA e il periplasma è costituito dalla proteina codificata nell’RNA.

Il DNA è invece il bione tipico del mondo vivente. Il relatore è costituito dalla grossa molecola del m-RNA e il periplasma è costituito dal citoplasma.

Cologo 1, P

L’autorganizzazione non è un processo di creazione ab nihilo, né casuale. Esso prende inizio da un determinato esistente, e il risultato dipende dalla complessità di quest’ultimo.

3. Discussione

Nel mondo delle basse complessità l’evoluzione sembra connessa ad una proprietà inerente ai corpi complessi. Si tratta della proprietà chimico-fisica di interazione dei corpi, che si esprime in modo e con intensità diversi negli individui di uno stesso grado di complessità. L’interazione è condizionata dalle caratteristiche contingenti dell’ecoplasma, ossia dal tipo di corpi e dalle condizioni chimico fisiche presenti in esso.

L’incontro fra i corpi può capitare a caso, ma appena esso avviene, l’interazione si svolge secondo proporzioni di massa determinate e configurazioni spazio-temporali definite. Il processo è un’autorganizzazione della materia complessificata. Una volta che la modificazione del corpo è avvenuta, si ha anche modificazione dell’ecoplasma, per cui il concetto di coevoluzione (Ehrlich et al. 1964) precisa meglio quello di evoluzione.

3.1. Estensione del principio di inclusione al mondo biotico

L’osservazione di una modalità evolutiva diversa nel mondo delle basse complessità (prebiotico) può essere utile nello studio dell’evoluzione delle forme ad alta complessità (biotiche).

Infatti i concetti definiti in questo lavoro possono essere estesi, con le dovute precisazioni, al mondo dei viventi e, per certi aspetti, definirne meglio la fenomenologia.

Il concetto di valenza di un atomo rispetto all’idrogeno, trova corrispondenza nel concetto di fitness di un individuo rispetto ad un genotipo di riferimento, nella popolazione di appartenenza. La valenza, in chimica, è infatti correlata alla capacità di combinazione di un atomo, e la fitness, in biologia, è correlata alla capacità di riproduzione di un individuo.

Anche il concetto di bione ha una coerente corrispondenza nel mondo dei viventi. Qui il bione è costituito da ogni forma ambivalente che, riproducendosi («polimerizzando nel tempo»), genera una popolazione diversa dalla precedente e quindi diventa il centro di una nuova popolazione).

La rilevanza del fenomeno dipende dalla plasticità evolutiva del bione Tali forme ambibivalenti possono riguardare sia caratteri adattivi (migliore reazione a fattori ambientali) e interessare una parte dell’organismo, che caratteri progressivi (maggiore indipendenza dai fattori ambientali) e coinvolgere quindi il bauplan dell’organismo.

Sia nell’uno che nell’altro caso il bione tipico è l’eterozigote, ossia l’organismo caratterizzato dalla ambivalenza allelica: l’allele conservato e quello mutato. All’interno di una popolazione vi saranno eterozigoti per diverse proprietà comportamentali e quindi eterozigoti con diversa plasticità evolutiva su cui agirà il meccanismo della selezione naturale.

Nel mondo della complessità biotica, all’algoritmo caso e selezione, il principio di inclusione sostituisce l’algoritmo autorganizzazione e selezione.

3.2. Principio di inclusione e principio di casualità

Siamo consci del fatto che l’estensione del principio di inclusione al mondo dei bioti mette in discussione uno dei due poli dell’interpretazione darwinista dell’evoluzione, ossia il principio di casualità e che questo fatto può rappresentare il principale motivo di rifiuto del principio di inclusione.

Ma se il principio di casualità, isolando la «parte» dal «tutto», ha permesso lo studio della «parte» alla luce della selezione naturale, con un enorme progresso dal punto di vista scientifico, il suo impiego in senso oggettivo (il caso puro) reca un contributo negativo dal punto di vista teorico, e mette a rischio anche il valore della selezione naturale, quando questa viene usata non nell’accezione di processo, ma di processore animato, per compensare l’insufficienza del principio «caso puro».

Il principio di casualità evoca un problema controverso e delicato perché il concetto di caso non è univoco. Nella storia del pensiero si sono intersecati tre concetti di caso:

  1. in senso soggettivo: chiamiamo casuale un evento le cui cause ci sono sconosciute.
  2. in senso oggettivo: chiamiamo casuale un evento che non ha nessuna causa reale (caso puro).
  3. in senso probabilistico: il caso è identificato con l’insufficienza di probabilità nella previsione.

Vi è un quarto modo, che possiamo chiamare «concetto verbale del caso» e che non è stato mai reso esplicito in modo sistematico. Esso è impiegato con due scopi:

  1. per negare le «cause finali», ossia l’esistenza di un fine come causa e principio delle cose che accadono. È risaputo come il finalismo sia stato di intralcio allo sviluppo della Scienza;
  2. per isolare dal Tutto il campo di studio. Questo procedimento è necessario alla Scienza, per poter analizzare un fenomeno. Esso è stato inaugurato da Galilei e reso esplicito da Newton. Nell’introduzione alla sua opera, Newton (1760) dichiara la sua intenzione di dare soltanto la nozione matematica delle forze, senza considerare le cause e le loro sedi fisiche.

Il principio di inclusione esclude il caso in senso oggettivo (caso puro).

La variazione può avvenire a caso, ma soltanto entro un angolo di libertà limitato dalla possibilità di sopravvivenza e dalla plasticità evolutiva del corpo. L’angolo di libertà del caso puro invece è illimitato, perciò l’ipotesi della variazione casuale è insostenibile. In termini generali l’evento casuale è altra cosa, anzi il contrario dell’evento di complessità: questi è generato, il primo accade.

3.3. Principio di inclusione e progressione evolutiva

Il principio di inclusione ripropone, in termini positivi, anche un altro problema controverso, quello della progressione. Senza far ricorso a considerazioni ideologiche, la progressione si presenta come la conseguenza naturale di una proprietà inerente ai corpi complessi che è quella dell’interazione fra di loro e che si manifesta in modo rilevante e particolare nei corpi che hanno la costituzione del bione.

Per evitare equivoci, diciamo subito che non identifichiamo la progressione con l’ortogenesi. Nel mondo atomico vi sono diversi bioni (ad es. C e Si) attraverso i quali la materia si complessifica; la progressione però avviene in modo diverso, secondo la plasticità evolutiva del bione. Nel mondo biotico la ricchezza di forme è rilevante e spesso si trovano forme involute e vie senza sbocco.

La progressione è cosa diversa dall’adattamento e per alcuni versi opposta: con l’aumento di complessità, l’organismo acquista caratteri che lo rendono relativamente indipendente dall’ambiente e più idoneo a fronteggiare le continue modificazioni di esso, senza contare i cambiamenti che esso provoca nell’ambiente. Basta pensare alla differenza fra un omeotermo e un peicilotermo.

Nell’adattamento invece l’organismo acquista caratteri che lo rendono idoneo alla sopravviveza nell’ambiente ma, che lo rendono anche dipendente da esso.

Se non si constatasse progressione, non si potrebbe nemmeno parlare di evoluzione. Se consideriamo gli organismi viventi secondo la loro comparsa nel tempo è indubitabile la progressività nella complessità. Tralasciando il mondo che cristallizza e quello che polimerizza, e centrando l’attenzione sul mondo che filetizza, la progressione nella complessità può essere osservata nell’ordine di comparsa degli organismi. Dapprima la complessità degli antichi Procarioti (batteri e alghe azzurre), quindi il differenziamento cellulare (Eucarioti unicellulari), il differenziamento pluricellulare (Eucarioti pluricellulari), il passaggio dall’acqua alla terraferma (Anfibi), il passaggio dall’eterotermia all’omeotermia (Tetrapodi omeotermi), l’allevamento della prole (Mammiferi), lo sviluppo di un sistema nervoso sempre più in grado di accumulare informazione e di elaborarla (Primati, Homo compreso).

Il fatto che accanto a questi esempi di progressione vi sia un’abbondanza di esempi di regressione e di degenerazione può negare l’ortogenesi ma non la progressione. In ogni caso la progressione è legata ad una emancipazione dalla contingenza ambientale e non all’adattamento.

Il «fatto» progressione non mette in discussione il principio della selezione naturale ma lo affranca dai limiti inerenti all’adattamento. La selezione naturale regola l’ordine ma non lo crea.

La dinamica autorganizzazione-selezione, ossia la dinamica fra un processo inerente alla materia complessa, creatore d’ordine, e un meccanismo regolatore di tale ordine, spiega «naturalmente» la progressione.

L’algoritmo «caso e necessità», reso famoso da Monod (1970), dopo aver verificato il principio della selezione naturale nel mondo batterico, può negare o giustificare la progressione, ma non spiegarla.

Per un autore come Gould (1994), sostenitore della comparsa improvvisa della specie dopo una lunga stasi, è logico ipotizzare che le forme più complesse siano una conseguenza fortuita e contingente fra altri eventi esitati in regressione o in estinzione. Bisognerebbe però anche ipotizzare la coevoluzione sincronica di un ambiente adeguato alla sopravvivenza di tali forme complesse. Mayr (1981), rigidamente gradualista, è invece obbligato ad ammettere la progressività evolutiva e ha cercato di giustificarla ricorrendo al fenomeno della competitività interspecifica. Tale spiegazione sposta soltanto i termini del problema, anzi li aggrava perché, la competitività interspecifica riguarda l’adattamento e non la progressione. Bisognerebbe ipotizzare che la selezione naturale non è un processo connesso alla diversa capacità di sopravvivenza dei viventi, ma alla graduale perfezione di un ambiente «animato» che sceglie le specie più idonee ad occuparlo.

La riduzione dei fenomeni evolutivi a processi di adattamento regolati dalla selezione naturale è una interpretazione e non l’enunciazione di una legge naturale, anche se fatta da scienziati autorevoli. È anzi possibile notare che più l’autore è riduzionista più la selezione naturale acquista il carattere di processo attivo mentre gli elementi in gioco si caricano di caratteri atropomorfi (es. il «sogno» di F. Crick, il gene «egoista» di R. Dawkins).

3.4. Principio di inclusione e assenza di forme intermedie

È uno dei problemi che Darwin elencò fra le difficoltà della sua teoria (Darwin 1872a). La teoria degli equilibri punteggiati, come è noto, ha dato una plausibile spiegazione del fatto. Essa però mette in discussione soltanto il gradualismo della variazione (Gould 2002).

Il principio di inclusione porta un contributo importante a questo problema.

Un’analisi attenta della progressione nella complessità mette in rilievo il fatto che si è trattato della comparsa successiva di forme sempre più libere dai vincoli ambientali: dal procariote strettamente dipendente dal suo habitat acquatico, al tetrapode omeotermo che ha invaso tutti gli ambienti, fino al bipede uomo che è andato oltre l’habitat terrestre. Questa osservazione non è affatto la conferma di un’ortogenesi: come detto prima, la ricchezza di forme e la lunghezza dei periodi evolutivi la nega.

Perciò è legittimo distinguere fra:

  1. una evoluzione adattiva, che riguarda l’adattamento dell’organismo all’ambiente, che è attiva nei corpi con una bassa plasticità evolutiva;
  2. un’evoluzione progressiva che riguarda l’emancipazione dell’organismo dall’ambiente, che è attiva nelle forme che nel nuovo genere hanno una plasticità evolutiva elevata. Il destino del genere dipende dalla plasticità evolutiva dell’organismo-bione che lo ha generato.

Possono trovarsi forme intermedie soltanto nell’evoluzione adattiva, ma esse non sono significative per testimoniare i salti nella complessità. Così possono trovarsi forme intermedie nei cambiamenti di una funzione preesistente dovuti ad una intensificazione (es. l’elaborazione progressiva delle corna, come armi, negli ungulati), ad una diminuzione (es. la mancanza di clorofilla nelle piante parassite), al cambiamento in relazione all’entrata in un nuovo ambiente (es. le ali dei pinguini modificati per il movimento nell’acqua), al suo impiego secondario (es. in molte piante le pareti dell’ovario servono sia a contenere i semi che a disperderli).

Nella evoluzione progressiva, secondo il principio di inclusione, non possono trovarsi forme intermedie perché il bione variato (il DNA) resta incluso nella nuova unità formata e interessa il bauplan dell’organismo. È quanto testimonia la Paleontologia. I rari reperti, considerati forme intermedie, sono di incerta interpretazione (Sermonti e Fondi 1982) e i famosi fossili rappresentati dai Terapsidi (rettile-mammifero) e dagli Archeopteryx (rettile-uccelli) sono mosaici di caratteri ancestrali e derivati e non vere forme intermedie.

3.5. Ambivalenza e multivalenza

Un motivo di perplessità può essere determinato dalla convinzione che l’evoluzione si basa sulla multivalenza della forma originaria. Questa convinzione è connessa però all’altra, quella della variazione a caso, di cui già si è discusso. Più propriamente invece la multivalenza riguarda lo sviluppo (devo) e non l’evoluzione (evo).

4. Conclusione

Uno dei problemi più interessanti, ma irrisolti, dell’Evoluzione è quello della progressività evolutiva, dal livello più semplice al più complesso. Come sostiene Gould S. J., il principio della selezione naturale, applicato agli organismi superiori, può spiegare l’adattamento locale ma non la progressione. Lo stesso principio, applicato alla complessità molecolare ha ancora minor forza, poiché alla sua base esiste il fattore della competitività, difficile da definirsi nel mondo molecolare (Eigen et al 1981). Del resto lo stesso Darwin (1872 b), nell’introduzione alla sua opera afferma: «sono convinto che la selezione naturale sia stato il più importante, ma non l’unico, fattore di modificazione».

Il principio qui esposto, che abbiamo denominato principio di inclusione, cerca di spiegare come (non perché) avviene la trasformazione da un genere di complessità ad un altro superiore, nel mondo molecolare. La sua applicazione al mondo biotico suggerisce un paradigma diverso del meccanismo evolutivo: autorganizzazione e selezione invece di caso e selezione.

5. Riferimenti bibliografici

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  • Darwin Ch. (1859 b). The Origin of the Species etc. (op. cit.) Introduction.
  • Eigen M., Gardner W., Schuster P., Winkler-Oswatitsch R. (1981) : L’origine della informazione genetica. Le Scienze (ed. it. di Scientific American), n. 154 giugno.
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  • Joyce G. F., Orgel L. E. (1993). Prospects for Understanding the Origin of the RNA World. In: the RNA World, New York. Cold Spring Harbor Laboratory Press, p. 13
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  • Kimura M. (1983). The Neutral Theory of Molecular Evolution, Cambridge University Press, Cambridge.
  • Mayr E. (1981). La Biologie de l’evolution. trad. it. Boringhieri, Torino. 1982, pp. 107-108
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  • Sermonti G., Fondi R. (1982). Dopo Darwin. Critica all’evoluzionismo. Rusconi, Milano. pp. 233-274

  1. Nel senso dato alla parola «complessità» da P. Teilhard de Chardin (1956). Le groupe zoologique humaine, Albin Michel, Paris, p. 31. ↩︎

  2. Nel senso dato alla parola «evento» da A. Einstein (1916). Über die spezielle und allgmeine Relativätstheorie, trad. it. Relatività, Boringhieri, Torino 1967, p. 25-26. ↩︎