Creatività e saturazione. Sentire, creare, incontrare l’altro nell’età della tecnica

1. La creatività: lo specifico dell’operare umano

All’interno della Enciclopedia Einaudi (1978), alla voce appositamente dedicata, Emilio Garroni riflette sulla creatività, interpretandola come la forma di operatività peculiare dell’essere umano, rispetto all’agire animale. La sua tesi di partenza è che non basta distinguere l’animale umano dal non-umano sostenendo che quest’ultimo agirebbe soltanto in base al paradigma istintuale stimolo-risposta. Questo non è vero, per Garroni, innanzi tutto perché sarebbe riduttivo spiegare il comportamento animale solo in questi termini. Inoltre, e questo è il punto fondamentale, il comportamento umano si distinguerebbe da quello animale non esclusivamente in senso quantitativo (una maggiore emancipazione dai nessi istintivi), ma soprattutto in senso qualitativo, perché dotato, cioè, di una peculiarità operativa assente negli animali.

Egli giunge alle sue conclusioni presentando una lunga e complessa carrellata di autorevoli posizioni, non solo filosofiche, in merito al linguaggio (e al gioco), interpretato come modello esemplare dell’operare umano.

In particolare, facendo riferimento a Peirce, Garroni scrive:

il comportamento semiotico (ed ogni comportamento umano, secondo Peirce, lo è) è piuttosto una continua riorganizzazione della relazione segno-oggetto, la quale consiste precisamente in tale continua riorganizzabilità.1

Questa riorganizzazione è possibile, per Peirce, e con lui per Garroni, perché il modello del comportamento semiotico (creativo-attivo) è inteso come triadico: tale, cioè, da coinvolgere non solo il segno e l’oggetto ma anche l’interpretante. Vi è un terzo che interviene, come si vedrà, a mettere in questione la legalità senza eliminarla.

Questo elemento di terzietà appare per altro verso in Piaget:

Piaget si colloca, rispetto alle due epistemologie classiche, secondo le quali la conoscenza riposerebbe rispettivamente su strutture preformate del soggetto o su caratteri preesistenti dell’oggetto, in posizione intermedia, in favore di una “costruzione effettiva e continua” della conoscenza.2

Perché questa «costruzione effettiva e continua» possa aver luogo, infatti c’è bisogno di qualcosa/qualcuno che si ponga oltre, come alterità irriducibile, rispetto a soggetto e oggetto e che, al contempo, ne sia indipendente senza esserne arbitrariamente indifferente.

In altri termini, dal rapporto che si instaura tra soggetto e oggetto scaturisce una qualche forma di legalità che tuttavia, perché ci sia conoscenza, deve essere rielaborata, affinché non si riduca ad una tautologica riproposizione di se stessa e diventi, quindi, epistemologicamente, gnoseologicamente e praticamente sterile. Ma la rielaborazione che qui Garroni ha in mente riguarda le regole stesse della conoscenza, e, più in generale, dell’operare umano:

ogni applicazione — ludica o verbale — suppone sempre una qualche regola, ma non necessariamente, e in linea generale mai, è interamente spiegata da quella regola.3

Ogni operare dell’uomo, pratico o intellettuale, è «regolato» da leggi che, tuttavia, non ne sono il principio di determinazione, poiché l’operare è proprio la capacità di riorganizzare le regole da cui muove.

La fondazione filosofica della questione è individuata da Garroni sul piano trascendentale, in particolare nella Critica della Facoltà di Giudizio4 nella quale

Kant vuole dire in sostanza che, date certe condizioni a priori, niente obbliga — a livello di condizioni e neppure di oggetti — ad unificare il sensibile secondo questo o quel tipo di organizzazione; che quelle condizioni stabiliscono soltanto un ambito di possibilità conoscitive; che tale ambito può essere determinato in conoscenza effettiva solo in quanto si organizza opportunamente il sensibile in rappresentazioni immaginative e si sceglie tra diverse organizzazioni possibili in vista di una conoscenza; e che tale elaborazione, al contempo immaginativa e intellettuale, richiede anche un principio estetico e costruttivo, cioè una specifica creatività essenzialmente correlata alla generalità delle condizioni intellettuali insieme alle quali essa opera.5

In altri termini, nel momento in cui Kant cerca di spiegare l’esperienza empirica, si accorge che l’unificazione del sensibile che la rende possibile non è vincolata a leggi universali determinate, ma opera, a fronte di condizioni intellettuali generali, «costruendo» organizzazioni possibili. In questo senso essa richiede un «principio estetico», ovvero una «creatività»: la capacità di attribuire costruttivamente regole di per se stesse estremamente generali e che richiedono, appunto, una costruzione creativa che sappia renderle applicabili di volta in volta. Garroni sottolinea, poi, come questa capacità non sia meramente intellettuale, ma sia in realtà un «sentire»:

Così, proprio perché i principi dell’intelletto kantiani sono molto generali e potenti, proprio perché si riferiscono all’esperienza in generale […] bisogna supporre nell’uomo una capacità estremamente sviluppata di “sentire” (in senso kantiano) le situazioni fattuali opportune.6

Qui ci si rivela qualcosa di importante: il fatto cioè che la ripertinentizzazione del rapporto soggetto-oggetto, la capacità peculiarmente umana — creativa -, cioè, di riorganizzare la legalità in modo produttivo, modificandola, ha a che fare con il sentire. È questo il portato eccezionale della terza critica kantiana, che introduce come elemento dirimente, e fondante, la facoltà del giudizio. Essa si fonda su di un «saper sentire» quella finalità che, in Kant, ci permette di dare senso all’esperienza empirica e di rendere possibile, quindi, la conoscenza.

A partire da qui Garroni, facendo riferimento più specificamente all’arte, introduce il concetto di «metaoperatività», con il quale non fa riferimento ad altro che alla creatività umana medesima.

Questa capacità costruttiva è, infatti, l’operare (il comportamento) peculiarmente umano, che si esprime nella produzione di oggetti, non per fini immediatamente determinati in base allo schema mezzo-scopo, ma in virtù di un’apertura originaria (trascendentale), l’anticipazione progettuale della molteplicità degli scopi possibili.

che si possa costruire un utensile propriamente detto significa dunque nello stesso tempo che l’operazione è stata liberata dall’assillo degli scopi immediati, che si può operare a prescindere da questi, che si è insomma aperto uno sconfinato territorio di sperimentazione operativa e che proprio questa apertura (perché no? questo “disinteresse”) è il contrassegno saliente delle proprietà della specie umana.7

L’opera d’arte si colloca in questo contesto come luogo esemplare in cui le peculiarità dell’operare umano si manifestano.

Del resto, lo stesso riferimento al testo kantiano, in particolare al § 46, permette di comprendere in che modo il comportamento metaoperativo dell’uomo si esemplifica nella produzione di opere d’arte.

Genio è il talento (dono naturale) che dà la regola all’arte.8

Quindi, innanzi tutto, quella predisposizione innata preposta alla produzione di opere d’arte, è una capacità di fornire regole. Regole che, peraltro, il genio non recupera da qualche altra fonte, ma da se stesso. O meglio: è nel genio che la natura fornisce le regole per l’opera d’arte bella. A ben guardare ci troviamo di fronte proprio ad un modello triadico: secondo il modello proposto precedentemente, soggetto (conoscitivo) e oggetto (arte) non bastano a se stessi. Vi è anche un «interpretante» che non è tanto un altro rispetto ai due, ma la modalità stessa, quell’apertura al possibile, che permette al genio di realizzare un’opera d’arte, ovvero, in altri termini, di formulare regole sempre nuove per l’operare artistico medesimo.

Difatti, ogni arte presuppone regole, sul fondamento delle quali ogni produzione che debba essere chiamata artistica, è rappresentata come possibile. Ma il concetto dell’arte bella non permette che il giudizio sulla bellezza del suo prodotto sia derivato da qualche regola che abbia a fondamento un concetto, il quale determini come il prodotto sia possibile.9

Le regole attraverso le quali il genio produce arte bella non sono fondate concettualmente. Il Bestimmungsgrund delle regole non è una legge data, intellettuale. Risiede altrove. E precisamente, nell’apertura trascendentale a possibili determinazioni. Perciò il discorso kantiano si chiarifica nei punti successivi:

1) il genio è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata, non un’attitudine particolare a ciò che può essere appreso mediante una regola; per conseguenza, l’originalità è la sua prima proprietà. 2) Poiché vi possono essere anche stravaganze [Unsinn] originali, i suoi prodotti debbono essere insieme modelli, cioè esemplari.10

Emerge un’altra peculiarità: tanto l’operare umano non è determinato concettualmente, tanto la sua a-legalità fondante regole può produrre «stravaganze», «non-senso» (Unsinn): la produzione può non andare a buon fine. Il rischio rimane sempre aperto: le possibilità creative, in quanto possibilità di formulare regole sempre nuove, possono comportare l’applicazione di regole «insensate». Il che fa supporre che esista sempre un «senso di riferimento», una sorta di punto di partenza a partire dal quale soltanto la produzione di regole ha significato, o, in altri termini, un interpretante dotato di senso tra soggetto e oggetto. Ora, forse, questo senso di riferimento non è altro da quel «sentire» di cui si è detto, e che per Kant è, innanzi tutto, un «senso comune». Possiamo presupporre, cioè, che in ogni nostro simile sia presente questa «capacità di sentire», come capacità di ridefinire sempre di nuovo possibili esperienze dotate di senso.

2. Creatività e nuove tecnologie

Si giunge così al vero e proprio tema del presente lavoro, ovvero la questione di come la creatività umana si caratterizza e possa continuare ad esercitarsi nel contesto del dispiegamento tecnologico globale. Nel momento, cioè, in cui in maniera esponenziale cresce l’impiego e la diffusione dello strumentario tecnico nell’agire e nel produrre umani.

È infatti sotto gli occhi di tutti come l’imporsi di modalità razionali e d’agire peculiarmente tecnico-scientifiche abbiano cambiato, o sembrano aver modificato, l’agire stesso dell’uomo e il suo rapporto con il mondo.

Si ripropongono qui, in un contesto peculiare, i temi che già Garroni metteva in luce riguardo al significato umano di operare ed agire, nonché la questione del modello specifico che sappia rendere conto dell’operare e della creatività umani. Come si è visto, la peculiarità di ciò che è umano è stata individuata attraverso uno svincolamento dal rapporto biunivoco soggetto-oggetto, segno-oggetto. L’operare e il creare peculiarmente umani si distinguono da quelli animali per un terzo: un’apertura — letta da Garroni in chiave trascendentale — che dispiega un terreno di possibilità, in grado di suscitare regole capaci di conferire senso e tuttavia prive di un dogmatico fondamento concettuale che le renda immodificabili — pena una ricaduta nel nesso stimolo-risposta che spiega, in linea di massima, l’agire istintuale dell’animale.

Ma proprio su questo spazio, come si vedrà, nel mondo contemporaneo, si articola la presa tecnica.

Le tecnologie della comunicazione come quelle produttive, la stessa possibilità di agire ingegneristicamente sul vivente, di modificarlo fin dall’origine — di modificarne per giunta l’origine: sono tutte espressioni di quell’impianto tecnico che domina l’esistenza del mondo contemporaneo.

Ora, appare centrale mostrare, innanzi tutto, quali siano i nessi e le differenze, se vi sono, tra l’operare nell’ampio senso fin qui trattato, e l’agire tecnologico nello specifico.

A tal fine può essere utile riprendere la riflessione proposta da De Carolis in un testo significativamente intitolato La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.11 In un passaggio del testo, l’autore mostra come fin dall’antichità, come attestato dal famoso coro dell’Antigone di Sofocle, la techne sia stata pensata come la possibilità peculiarmente umana di aprire nuove vie in ciò che è già noto.12 In ciò si mostra ciò che per De Carolis costituisce la vita umana stessa, e cioè il punto di incrocio tra la natura (biologica) dell’uomo e la sua condizione (storica). Il luogo in cui le peculiarità e capacità naturali si intersecano a quell’apertura che è condizione storicamente data dell’essere umano è ciò in cui si dispiega la vita. Essa quindi non è pre-determinata da regole biologiche date: queste, piuttosto, si articolano nella loro declinazione storica, di volta in volta condizionata.

Ma a ben guardare, è proprio su questo spazio che le tecnologie moderne intervengono e agiscono.

Se la techne — in linea con l’interpretazione garroniana dell’operatività umana — è l’apertura al ventaglio di possibilità produttive sempre nuove, è il sapere-aprire sempre nuove strade nella realtà già nota, rivelando l’inesauribilità concettuale dell’esperienza stessa, le tecnologie moderne sembrano agire propriamente qui. Esse non si limitano a costituirsi come un agire creativamente aperto, condizione di possibilità, mai definitivamente determinata, del produrre. La tecnica moderna è essenzialmente progressiva esteriorizzazione delle protesi attraverso cui l’uomo agisce e produce, prolungamento costitutivo dell’uomo oltre se stesso nella sua dinamica peculiarmente moderna.

In effetti questa esteriorizzazione è qualcosa di specificatamente umano: la techne stessa dice dell’uomo che egli esiste in quanto proteticamente teso oltre se stesso.

Nella prospettiva garroniana, arricchita da riflessioni come quelle di Leroi-Gourhan (cui peraltro lo stesso Garroni fa riferimento), la tecnica può essere interpretata come un che di originariamente umano: antropogenesi e tecnogenesi coinciderebbero. Ciò vuol dire che l’uomo inizierebbe ad essere tale nel momento stesso in cui le sue facoltà sono ‘trasferite’in protesi inorganiche e tecniche. Anzi: l’uomo è proprio in quanto «esteriorizzato» in dette protesi, non preesiste a tale «esteriorizzazione». «La mano umana è umana per quanto se ne distacca».13 La radicalità della tesi di Leroi-Gourhan può essere riletta alla luce delle considerazioni portate avanti fin qui: linguaggio e arte, operatività e creatività possono essere interpretate come «esteriorizzazioni tecniche» originarie, non nel senso di un primum quale sorgente di ciò che è, ma come modalità fondamentale dell’agire e dell’essere dell’uomo, sua apertura trascendentale, in cui, se vogliamo, l’uomo è.

In altri termini, l’apertura trascendentale agli scopi possibili implica immediatamente l’esteriorizzazione, ovvero, sempre con Garroni, la formulazione di regole sempre nuove dell’operare e del produrre (in cui si inseriscono a pieno titolo il linguaggio e la realizzazione di opere d’arte).

La tecnica così intesa sarebbe, quindi, la modalità umana di questa apertura irriducibile.

3. L’azione delle tecnologie sul nostro sentire e sul nostro operare

In questo senso la tecnologia moderna si pone in continuità con la tecnica in generale.

Tuttavia, oggi, il processo di esteriorizzazione avverrebbe in essa secondo modalità nuove, tali da poter individuare l’irruzione di una peculiare discontinuità. Ciò accade su diversi piani e implica una serie di conseguenze.

Innanzi tutto nell’ambito del sentire. Lo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate si concretizza nella realizzazione di protesi sempre più efficienti, volte a potenziare il nostro sentire (è stata Hannah Arendt a individuare nel telescopio l’antenato di queste moderne protesi tecniche e a cogliervi uno degli eventi fondanti della modernità).14 Questo processo conduce a una progressiva esteriorizzazione del sentire medesimo. Il poter sentire (vedere, ascoltare, incontrare) a distanza, attraverso apparati tecnologici, non estende soltanto le nostre capacità percettive, ma le porta addirittura fuori di noi, fino quasi a «staccarle» da noi. Non solo il telefono, ma, per esempio, anche i sistemi di riproduzione musicale e visiva ci dislocano altrove rispetto a noi stessi. Si noti, allora, che al potenziamento percettivo corrisponde una sorta di espropriazione di esso, le cui implicazioni vedremo più avanti.

In secondo luogo ciò avviene nell’ambito della comunicazione. I sistemi di comunicazione di massa, come anche i mezzi di trasporto quali l’aereo, consentono di ridurre drasticamente addirittura lo spazio e il tempo. Anche qui si realizza una sorta di dislocazione (quello che con toni critici Heidegger chiamava «l’uniforme senza-distacco»,15 il non collocarsi più delle cose in un luogo rispetto al quale ci sia dato propriamente di incontrarle. Ma non solo. Se pensiamo alla televisione, per esempio, in essa la comunicazione si traduce in informazione: i fatti ci divengono spazialmente e temporalmente sempre più vicini, e al contempo sembrano accadere come tali solo nella misura in cui mediaticamente comunicati. È il paradosso dell’«immediatezza del medium» per cui ci appare più vicino e siamo più informati di ciò che ci perviene, per esempio, tramite l’informazione giornalistica e televisiva.

Ancora, da ultimo, l’operare si esteriorizza a tal punto da poter a sua volta avere come oggetto manipolativo-produttivo l’uomo medesimo (si pensi all’ingegneria genetica).

Il processo di rovesciamento dell’agire tecnico moderno che condurrebbe all’oggettivazione dell’uomo come risorsa degli strumenti tecnologici medesimi è stato esemplarmente pensato da Heidegger, in diversi testi, cui si rinvia per un approfondimento specifico.16

Ciò che qui particolarmente interessa è come le tecnologie moderne agiscano sullo spazio metaoperativo stesso e in che senso ricostituiscono in forme nuove il rapporto tra agire e regole, rispetto al modello descritto nelle pagine iniziali di questo lavoro.

In particolare questa questione appare interessante in connessione con quella della «saturazione», il fenomeno per cui lo sviluppo tecnologico contemporaneo e la sua diffusione a livello globale comporta una crescita esponenziale degli stimoli sensoriali, percettivi, mediatici e d’informazione cui siamo esposti, fino a poter dire, con De Kerckhove, di essere «immersi»: nelle immagini, nei suoni, nella comunicazione… laddove cioè si realizza una diffusione capillare delle protesi tecniche, che indirizzano e veicolano non solo il nostro a agire, ma anche le nostre percezioni, canalizzando il sentire, orientandolo alla comunicazione mediatica o alla diffusione seriale di immagini, quando questo accade si può ancora parlare di creatività?

Riallacciandosi al discorso garroniano sembra di poter dire che oggi l’azione di sempre nuova pertinentizzazione delle regole dell’operare che caratterizza l’agire umano in quanto creativo, viene esercitata dalla tecnica stessa.

Ancora di più: è nella tecnica che sembrano svilupparsi spontaneamente operazioni di sempre nuove ripertinentizzazioni. Orientando la nostra apertura sul mondo fino a condurci e trattenerci fuori da noi stessi, la tecnica, da spazio creativo, da apertura al possibile, diviene la fonte stessa delle regole dell’operare. Ovvero, avviene qui il contrario di ciò che è stato considerato come peculiarmente creativo: la tecnica moderna è l’insieme delle regole determinate dell’operare.

Come avviene questo processo?

Ovvero, con le parole di De Carolis,

Che accade allora se l’eccezione diventa la regola? Se cioè l’innovazione radicale diventa l’aspettativa che più di ogni altra guida la comunicazione e se il paradigma in vigore è proprio quello di una rivoluzione permanente? […] Il massimo della storicità viene a coincidere così con una specie di sospensione della storia.17

Le tecnologie moderne, cioè, non si limitano a potenziare facoltà già esistenti. La produzione creativa di regole dell’esperienza, dell’agire e del produrre smette di essere apertura al nuovo mai definitivamente determinata, ma il nuovo medesimo diventa a sua volta una regola. La condizione storica, che è tale in quanto aperta alla contingenza del nuovo di volta in volta progettato e prodotto, appare dunque determinata e fissata dalle regole stesse del produrre tecnicamente veicolato (e in definitiva imposto). È per questo che De Carolis può parlare di «sospensione della storia».

In altri termini la tecnica moderna «satura», appunto, lo spazio della metaoperatività, lo colma della sua produttività estrema.

Gli effetti di questo fenomeno sono essenzialmente due: quella che De Carolis chiama «l’ottimizzazione del prodotto» e il famoso fenomeno proposto dalla riflessione di Benjamin dell’«estetizzazione».

L’ottimizzazione del prodotto è il nuovo paradigma dell’agire e del produrre: se Aristotele poteva distinguere la praxis (e quindi, semplificando, l’agire in generale) dalla poiesis (l’agire in vista di un prodotto come suo fine), ora la produzione tecnico-scientifica ha come fine se stessa, cosicché l’agire in generale va a coincidere con il produrre, in quanto scopo ultimo di se stesso.

Ancora, De Carolis:

l’addestramento tecnico non avrà quindi più l’obiettivo di affinare la sensibilità e l’inventiva, ma, all’opposto, quello di plasmare un comportamento che ubbidisce senza sforzo a una stessa sequenza di regole, quali che siano le circostanze esterne. Il metro del progresso non sarà quindi il grado di libertà acquisita come potenza-di-non, ma la semplice misura quantitativa del prodotto per unità di tempo [corsivo nostro].18

Quando De Carolis cerca di ricomporre la distinzione tra natura e condizione umana, vuole dire proprio che l’agire umano non è predeterminato da una natura data e immodificabile, ma che la natura umana è tale da realizzarsi storicamente nella costituzione progressiva di senso. Perché ciò avvenga è necessario quindi che l’indeterminatezza (o l’apertura trascendentale, con Garroni) della costituzione del senso rimanga tale.

Si tratta quindi di comprendere «in che modo le forme pratiche della tecnicizzazione possano incidere su questo presunto a priori e, con esso, sulla condizione umana».19

In un primo senso, quindi, la saturazione può apparire come il «riempimento» di ciò che in Garroni si distingueva come l’illimitato territorio della sperimentazione operativa, reso tale dall’assenza di scopi determinati e di regole preordinate fisse della produzione. Ora, invece, ciò che appare sconfinato è il progressivo potenziamento di una territorio di possibilità in qualche modo già dato e coincidente, appunto, con le modalità fissate dalla protesi tecniche definitivamente esteriorizzate.

In questo punto l’ottimizzazione si rovescia nell’«estetizzazione».

Come è noto Benjamin introduce la nozione di «estetizzazione della politica» alla fine del saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) .20 Con essa egli intende il fenomeno per cui gli elementi che caratterizzavano l’esperienza estetica tradizionale (creatività, originalità, unicità), e di cui la riproducibilità tecnica ha sancito l’estinzione, vengono recuperati dalla politica e impiegati per esercitare una fascinazione spettacolarizzata che sappia funzionare come metodo di raccolta del consenso. L’esempio cui Benjamin fa riferimento, poiché lo aveva sotto gli occhi negli anni in cui scriveva, è il cinema di regime.

Non è questo il luogo per argomentare il contesto di riflessione sull’arte e sul suo rapporto con la tecnica che Benjamin porta avanti nel corso del saggio del ’36.

Qui interessa notare la pertinenza di tale discorso, laddove oggi assistiamo in maniera esemplare all’impiego di categorie prettamente estetiche per scopi fondamentalmente economico-politici.

Basti pensare alla pubblicità o al ricorso ad immagini dalla potente carica attrattiva e spettacolare per motivare e sollecitare scelte politiche (si pensi alla sequenza del crollo delle Torri Gemelli o alla incessante riproposizione di cruenti filmati terroristici che hanno svolto un ruolo fondamentale nella giustificazione delle scelte belliche occidentali degli ultimi anni contro il mondo islamico).

È proprio l’esteriorizzazione del nostro sentire ad opera dello sviluppo tecnologico esponenziale ad aver consentito una presa tale su di esso. Le moderne tecnologie permettono di incanalare e riorientare «dall’esterno» quel sentire che, secondo la lezione kantiano-garroniana operava nell’apertura creativa alla costituzione mai definitiva e concettualizzabile del senso.

La dislocazione, cioè, riguarda i nostri stessi organi di senso che, negli strumenti tecnici si trovano posti al di fuori di noi, inseriti nella rete mediatica e tecnologica.

Questo spiega la costante sollecitazione sensoriale, la vera e propria inondazione di stimoli da cui siamo investiti e che consiste, appunto, nella saturazione.

McLuhan ha mostrato nel mito di Narciso l’archetipo di questo fenomeno, il fatto, cioè, che l’uomo tenda ad essere affascinato dalle proiezioni esterne di se stesso, fino quasi — con un chiaro richiamo etimologico — ad esserne «narcotizzato». Le moderne tecnologie hanno portato questo processo all’estremo, tanto che McLuhan può parlare di un potere di «intorpidimento» dei nostri sensi.

Avendo esteso o tradotto il nostro sistema nervoso centrale nella tecnologia elettromagnetica basta un solo passo per trasferire anche la nostra coscienza nel mondo del cervello elettronico.21

L’atrofizzazione del nostro sentire che ne deriva mette chiaramente in luce l’aspetto critico dell’affermazione dell’impianto tecnico globale22 e il rischio di manipolazione e controllo del sentire e tramite esso delle coscienze ad opera del sistema medesimo.

4. Creatività e arte nell’età della tecnologia: una questione etica e politica

Le tecnologie digitali, la rete, la comunicazione mediatica: smettiamo i panni metaoperativi dell’apertura a sempre nuovi scopi possibili e veniamo ricollocati al centro di regole date. Sono le leggi dell’informazione, dell’immagine, dei mass media. Sono le leggi dell’impianto tecnico, che, appunto, satura il territorio aperto e mobile della creatività intesa in senso garroniano.

L’interrogativo che allora si pone è: è ancora possibile parlare di creatività? In particolare: è ancora possibile parlare di arte, nel senso kantiano sopra esposto?

Riguardo a quest’ultimo punto già Heidegger aveva sancito il venir meno dell’arte così intesa. Anche Walter Benjamin, ricollocando la questione su un piano che, nella sua ottica, ambisce ad essere materialistico, ha posto l’interrogativo sul destino dell’arte nell’età della sua riproducibilità tecnica. In particolare, Benjamin ha il merito di aver connesso, più o meno esplicitamente, queste questioni al problema della «crisi dell’esperienza». Pur riflettendo in termini tutt’altro che trascendentali, Benjamin mostra come abbia luogo la chiusura dello spazio auratico dell’opera d’arte tradizionale, l’ambito cultuale in cui essa si è sempre costituita, capace di raccogliere attorno a sé una comunità e di mantenere aperto uno spazio esperienziale. Sebbene nel saggio sull’opera d’arte Benjamin saluti con ottimismo il ricostituirsi dell’arte secondo categorie nuove, non cultuali, e vi individui possibilità politiche nuove, egli non manca di notare in altri testi, come a tale trasformazione corrisponda la moderna incapacità di fare esperienza e di comunicare. Secondo Benjamin, siamo così pieni (saturi) di esperienza da non poter, paradossalmente, fare più esperienza.23 La relazione, in altri termini, è impoverita dall’azione tecnica che porta tutto allo scoperto, che fa degli eventi e della vita notizia, scoop mediatico; che mercifica il lavoro; che abolisce il concetto stesso di opera d’arte autentica e di genio. Con e radicalizzando McLuhan si potrebbe dire che proprio perché «il medium è il messaggio», lo spazio del messaggio/comunicazione (Mitteilung) è saturo di medium, è definitivamente «pieno».

In questo contesto non può che sorgere la domanda: la canalizzazione dell’aisthesis, delle nostre capacità percettive, attraverso lo strumentario tecnico lascia aperto lo spazio di un sentire che sappia modificare la canalizzazione medesima, ed essere, così, operativo?

Come sfuggire all’assorbimento alla logica mercificante dell’ottimizzazione del prodotto e al controllo tecnico-politico del sentire narcotizzato?

Già McLuhan, che guardava al potenziale tecnico al di fuori di una sterile visione unicamente catastrofista, ha cercato di pensare il modo di «programmare la coscienza in modo che non possa essere intorpidita o distratta dalle illusioni narcisistiche»24 e lo ha individuato, appunto, nell’arte.

Del resto Benjamin aveva pensato all’arte prodotta tecnicamente, in particolare al cinema, come luogo in cui risvegliare (o evitare) la narcosi, l’anestetizzazione della coscienza assediata dagli stimoli.25 Lo stesso Heidegger, sebbene in termini diversi, indica nella poesia (la Dichtung) il luogo in cui individuare le vie di uscita dal «pericolo» dell’impianto tecnico moderno.26

Il problema che qui si apre è allora quello di capire come, in un contesto in cui la creatività nel senso qui inteso sembra essere ostaggio della saturazione tecnica, in cui la condizione metaoperativa di sperimentazione produttiva appare chiusa dalla struttura tecnologica che veicola il sentire, come, dunque, l’arte possa essere ancora possibile nelle vesti di ciò che possa immunizzare da una saturazione estrema.

Prima ancora di un discorso strettamente artistico, il compito che ci viene assegnato è allora quello di comprendere in che termini l’immersione di cui parla De Kerckhove possa rovesciarsi in stimolo.

Si tratta, da un lato, di non lasciarsi assorbire da una sterile visione catastrofista della questione, dall’altro di tener sempre presente l’aspetto minaccioso che le nuove possibilità tecnologiche portano con sé.

Forse, allora, ciò di cui abbiamo bisogno, è un ripensamento in profondità del sentire medesimo, quel sentire che, con Garroni, si è visto essere all’origine della mai definitiva costituzione di senso che caratterizza l’operare umano. È necessario coglierne, cioè, le peculiarità che permettano di scongiurare un suo totale assorbimento nell’impianto tecnologico e che al contempo lo sappia mantenere, parafrasando Heidegger, «all’altezza della tecnica», delle sue potenzialità.

Può essere utile muovere da una considerazione di De Kerckhove presente nel testo Brainframes (1991), nel quale l’autore analizza come le moderne tecnologie abbiano modificato la struttura stessa del nostro cervello, il modello del suo funzionamento. Grazie ad esse, infatti, «le nostre estensioni [sensoriali] non sono più condotti passivi»:27 attraverso le nuove tecnologie (in particolare l’autore parla qui di reti neuronali) la nostra sensibilità assumerebbe un ruolo attivo, performativo.

Ma, sulla base di quanto detto nella parte iniziale di questo lavoro, si potrebbe sollevare la questione se il nostro sentire non si caratterizzi già da sempre per una dimensione attiva. Ciò che nell’impostazione kantiano-garroniana fondava, infatti, la possibilità sempre aperta dell’operare creativo era il «sentire». La creatività è la capacità di sentire la realtà fattuale non come insieme di regole già date, stabili e determinate, passivamente percepite, ma come apertura al e del ventaglio dei fini possibili: solo questo sentimento permette di riarticolare (creativamente) le regole in nuove combinazioni possibili, dotate di senso. In questo senso il sentire è in quanto tale sempre attivo.

Ma se questo è vero allora la novità che De Kerckhove sembra scorgere non è in realtà tale.

Piuttosto, ciò che appare radicalmente nuovo è che la capacità performativa, produttrice di senso, non appare più, nell’impianto tecnologico, come condizione di possibilità dell’operare, ma sembra sorgere a posteriori. È come se la costituzione del senso, anziché rendere possibile l’operare umano, possa aver luogo solo dopo l’esteriorizzazione in protesi tecniche: abbiamo bisogno che l’impianto tecnico predisponga in qualche modo il terreno su cui operare perché, poi, noi vi possiamo intervenire. È come se non fossimo più in grado di «sentire» e quindi fare esperienza senza che lo strumentario tecnico ci offra il materiale del sentire medesimo. Ancora una volta l’uso politicamente o economicamente finalizzato delle immagini mediatiche è esemplare. O ancora, l’importanza della notizia giornalistica o di fenomeni come You tube: questioni sociali complesse come, per esempio, quelle legate al bullismo nelle scuole italiane non sono certo nate con internet. Sono giunte tuttavia alla ribalta (banalizzando «ce ne siamo accorti») quando sono stati pubblicati sulla rete i primi video amatoriali aventi per oggetto le bravate di studenti a discapito di altri più deboli.

In una prospettiva diversa, lo stesso De Kerckhove ha messo in luce questo fenomeno.

Nel testo citato egli fa riferimento ad un esperimento in cui i partecipanti sono stati fatti sedere di schiena l’uno rispetto all’altro in modo tale da farli parlare con l’immagine dell’altro proiettata su di una televisione a circuito chiuso. De Kerckhove parla in questo contesto di «nuove intimità»: i partecipanti all’esperimento, infatti, si sentono rassicurati dalla mancanza di uno sguardo reciproco diretto, fino a potersi mettere liberamente le dita nel naso nella conversazione con l’immagine del proprio compagno. «I volti a contatto diretto ci terrorizzano», scrive De Kerckhove:28 la televisione, impiegata in questo esperimento, mostrerebbe la possibilità di una nuova apertura dello spazio di visione pubblica.

Viene da chiedersi se qui assistiamo davvero a nuove possibilità di incontro o non piuttosto ad una loro limitazione.

La libertà di cui parla De Kerckhove in relazione all’esperimento descritto sembra poter assumere i tratti di una nuova modalità di relazione che sa definirsi libera solo se «protetta» dallo schermo del medium. In maniera ancora più radicale si potrebbe obiettare che il nostro presente assiste a nuove modalità di «incontro» che avvengono necessariamente attraverso il filtro mediatico.

L’esperienza dell’alterità appare fortemente condizionata dal suo essere offerta mediaticamente. Lo straniero, l’immigrato, per esempio, vengono sempre più incontrati all’interno delle «cornici» offerteci dalla televisione o dall’informazione giornalistica.

Se pensiamo la costituzione metaoperativa del senso come la «fatica» della produzione di sempre nuove regole dell’esperienza, possiamo individuare al suo interno la condizione di elaborazione di ripertinentizzazioni sempre nuove del nostro sentire e del nostro esperire, in grado di fare spazio di volta in volta alle differenze e all’alterità che incontriamo. Questa «fatica dell’incontro» è in qualche modo affievolita — se non tolta — dalla rete tecnologica-mediatica che mi offre l’altro prima che io lo incontri e che, anzi, mi impone in qualche modo le cornici in cui incontrarlo.

Già Benjamin, come si diceva, mette in questione la capacità di esperire e di comunicare, laddove esperienza e oggetto della comunicazione vengono «forniti» per così dire come «preconfezionati» dal dispositivo tecnico. la libertà cui De Kerckhove fa riferimento non è piuttosto un sollevare dalla responsabilità di ricostituire ogni volta lo spazio dell’esperienza dell’alterità? E laddove questo spazio sia «saturo» delle regole mediatiche di incontro imposte dalle protesi esteriorizzate, ha senso parlare, appunto, di incontro? In quale misura esso può avere luogo e strutturarsi come autentica, libera, relazione?

Ma ancora di più oggi che con il fenomeno della globalizzazione, assistiamo alla dilatazione in senso, appunto, globale del sistema tecnico medesimo, capace di saturare lo spazio tra le culture, per esempio, in che termini si può parlare di multiculturalismo? Non vi è il rischio di nascondere dietro questo nome non tanto l’incontro e l’integrazione tra mondi diversi, quanto una loro «compenetrazione forzata»? L’incontro prevedrebbe lo spazio dello «scontro» tra le differenze, infatti, e, ancora una volta, in un’ottica positivamente orientata all’integrazione, l’apertura alla riarticolazione delle regole di identificazione reciproca, non per annullare le polarità che si pongono in tensione, ma per renderle possibili al di fuori della tensione medesima.

Come spiega o articola queste possibilità il fenomeno contemporaneo di «saturazione»?

Le questioni, come si vede, sono complesse e articolate tra di loro in una rete di rinvii non semplici da sciogliere. È tuttavia una sfida importante che la riflessione contemporanea su questi fenomeni deve assumere, perché solo mettendo in luce le dinamiche più profonde e anche ambigue di sintomi attuali come quello della «saturazione» è possibile evitare posizioni ciecamente ottimiste ma anche sterilmente distruttive, per rinvenire nell’inevitabile dispiegamento globale e tecnico del nostro mondo le possibilità più positive e produttive per la nostra epoca.


  1. E. Garroni, Creatività, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1978, p. 34. ↩︎

  2. E. Garroni, Creatività, cit., p. 52. ↩︎

  3. E. Garroni, Creatività, cit., p. 56. ↩︎

  4. E. Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1997. ↩︎

  5. E. Garroni, Creatività, cit., p. 75. ↩︎

  6. E. Garroni, Creatività, cit., p. 79. ↩︎

  7. E. Garroni, Creatività, cit., p. 91. ↩︎

  8. E. Kant, Critica del Giudizio, cit., 291. ↩︎

  9. E. Kant, Critica del Giudizio, cit., 291-293. ↩︎

  10. E. Kant, Critica del Giudizio, cit., 293. ↩︎

  11. M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino 2004. ↩︎

  12. M. De Carolis, La vita…, cit., pp. 31-32. Il riferimento all’Antigone come luogo di confronto con la questione della tecnica è stato significamene sfruttato anche da altri pensatori che, in modo diverso, hanno affrontato la questione. Cfr. Heidegger, 1953 e Jonas, 1979. Per questioni di spazio si tralascia qui un approfondito riferimento a questi autori. E’ comunque evidente che De Carolis si avvantaggia qui, in particolare, delle riflessioni heideggeriane sul tema. ↩︎

  13. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977, p. 284. ↩︎

  14. Cfr. H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2003, p. 203. ↩︎

  15. M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 47. ↩︎

  16. Cfr. M. Heidegger, Conferenze…cit., e M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 2001. ↩︎

  17. M. De Carolis, La vita…, cit., p. 32. ↩︎

  18. M. De Carolis, La vita…, cit., p. 62. ↩︎

  19. M. De Carolis, La vita…, cit., p. 91. ↩︎

  20. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966. ↩︎

  21. M. Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1999, p. 72. ↩︎

  22. Cfr. su questo punto P. Montani, Bioestetica, Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma, 2007. ↩︎

  23. Cfr. W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Critica e Storia, a c. di F. Rella, Cluva Libreria, Venezia 1980 e Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, a c. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2001. ↩︎

  24. M. McLuhan, Gli strumenti…, cit., p. 72. ↩︎

  25. Cfr. Benjamin, L’opera dote arte…, cit, pp. 41 e ss. ↩︎

  26. Cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Milano 2000 e La questione…, cit. ↩︎

  27. D. De Kerckhove, Brainframes, Baskerville, Bologna 1999, p. 85. ↩︎

  28. D. De Kerckhove, Brainframes, cit., p. 61. ↩︎