La «Potenza» e il male. Archeologia fenomenologica del sacro e del religioso

1. Introduzione

Il termine Potenza, intorno al quale ruoterà l’analisi che segue e che ne costituisce il filo conduttore, è suggerito, come si può facilmente comprendere, da G. van der Leeuw, nella sua Fenomenologia della religione, quale chiave interpretativa della stessa esperienza religiosa. Nella mia ricerca su Culture e religioni. Una lettura fenomenologica1 ho utilizzato alcuni momenti fondamentali presenti in quel libro per esaminare il fenomeno del sacro e del religioso nella sua positività, integrandoli con un ulteriore scavo guidato dalle analisi che muovono da Husserl e approfondendo, pertanto, il significato della «Archeologia fenomenologica» già proposta dal pensatore tedesco.2

Poiché non è opportuno in questa sede rimandare ad indagini già compiute e presupporre che siano note, affronto brevemente la questione con due nuove, necessarie integrazioni, che già in occasione della precedente ricerca mi si erano manifestate nella loro urgenza: in primo luogo con un ulteriore approfondimento, che, muovendo dalle analisi fenomenologiche di Edmund Husserl e di Edith Stein, consenta di procedere ad un affinamento del metodo e di farne vedere le connessioni con la fenomenologia che possiamo definire ormai classica, e in secondo luogo con l’esame della dimensione «negativa» nella sua correlazione con il «positivo» all’interno delle sfere del sacro e del religioso, tra le quali avevo individuato una profonda continuità, ma anche un significativo distacco.

G. van der Leeuw sostiene che tutte le espressioni religiose — usando il termine nella sua ampiezza e genericità — sono rivolte alla salvezza. E proprio la salvezza ci suggerisce la seguente domanda: «da che cosa dobbiamo essere salvati?» La risposta, presa anche nella sua ampiezza e genericità, è apparentemente semplice: «dal male», basti pensare in modo emblematico alla richiesta insistente e accorata rivolta da Gesù al Padre: «libera nos a malo». Si tratta, allora, di chiedersi che cosa significhi «male» e perché ci si rivolga a qualcosa, qualcuno, che possa liberarci, dato che non possiamo farlo da soli. La nostra «impotenza» richiede per una sua giustificazione una Potenza e «giustificazione» significa molte cose; in primo luogo la scoperta della nostra stessa impotenza è correlativa alla scoperta della Potenza, è qui che nasce la «coscienza» della nostra situazione esistenziale. Certamente ciò non è sempre consapevolmente esplicitato, piuttosto è «sentito» più o meno oscuramente, è vissuto senza una comprensione riflessa, e ciò genera l’affidamento alla Potenza che libera dal male.

Ma è proprio il termine «coscienza» che può suscitare perplessità se utilizzato in modo indiscriminato nell’ampia varietà delle forme in cui si configura l’esperienza religiosa. Non sempre la coscienza così come noi la intendiamo accompagna questa esperienza; di fronte ad un fenomeno che «si dà» non solo a chi lo investiga, piuttosto in primo luogo a chi lo vive, non perché sceglie di viverlo, ma perché se lo trova davanti e solo dopo, forse, ne ha coscienza, diventa equivoco e pericoloso parlare di coscienza. Ma procediamo con ordine senza anticipare.

Il rapporto impotenza-male non è giustificabile solo, sempre e univocamente come limite soggettivo, in senso puramente esistenziale. Questa sembra essere in ultima analisi l’interpretazione di Van der Leeuw nel tentativo di andare in fondo alla questione:

La religione è l’ampliamento della vita fino all’estremo limite. L’uomo religioso desidera una vita più ricca, più profonda, più estesa; augura a se stesso potenza. In altre parole l’uomo cerca in e per la sua vita una superiorità, sia che aspiri a servirsene, sia che la voglia invocare.3

In primo luogo si può notare che se il significato esistenziale di tale dinamismo appare allo studioso, storico o filosofo, che investiga, la descrizione di ciò che è vissuto propriamente dall’essere umano nell’esperienza religiosa deve, per quanto è possibile, seguire l’andamento interno dell’intero processo e ciò può essere portato a compimento solo da un’analisi fenomenologica che, entrando nella dimensione dei vissuti, colga le strutture del soggetto, non per concludere che l’esperienza religosa è di carattere psicologico — in questo caso sarebbe soltanto una grande illusione che corrisponde ad un non ben giustificato bisogno — ma per chiedersi come mai e in quale modo l’essere umano configuri la sua apertura all’Altro che si presenta come un correlato reale di tale esperienza.

Qui non è in questione la domanda filosofica sull’esistenza di Dio, an Deus sit, ma, appunto, la correlazione profonda fra l’essere umano, nella sua singolarità e nella dimensione collettiva, come è dimostrato dalla storia delle religioni, con qualcosa che lo trascende, l’estraneo, per usare la bella espressione di Van der Leeuw. E l’estraneo non dipende dall’essere umano stesso, perché in primo luogo affermare ciò significa porsi la questione, questa volta sì filosofica, della modalità di elaborazione di tale estraneità, e, in secondo luogo, osservare o meglio obiettare che il sentire la propria impotenza è possibile solo se si «sente» che c’è una Potenza; i due momenti sono correlativi e la fenomenologia, rifuggendo da tale approccio che si connota propriamente come speculativo, indaga piuttosto la costituzione della correlazione stessa.

In questa direzione l’indagine di Van der Leeuw appare fenomenologica e non fenomenologica, fenomenologica ed esistenziale, si potrebbe dire, usando tali espressioni in senso propriamente filosofico; infatti da un lato descrive la coscienza religiosa cogliendone sottilmente alcune importanti modalità, dall’altro pone la questione dell’esperienza religiosa in termini speculativi. Ma non è del ricercatore olandese che si vuole qui parlare, piuttosto prendere l’avvio dalla sua importante analisi per procedere alla descrizione fenomenologia della correlazione suddetta. È chiaro che si tratta di un ritorno a Husserl, ma anche a questo punto di un ritorno che si pone in un atteggiamento critico nei confronti dei risultati del metodo husserliano, non perché si voglia essere più bravi di lui, non perché si voglia compiere il parricidio per affermare la propria personalità e originalità, ma perché, rimanendo ancorati al suo autentico insegnamento di ricerca, si vuole una sempre maggiore chiarificazione del «fenomeno» preso in esame ed è il fenomeno che guida la ricerca stessa, non adesione ad un pensiero per quanto poderoso e stupefacente, ma ad una descrizione che risulta convincente perché mette in risalto come stanno «le cose stesse».

L’evidenziazione della dimensione dei vissuti costituisce la geniale scoperta di Husserl, il ritorno nell’interiorità non per una generica riproposta di una ennesima forma di idealismo, ma per rintracciare l’origine dello specifico umano, della sue produzioni culturale del suo essere sapiens e faber nelle profonda connessione fra i due momenti, come già aveva indicato il fenomenologo tedesco.

L’analisi dei vissuti condotta in profondità fino alle sue ultime conseguenze pone in luce la «duplicità» e il nesso fra il momento noetico intenzionale e il momento hyletico o materiale del vissuto stesso. Centrale per la comprensione di tale duplicità è la nozione di «corpo proprio» come campo di localizzazione delle delle sensazioni di un io. Ma il corpo proprio o corpo vivente, Leib, è sempre partecipe di tutte le altre funzioni delle coscienza; non solo

le sensazioni sensoriali che esercitano una funzione costitutiva per la costituzione delle cose sensoriali, cioè degli oggetti che appaiono nello spazio, ma anche di sensazioni di gruppi completamente diversi, così per esempio dei sentimenti «sensoriali», delle sensazioni di piacere e di dolore, del senso di benessere che attraversa e riempie tutto il corpo, del disagio generale derivante da un’«indisposizione corporea» ecc.4

Questi ultimi svolgono per gli atti del sentimento e per gli atti valutati lo stesso ruolo che le sensazioni primarie hanno per gli Erlebnisse intenzionali nella sfera della costituzione degli oggetti spaziali-cosali. In questo ambito rientrano le sensazioni della tensione e del rilassamento dell’energia, le sensazioni dell’inibizione interna, della paralisi, della liberazione e così via come sensazioni localizzate e con esse si connettono le funzioni intenzionali per cui assumono una funzione spirituale, pertanto «l’intera coscienza di un uomo è in certo modo legata al suo corpo proprio attraverso la sua base hyletica».

Si pongono a questo punto due questioni: i due ambiti hyletici relativi alla distinzione fra senso esterno e senso interno hanno un’ulteriore connessione? e ancora: il momento hyletico è privo di connotazioni intenzionali proprie o almeno di sue qualità? Una soluzione a tali questioni è rintracciabile nella descrizione degli atti del sentimento fatta da Edith Stein in Psicologia e scienze dello spirito. Ella muove da una esperienza quotidiana:

Quando osservo con gioia uno stupendo paesaggio, non sono soltanto i dati sensibili a cooperare come materia nell’intuizione del paesaggio, fondamento della mia gioia, ma è essa stessa a contenere gli elementi iletici, sia non egologici che egologici, quali il senso di piacere, lo stato di benessere e via di seguito.5

Allora che cosa è veramente il sentimento? Il sentimento, risponde la fenomenologa, non è «soltanto» sensibile, come vorrebbe una certa giustificazione psicologica, anche se «in una certa classe di atti di sentimento, i sentimenti sensibili formano tale sostrato»,6 piuttosto è necessario riconoscere anche la presenza di sentimenti spirituali aventi un carattere intenzionale; infatti:

sul fondamento dei contenuti egologici, come nella percezione, sorge una comprensione spirituale che fa sì che siano portatori di una donazione di senso e che nella loro «funzione dimostrativa» dischiudano al soggetto la vista su un nuovo mondo oggettivo.7

Ed è estremamente significativo che nel sentire si apre, in tal modo, il mondo dei valori. Le conseguenze di questa rilevazione sono molto importanti per la delineazione non solo dei valori etici, ma anche quelli religiosi,8 che ci interessano in modo particolare in questa sede. Possiamo seguire brevemente l’analisi compiuta dalla Stein a questo proposito per utilizzarla, poi, con una valenza diversa. Se si sostiene, come si fa normalmente, che sul fondamento della presa d’atto della cosa — la visione del paesaggio — si ponga prima la presa di posizione del valore — ovvero il sentimento della bellezza — e poi la presa di posizione del sentimento — vale a dire la gioia, non si colgono, a suo avviso, i veri rapporti fondativi. Infatti se riflettiamo sulla bellezza, emerge che essa richiede che io mi apra ad essa, che mi lasci determinare nella mia interiorità e, fino a quando questo contatto non è emerso, la bellezza non mi riempie completamente e l’intenzione, che è insita nella presa d’atto, cioè la visione del paesaggio, rimane incompiuta. L’accettazione del valore — la bellezza — pienamente riempito, è dunque in sostanza un sentire a cui si uniscono l’intenzione verso il valore — quindi verso la bellezza — e la risposta che nasce come reazione e quindi la gioia alla quale si accompagna un senso di piacere.9

Esaminando la questione geneticamente si manifesta che il senso di piacere il quale come materia, cioè come momento hyletico, è alla base del fatto che io colgo la bellezza di un colore, fonda anche la mia gioa per tale valore e allo stesso modo il malessere sulla base del quale mi si evidenzia il disvalore dell’invidia è costituivo eventualmente per la mia vergogna. In ogni caso la Stein osserva che il senso di piacere o il malessere, come momenti hyletici in quanto possono essere solamente vissuti in tutta la complessità dei loro singoli elementi, non sono totalmente concettualizzabili perché il nostro linguaggio si modella prevalentemente sulle conoscenze percettive relative al mondo esterno; in altri termini il «vedere» ciò che viviamo e la struttura dela vissuto è, per così dire, ostacolato dal nostro essere orientati verso la conoscenza delle cose.

Questa è una riflessione più ampia che riguarda la difficoltà di assumere l’atteggiamento fenomenologico che, procedendo all’epochè della conoscenza intesa in senso naturalistico, consente di entrare nella sfera dei vissuti e di esaminarli nella loro costituzione. Una volta entrati in questa «dimensione» appare, allora, più facile comprendere il ruolo delle due componenti noetica ed hyletica, di cui ci hanno parlato i fenomenologi. La continuità che si stabilisce fra le sensazioni localizzate nel corpo vivente e ad esempio la presenza di una componente hyletica all’interno della stessa gioia ci fanno capire che gli stati vissuti nella loro complessità, in realtà, rimandano ad una componente hyletica che può assumere la configurazione di un nuovo noema.

Ciò su cui nelle analisi sopra riportate interessa riflettere per comprendere la dimensione religiosa e più propriamente quella sacrale arcaica è la forza attrattiva che esercita nell’esempio della visione del paesaggio la bellezza; ma non è in gioco la bellezza in quanto tale, essa serve solo per stabilire un paragone con la forza attrattiva di un luogo strardinario, ad esempio una sorgente, un alto monte, un albero isolato e particolare nella sua forma, una grotta, e così via, ai quali si lega il valore della sacralità connessa con lo stato di benessere che procura la gioia. Ma nel contempo può essere fonte di paura, di timore, e presentarsi come il tremendo o numinoso di cui parla Rudolf Otto.

Si potrebbe obiettare che tali atti rimangono legati alla individualità, e quindi indicherebbero il momento sacrale come estremamente soggettivo; in realtà la stessa Stein si affretta a dichiarare che «in definitiva i dati egologici e gli oggetti che essi costituiscono non sono più soggettivi dei dati non egologici e del mondo esterno»10 e ciò perché entrambi hanno un nucleo di senso, separabile dalla colorazione del vissuto individuale, che li rende capaci di costituire l’oggetto sopraindividuale; si tratta, nel caso qui descritto, di un vissuto «comunitario» possedente un nucleo identico che permette di afferrare reciprocamente le intenzioni e di far apparire il valore come oggetto comune a tutti. Ora è chiaro che la distinzione fra il momento della presa di coscienza singolare e quella comunitaria, così come viene indicato sopra, non funziona per la comprensione delle culture arcaiche, più propriamente caratterizzate dall’impersonalità del vissuto, ma l’evidenziazione operata dalla Stein dell’adesione immediata a tale nulceo identico ci fa capire la forza del momento collettivo e giustificare in qualche modo — anche se con una valenza diversa — l’impersonalità.

Si è proposta tale questione e si sono individuati alcuni suggerimenti e precorrimenti nella fenomenologia classica, perché la fenomenologia radicale individua il momento hyletico come un noema sui generis corrispondente ad una noetica non egocentrata, ma impersonale. Per comprendere ciò è necessario chiedersi il significato della forza attrattiva esercitata da cose che si ritengono sacre perché animate dalla sacralità. Il momento hyletico, inteso come noema, non ha, allora, una funzione puramente passiva, ma, appunto, attrattiva, fornendo già sue «forme» e configurandosi in modo tale da attrarre la sacralità in senso noetico. Tentativi di superamento della «passività» sono riscontrabili anche in ciò che è proposto da Husserl nella sua indagine sulla hyletica, la quale ha un discreto sviluppo in una serie di manoscritti del gruppo C e del gruppo D secondo la partizione vigente nell’Archivio di Lovanio.

Nell’importante manoscritto C 3 VI, dedicato a Rückfrage zur Hyle. Hyletische Urströmung und Zeitigung, parlando della impressione originaria e legandola alla questione del tempo, Husserl analizza i campi impressionali hyletici formati da campi visuali e tattili e sostiene che hanno una forma propria; ad esempio un campo può essere «nero», oppure «tranquillo» o «vuoto» e quindi qualificato necessariamente e concretamente in una particolare pienezza e senza una differenziazione interna.11 La formatività, quindi, non è esclusiva del momento noetico, l’attrattività è, pertanto, determinata anche dalle forme che operano, come si è visto, sugli stati del benessere e del malessere procurando gioia o dolore e quindi conducendo ad una valutazione da non intedersi compiuta in modo riflesso ma certamente in modo cosciente. Che dire poi dell’affermazione di Husserl contenuta nel manoscritto A VI 34: «Ogni nostro dato hyletico è già un prodotto di sviluppo, quindi ha un’intenzionalità nascosta», nella quale si attribuisce l’intenzionalità stessa al momento hyletico?

Il primato della hyletica, riscontrabile in culture arcaiche, conduce a comprendere come il mondo correlativo ai vissuti intenzionali sia costituito da «entità realissime» che si manifestano con la loro potenza e che possono suscitare orrore e spavento come ulteriore «minaccia» dell’impotenza e rafforzamento dello stato di disagio non vissuti singolarmente, ma collettivamente senza distinzione della propria singolarità in modo esplicito e riflesso. Ma possono anche essere di sollievo procurando un senso di benessere, riempiendo l’impotenza con la promessa della potenza e stimolando, quindi, l’affidamento. Ciò non significa ricondurre banalmente il sacro alla «sensibilità», perché in primo luogo si tratta di comprendere bene il ruolo della hyletica, in secondo luogo non dimenticare il momento noetico, costitutivo dei valori sacrali. In tal modo si può iniziare un’indagine che abbia come oggetto il significato e la distinzione fra bene e male.

Il meccanismo sopra indicato consente non solo di individuare il positivo e il negativo, ma anche di cogliere la differenza fra sacro e religioso.

2. Le raffigurazioni del male: il male e il sacro

Seguendo il filo conduttore delle «entità realissime» si può comprendere la raffigurazione del male nelle culture arcaiche. Se l’analisi fenomenologica coglie la continuità fra il momento hyletico e la sua forza attrattiva per la strutturazione del sacro come valutazione sacrale, esprimendoci in termini che sono per noi più familiari, coglie anche prevalentemente gli aspetti positivi, salvifici; ma il bene come realizzazione della vita rimanda al male dal quale ci si deve salvare. Per le culture arcaiche non possiamo pensare semplicemente ad una consapevolezza riflessa del limite umano e quindi dell’impotenza, ciò è sentito, come si è notato, in primo luogo come senso di malessare o disagio, ma il momento hyletico inteso come noema lo configura in una entità reale e altra che deve essere sconfitta o esorcizzata. I riti servono a questo processo di esorcizzazione, a riproporre la lotta fra bene e male e la sconfitta del male. E per quanto riguarda le raffigurazioni certamente non possono essere rasserenanti; se con grande probabilità la dimensione estetica, così come noi la configuriamo, è estranea alla mentalità arcaica, è chiaro che le raffigurazioni corrispondono a ciò che è straordinario nel senso del mostruoso che produce morte, distruzione, e la stessa morte non è un avvenimento «naturale», ma è procurato da un’entità che malignamente vuole distruggere la vita. A questa si oppone un’entità che la protegge.

Se si procede ad un esame delle raffigurazioni della morte ci si può riferire a quanto è stato con molta precisione indicato, ad esempio, da Marija Gimbutas nel suo commento ai reperti archeologici dal Paleolitico, al Neolitico e all’Età del Bronzo, contenuto nel Linguaggio della dea. Ho avuto l’occasione di usare il materiale sul quale ella ha lavorato in una indagine sul rapporto fra corpo, spazio e femminile,12 e già allora avevo messo in risalto che la lettura «simbolica» offerta dalla studiosa non era di per sé soddisfacente, ma ella offre uno straordinario panorama di situazioni ricorrenti in cui il momento sacrale trovava il suo nucleo potente nella Dea, nella quale la vita e la morte e la rigenerazione erano connesse come facce della stessa realtà, ma espresse in modo che potessero di volta in volta essere individuate.

La lettura che mi sembra più confacente del materiale proposto è quella fenomenologica in cui, come si è indicato sopra, il momento hyletico consente di giustificare la scelta delle raffigurazioni e dei materiali. Ma, seguendo la partizione dei temi acutamente indicata dalla Gimbutas, quelli che ella ritiene simboli della morte e della distruzione in effetti hanno a che fare con tale realtà anche se non sono «simboli» nel senso del «rimando», ma esprimono la realtà stessa della morte. Si può indicare esemplarmente la raffigurazione dell’avvoltoio, presente fin dal Paleolitico, in particolare quella che si trova nelle pitture parietali del cosiddetto Santuario dell’Avvoltoio a Catal Hüyük, nella Turchia Centrale, in cui sono dipinti sette avvoltoi che si avventano su sei esseri umani privi di testa. Il commento della Gimbutas è il seguente:

L’uccello è identificato come il grifone o l’avvoltoio del mondo antico, Gyps fulvus. Completamente nero, è un uccello impressionante specie in volo, con la sua apertura alare di tre metri; ma non è aggressivo e si nutre solo di carogne. A questa caratteristica si deve la sua particolare associazione con la morte.13

Nell’interpretazione dell’Autrice si coglie molto chiaramente il ruolo del momento hyletico: la grandezza dell’uccello, il suo cibarsi di carogne ne fa un essere che procura disagio e questo conduce alla delineazione del noema della morte, del negativo e del male. Il tema del colore non è secondario, esso si presenta come qualità del campo hyletico che produce l’impressione di distruzione e di morte, pertanto è la morte e non solo un simbolo di morte. Però non sempre il colore nero si associa alla morte, anzi nell’esaminare i cosiddetti nudi rigidi dell’età neolitica rinvenuti sul Mar Nero, la Gimbutas osserva che sono fatti d’osso, d’avorio o corno di renna e commenta:

La morte nel suo aspetto antropomorfo femminile è immaginata nel folclore europeo contemporaneo alta, con gambe ossute e vestita di bianco. È un aspetto senza dubbio ereditato dall’antico substrato europeo, quando la morte era bianca come le ossa, non nera come il terrificante dio degli inferi indœuropeo.14

Molto importante è l’espressione che la stessa Autrice usa, forse anche al di là delle sue intenzioni, descrivendo la mentalità arcaica: «quando la morte era bianca come le ossa», in effetti tali materiali «sono» le ossa nude dello scheletro. Il termine «sono» sembra assolutamente inadatto alla nostra mentalità, noi diremmo «rappresenta», «ricorda», «simbolizza», nel migliore dei casi «sostituisce»; ma questi verbi non sono appropriati perché non c’è un rimando, ma un’identificazione, sempre usando nostre espressioni nel tentativo di comprendere.

3. Le raffigurazioni del male: il male e il religioso

Se questi sono esempi che ci rimandano alla dimensione del sacro che cosa accade nella dimensione del religioso? Con il termine «religioso» intendo riferirmi alle religioni storiche e in particolare a quelle che si configurano con una forte distinzione fra spirituale e materiale, fra anima e corpo e con l’accentuazione della dimensione soggettiva attraverso il motivo della presa di coscienza individuale e quindi l’insistenza sulla interiorità. In queste forme religiose il momento noetico è fortemente configurato e questo parallelamente a ciò che accade nelle culture che su esse si fondano. Emblematica in questo senso è la cultura occidentale con la connessione fra la grande elaborazione intellettuale greca e la tradizione ebraico-cristiana. Tuttavia il momento hyletico non è del tutto eliminato.

Fissando l’attenzione su quest’ultima tradizione, già nel primo libro dell’Antico Testamento il tema del male è potentemente descritto con la confluenza di due motivi, uno che si potrebbe definire vicino alla mentalità arcaica ed uno del tutto nuovo:

Poi il Signore piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male (Gn. 2,8-9).

Si può notare come l’albero sia la realtà scelta in un doppio significato, non solo come vita — e non come simbolo della vita, ma come vita stessa — ma anche come albero della conoscenza del bene del male, di cui ci si può appropriare mangiandolo — si pensi alla funzione del corpo vivente — ma che fornisce uno strumento, un criterio di orientamento propriamente interiore. Ora nel divieto di mangiarlo è implicita l’idea che sarebbe meglio non farlo perché la non osservanza del divieto stesso procurerà la morte. Il mantenimento dello stato di innocenza sarebbe la garanzia della vita. Ma, un volta posta la questione in termini di scelta, ciò implica la distinzione, colta consapevolmente, del contrasto fra bene e male, la coscienza di tale distinzione conduce, appunto, al sentire-pensare i dualismi, anima-corpo, bene-male. Tuttavia il male non si trasferisce soltanto nell’interiorità e non diventa immediatamente ed esclusivamente male interiore: «Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio» (Gn. 3,1). Chi disvela la possibilità di essere come Dio, conoscendo il bene e il male, è un’entità estranea, esterna e contrapposta a Dio, una entità che dà ragioni per la trasgressione, è l’incarnazione del male.

La Gimbutas ci ricorda che nell’antica Europa il serpente è una creatuta benevola ed è una delle epifanie della Dea, la Dea Serpente; essa può assumere, però, in alcuni casi l’aspetto di Reggitrice di Morte, allora appare con sembianze di donna che ha alcune fattezze di serpente. Diventa un elemento del tutto negativo nelle mitologie indœuropee e del Vicino Oriente, nelle quali il serpente «simboleggia», secondo l’interpretazione dell’Autrice, il male o come si vede nel testo sacro è il male.

A questa concretizzazione oggettiva del male fa riscontro un’interessante stratificazione soggettiva: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gn. 3,6), tutto l’essere umano è coinvolto, è coinvolto il corpo vivente — buono da mangiare e gradito agli occhi — ma anche la dimensione dello spirito — desiderabile per acquistare saggezza, anzi da queste basi si procede proprio per l’individuazione e teorizzazione di una struttura antropologica. E tutto ciò viene confermato nelle pene che il Signore dà ai colpevoli, il momento del «disagio» e del «malessere» psico-fisico e spirituale che appare in maniera emblematica nel castigo della donna: «Con dolore partorirai i tuoi figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gn.3,16).

Da un lato costatiamo una persistenza dell’entità realissima del male con tutte le connessioni hyletiche ad essa soggiacenti, dall’altro vengono introdotti nuovi motivi, quello della persuasione, della scelta e della decisone, che conducono anche ad una delineazione di una visione dell’essere umano del tutto nuova e articolata, sulla quale, attraverso l’incontro con la filosofia greca, Agostino potrà costruire la sua grande teorizzazione del male come male fisico, morale e metafisico.

E Agostino passa attraverso il Nuovo Testamento in cui il motivo dell’interiorità diventa dominante. Basti pensare in Marco 7,14-23 l’insegnamento di Cristo sul tema del puro e dell’impuro. Il tema della contaminazione trova una giustificazione del tutto spirituale: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» e le enumera chiamandole «intenzioni cattive». È il riferimento importante e fondamentale all’intenzione che sembra contrapporsi all’attrazione ma che, tuttavia, convive in modo assolutamente originale; si pensi all’attrazione, del tutto hyletica, della dimensione sacramentale e alla particolare modalità della materia che essa presuppone.15 E tale dimensione serve da potente antidoto contro il male.

E il male non è solo quello vissuto nell’interiorità; se l’adesione è interiore si mantiene anche la dimensione di entità realissima: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti ebbe fame. Il tentatore, allora, gli si accostò e gli disse: “Se sei figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane”» (Mt. 4,1-3). La tentazione consiste nella trasformazione, nel miracolo, nella metamorfosi e Gesù, che è in grado di compiere miracoli, quindi trasformazioni tangibili, dimostrando, quindi, la sua Potenza, qui fa valere fortemente la dimensione spirituale: «Ma gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni cosa che esce dalla bocca di Dio”» (Mt. 4,4). Motivo presente anche nella guarigione del paralitico in cui confluiscono la salvezza fisica e quella spirituale, pur avendo Cristo indicato la seconda come fondamentale. Tutto ciò è anche correlativo al cambiamento della configurazione della Potenza; essendo questa diventata Padre e avendo espresso il suo legame d’amore con il Figlio e con il figlio, la scelta del male è la disobbedienza e l’allontanamento non tanto e non solo sulla linea di una prescrizione, ma sulla linea di un legame personale. Ma si può dire che è altrettanto un legame personale quello che si realizza quando dall’interiorità nasce l’adesione al tentatore.

L’archeologia fenomenologica attraverso lo scavo nella configurazione e strutturazione dei vissuti coglie, pertanto, soprattutto indagando la fondamentale e primaria dimensione che è quella sacrale-religiosa, la specificità di tale dimensione e la sua determinante influenza per tutte quelle espressioni che ormai noi, nella cultura occidentale, tendiamo a desacralizzare e contrapporre a quella religiosa. La pervasività del sacro arcaico non consente certamente distinzioni e si deve procedere ad una articolata analisi per chiarire ciò che accade nella cultura occidentale, forse quella che ha subito più fortemente un processo di desacralizzazione.16 Ma non è questa la sede per farlo. Piuttosto è possibile evidenziare le sopravvivenze della sacralità anche nel contesto religioso a testimonianza della continuità-distacco, ma non dell’assoluta alterità. Ciò è dimostrato se si indaga avendo come filo conduttore il tema della Potenza e del male.

Testo della relazione tenuta alla Pontificia Università Lateranense in occasione del Convegno In lotta con il drago. Dio, la libertà, il male (6-8 maggio 1999).


  1. A. Ales Bello, Culture e religioni. Una lettura fenomenologica, Città Nuova, Roma 1997. ↩︎

  2. E. Husserl, Ms. trans. C 16 IV, Phänomenologische Archäologie, maggio 1932. ↩︎

  3. G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, tr. it. di V. Vacca, Bollati Boringhieri, Torino 1992, 2ª ed., p. 536. ↩︎

  4. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. I, Einaudi, Torino 1965. ↩︎

  5. E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, tr. it. di A.M. Pezzella, a cura di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1996. ↩︎

  6. Ibidem. ↩︎

  7. Ibidem. ↩︎

  8. Ivi, p. 186. ↩︎

  9. Si veda l’argomentazione contenuta a p. 185. ↩︎

  10. Ivi, p. 190. ↩︎

  11. E. Husserl, Ms. trans. C 3 VI, pp. 7-8. ↩︎

  12. A. Ales Bello, «Hyle, Body, Life: Phenomenological Archeology of the Sacred», Analecta Husserliana, LVII, 1998. ↩︎

  13. M. Gimbutas, Il linguaggio della dea. Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica, intr. di J. Campbell, tr. it. di N. Crocetti, Longanesi, Milano 1960, p. 187. ↩︎

  14. Ivi, p. 198. ↩︎

  15. Per questo argomento rimando a Culture e religioni, cit., pp. 126-127. ↩︎

  16. A. Ales Bello, Culture e religioni, cit., cap. II, «Archeologia fenomenologica delle culture» e cap. III, «Archeologia fenomenologica e antropologia culturale». ↩︎