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Salvati da che cosa?
La sostituzione vicaria in Girard e Levinas

di Giovanni Salmeri (25 gennaio 2004)

1. Una questione di linguaggio?

Il tema delle «passioni» divine ha spesso trovato la sua chiave di soluzione in considerazioni di carattere linguistico. Un Dio che prova sentimenti troppo umani è un Dio che così accede al linguaggio e all'universo rappresentativo dell'uomo: questi in gradi diversi non potrebbe fare altro che appropriarsi a propria immagine e somiglianza di ciò che per essere espresso necessita di un apparato concettuale più sottile e scaltro, o in ultima analisi ciò che supera ogni capacità di immaginazione, e di fronte a cui quindi solo il silenzio sarebbe l'ultima risposta possibile. Questo è il modello che forse mai con tanta chiarezza si codifica quanto in Dionigi Areopagita, che abbozza un itinerario che dalla «teologia simbolica», il cui linguaggio è quello che incontriamo nella Scrittura, si eleva fino alla «teologia mistica», quella che ormai ha raggiunto quella dimensione di amore in cui le parole non hanno più utilità né spazio. Ciò che di questo modello è particolarmente significativo è il fatto che la provvisorietà dell'armamentario simbolico, quello che «vuol dire» qualcos'altro, non è soltanto una costatazione inevitabile che guida ad interpretazioni più raffinate (qui non ci sarebbe novità rispetto alla tradizione platonica di un Filone o di un Origene); la provvisorietà del simbolo è piuttosto un elemento provvidenziale, intrinseco al linguaggio della rivelazione, proprio perché essa smantella la presunzione di una facile conoscenza, di una traduzione senza residui in parole, e mette in guardia sulla lunghezza di un cammino che avrà fine -- appunto -- solo nella fine del linguaggio stesso. Un Dio «Creatore e Signore del cielo e della terra» si potrebbe avere l'illusione acquietante di conoscerlo: ma non un Dio celato sotto forme animalesche o sotto sentimenti e passioni sconvenienti. Un Dio siffatto induce piuttosto alla riflessione e all'indagine (Cael.Hier., II.5, 145a-b).

L'«ira» divina sembrerebbe un campo di esercizio privilegiato per questo modello. Le passioni per così dire «amabili» -- compassione, misericordia, speranza -- possono in fondo essere facilmente mantenute nella loro letteralità, correggendone appena i contorni che richiamano la limitazione umana, inserendole cioè in un contesto di razionalità e perfezione più ampia: se Dio non è misericordioso come gli uomini, ciò è perché la sua misericordia avrebbe un significato trascendentale che è abissalmente più profondo della commozione pietosa che gli uomini possono sperimentare. Questo è per esempio il modo in cui argomenta Tommaso d'Aquino, il quale riconosce nella libera gratuità dell'atto creativo la radice di ogni misericordia, di cui ogni successivo atto di giustizia non potrebbe far altro che esprimere una sorta di fedeltà di secondo rango (S.Th., I, q. 21 a. 4). In questo modo proprio l'eccezionalità dello stato ontologico divino permette di sbarazzarsi in un colpo solo delle remore stoiche: una passione concepita come «eccesso» e deviazione dal logos non ha nessun posto in un Dio che è logos, e in cui il logos si esprime non tanto nei rapporti di ordine che governano la Natura, ma prim'ancora nel fatto che questa Natura (dato inconfutabile, peraltro) è stata per amore portata all'esistenza. Ma nelle passioni «sconvenienti» il modello interpretativo dovrebbe trovare tutta la sua legittimità e necessità: un Dio incollerito non sarebbe nient'altro che un Dio che è suprema giustizia, per la quale nessun disordine è definitivamente tollerabile. La passione quindi non soltanto viene ricondotta a forme più nobili e razionalmente controllate, ma viene interpretata come la metafora di qualcosa di radicalmente diverso. Il carattere passionale insito nella collera sembra anzi prestarsi ad essere capovolto nel suo contrario, sotto cioè la forma dell'amore per la verità e la bontà; a volte questo capovolgimento pare molto facile, per esempio quando la Scrittura presenta l'immagine di un Dio «geloso», in cui i contorni dell'ira sfumano impercettibilmente nell'innamoramento.

E tuttavia questa strategia, ad un esame più attento, lascia insoddisfatti. Il fatto è che razionalizzare a questo modo l'ira divina si avvicina pericolosamente a razionalizzare e dissolvere il problema stesso della salvezza, l'articolo cioè sul quale l'intera pretesa cristiana sta o cade. Da che cosa l'uomo deve essere salvato, e perché? Una risposta che attraversa l'intera Bibbia fino ai raccapriccianti bagni di sangue dell'Apocalisse, passando per le parole tanto di Gesù quanto di Paolo, è singolarmente concorde e così riassumibile: l'uomo deve essere salvato dall'ira divina.1 Certamente l'ira non è arbitraria, è il peccato dell'uomo che la provoca: ma a sua volta il peccato è immerso in una cupa dimensione di mistero che non si lascia affatto ridurre alla dialettica dell'errore, un mistero che forse in nessun luogo tanto bene si lascia intravedere quanto negli annaspanti tentativi di spiegare come sia possibile che il peccato originale si trasmetta di anima in anima se questa è immediatamente creata proprio da Dio. Se si provasse a tradurre tutto ciò nei geometrici termini della giustizia, improvvisamente l'appello alla salvezza perderebbe non solo di capacità psicagogica, ma anche di significato. Non è necessaria la coscienza umanitaria moderna, ma basta Protagora (Platone, Prot., 324 a6-b7), per sapere che ogni punizione che non sia una «vendetta bestiale» ha senso solo se è rieducativa, e che un Dio che punisce per l'eternità è comprensibile quindi essenzialmente come un Dio irato, come appunto il linguaggio della Scrittura ci testimonia. Da Origene a von Balthasar, passando per esempio per Giovanni Scoto Eriugena e per l'assioma scolastico secondo cui Dio punisce «meno di quanto sarebbe giusto», c'è una lunga storia di tentativi di far quadrare quest'ira infinita e irrimediabile con ciò che si attribuisce a qualsiasi essere razionale, e tanto più ad un Dio infinitamente buono e misericordioso. Ma proprio questi tentativi, indipendentemente da come li si giudichi (e da come la storia della dottrina cristiana li abbia eventualmente giudicati), testimoniano che il tema dell'ira divina non è semplicemente un problema di linguaggio, né solo di pedagogia divina.

Ma questo non è tutto. C'è un secondo aspetto ancora più importante: non è soltanto l'oggetto della salvezza, ma anche la sua possibilità che viene resa enigmatica dalla razionalizzazione dell'ira divina. Perché proprio la morte di Gesù ottiene il suo effetto salvifico sugli uomini? È difficile trovare una risposta accettabile che rinunci all'idea di sostituzione vicaria. Essa, giova dirlo subito, non deriva affatto dalla presunta «mentalità giuridica romana» di Anselmo d'Aosta che nella teologia occidentale la descrisse nella sua forma canonica nel Cur Deus homo, ma direttamente dal Nuovo Testamento, che presenta il racconto della passione, verosimilmente la più antica composizione letteraria cristiana, sotto la continua ombra dei canti del Servo di Isaia. In essi questa idea è il filo conduttore che permette di comprendere la sofferenza innocente non come un incidente che sfugge alla provvidenza divina, o che da essa viene semplicemente permesso (come nel quadro narrativo di Giobbe), ma anzi come la sua estrema realizzazione: il Servo è percosso, ma le sue percosse risparmiano la medesima sorte al popolo per il quale egli intercede:

si è addossato i nostri dolori
e noi lo ritenevamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre ribellioni,
schiacciato per le nostre colpe.
Il castigo della nostra reintegrazione è su di lui;
per le sue ferite noi siamo stati guariti.
..........................................
E Yhwh fece ricadere su di lui la colpa di tutti noi.
..........................................
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per la ribellione del mio popolo fu percosso a morte.
..........................................
A Yhwh è piaciuto prostrarlo con dolori.
Se poni la sua anima in espiazione,
vedrà una discendenza, prolungherà i giorni,
e il beneplacito di Yhwh nella sua mano riuscirà (Jes., 53, 4-10).

Ma come è comprensibile un Dio che si placa quando la sua punizione viene come che sia portata a termine, se non sui reali destinatari su qualcuno che si offra al loro posto?2

2. La rivelazione della violenza

Negli ultimi decenni, uno dei tentativi più radicali e fecondi di reinterpretare la logica della salvezza cristiana è venuta dagli studi di carattere antropologico di René Girard. A partire da La violenza e il sacro del 1972 fino agli anni più recenti, egli ha disegnato un itinerario che da una parte tenta di ricondurre ad una risposta unitaria il problema dell'origine e dei meccanismi essenziali della cultura umana, dall'altra individua nella Bibbia l'unica fonte in cui questi meccanismi vengono svelati nella loro verità.3

Le tesi fondamentali di Girard, espresse fin dalla sua opera inaugurale, sono intenzionalmente semplici e quindi facili da riassumere senza forzature. Il primo caposaldo consiste nell'identificazione della «rivalità mimetica» come del fondamentale meccanismo che determina la crisi nelle società umane: quando si desidera qualcosa per lo stesso fatto che altri la desidera o la possiede, è inevitabile giungere ad uno scontro contagioso e potenzialmente senza fine. Il secondo caposaldo è l'individuazione del meccanismo tramite cui una società, caduta nella crisi a causa della rivalità mimetica, recupera la sua pace: addossando la colpa del proprio male ad un suo membro, prescelto in maniera da essere facilmente rivestibile con i caratteri della colpevolezza, e scaricando la propria violenza su questo «capro espiatorio». Il terzo caposaldo consiste nell'accertamento della dimensione di «sacralità» che questo meccanismo instaura: il capro espiatorio è per una società contemporaneamente il più colpevole e il più prezioso, proprio perché è lui che con la sua eliminazione (il «meccanismo fondatore») è capace di restituire ordine alla società; questa irrinunciabile preziosità pone quindi il «sacro» (inseparabilmente congiunto con la connessa violenza) come la dimensione fondamentale di sussistenza di una comunità umana.

Tutto questo però -- questo è il secondo aspetto dell'opera di Girard, e quello che maggiormente ci interessa -- rimane e deve rimanere nascosto alle società umane, le quali devono perpetuare (nell'arte, nella religione, nella narrazione) la menzogna di una reale colpevolezza del capro espiatorio: proprio e solo a questo prezzo il meccanismo può a suo modo funzionare, addossando continui e gratuiti carichi di violenza su innocenti. Ecco l'origine della mitologia. C'è però un caso, unico, nella storia dell'umanità in cui tale meccanismo non solo non viene tacitamente approvato, ma addirittura espressamente smascherato: ciò avviene nella Bibbia ebraico-cristiana, la quale quindi diventa il grande codice che, in forme radicalmente non-vittimarie, pretende di interpretare la storia dell'umanità e realmente vi riesce. Questa è l'affermazione centrale di Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, del quale tutte le opere seguenti possono essere considerate complementi o solo marginali rettifiche. Il culmine della rivelazione cristiana è in questo senso il racconto della passione di Cristo, che è la narrazione di come il meccanismo del capro espiatorio sia stato per la prima volta affrontato, rivelato e capovolto: Gesù né si dichiara colpevole né replica con una violenza speculare a quella dei suoi persecutori, ma piuttosto rinuncia alla violenza. In questo modo si apre la strada per una memoria per la prima volta non menzognera:

Mettendo ancora una volta in moto il meccanismo fondatore contro Gesù stesso, che rivelava il segreto del loro potere, l'assassinio fondatore, le potenze di questo mondo credevano di soffocare per sempre la Parola di Verità; credevano di trionfare ancora una volta grazie al metodo che aveva loro permesso di trionfare in passato. Quello che non hanno capito è che, malgrado il consenso momentaneo cui anche i discepoli più fedeli si sono uniti, non si è inscritta nei Vangeli l'abituale menzogna mitologica, la menzogna delle religioni dell'intero pianeta, ma la matrice strutturale stessa. I discepoli si sono ripresi e hanno perpetuato il ricordo dell'evento, non nella forma mitica che avrebbe dovuto prevalere, ma in una forma che rivela l'innocenza del giusto martirizzato, che esclude la sacralizzazione della vittima in quanto colpevole, in quanto ritenuta responsabile dei disordini puramente umani cui la sua morte pone fine (Delle cose nascoste, p. 251).

La passione non è dunque affatto la narrazione di un «sacrificio». Questo sarebbe anzi il fondamentale fraintendimento che riaddossa alla verità evangelica la maschera del meccanismo vittimario e del quale la tradizione cristiana secondo Girard è spesso stata colpevole:

Questa lettura sacrificale della Passione, nella nostra prospettiva, deve essere criticata e dichiarata il più paradossale e il più colossale malinteso di tutta la storia, quello, nel contempo, più rivelatore dell'impotenza radicale dell'umanità di comprendere la propria violenza, anche quando sia a lei espressa nella maniera più esplicita (Delle cose nascoste, p. 236).

C'è da dubitare che queste e simili affermazioni abbiano qualcosa da guadagnare dalle sfumature che facilmente vi possono essere desiderate, cui peraltro lo stesso Girard da alcuni punti di vista ha consentito. Rifiutare una lettura sacrificale della Passione significa infatti nel sistema di idee di Girard assicurarle il valore salvifico che sta al centro del messaggio neotestamentario e contemporaneamente mantenere quell'appello ad una radicale conversione che è la prima parola di Gesù: È per la prima volta l'eliminazione completa del sacrificale, è la fine della violenza divina, è la verità finalmente esplicita di tutto ciò che precede ed essa esige una conversione totale dello sguardo, una metamorfosi senza precedenti nella storia dell'umanità (p. 258). E ancora: «Soltanto l'amore perfetto del Cristo può divenire senza violenza la rivelazione perfetta verso la quale, malgrado tutto, noi tutti avanziamo» (p. 344). Se Gesù, o il narratore della sua storia, accettasse la logica del sacrificio in cui «uno muore per tutti», la violenza divina rimarrebbe perpetuata all'infinito, soltanto dislocata contraddittoriamente.

Ma che cosa accade del soggetto umano nella ipotesi di Girard di una accoglienza del logos di Cristo? La domanda diventa tipicamente filosofica, perché il problema in gioco non riguarda più i meccanismi e le dinamiche che costituiscono la civiltà umana, ma il senso dell'umano che potrebbe frantumare e riorientare queste dinamiche. Tuttavia, quanto è forte il desiderio di dare risposta a questa domanda, tanto è decisa la ritrosìa di Girard nello spostarsi -- per dirla semplicemente -- da un piano antropologico-culturale ad uno antropologico-filosofico. Una rapida osservazione di Oughourlian sembrerebbe mettere sulla buona strada: Se si segue il suo ragionamento, il vero soggetto umano può emergere soltanto dalla regola del Regno; al di fuori di questa regola non c'è altro che il mimetismo e l'«interindividuale». Fino a quel punto, solo la struttura mimetica è soggetto (p. 257). Ma l'assenso di Girard sembra fermarsi all'affermazione di principio: certo, il «soggetto» compare solo all'interno della logica dell'amore, ma non è certo la filosofia che potrebbe aiutare nel portarla alla luce. Anche la filosofia sarebbe in fondo implicata nel gioco di dissimulazione che impedisce di riconoscere le cose «nascoste fin dalla fondazione del mondo»: la filosofia quindi non come gesto interpretativo, ma piuttosto come oggetto di ermeneutica -- un compito che peraltro in Girard s'intravede in filigrana come posto molto più di quanto se ne possa vedere un'esecuzione. A meno che -- la filosofia non si ponga proprio dal punto di vista della vittima, della persona sulla quale viene scaricata la collera dei suoi simili. Si tratterebbe quindi di una filosofia in cui l'amore per la sapienza non cede alla «sapienza di questo mondo», ma per così dire la capovolge.

3. Sostituzione e soggettività

Benché citarlo debba ormai giustificarsi dal sospetto del cedimento ad una moda, è Levinas il punto di riferimento più opportuno per una tale filosofia «capovolta».4 È infatti particolarmente significativo che il cuore dell'opera che facilmente si può definire la più importante di Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, è costituito per dichiarazione dello stesso autore da un capitolo dedicato alla «sostituzione», in cui gli echi biblici si fanno insistenti nel tentativo di ridisegnare un senso della soggettività. Altrettanto significativo è costatare che la prima stesura di queste pagine (1968) è perfettamente contemporanea alla conferenza che dietro sollecitazione Levinas tenne sul punto centrale della pretesa cristiana, dandole il titolo: «Un Dio Uomo?». Una lettura appena un po' attenta dei due testi mostra che la contemporaneità non è un caso, e che interpretazione della «sostituzione» e interpretazione della «divino-umanità» vanno in effetti di pari passo. Prim'ancora di un'analisi dettagliata, sorge il sospetto che questo sia uno dei punti determinanti sui quali misurare l'intenzione di «ridire la Bibbia in greco» che caratterizza l'impresa di Levinas.

Iniziamo da «La sostituzione». In tale capitolo Levinas porta idealmente a termine il corpo a corpo con la nozione di soggettività che lo aveva impegnato fin dagli scritti giovanili e che aveva segnato una tappa fondamentale in Totalità e infinito. Se in quest'ultimo il tentativo, evidente soprattutto nelle ultime pagine, consisteva nell'individuare possibilità e limiti di una trascendenza compiuta dal soggetto, in Altrimenti che essere il compito viene radicalizzato nella ricerca di una trascendenza della soggettività stessa. Il sottotitolo palesemente platonico («al di là dell'essenza» è la determinazione del Bene epékeina tes ousías) delinea l'orizzonte globale di questo tentativo: da una parte la trascendenza non come eventuale orizzonte ulteriore, ma come interpretazione radicale della realtà stessa, che pur ci si presenta nei giochi e nelle relazioni dell'essere; dall'altra la trascendenza non come avventura speculativa, ma piuttosto come struttura etica. Il richiamo platonico consente forse di ridire in termini più semplici ciò che in Levinas viene ripetutamente espresso in termini paradossali: come il Bene al di là dell'essere non può appunto essere espresso in termini di «essere», perché ad esso anteriore, così l'«imperativo» (per così dire) sulle cui tracce si pone Levinas non può essere posto nelle geometrie della coscienza e della libertà, perché esse gli sono posteriori; più che di imperativo, bisognerà dunque parlare di responsabilità, una responsabilità che non è stata mai «assunta», perché anteriore alla sua presa di coscienza da parte del soggetto. In breve: la soggettività umana ha il suo senso «al di là dell'essenza» perché essa significa la presenza di una responsabilità senza inizio, una «responsabilità che non si giustifica in forza di nessun precedente impegno» (Altrimenti che essere, p. 128).

Entra qui opportunamente in gioco un altro concetto: quello di an-archia, ovvero di mancanza di inizio. L'arché che qui ovviamente interessa è quella definita a partire dalla coscienza e dalla sua tendenza alla tematizzazione: una soggettività caratterizzata da una responsabilità anteriore a qualsiasi impegno è dunque «anarchia», in ritardo nel poter pensare ciò che la riguarda in prima persona. Appare qui un certo comprensibile slittamento dallo schema concettuale che Levinas preferiva in Totalità e infinito: se lì ancora dominava la reinterpretazione dell'idea dell'infinito cartesiana, in cui il soggetto «pensa più di quanto possa pensare», qui la dilatazione nello spazio viene sostituita da una proiezione all'indietro nel tempo, in cui il pensiero sembra ancora più impossibile. Che tra le due cose ci sia un'effettiva continuità è dimostrato dal fatto che, così come allora, anche qui Levinas usa l'immagine della «traccia» per indicare ciò che rimane in qualche modo dicibile e pensabile: «L'an-archia [...] lascia una traccia che il discorso, nel dolore dell'espressione, tenta di dire» (p. 126, nt. 4). Ciò che tuttavia più ci interessa è il fatto che tale nozione di anarchia venga cortocircuitata da Levinas con il fenomeno del dolore:

L'impresa dell'Altro si esercita sul Medesimo al punto di interromperlo, di lasciarlo senza parole: l'an-archia è persecuzione. L'ossessione è persecuzione: qui la persecuzione non costituisce il contenuto di una coscienza divenuta follia; essa designa la forma secondo la quale l'Io si addolora, che è una defezione della coscienza (Altrimenti che essere, p. 127).

Il senso del discorso di Levinas pare, almeno in parte, questo: il fatto stesso che ci sia qualcosa di anteriore alla coscienza del soggetto, e che tuttavia lo riguarda proprio nella sua «essenza», lo pone in uno stato di scacco e caratterizza la forma più elementare del dolore, cioè l'incrinatura dell'autopossesso dell'io. Allo stesso modo, questa incrinatura può essere indicata come «ossessione» e «persecuzione», due termini che in Levinas sembrano essere introdotti come semplici denominazioni di una relazione non ancora rappresentata con la realtà esterna, ma che gradualmente assumono il senso drammatico della presenza massiccia di un mondo non solo di fronte al quale, ma del quale sono responsabile. Ecco quindi come responsabilità e «persecuzione» alla fine si congiungono come due facce della stessa medaglia. La capacità di soffrire da parte di altri, la «persecuzione» subìta, diventa insomma il modo più radicale e primario in cui si esercita la «responsabilità» propria della soggettività:

Il subire a causa di altri è pazienza assoluta solo se questo «a causa di altri» è già «per altri». Questo transfert -- altro che interessato, «altrimenti che essenza» -- è la soggettività stessa. «Presenti la guancia a chi lo percuote e sappia saziarsi anche d'oltraggi» [Lam., 3, 30]; chiedere nella sofferenza subìta questa sofferenza (senza fare intervenire l'atto che sarebbe l'esposizione dell'altra guancia), non significa trarre dalla sofferenza una qualche virtù magica di riscatto, ma passare, nel trauma della persecuzione, dall'oltraggio subìto alla responsabilità per il persecutore e, in questo senso, dalla sofferenza all'espiazione per altri (Altrimenti che essere, p. 139).

È importante notare che indirizzando il discorso in questo binario di radicalità Levinas non intende affatto descrivere un'eccellenza che costituirebbe la meta o l'ideale regolativo di un itinerario per esempio di amore verso il prossimo. Ciò che a lui piuttosto sta a cuore è individuare la radice da cui qualsiasi gesto di fraternità e perfino di gentilezza discende: anche il semplice «dopo di voi, signore» (p. 148) reca la lontana traccia di un'inversione della soggettività che non è spiegabile nei termini di un'altrimenti ovvia autoaffermazione dell'io.5 Ad una filosofia veramente sapiente spetterebbe dunque il compito di mettersi dalla parte di questo smantellamento dell'io, saperne cogliere il momento genetico nell'atto del sacrificio estremo che rappresenta una vera e propria rottura con la logica dell'identità e dell'essere: «Il non intercambiabile per eccellenza, l'Io, l'unico si sostituisce agli altri. Nulla è gioco. Così si trascende l'essere» (p. 146).

4. L'umiliazione di Dio

Quanto la lunga fenomenologia de «La sostituzione» si muove in una penombra ricca di anfratti e sfumature (la breve rilettura che ne abbiamo tentato ha necessariamente lasciato inesplorati molti passaggi), tanto la rapida stesura di «Un Dio Uomo?» assomiglia ad un lampo di luce netto e chiarificatore. Dopo una comprensibile protesta di estraneità rispetto ad un tema che è l'unico -- afferma Levinas -- che lo divide dai cristiani dei quali per altro condivide tutte le altre idee e il destino, la dichiarazione di intenti pone la conferenza in una vicinanza alle contemporanee riflessioni or ora viste evidente fino alla coincidenza letterale:

Il problema dell'Uomo-Dio comporta, da un lato, l'idea di un'umiliazione che l'Essere supremo si infligge, di una discesa del Creatore al livello della Creatura, cioè dell'assorbimento nella Passività più passiva dell'Attività più attiva.

Il problema comporta, d'altro canto, e come producentesi da questa passività spinta nella Passione al suo limite ultimo, l'idea di espiazione per altri, cioè di una sostituzione: l'identico per eccellenza, ciò che non è intercambiabile, ciò che è l'unico per eccellenza, sarebbe la sostituzione stessa (Tra noi, pp. 85-86).

Le riflessioni che Levinas dedica a questo secondo aspetto riecheggiano così da vicino quelle che abbiamo già considerato, che non c'è praticamente bisogno di aggiunger nulla in proposito. Qualche nota merita invece il primo aspetto. L'idea di un'umiliazione di Dio, argomenta Levinas, è strettamente dipendente dall'idea di una verità che si manifesta nell'umiltà. Ma questa forma di manifestazione non è una tra le tante possibili, ma l'unica in cui la verità può appunto manifestarsi non soltanto nel finito (il che sarebbe possibile a qualsiasi spiritualità pagana), ma al finito, dunque entrando in un faccia-a-faccia che, per il fatto stesso dell'umiliazione che implica, chiama come suo destinatario «ontologico» la povertà. In altre parole (e forse semplificando un poco): Dio può parlare all'uomo solo umiliandosi; ma proprio per questo egli può rivolgersi soltanto a chi, come lui, si umilia. Questa è l'autentica «trascendenza» (la cui migliore tematizzazione Levinas attribuisce a Kierkegaard): una verità perseguitata, misconosciuta, umiliata e respinta è infinitamente trascendente e mai trasformabile in immanenza proprio per il suo carattere di irrecusabile differenza rispetto alle verità di questo mondo. È in questo contesto che viene pure ricuperato il linguaggio dell'«infinito» che nelle riflessioni sulla sostituzione avevamo invece visto accantonato: la trascendenza della verità che si umilia si manifesta nel volto del prossimo che è la traccia dell'Infinito.

Come interpretare la coincidenza temporale e tematica dei due testi di Levinas, «Un Dio Uomo?» e «La sostituzione»? Certo essa è sufficiente a stabilirne la parentela, ma questa potrebbe pur sempre essere vista come l'applicazione un po' accomodatizia ad un tema -- quello della divinoumanità -- affrontato tutto sommato, come lo stesso autore dichiara, con non poca esitazione. Una preziosa nota di Altrimenti che essere ci avverte però di un legame molto più stretto, di qualcosa come di un effetto retroattivo del linguaggio cristiano sulla fenomenologia:

Il corpo non è né l'ostacolo opposto all'anima, né la tomba che la imprigiona, ma ciò per cui il sé è la suscettibilità stessa. Passività estrema dell'«incarnazione» -- essere esposto alla malattia, alla sofferenza, alla morte, è essere esposto alla compassione e, Sé, al dono che costa. Al di qua dello zero dell'inerzia e del nulla, nel deficit d'essere in sé e non nell'essere, precisamente senza luogo dove posare il capo, nel non-luogo e, così, senza condizione, il se stesso si mostrerà portatore del mondo -- il portante, il sofferente, fallimento del riposo e della patria, e correlativo della persecuzione -- sostituzione all'altro (Altrimenti che essere, p. 136, nt. 12).

Ciò che avviene in queste poche righe, parentetiche rispetto al filo del discorso di Levinas, è l'assunzione del linguaggio dogmatico-cristiano dell'incarnazione, del quale viene abbozzata un'interpretazione filosofica tutto sommato tra le più profonde mai tentate: la corporeità non è -- platonicamente -- la ricezione di un fardello, né uno stato di partenza neutro (lo «zero dell'inerzia»), ma piuttosto l'unica modalità in cui è possibile patire e «portare il mondo», insomma rovesciare la logica dell'essere sostituendosi alla sofferenza dell'altro. Questo significa trovarsi nel «non essere», ovvero, come Levinas dice replicando con discrezione le parole di Gesù, «non avere dove posare il capo» (Ev.Matth., 8,20 // Ev.Luc., 9,58): ciò che proprio solo il «figlio dell'uomo» sa fare. Il problema che qui sorge nel confronto della filosofia levinassiana con la evocata dogmatica cristiana è curiosamente parallelo a quello che affligge l'esegesi di quest'ultimo e simili passi: il «figlio dell'uomo» è Gesù od ogni uomo? La risposta per Levinas è univoca: ogni uomo -- laddove queste parole vanno intese non nell'irenico senso di una fratellanza data e originaria, ma piuttosto nel senso lacerante di un imperativo etico che giunge ancor prima che il soggetto possa accorgersene: «l'Io non è un ente "capace" di espiare per gli altri: l'Io è questa espiazione originale -- involontaria -- poiché anteriore all'iniziativa della volontà» (Altrimenti che essere, p. 148). La dogmatica cristiana ovviamente protesterebbe l'unicità del Figlio di Dio, ma dall'altra parte sia l'etica sia la mistica cristiana avrebbero da obiettare e integrare non poco, magari con l'autorevole sostegno di Paolo che parla di «imitazione di Cristo» (1Ep.Cor., 11,1) e di «completamento» (Ep.Col., 1,24) delle sue sofferenze. O forse fondamentalmente avviserebbero la dogmatica di aver intavolato una disputa impropria con un pensiero in cui è l'etica la «filosofia prima».6

5. Dietro alla violenza

Sarebbe difficile tentare un bilancio, sia pure provvisorio, del contributo che sia Girard sia Levinas, sia isolatamente sia congiuntamente, porgono problematicamente alla dogmatica cristiana. La forza e la lucidità con cui entrambi si sono riappropriati di un concetto come quello di «sostituzione vicaria», per smascherarlo in un caso, per ribaltarlo in una sorprendente interpretazione della soggettività dell'altro, e ciò proprio nel momento in cui la soteriologia «media» cristiana pare aver preferito invece per motivi diversi abbandonarlo o edulcorarlo, certamente dà da pensare, anche sotto il profilo, in questo caso tutt'altro che preliminare ed accademico, di un ripensamento della natura e dei compiti della teologia. In tale compito di ripensamento almeno qui non intendiamo entrare per nulla.

Vogliamo invece in tale direzione tentare solo una considerazione apparentemente preliminare, che riguarda la reale compatibilità della prospettiva antropologico-culturale di Girard con quella antropologico-filosofico di Levinas. Alla seconda siamo giunti cercando una filosofia «dalla parte della vittima», ma ora possiamo accorgerci come questa determinazione sia ambigua finché non venga accertato che la vittima non sta al gioco dei persecutori. Se così fosse, l'intero impianto concettuale di Levinas (cosa particolarmente grave perché esso viene a coincidere con una ridefinizione della soggettività tout court) non sarebbe altro che una consacrazione della colpevolezza della vittima, per di più elaborata in termini metafisici che ne impedirebbero una qualsiasi correzione. Bisogna insomma riconoscere che il concetto di responsabilità infinita è pericolosamente vicino ad un addossamento di colpe al perseguitato. È Levinas stesso che percepisce questo pericolo quando a varie riprese nota come la responsabilità di cui egli parla deve solo essere addossata a sé stessi e mai ad un altro. Parlando del concetto di identità che sarebbe dischiuso dalla responsabilità, egli osserva con precisione: «Identità non di un'Anima in generale, ma di me, poiché in me solo l'innocenza può essere accusata senza assurdità. Accusare l'innocenza di un altro, domandare all'altro più di quanto deve, è criminale» (Altrimenti che essere, pp. 141-2, nt. 18). Nei termini che compaiono poco in quest'opera (per esempio p. 161), ma che punteggiano altrove spesso la sua riflessione, si tratta qui di una sfaccettatura del problema del «terzo»: appena non è in gioco solo l'«altro», ma una società umana, entrano necessariamente in campo le considerazioni di giustizia che impongono il ristabilimento dei diritti e dei doveri. Insomma, è soltanto il perseguitato che può e deve dire di essere «responsabile» della sofferenza che subisce;7 ma dall'esterno ognuno ha il dovere di promuovere giustizia, bontà, pace -- per citare alcuni dei termini forti della ultime pagine di Totalità e infinito. In altri termini e ritornando al nostro problema: la filosofia di Levinas non è certo «narrata» dal punto di vista dei persecutori e conosce bene quanto il perseguitato sia innocente.

Il problema è tuttavia in questo modo solo ridotto del suo aspetto più grossolano: perché ancora rimane da chiedersi se l'assunzione su di sé della responsabilità, o ancora più chiaramente l'«espiazione» di cui parla Levinas, non siano dal punto di vista del soggetto l'accettazione della logica vittimaria che pure nelle geometrie sociali viene denunciata come criminale, una sorta di dislocazione nell'interiorità proprio di ciò che esteriormente viene condannato. Per tentare una risposta in questa seconda, più radicale direzione, ci accorgiamo di dover ritornare proprio al tema che ha motivato tutto il nostro itinerario: l'ira divina. Che cosa sia la «colpevolezza» che qui è in gioco può essere alla fine chiarito soltanto quando si comprenda da chi e perché la vittima in ultima analisi è colpita, se e in quale misura la sofferenza che egli riceve sia interpretabile come una punizione. Al di là dell'aspetto evidente che la vittima viene colpita da esseri umani, qual è insomma il retroscena della persecuzione?

La risposta di Girard è al riguardo forte e chiara: dietro alla violenza umana non c'è nient'altro. Sono soltanto i suoi meccanismi che vanno decodificati, distruggendo con ciò stesso l'immagine di un Dio violento e l'intero sistema sacrificale che sacralizza il dolore inferto ad un innocente. È questo il motivo profondo per cui la teoria teologica che descrive un Padre che chiede al Figlio di sacrificarsi è «degna degli dèi aztechi» (p. 240) e rappresenta il più clamoroso -- ma comprensibile -- tradimento della parola evangelica:

L'essenziale è capire che la violenza apocalittica preannunciata dai Vangeli non è divina. Questa violenza, nei Vangeli, è sempre riferita agli uomini, non a Dio. Quello che fa credere ai lettori di avere ancora a che fare con l'antica collera divina, sempre viva nell'Antico Testamento, è il fatto che la maggior parte dei tratti apocalittici, le grandi immagini di questo quadro, sono attinte a testi dell'Antico Testamento.

Queste immagini restano pertinenti perché descrivono già la crisi mimetica e sacrificale. Nei Vangeli si tratta ancora della stessa struttura di crisi ma questa volta non c'è più divinità per interrompere la violenza né per infliggerla (Delle cose, p. 242).

Una risposta di Levinas si lascia invece cercare a lungo -- finché non si nota che l'aspetto essenziale della sua teoria della responsabilità è appunto il fatto che a tale domanda non c'è e non ci può essere risposta: la responsabilità che implica la sostituzione come definizione della soggettività è un'assunzione, come abbiamo visto, precosciente, che raggiunge il soggetto a partire da un tempo nel quale egli neppure esisteva. Non si può insomma conoscere in alcun modo da dove provenga essenzialmente la persecuzione, come Levinas riconosce programmaticamente ponendo la domanda fondamentale che guiderà il resto della sua indagine:

Coscienza lesa, di conseguenza, prima di farsi un'immagine di ciò che la colpisce, lesa malgrado sé. Riconosciamo sotto questi tratti la persecuzione, messa in questione anteriore all'interrogazione e responsabilità al di là del logos della risposta. Come se la persecuzione attraverso altri fosse al fondo della solidarietà con altri. Come può una tale Passione avere luogo e tempo nella coscienza? (Altrimenti che essere, p. 128).

Il fatto che il discorso filosofico sia costruito in terza persona non ha ovviamente nessun vantaggio al riguardo: non è lo sguardo di un terzo che può colmare la differenza temporale tra responsabilità e nascita del soggetto e raccontare a questi che cosa sia avvenuto prima della sua nascita: si tratta di un «passato che non è mai stato presente». È questo il tema che Levinas lascia intravedere quando più volte cita la vicenda di Giobbe mettendo in evidenza il fatto che Dio gli rammenta che lui non era presente quando il mondo veniva creato (Job, 38,4), l'evento che è sottratto per definizione a qualsiasi logos: «la soggettività di un soggetto arrivato tardi in un mondo che non è nato dai suoi progetti, non consiste nel progettare, né nel trattare questo mondo come proprio progetto. Il "ritardo" non è insignificante» (Altrimenti che essere, p. 154). È solo a partire da questa premessa che è comprensibile perché mai le numerose pagine dedicate ad una fenomenologia della sofferenza del soggetto responsabile non siano completate, o bilanciate, da neppure un'affermazione sull'origine del male che colpisce il soggetto: ciò che si traduce nell'impressione (certo frettolosa, ma significativa) che nelle pagine di Levinas l'uomo sia continuamente ridescritto come un soggetto di sublime profondità morale circondato da un mondo enigmatico e brutale. Ad ogni buon conto: proprio l'assenza di una sacralizzazione della violenza (essa non è mai nulla che somigli ad una punizione) distingue nettamente l'infinita responsabilità di cui parla Levinas dalla logica vittimaria che Girard condanna. Si potrebbe anche sospettare che proprio l'insistenza sulla non rappresentabilità sia in fondo finalizzata ad evitare che venga trovato alcun «senso» in ciò che invece è solo l'opaco dato di fatto della malvagità.8

Jan van Eyck, Crocifissione e Giudizio Universale, 1425-1430, olio su tela trasferito su legno, Metropolitan Museum of Art, New York. Il bellissimo dittico fiammingo raccoglie nelle due immagini la lacerante paradossalità dell'annuncio cristiano: da una parte Dio stesso che muore sulla croce per salvare l'umanità, dall'altra il giudizio universale nel quale la gioia dei beati trionfa sì, ma sopra il terrificante abbraccio della morte sui dannati, trascinati senza più speranza nell'inferno. È lo stesso contrasto che, in ordine inverso, si trova nel Dies Irae, in cui il timore paralizzante della punizione divina viene avvolto e cancellato dal ricordo della misericordia.

[Dies Irae in formato midi, versione armonizzata (© 2001 by Steven Chang-Lin Yu, da Online Guide to Requiem, <http://requiemonline.tripod.com>).]

6. Il giorno dell'ira

Da che cosa l'uomo deve essere salvato, e come? Girard e Levinas costringono a porre ancora la domanda, e perfino la loro comprensibile remora a prendere in considerazione l'ipotesi di un destino ultraterreno è un aiuto per porre la domanda ancora più radicalmente. In Girard, paradossalmente, la terrificante risposta di tanto immaginario religioso continua letteralmente a funzionare: l'uomo deve salvarsi dall'ira divina, laddove quest'ultima è però l'immagine che giustifica e perpetua la violenza. Salvarsi dall'ira divina significherebbe in questo caso non scansarla, ma proprio distruggerla, cioè salvarsi dalla logica vittimaria che «dal giusto Abele» in poi scarica i traumi dei desideri frustrati sugli innocenti. La quale salvezza però è tanto poco affidata alla buona volontà dei valori umanitari che ha bisogno della rivelazione traumatica di un logos che viene frainteso, respinto e perseguitato.

In Levinas, perlomeno in Altrimenti che essere, questa risposta non può comparire, per il motivo radicale che Dio vi compare innominato solo nell'ultima pagina, come la «scrittura impronunciabile» (p. 229) che è stata scoperta con la sostituzione. Ma proprio nello stesso anno (1978) in cui Levinas raccoglieva il suo libro attorno al saggio sulla sostituzione di un decennio prima, egli poneva un testo dal titolo «Trascendenza e male», poi raccolto in Di Dio che viene all'idea, sotto l'inquietante esergo di Isaia: «Io sono Colui che ha fatto la pace e ha creato il male. Sono l'Eterno che fa tutte queste cose» (45,7). Il Dio che ha «creato il male» è qui, riecheggiando l'esegesi di Giobbe operata da Philippe Nemo, il momento di una fenomenologia secondo la quale il male raggiunge l'uomo:

Il male mi raggiunge come se mi cercasse, il male mi colpisce come se ci fosse una presa di mira dietro la cattiva sorte che mi perseguita, «come se qualcuno si accanisse contro di me», come se ci fosse malizia, come se ci fosse qualcuno. Il male, di per sé, sarebbe un «prendermi di mira». Esso mi raggiungerebbe in una ferita in cui sorge un senso e si articola un dire che riconosce questo qualcuno che così si rivela. «Perché mi fai soffrire e non piuttosto mi riservi una felicità eterna?» Dire primo, domanda prima o lamento primo o prima preghiera (Di Dio, p. 157).

Dunque, nella coscienza Dio realmente crea il male, perché colui che è colpito protesta contro Dio e contro il suo inspiegabile accanimento. Tale ferita nella coscienza ha tuttavia un risvolto: il risveglio dell'anima all'interpellanza di un Tu divino, che viene chiamato non in quanto violento, ma proprio in quanto sottratto alla logica della violenza che pure viene sperimentata. Questa è la contraddizione lacerante del «perché?». Tutto ciò prepara un ulteriore momento, che porta ad un capovolgimento: «il male mi colpisce nel mio orrore del male e così rivela -- o è già -- la mia associazione col Bene. [...] L'esperienza del male sarebbe dunque anche la nostra attesa del bene -- l'amore di Dio» (p. 159).

Levinas riconosce che questa fenomenologia, da lui esplicitamente identificata con l'«idea della sofferenza come persecuzione e dell'elezione nella persecuzione» (p. 157), non è condivisibile all'infuori dell'esperienza religiosa. Ma nel suo ambito essa significa che ancora una volta è possibile dire che l'uomo dev'essere salvato dall'ira divina: qui la salvezza significa appunto il capovolgimento che dall'orrore del male giunge al bene, all'amore divino, perfino (come è osato in questo contesto) alla beatitudine. Ciò che fenomenologicamente, ne «La sostituzione», appariva come l'opaco e sordo sfondo di insignificanza dal quale proveniva la persecuzione, nell'esperienza religiosa è il male «come se» (Levinas lo ha ripetuto cinque volte!) provenisse da Dio, quasi la fede avesse il vertiginoso privilegio di poter falsamente attribuire a Dio la più spaventosa delle collere per poter vivere in lui il più tenero degli amori. Non quindi un'ingenuità antropomorfica, non la mancanza di un sufficiente addestramento a distinguere causae primae e causae secundae, ma la possibilità stessa della teofania. Non è questo forse che in ultima analisi significa la «scrittura impronunciabile» sulla quale termina Altrimenti che essere?

Che tutto ciò -- la risposta di Girard e la risposta di Levinas -- sia condivisibile o (più impudicamente) sia vero, è la questione decisiva che avrebbe bisogno di molto altro spazio: per ora abbiamo posto il problema. Qui ci contentiamo di notare due cose. La prima è che le risposte che abbiamo così ricavato rispettano la condizione che avevamo creduto di individuare all'inizio della nostra ricerca: l'ira divina non può essere solo un «modo di dire», eliminabile in una formulazione filosoficamente più avvertita. Né la violenza vittimaria di Girard, né il dolore sulla propria pelle di Levinas sono «modi di dire». D'altra parte, entrambe le risposte individuano proprio nella sottoposizione all'ira divina la possibilità della salvezza: sia il logos respinto dal mondo di Girard, sia la sostituzione messianica di Levinas hanno significato proprio e solo in quanto il «male divino» piomba sull'innocente. La seconda notazione è questa: che la tradizione cristiana latina ha per secoli creduto che l'ira divina vada cantata proprio e solo per raccontarne la dissoluzione e il capovolgimento attraverso l'amore dell'innocente. Ciò è avvenuto nella «sequenza» che, poi spostata alle celebrazioni funebri, originariamente nella prima domenica di Avvento preparava la lettura del vangelo del Giudizio finale: il Dies irae. Le prime sette strofe disegnano, con la loro linea melodica avvolgente, il quadro atterrente della venuta dell'implacabile giudice nel giorno finale:

Dies irae, dies illa
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sybilla.
Quantus tremor est futurus,
quando iudex est venturus,
cuncta stricte discussurus.
...........................
Iudex ergo cum sedebit,
quidquid latet apparebit,
nil inultum remanebit.
Quid sum miser tunc dicturus?
Quem patronum rogaturus,
cum vix iustus sit securus?

Ma dall'ottava strofa in poi accade un capovolgimento: proprio quel terribile giudice (ora chiamato per nome: Iesus) è colui che salva senza nessun motivo, «gratis», che deve ricordarsi che proprio per poter salvare l'uomo si è incarnato e si è lasciato uccidere:

Rex tremendae maiestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me, fons pietatis.
Recordare Iesu pie,
quod sum causa tuae viae,
ne me perdas illa die.
Quaerens me sedisti lassus,
redemisti crucem passus,
tantus labor non sit cassus.

Gli ultimi versi, rompendo lo schema ternario della sequenza, ripetono con un contraddittorio ergo il capovolgimento che è avvenuto: proprio perché l'ira divina si deve abbattere sull'uomo, egli dev'essere salvato: «Iudicandus homo reus: / huic ergo parce, Deus». Nella contraddittorietà che alla poesia è concessa, e nella capacità che essa ha di raccogliere le profondità preziose dell'anima, forse la lex orandi possiede una sapienza che la riflessione teologica, nella sua affascinante avventura, deve ancora faticosamente scoprire.

[Di prossima pubblicazione in Maurizio Marin e Mauro Mantovani (curatori), Ira e sacrificio. Negazione dell'umano e del divino?, LAS, Roma 2003, pp. 453-472 (Biblioteca di Scienze Religiose, 185).]

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Potete leggere il commento finora pubblicato, sul tema del senso della sofferenza nella tradizione ebraica.

Note

  1. Già i risultati di una semplice ricognizione lessicale sono significativi: nel Nuovo Testamento il termine orgé (ira) compare 36 volte: eccettuate le poche occorrenze in cui essa viene condannata come un vizio umano (e l'unica in cui è riferita ad un incollerimento di Gesù in Ev.Marc., 3, 5), tutte le restanti si riferiscono alla collera escatologica di Dio. Alcuni esempi: «Chi vi ha suggerito di sfuggire dall'ira imminente?>» (Ev.Matth., 3,7 // Ev.Luc., 3,7); «L'ira di Dio rimane su di lui» (Ev.Jo., 3,36); «Si rivela infatti l'ira di Dio dal cielo su ogni empietà e ingiustizia di uomini» (Ep.Rom., 1,18); «Forse è ingiusto Dio che commina l'ira?» (3,5); «Per queste cose giunge l'ira di Dio sui figli della disobbedienza» (Ep.Eph., 5,6); «Gesù che ci salva dall'ira ventura» (1Ep.Thess., 1,10); «È giunta la tua ira e il tempo di giudicare i morti e di dare la ricompensa ai tuoi servi profeti» (Ap., 11,18); «Ed egli pigia il tino del vino della furia dell'ira del Dio onnipotente» (19,15). Testo

  2. La domanda posta in questi termini è piuttosto rozza, ma in modi più raffinati è stata posta molte volte nella storia della teologia cristiana. La sua formulazione più radicale forse si incontra nelle riflessioni sulla contingenza della redenzione: con essa infatti la salvezza umana viene riaffidata ad una logica storica e le implacabili geometrie della giustizia sono dislocate nel dramma della doppia libertà umana e divina. Entrambi i grandi scolastici, Tommaso d'Aquino (In libros Sententiarum, III, d. 20, q. un., art. 4: «Utrum fuerit possibilis alius modus satisfaciendi») e Giovanni Duns Scoto (Ordinatio, III, d. 20, q. un. «Utrum necesse fuit genus humanum reparari per passionem Christi») concordano nell'affermare che a Dio sarebbe stato possibile salvare l'umanità in modo diverso che tramite la morte del Figlio sulla croce. La risposta di Giovanni Duns Scoto sembra però di gran lunga più profonda e articolata: sia perché riconosce con onestà che la teoria di Anselmo, «salva reverentia sua» (n. 8), va sostanzialmente respinta proprio per il necessitarismo che essa implica; sia perché riconduce con decisione il tema della redenzione a quello dell'amore: «si Adam per gratiam datam et caritatem habuisset unum vel multos actus diligendi Deum propter se, ex maiori conatu liberi arbitrii, quam fuit conatus in peccando, talis dilectio suffecisset pro peccato suo remittendo, et fuisset satisfactum» (n. 8); sia perché, con una sensibilità storico-teologica stupefacente, anziché affidarsi a dubbi argomenti di convenienza individua il motivo della morte di Cristo, «contingens simpliciter et antecedens et consequens», nella sua parola contraria alla logica del potere religioso: «Christus igitur volens eos ab errore illo revocare, per opera et sermones, maluit mori quam tacere, quia tunc erat veritas dicenda Iudeis, et ideo pro iustitia mortuus est, tamen de facto sua gratia passionem suam ordinavit et obtulit Patri pro nobis, et ideo multum tenemur ei» (n. 10). Citiamo queste parole, che introducono un passo degno di comparire in tutte le antologie della teologia cristiana, se non altro per annullare l'impressione che i preziosi contributi contemporanei sui quali centreremo l'attenzione si presentino come massi erratici in un panorama grigio e univoco. Testo

  3. Malgrado le numerose opere successivamente pubblicate, i due testi degli anni 70 possono ancora essere considerati i fondamentali e solo ad essi ci riferiremo: La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972 (La violenza e il sacro, trad. it. di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Adelphi, Milano 1972); Des choses cachées depuis la fondation du monde. Recherches avec Jean-Michel Oughourlian et Guy Lefort, Grasset, Paris 1978 (Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Ricerche con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort, trad. it. di Rolando Damiani, Adelphi, Milano 1983). È interessante tuttavia notare come solo in anni recenti la discussione delle tesi di Girard in ambito teologico sia massiccia, probabilmente propiziata dall'esplicita adesione di questi al cristianesimo; la felice eccezione all'inizio degli anni 80 è costituita da Hans Urs von Balthasar, che nel terzo volume della Teodrammatica (il quarto nell'edizione italiana) dedica ben quindici pagine a Girard, dichiarando il suo progetto non solo teologicamente pertinente, ma «sicuramente il più drammatico che oggi si incontra nella soteriologia, anzi in generale nella teologia» (Theo-dramatik. III. Die Handlung, Joahannes, Einsiedeln 1980, p. 277), evidentemente per nulla dissuaso dal distacco rispetto alla dogmatica cristiana che Girard all'epoca ancora professava. Testo

  4. Lo stesso accostamento tra Levinas e Girard venne rapidamente proposto da Gianni Vattimo nel testo programmatico «Métaphysique et violence. Question de méthode» (Archives de Philosophie, t. 57, c. 1 [gennaio-marzo 1994], pp. 55-72), per suggerire che la soluzione di Levinas di rinnovare nel sacro lo spazio per la metafisica venga implicitamente smascherata come debitrice di violenza da Girard. Il nostro tentativo è esattamente opposto: capovolgendo l'ordine cronologico delle opere che analizziamo, intendiamo sostenere che la metafisica di Levinas già suppone come acquisito lo smascheramento della violenza e del meccanismo vittimario; ma su questo torneremo oltre. Di Levinas faremo riferimento a queste opere: Autrement qu'être ou au-delà dell'essence, Nijhoff, La Haye 1974 (Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, trad. it. di Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello, Jaca Book, Milano 1983); De Dieu qui vient à l'idée, Vrin, Partis 1982 (Di Dio che viene all'idea, trad. it. di Giulio Zennaro, Jaca Book, Milano 1983); Entre nous. Essais sur le penser-à-l'autre, Grasset, Paris 1991 (Tra noi. Saggi sul pensare-all'altro, trad. it. di Emilio Baccarini, Jaca Book, Milano 1998). Testo

  5. Lo stesso identico esempio viene usato da Girard (posto in bocca a Lefort): «Buona parte della cosiddetta gentilezza consiste nello scansarsi davanti all'altro per evitare le occasioni di rivalità mimetica» (Delle cose, p. 24). La prospettiva è qui però chiaramente diversa: si tratterebbe solo di un tentativo per evitare lo scontro, mentre in Levinas il gesto viene letto a partire dallo scontro (se così vogliamo dire) già avvenuto e in cui la soggettività ha già subìto una radicale riformulazione. Se la prima interpretazione ha il vantaggio della realistica sobrietà, la seconda ha il merito di investire di senso univoco un atto che -- come lo stesso Girard riconosce -- in sé è alla lunga fallimentare rispetto allo scopo e può innescare una speculare competizione della rinuncia (esemplificando: il «dopo di voi» scambiato all'infinito da entrambe le parti in gara per la maggiore gentilezza). Formulare questa differenza significa del resto portare alla luce ancora una volta la differente prospettiva dei due autori: analisi che esteriormente si assomigliano anche molto, in Girard sono messe a servizio di un chiarimento dei meccanismi dell'umano, in Levinas della proposta di un senso dell'umano. Tutto ciò non significa del resto, come vedremo meglio, che le due cose siano in conflitto. Lo stesso Girard ha del resto talvolta espresso simpatia nei confronti di Levinas: «Il grande filosofo Emmanuel Levinas citava sempre una frase del Talmud che è molto vicina allo spirito di quanto vado dicendo, una frase umoristica, tipica di quella tradizione: se sono tutti d'accordo nell'accusare qualcuno, rilasciatelo -- vuol dire che costui è innocente. L'unanimità accusatrice è sospetta in quanto tale! Essa suggerisce l'innocenza dell'accusato» (Sergio Benvenuto, «Differenza, identità, violenza. Conversazione con René Girard», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 5 (2003), disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/sb02.htm>). Testo

  6. C'è peraltro qualcosa in più. All'inizio di «Un Dio Uomo?», dopo aver enunciato i due temi che avrebbero guidato la sua breve riflessione, Levinas nota che queste idee, di origine teologica, possano tuttavia essere ritenute filosofiche nella misura in cui una fenomenologia è in grado di assumerle e rigorizzarle (Tra noi, p. 86). Poco oltre egli ribadisce che è il Dio-Uomo che «afferma l'idea della sostituzione» (p. 90). Pur sottraendo la tara che potrebbe derivare da una captatio benevolentiae nei confronti dell'uditorio cristiano al quale erano originariamente rivolte quelle parole, sembra difficile eliminare l'impressione che forse nel punto più decisivo della sua filosofia Levinas creda di poter recuperare nella riflessione fenomenologica un concetto che vede tematizzato con estrema chiarezza proprio nella dogmatica cristiana, dalla quale infatti riprende il termine tecnico di «sostituzione». Tutto ciò potrebbe perfino implicare l'imbarazzante e paradossale ammissione che nelle sue opere si trovino alcune delle pagine di teologia cristiana speculativa più interessanti dell'ultimo secolo. Testo

  7. Se dovessimo dare una qualche visibilità all'affermazione di Levinas, a prescindere ovviamente dal contesto strettamente teologico cui fa riferimento, sceglieremmo il diario di Etty Hillesum, la quale all'avvicinarsi del rombo distruttivo della persecuzione razziale nazista continua a ripetere che essa deve essere solo un'occasione per aumentare l'amore nel mondo, per «disseppellire Dio» dal cuore degli uomini. Tra le tante pagine sul tema: «Klaas, volevo solo dire questo: abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. [...] In fondo io non credo affatto nelle cosiddette "persone malvagie". Vorrei poter raggiungere le paure di quell'uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori. [...] E con la solita passione, anche se cominciavo a trovarmi noiosa perché finisco sempre per ripetere le stesse cose, ho detto: è proprio l'unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale» (Het verstoorde leven. Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, De Hann, Harlem 1981; Diario 1941-1943, trad. it. di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1996, pp. 211-212). Testo

  8. Ancora altri indizi militano a favore di una sotterranea parentela tra la demistificazione di Girard e la teoria della sostituzione di Levinas. Il primo è l'affinità tra l'individuazione della violenza della «rivalità mimetica» da parte del primo e la continua sottolineatura della «asimmetria» del rapporto con l'altro nel secondo. Si potrebbe avere la tentazione di interpretare le quasi parossistiche indicazioni di Levinas in tal senso quali appunto un sintomo dell'istintivo terrore provato dall'uomo per il «doppio», di cui parla Girard, finché non si riflette al fatto che le due posizioni hanno una parentela più solare: entrambe intendono essere riformulazioni esattamente dello stesso carattere dell'etica biblico-evangelica. Il secondo è più complesso, e riguarda il carattere «maschile» che in controluce attraversa in entrambi gli autori la connotazione della violenza. In Girard esso è connesso proprio con il concetto di rivalità mimetica e con i legami di questo con il «complesso di Edipo» ipotizzato da Freud; è vero che Girard afferma formalmente che «le due nozioni si escludono formalmente» (Delle cose, p. 427-8), ma solo perché entrambe intendono spiegare, in maniera mutuamente escludentesi, lo stesso genere di fenomeni: «Il complesso di Edipo [...] è ciò che Freud ha inventato per spiegare le rivalità triangolari, non avendo scoperto le straordinarie possibilità dell'imitazione in materia di desiderio e di rivalità» (p. 428). Il concetto di «rivalità mimetica» sembra insomma (questo può essere anche l'abbozzo di un'obiezione) l'estensione universale di un tipo di competizione che Freud aveva identificato come connessa allo sviluppo psicologico maschile (estensione che peraltro sembra ignorare la scoperta di Esiodo di una «contesa buona»!). In Levinas il carattere «maschile» risulta soltanto per contrasto, dalla connotazione femminile che egli ripetutamente attribuisce alla sostituzione, tappa finale dell'evoluzione di un'idea di femminilità misericordiosa vista come dimensione di passività essenziale ad ogni essere umano (abbiamo tentato di studiare questo tema in «L'altro e la misericordia. L'itinerario del femminile in Levinas», in Maurizio Marin, Mauro Mantovani (curatori), Eleos: «l'affanno della ragione». Fra compassione e misericordia, LAS, Roma 2002, pp. 71-89). Testo