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Credo nello Spirito Santo: la pneumatologia per la fede dei credenti

di Filippo Tramelli (Roma, 26-28 maggio 2011)

Veni, Sancte Spiritus,
et emitte caelitus
lucis tuae radium.

Gli studi di Karl Rahner e la formulazione del suo ormai celebre paradosso riguardante la Trinità, che nonostante sia l'oggetto della fede cristiana è tuttavia stata rimossa, hanno mostrato l'evidenza dello stato di generale difficoltà per la comprensione e la pratica di fede nel Dio trinitario. La teologa femminista Catherine Mowry LaCugna, ad esempio, che dedicò il suo lavoro alla ricerca di un modo per introdurre la dottrina della Trinità nella vita quotidiana dei cristiani, scrisse che proprio «il libro di Rahner inaugurò uno degli sviluppi teologici più significativi degli ultimi decenni con la restituzione alla dottrina della Trinità del posto che debitamente le spetta al centro della fede cristiana».1 Per tornare alle fondamenta della fede nel Dio rivelato da Cristo è dunque imprescindibile fare chiarezza sulle tre persone della Trinità, nonostante comunemente, nella pratica della loro vita religiosa i cristiani, che ogni domenica professano la fede in Dio Padre, Figlio e Spirito, appaiono "monoteisti generici".

In particolare la ripresa sistematica di un discorso sulla pneumatologia, ossia la scienza teologica sullo Spirito Santo, in relazione alla fede dei credenti, sembra quanto mai attuale soprattutto alla luce delle tendenze ecclesiali moderne che possiamo sintetizzare in due estremi: se da un lato assistiamo attualmente a una forte ripresa dell'esperienza di fede nello Spirito Santo all'interno dei movimenti ecclesiali carismatici, che promuovono una propria e peculiare spiritualità, dall'altro si verifica generalmente, nella quotidiana pratica religiosa dei credenti, una quasi totale dimenticanza della dimensione trinitaria e, più di tutti, dello Spirito Santo che sembra maggiormente risentire dell'oblio nella fede vissuta a professata. Alla fine del XIX secolo, la beata Elena Guerra, fondatrice delle Suore Oblate dello Spirito Santo, scriveva a Leone XIII: «Oggi si raccomandano tutte le devozioni, ma quella che dovrebbe essere la prima è dimenticata. I predicatori parlano della Madonna e dei Santi, ma dello Spirito Santo tacciono». Tale osservazione, applicabile probabilmente a ogni epoca del cristianesimo, è quanto mai attuale. Nonostante la Chiesa si trovi, dopo la resurrezione di Cristo, propriamente nell'epoca dello Spirito Santo, è difficile trovare in prospettiva dottrinale, pastorale ed ecumenica un equilibrio che porti alla comprensione di una cristologia pneumatica e di una pneumatologia cristologica riferite al mistero trinitario, nonché una relativa pratica di fede ad essa riferibile.

Crediamo dunque che una ripresa teologica della dinamica trinitaria e, all'interno di essa, una chiarificazione dell'ipostasi dello Spirito Santo, sia necessaria ed essenziale per fare luce sulle moderne incomprensioni, evitare gli estremismi e riportare la terza persona della Trinità al centro della fede, insieme al Padre e al Figlio, per accedere al completo mistero di Dio.

Se la dimensione propriamente teologica è la base per ogni interpretazione di fede, importante è anche ricuperare il riferimento alla dimensione ecclesiologica della Trinità, all'interno della quale tale fede si sviluppa. Dopo l'evento pasquale infatti è nella Chiesa che si è sviluppata la fede trinitaria come dottrina e come mistero di salvezza, custodita nel canone cristiano, nei simboli dei vari concili ecumenici, elaborata nei testi dei Padri della Chiesa e nella teologia medioevale e moderna, fino a giungere a noi dopo i recenti sviluppi teorici sull'identità tra Trinità economica e la Trinità immanente teorizzata da Rahner. Ne va della stessa identità del cristianesimo dato che «l'importanza della storia del dogma trinitario coincide con lo sforzo di mantenere nella sua integrità l'annuncio cristiano: Dio stesso si è comunicato, come salvezza definitiva dell'uomo, in Gesù Cristo e nello Spirito. La Trinità è dunque il mysterium salutis, la rivelazione e il dono della realtà vera ed eterna di Dio nel dinamismo della storia della salvezza».2

1. L'effusione Spirito, principio attivo della Chiesa

Evento decisivo per la vita della Chiesa, dopo la morte e resurrezione di Gesù di Nazareth, fu la Pentecoste dalla quale scaturì tra gli apostoli una nuova coscienza ecclesiale e un rigenerato slancio per l'evangelizzazione. L'esperienza della discesa dello Spirito di Dio si collega con la ricostituzione del gruppo dei dodici a Gerusalemme. Per comprendere adeguatamente gli avvenimenti, vista la difficoltà di un tentativo di ricostruzione storica della festa di Pentecoste vissuta dai discepoli dopo la Pasqua di Gesù, è importante considerare il contesto biblico. Nell'Antico Testamento, soprattutto negli scritti profetici recenti, l'attesa del rinnovamento definitivo di Israele è strettamente connessa con l'effusione dello Spirito di Dio. La discesa dello Spirito del Signore, con i tratti della teofania del Sinai, in cui la ruah di Dio concede e conserva la vita, è quella forza creatrice di storia in virtù della quale JHWH è attivo in Israele. Il profeta Ezechiele evidenzia come lo Spirito ristabilirà in modo definitivo il popolo di Dio: «Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno Spirito nuovo. [...] Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 26), mentre Isaia (59, 21) sottolinea come Spirito ed Alleanza siano legati reciprocamente e immediatamente: «Quanto a me, ecco la mia alleanza con essi, dice il Signore: il mio Spirito che è sopra di te e le parole che ti ho messo in bocca non si allontaneranno dalla tua bocca». In questo passo è in questione proprio l'istituzione dell'alleanza permanente e definitiva di Dio con il suo popolo. In tutte queste espressioni riconosciamo così la comprensione fondamentale anticotestamentaria dello Spirito di Dio come del soffio che concede e conserva la vita con una sottolineatura storico-salvifica: lo Spirito di Dio è quella forza creatrice di storia in virtù della quale Dio è attivo in Israele per la sua salvezza. È innanzitutto il popolo che fa l'esperienza dell'efficacia di questo Spirito, ma tali effetti riguardano anche i singoli israeliti.

Nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento emerge chiaramente e originariamente il legame inscindibile fra Cristo e lo Spirito. "Tutto l'«evento» di Gesù Cristo si spiega mediante l'azione dello Spirito Santo [...] per questo, una corretta e approfondita lettura dell'«evento» di Gesù Cristo -- e delle sue singole tappe -- è per noi la via privilegiata per giungere alla piena conoscenza dello Spirito Santo. La verità sulla terza Persona della santissima Trinità noi la leggiamo soprattutto nella vita del Messia: di colui che è stato «consacrato con lo Spirito» (At 10, 38). E una verità particolarmente chiara in alcuni momenti della vita di Cristo [...] il primo di questi momenti è l'incarnazione stessa, cioè l'avvento nel mondo del Verbo di Dio, che nel concepimento assume la natura umana e nasce da Maria per opera dello Spirito Santo: è «Conceptus de Spiritu Sancto, natus ex Maria Virgine», come diciamo nel Simbolo della fede".3 Tale legame con lo Spirito, che compare esplicitamente nei momenti topici della vicenda di Gesù, è anche nella nuova comunità formatasi a Gerusalemme: Cristo è colui che ha ricevuto lo pneuma dal Padre e lo effonde come dono dell'evento pasquale per i dodici e per l'intero popolo di Dio.

L'esperienza dell'effusione dello Spirito per i discepoli di Gesù divenne dunque il principio ermeneutico per la ricostituzione della cerchia dei dodici. La ricezione dello Spirito era la prova del fatto che Dio stesso ormai aveva iniziato il rinnovamento finale del suo popolo e questo conferì l'interpretazione di senso alla rinnovata trasmissione dell'incarico di raccolta del popolo di Israele.

Importante è il fatto che sia proprio il Cristo risorto a effondere lo Spirito, come afferma l'evangelista Luca nel libro degli Atti: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2, 23). In questo caso, così come in Lc 24, 29, è difficile ipotizzare che si tratti di una costruzione esclusiva dell'evangelista, perché il legame tra la resurrezione, l'elevazione di Gesù e l'invio dello Spirito si trova anche in diversi altri testi neotestamentari come Gv 20, 22 ss, racconto di apparizione in cui il risorto raccoglie e dà l'incarico ai discepoli, oltre a donare lo Spirito "alitando su di loro", cioè attraverso un diretto trasferimento del respiro di vita di Dio o 2Cor 3, 17, dove Cristo e lo Spirito sono posti in completa unità. Questi testi inoltre, diversamente dalla maggior parte degli scritti posteriori, intendono lo Spirito non solo come dono individuale per i singoli cristiani, ma piuttosto per i discepoli nella loro totalità, cioè per la Chiesa. È un'esperienza storica particolare del gruppo dei dodici quella richiamata da tale tradizione, dal momento che non può essere ricavata né dall'Antico Testamento né dalle rappresentazioni giudaiche contemporanee dello Spirito secondo le quali il Messia non è mai colui che amministra lo Spirito, ma semplicemente il "portatore" (Is 11, 1ss).

Sempre Luca dà nel libro degli Atti una grande importanza al racconto di Pentecoste, oltre che per il modo in cui lo espone, anche per i numerosi richiami nella seconda parte della sua opera storica4 con cui contrassegna tale evento come il fondamento dell'azione apostolica.

Durante la festa di Pentecoste, i dodici vennero a Gerusalemme per predicare ai giudei che Dio aveva risuscitato Gesù e lo aveva costituito Signore definitivo del popolo di Dio. Nella stessa occasione i discepoli fecero l'esperienza della presenza dello Spirito di Dio, atteso per il tempo finale. Si intuisce anche la necessità che il rinnovamento dell'incarico della raccolta escatologica di Israele venisse compresa attraverso la ricostituzione dei dodici e la ricezione dello Spirito: era la prova del fatto che Dio stesso aveva iniziato il rinnovamento finale del suo popolo. La salita a Gerusalemme dei dodici nel giorno di Pentecoste può dunque essere inserita nel contesto della tematica del Patto: i dodici, ricostituiti dal Risorto, si riunirono a Gerusalemme nella speranza del rinnovamento definitivo del patto di Dio col suo popolo. È qui che essi fecero l'esperienza con il suo Spirito, comprendendo il tempo escatologico: l'effusione dello Spirito di Dio su tutto il popolo, il nuovo patto, rivolto a tutto Israele. «Il significato della prima Pentecoste in Gerusalemme, perciò, congiungerebbe per il gruppo dei discepoli la presenza sperimentata dello Spirito di Dio come conseguenza immediata dell'elevazione di Gesù con il tema del rinnovamento del patto. Il tema del patto potrebbe aver acquisito allora la funzione di principio interpretativo dell'esperienza dello Spirito, poiché ne dischiuse il significato storico salvifico nell'orizzonte di Israele».5

Se dal punto di vista teologico determinante fu l'esperienza della novità escatologica, quale dono della presenza dello Spirito, dal punto di vista storico-ecclesiale i discepoli di Gesù fecero l'esperienza di un loro isolamento sempre più marcato in Israele. Anche se la Pentecoste per i dodici segnò la continuità dell'incarico pre-pasquale di raccolta del popolo e non una rottura, tuttavia la raccolta di tutto Israele, attorno al gruppo dei dodici come suo punto centrale, non ebbe luogo a causa del rifiuto del popolo giudaico. Tale circostanza li fece apparire agli occhi dei contemporanei come uno dei molti gruppi giudaici particolari, una hairesis (At 24, 5. 14; 26, 5), come ad esempio la comunità di esseni a Qumran o i discepoli di Giovanni, che però si specificò e si differenziò attraverso uno stile di vita e dei segni identificativi particolari come il sacrificio eucaristico e il battesimo che furono luoghi in cui si concretizzò in modo primario l'esperienza teologica di novità. La ripresa del battesimo dopo Pasqua può avere varie spiegazioni: come segno escatologico di sottomissione all'agire di Dio o come segno connesso con lo Spirito, così come annunciato dal Battista («Io vi battezzo con acqua ma viene uno più forte di me che vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», Mt 3, 16) per cui l'effusione dello Spirito di Dio per tutti in Israele è nel segno del battesimo che inserisce nell'ambito della salvezza determinata dallo Spirito. Il racconto del battesimo di Gesù, in cui Egli è proclamato Figlio di Dio e portatore dello Spirito, legittima la prassi dei primi cristiani che acquisiscono lo "status" di figli di Dio mediante lo Spirito nel battesimo. Per Paolo infatti6 il dono proprio del battesimo è il conferimento della filiazione che si attua mediante lo Spirito. Per cui solo il battezzato, in forza dell'efficacia dello Spirito Santo, può nominare Dio "Padre"; inoltre, come il battesimo si trova all'inizio della vita pubblica di Gesù, così avviene anche all'inizio dell'esperienza cristiana.

Gesù stesso è l'autorità che ha istituito il battesimo. Se il battesimo di Giovanni era collegato al potere del Battista che aveva ricevuto da Dio l'incarico di amministrarlo, ormai Gesù gli è subentrato: venendo lo Spirito di Dio del tempo finale direttamente da Gesù, la subordinazione sotto la potenza dello Spirito può aver luogo solo mediante il battesimo amministrato "nel suo nome". Le formule teologiche di At 10, 44-48 sottolineano come il battesimo "nel nome di Gesù Cristo" provenga direttamente dall'autorità di Cristo che amministra il battesimo perché portatore dello Spirito mentre At 8, 14-17 oltre a 1Cor 1, 13-15, il passaggio di potestà: come nell'Antico Testamento il popolo si riconosceva appartenente a Dio, proclamando su di sé il suo nome, così il credente in Cristo, confessando il suo nome, è incorporato nella sua signoria.

2. La dimensione trinitaria della comunione e ruolo dello Spirito

Il rapporto con Dio dell'Antico Testamento, con gli accenti della sottomissione, patto o alleanza, poteva essere superata dalla mediazione di Gesù con la sua incarnazione7 con l'immanenza stabile della trascendenza. La comunione con Gesù richiede anche la rinuncia alla mensa con i demòni, espressa nella questione degli idolotiti in 1Cor 10, 20 ss., per amore verso i fratelli più deboli (Paolo sa infatti che l'idolo è nulla). Per entrare invece in comunione con Gesù occorre partecipare alle sue sofferenze e al suo amore e rispetto verso il prossimo. Dalla partecipazione al sacrificio eucaristico si dipana così la rete della solidarietà e della carità. In Paolo si sottolinea come "appartenere a Cristo" significhi avere in sé lo Spirito Santo che ci rende figli adottivi e grazie al quale gridiamo "Abbà, Padre! ". Per l'Apostolo delle genti è proprio per mezzo dello Spirito che il cristiano realizza la propria esistenza relazionale con Cristo, con il Padre e con gli uomini. Chiamati dal Padre alla comunione col Figlio, questa comunione grazie allo Spirito, a sua volta, ci immette nella stessa comunione che il Figlio ha con il Padre.

Dalla comunione con Gesù e soprattutto la partecipazione a quelle sue sofferenze dalle quali emerse l'obbedienza al Padre, così come la speranza della resurrezione, si giunge all'incontro con lo Spirito di Dio. Tale affermazione appare evidente nei testi paolini. In particolare nel capitolo ottavo della Lettera ai Romani è scritto che per "appartenere a Cristo" bisogna avere in sé lo Spirito Santo, che è detto "Spirito di Cristo", ma anche "Spirito di Dio". Lo stesso Spirito di Dio, come ha risuscitato Gesù dalla morte, può risuscitare anche noi dandoci una vita nuova. Per Paolo è per opera dello Spirito Santo che siamo figli nel Figlio ed eredi del suo immenso patrimonio di vita: «Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! » (Rm 8, 14 ss). «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! » (Gal 4, 6). «Il rapporto che il credente ha con Dio è quello di Gesù con il Padre, espresso con la metafora dell'adozione e gridato nella invocazione 'Abbà! ', che fu in bocca a Gesù nel Getsemani (Mc 14, 36). Ed è il rapporto con Dio che solo lo Spirito riproduce nell'animo del credente. La koinonia, quindi, è detta da Paolo 'comunione del Santo Spirito' (2Cor 13, 13) non solo perché è partecipazione del credente alla vita dello Spirito Santo, né solo perché è dono infuso dallo Spirito nel credente, ma perché nello Spirito il credente realizza la totalità della propria esistenza come esistenza relazionale, come un esistere con Cristo, con il Padre e con gli uomini. Lo Spirito è quindi, nel pensiero di Paolo, il vincolo più intimo e profondo della relazione personale tra il Padre e il Figlio e, quindi, tra Dio, il Cristo ed i cristiani: egli è il principio attivo e dinamico della koinonia».8

La koinonia tou hagiou pneumatos che Paolo augura alla comunità di Corinto non può essere disgiunta dalla grazia del Signore Gesù Cristo né dall'amore di Dio. «Il cerchio trinitario così si compie e si chiude. In esso il credente è chiamato e coinvolto. E dentro di esso vivono e si muovono anche i rapporti dei cristiani fra loro. Così l'unione a Cristo, l'amore del Padre e la comunione dello Spirito costituiscono l'atmosfera vitale nella quale il cristiano respira e vive i suoi rapporti con gli altri. In conclusione si può dire che il Padre chiama l'uomo alla comunione con il Figlio e il credente vi risponde grazie all'opera dello Spirito. Così egli vive in Cristo, animato dallo Spirito e orientato verso il Padre».9

Lo Spirito inoltre fonda e abilita la testimonianza della Chiesa attraverso la vita, morte e risurrezione di Gesù, annunciati nel Vangelo, che costituiscono l'evento che dà accesso al mistero di Dio. La fede che precede Cristo è anticipazione di lui, mentre la fede dopo la sua venuta è testimonianza di lui. Paolo stabilisce anche una relazione tra lo Spirito e la Chiesa: lo Spirito fa della Chiesa il corpo di Cristo, mentre la Chiesa, mediante l'annuncio, conferisce allo Spirito una visibilità storica. Lo Spirito, quindi, garantisce la contemporaneità di Gesù al tempo della Chiesa, non lo sostituisce ma ne è il rappresentante, cioè lo rende presente, e abilita la Chiesa a testimoniare Gesù dopo che egli è stato designato come "il testimone di Dio".10 Lo Spirito consente e favorisce la decisione credente anche se non è contemporanea cronologicamente a quella degli apostoli e la mette immediatamente in rapporto con Gesù. Sempre lo Spirito garantisce che il corpo di Gesù sia custodito per tutti, nella forma di corpo scritturistico e sacramentale, dal corpo ecclesiale. Inoltre fonda il realismo della fede di coloro che "pur non avendo visto crederanno".11

L'annuncio che "Gesù è risorto ed è il Signore" è una professione di fede e nel suo accoglimento può avvenire la ricezione del battesimo. L'annunciatore racconta la sua esperienza di fede e, se questo racconto è a sua volta accolto con fede, crea tra l'annunciatore-testimone e l'interlocutore una comunione, che conduce alla stessa comunione con Dio di cui già il testimone partecipa e che è partecipazione alla comunione che lega fra loro il Padre e il Figlio. La comunicazione dell'esperienza di fede del testimone coinvolge l'interlocutore in un rapporto con Cristo operato in lui stesso dallo Spirito Santo, ponendolo nella comunione con cui Cristo è in comunione col Padre.

3. L'automanifestazione di Dio nell'effusione dello Spirito

La dinamica trinitaria riguarda nello specifico la comunicazione di Dio «così come è in se stesso, nella storia della salvezza e se vuole veramente auto-comunicarsi (ed è libero di farlo o non farlo), non può che manifestarsi così come è in sé, ossia come Padre che invia il Figlio ed effonde lo Spirito. Queste due condizioni devono essere verificate proprio nella missione del Figlio e dello Spirito. L'uomo trova il «suo luogo» dalla parte del Figlio e ha il suo senso in relazione a Lui».12 Nella missione dello Spirito tali condizioni si realizzano pensando il dono di grazia che trasforma l'uomo interiore non solo come creato, prodotto dall'unico Dio creatore, ma come Dio stesso che nello Spirito si comunica all'uomo e viene ad abitare in lui.13 È il dono dello Spirito, riversato nei nostri cuori (Rm 5, 5), che venendo nell'uomo vi fa abitare il Padre e il Figlio nel loro scambio d'amore. È sempre per il dono dello Spirito che l'uomo abita nel Figlio come il Figlio abita nel Padre (Gv 14, 20-23). In questa dinamica lo Spirito rende partecipe l'uomo dell'auto-comunicazione di Dio nel suo donarsi e rende presente in noi il donarsi del Padre nel suo Verbo che, nella sua proprietà personale di dono del Padre e del Figlio, è grazia. Arriviamo dunque all'importante distinzione per capire l'essenza dello Spirito che non è uno speciale dono creato, ma la stessa immediatezza di Dio nella sua comunicazione salvifica. È lo Spirito che pone in essere l'esperienza filiale in modo assoluto e immediato estendendo la verità di questa relazione alle creature stesse. Si tratta dello Spirito del Figlio e del Padre, l'eterno amore di Dio in persona comunicato agli uomini.

Serve intuire dunque come lo Spirito non diventi mai un dono accanto agli altri doni. È invece il legame per eccellenza che fonda ogni immagine, ma va al di là di esse: fa vedere, ma non è visto, illumina, ma non è luce percepibile con i sensi. «Il senso del dono dello Spirito è quello di far sperimentare la vicinanza salvifica di Dio in una vita nuova. Ma proprio questo tipo di azione dello Spirito ne rende difficile la conoscenza: lo Spirito è la luce in cui si vede il mistero di Dio sul volto di Gesù Cristo, è la potenza che comunica la vita e attrae al Padre, è l'amore che unisce a Dio e ai fratelli. Lo Spirito è ciò che fa vedere, fa vivere e fa amare, ma nel donare si sottrae senza poter essere a sua volta afferrato, visto, trattenuto. Non è oggettivabile al modo di un dato disponibile».14 In questa particolare struttura sta una delle principali difficoltà della pneumatologia: il cercare di identificare lo Spirito con certezza a partire dai suoi doni. Lo Spirito invece, come abbiamo visto, è comunione, rende unità la molteplicità, è vita che ristabilisce la relazione di Dio con il suo popolo come nella profezia di Ezechiele 37, 4-6: «Ossa inaridite [...] ecco, io faccio entrare in voi lo Spirito e rivivrete [...] saprete che io sono il Signore», è verità affidabile nella storia della salvezza. Lo Spirito è presente solo se si mantiene il legame con Gesù crocifisso, nell'invocazione costante e fiduciosa, nonostante la crisi e al di là della crisi (1Cor 2, 10-16). Da lì può scaturire ed essere accolto nello stupore, come accadde a Giobbe che, dopo la prova, poté dire al Signore: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42, 5) con quella che possiamo delineare come una "rigenerazione alla salvezza". Gesù è il kyrios e come tale ha la dignità di Jhwh e con Jhwh effonde lo Spirito sul popolo. Questo Spirito effuso non è un'energia divina, ma è un soggetto autonomo che manda avanti la storia della Chiesa. È un terzo che scaturisce dall'abbraccio del Figlio col Padre, è l'autocomunicarsi di Jhwh nel figlio Gesù, ma a modo a sé peculiare. Lo Spirito compare come terzo che il Padre e il Figlio donano per rendere partecipe l'uomo della loro unità.

La novità cristiana dello Spirito Santo è dunque totalmente legata alla novità di Gesù e definire chi sia lo Spirito dipende ultimamente dal legame con il Risorto in un percorso che parte dall'inizio del tempo fino ad arrivare sulla croce e nelle apparizioni post-pasquali. Lo Spirito è qualificato dalla relazione con il Messia: è opera del Padre, ma il Padre non è tale se non in relazione al Figlio. L'impossibilità di accedere a Dio come Padre al di fuori della rivelazione di Gesù come Figlio, non rende intelligibile la novità dello Spirito Santo: l'unica via è quella del Figlio nel legame con il Padre. La novità cristiana sta quindi nel rapporto tra lo Spirito e il figlio Gesù e la conseguente necessità dell'approdo a una pneumatologia cristologica. Ma così come è necessaria l'azione qualificante dello Spirito sul Figlio per capire la vicenda di Gesù, altrettanto si rende indispensabile una riflessione sulla missione del Figlio per comprendere l'effusione dello Spirito, ossia una cristologia pneumatica.

Nonostante la relativamente esigua attestazione nei vangeli dell'azione dello Spirito, la sua comparsa in momenti chiave della vicenda di Gesù -- il concepimento verginale, il battesimo, il digiuno nel deserto, la Pasqua -- aiuta a cogliere l'essenza cristologica, quello che Gesù sta realizzando, l'identità stessa del Figlio.

Lo Spirito qualifica inoltre il potere di Gesù di vincere il male e scacciare i demòni e il suo tempo come tempo finale, il tempo definitivo, perché il Figlio è venuto tra gli uomini. La conclusione logica dell'argomentazione di Gesù dopo la guarigione nel giorno di sabato in Mt 12, 28 («Ma se io mediante lo Spirito di Dio scaccio i demòni, è certo giunto fra voi il regno di Dio») è che la liberazione da lui portata è opera dello Spirito di Dio e segno dei benefici effettivi del regno di Dio che si sta già estendendo.

Proprio in quanto Figlio, Gesù è fin dall'origine il portatore dello Spirito che ha realizzato il tempo definitivo, è il messia definitivo perché è il Figlio tra noi.

Come riporta l'evangelista Luca in At 2, 33 è il Cristo glorificato che effonde lo Spirito: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo, che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire». Ma una volta effuso, questo Spirito diventa soggetto speciale della vita della Chiesa, anzi si dimostra esserne il vero protagonista: lo Spirito testimonia negli apostoli (At 5, 32: «Di queste cose siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che gli obbediscono»); riempie di sé i sette collaboratori degli apostoli e in particolare il martire Stefano; illumina Filippo (8, 29. 39); conferma la conversione di Saulo (9, 17); consiglia Pietro (10, 19), agisce nei primi pagani di sua iniziativa (10, 44-47; 11, 15-16); designa i primi missionari (13, 2. 4), conduce la missione di Paolo (13, 9; 16, 6-7; 20, 23); è responsabile delle decisioni del concilio di Gerusalemme (15, 28). È insomma Colui che guida la Chiesa, se questa è docile a ciò che lo Spirito le suggerisce.15

In Paolo lo Spirito e Cristo sono intimamente associati sino all'identificazione.16 Cristo e lo Spirito presentano funzioni del tutto simili: intercedono (Rm 8, 26b. 34), dimorano nei membri della Chiesa (Rm 8, 9-11), la vita cristiana si svolge «in Cristo»17 ma anche «nello Spirito».18

L'uomo, attraverso lo Spirito, è introdotto nella relazione di conoscenza e amore tra Padre e Figlio: È infatti per l'azione dello Spirito che l'uomo riconosce Gesù Signore (1Cor 12, 13) e può gridare "Abbà, Padre! " (Rm 8, 15 e Gal 4, 6); ma nessuno conosce il Figlio così come il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale Egli lo voglia rivelare (Mt 11, 25). Pertanto l'azione dello Spirito effuso da Cristo per l'uomo e nell'uomo lo introduce nell'auto-comunicazione divina paterno-filiale, senza diminuzioni o riduzioni creaturali, ed è finalizzata a "far abitare" l'uomo nella dinamica della vita trinitaria. Come la missione dello Spirito opera "l'inabitazione" nell'uomo del Padre e del Figlio, secondo la loro relazione di comunione, così come lo Spirito è in se stesso vincolo di comunione personale di Padre e Figlio, anche nell'anima umana è infuso lo Spirito secondo la sua proprietà personale, ossia secondo il suo essere comunione personale di Padre e Figlio. Questa dinamica teandrica difficilmente è vissuta in modo pienamente consapevole da chi ritiene quasi superflua la funzione dello Spirito per la relazione con il Padre e il Figlio per la vita da credente. Tale relazione è invece ineludibilmente legata allo Spirito e diventa condizione necessaria per il corretto accesso al mistero di Dio.

Arriviamo così a comprendere come l'effusione dello Spirito da parte del Figlio, sottoposto al dramma della croce, porti il cristiano a una nuova immediatezza con Dio. L'azione dello Spirito, nello scambio simbolico della "pedagogia filiale", mantiene la comunione al di là della crisi dell'immagine di Dio, rinnovando il dono. Questo Spirito, effuso a Pasqua, «si caratterizza ormai come Spirito di Gesù ossia del Figlio, il quale realizza nell'uomo la relazione di comunione esistente tra il Figlio Gesù e il Padre suo, instaurando una nuova immediatezza con Dio nella mediazione definitiva del suo dono».19

Se nell'Antico Testamento dal tempo dei Giudici fino alla Monarchia la ruah è dono di JHWH al popolo per la liberazione dai nemici, per poter rinnovare il suo dono, con la novità cristiana «lo Spirito compare come il compimento delle promesse di Dio (Lc 29, 49; At 1, 4-5) proprio perché abilita la libertà creata ad accogliere l'evento di Gesù Cristo come il dono definitivo e insuperabile dell'auto-comunicazione di Dio. Nello Spirito l'alleato incontra Gesù come l'autorivelazione di Dio che dona una vita nuova, un cuore nuovo e un nuovo mondo. In tal senso lo Spirito è innanzitutto un dono pasquale che dona accesso al mistero del Padre, ossia alla definitiva automanifestazione di Dio nella resurrezione del Figlio Gesù».20 Nell'evento pasquale lo Spirito di resurrezione garantisce e opera l'esperienza di salvezza per colui che si affida a Dio. Si realizza così una rinnovata comunione con Dio.

Concretamente, per la vita dei credenti, la fede nello Spirito non può essere solamente una teoria, svincolata dalla pratica di fede. È invece intrinsecamente esperienza della potenza divina.

Questa imprevedibile e gratuita immediatezza del rapporto di grazia con Cristo inoltre non può non darsi storicamente nella comunità cristiana. L'esperienza dello Spirito infatti, come considerato dal teologo tedesco Heribert Muhlen «è ordinata al Cristo corporeo, il quale è l'oggetto storico concreto di quest'esperienza e ne è insieme contenuto e riscontro. In quanto il Cristo non solo ci manda il suo Spirito come condizione di ogni possibile esperienza cristiana, ma anche si può identificare per la sua propria esperienza pneumatica (1Cor 15, 45) con la stessa comunità cristiana (1Cor 1, 13; 12, 12), il luogo proprio dell'esperienza del Cristo è la comunità. Perciò l'accesso al Cristo è soprattutto e anzitutto l'esperienza del suo Spirito nella comunità».21

4. Lo Spirito per la santità della Chiesa

Dopo aver cercato di esaminare le relazioni dello Spirito Santo nella dinamica trinitaria torniamo ad alcune precisazioni riguardo al simbolo battesimale, porta di accesso esclusiva alla piena comunione ecclesiale. Il credere "la Chiesa" come sacramento dello Spirito, come elemento dell'intera economia della salvezza, era presente già nelle prime confessioni di fede battesimali. Appena prima dell'immersione nell'acqua, il catecumeno doveva dichiarare pubblicamente la propria fede: la prima volta in Dio Padre, la seconda nel Signore Gesù Cristo, la terza nello Spirito Santo. Le più antiche professioni di fede giunte fino ai nostri giorni, sono nella forma di triplice domanda alle quali il battezzando doveva rispondere in modo affermativo. Nella forma più antica, la terza interrogazione chiedeva: «Credi nello Spirito Santo?». Dalla Tradizione apostolica di Ippolito, scritta all'incirca nel 215, sappiamo però che già verso la fine del II secolo la domanda rivolta a ciascun battezzando nella Chiesa di Roma era: «Credi nello Spirito Santo, nella santa Chiesa?»,22 in modo da sottolineare ulteriormente il legame tra la terza persona della Trinità e la sposa di Cristo che riscontriamo anche nel simbolo apostolico in opposizione alla minaccia degli gnostici.

E proprio contro gli gnostici Ireneo di Lione ribadisce che solo all'interno della santa Chiesa si può trovare lo Spirito Santo e ricevere i suoi doni. In tale contesto appare evidente che a quanti desideravano ricevere il battesimo venisse chiesto di professare la loro fede "nello Spirito Santo nella santa Chiesa", luogo eminente di azione dello Spirito.

Questo simbolo della fede, sebbene a volte inteso diversamente, potrebbe costituire, al di là delle divisioni sedimentate dalla storia, un valido punto di partenza per il dialogo ecumenico.

In tale prospettiva, nel 1937 Gustave Thils23 sottolineava come ad esempio non si dovrebbe più parlare di chiese vere o false, ma di «chiesa che verifica la totalità degli elementi costitutivi essenziali richiesti dalla rivelazione» e di «chiese che verificano più o meno queste esigenze». Ne deriva che le «chiese cristiane stanno tutte in comunione reale, ma questa comunione non è piena». Questi enunciati di fede sull'unità, santità, cattolicità e apostolicità della Chiesa richiedono anche un compito. L'enciclica Lumen Gentium afferma che le proprietà indefettibili della Chiesa sono un dono di Dio ad essa, sono imperfettamente realizzate perché donate ad una chiesa pellegrinante e saranno possedute in pienezza quando si compierà il Regno.24 In questo senso costituiscono anche un compito per la comunità ecclesiale e quindi una prova per la nostra fede. Non possono essere isolate dalla professione di fede nel Dio uno e trino e, essendo inserite nell'articolo di fede nello Spirito Santo, risultano giustificate e comprensibili eminentemente nel quadro dell'opera creatrice dello Spirito. La Chiesa, che nel Credo si confessa una, santa, cattolica e apostolica, in quanto ha la propria esistenza dall'agire di Cristo è una a motivo del suo agire unificante; è santa a motivo della santità dell'agire di Cristo sui peccatori, è cattolica a motivo della signoria sconfinata di Cristo a cui "è dato ogni potere in cielo e sulla terra"; è apostolica a motivo della missione di Cristo e dell'invio dello Spirito Santo, fondata sullo Spirito per mezzo degli apostoli di Cristo e avrà come compito l'apostolato nel mondo. Tali proprietà sono anche enunciati di speranza, perché la Chiesa deriva la propria esistenza dalla missione messianica di Cristo e dal dono escatologico dello Spirito.

5. Spirito ed ecumenismo: prospettive ecclesiologiche

Se nella storia della tradizione cattolica si ricorda soprattutto il carattere normativo e gerarchico della Chiesa e della sua dottrina, la tradizione della Riforma sottolinea invece la funzione critica e innovante propria del Vangelo. Finora non si è stati capaci di comporre le due tendenze in modo soddisfacente né sul piano teologico né su quello istituzionale. Ma questo tentativo di conciliazione non dovrebbe necessariamente mirare ad una comune struttura in cui articolare il ministero e la successione. In modo intelligente su questo punto il Concilio Vaticano II, ma ancor prima la Scrittura e la tradizione della chiesa antica, lascia alcune questioni aperte. Ciò che maggiormente interessa è una comune valutazione teologica delle strutture istituzionali nel loro rapporto con la Parola e lo Spirito, oltre alla capacità di coniugare la libertà del vangelo e dello Spirito, che soffia quando e dove vuole (cfr. Gv 3, 8), con quel Dio, con quello Spirito che si è voluto legare alla Chiesa concreta.

La visione entro cui si muovono le chiese ortodosse, al di là della discordanza sulla dottrina del filioque,25 potrebbe forse aiutare a risolvere questo problema. Esse infatti convengono, sostanzialmente, con la chiesa cattolica nel modo di intendere la successio apostolica nel ministero episcopale e nel considerare la chiesa concreta strutturata episcopalmente come il luogo, il segno e lo strumento dello Spirito di Dio. Ma per certi versi anticipano, seppure in termini diversi anche un'istanza importante degli stessi riformatori: più ancora della tradizione occidentale esse motivano la struttura episcopale in chiave pneumatologica e la inquadrano lucidamente nel complesso di una chiesa-comunione. In conclusione, anche dal punto di vista ecclesiologico sarà per noi importante considerare lo Spirito come una «parola tra le sponde», una parola tra il carisma e l'istituzione, riconoscendo la continuità nella discontinuità. Lo Spirito Santo infatti rinnova l'istituzione, la rianima, rimanendo fedele al dato cristologico.

6. Conclusioni

In questo breve excursus abbiamo cercato di approfondire la dinamica trinitaria in particolare dal punto di vista dello Spirito e della sua importanza per la vita di fede dei credenti e della Chiesa. Lasciando ad altra sede le precisazioni circa la dottrina sul filioque che portò nel 1054 alla separazione tra Oriente e Occidente abbiamo visto nondimeno come la Chiesa, fin dalle origini, sia eminentemente il luogo dell'incontro vivo e sempre attuale con il Dio Trinità, in particolare nei sacramenti e nella liturgia in cui si celebra la comunione col Padre e il Figlio per azione dello Spirito. «Ubi tres, Pater et Filius et Spiritus Sanctus, ibi ecclesia, quae trium est corpus26 Senza lo Spirito, così come senza il Padre o il Figlio, la Chiesa non potrebbe sussistere. L'unità della Chiesa rimanda dunque all'unità della Trinità. In questo nuovo spazio post pasquale dell'esperienza di Dio si celebra una liturgia, si impartiscono dei sacramenti e si innalzano preghiere a Dio che si strutturano immediatamente in maniera trinitaria. Questo vale anche per le benedizioni, secondo la "norma" di Ippolito (Traditio, 6), per le dossologie (1Clem. 58, 2), ma vale anche nella liturgia battesimale.27 La stessa preghiera eucaristica ha in sé una struttura trinitaria, in quanto realizza il movimento «a Patre per Filium in Spiritu Sancto ad Patrem». Si pensi infine al segno di croce che contraddistingue i cristiani di tutti i tempi e di tutte le confessioni. Così Ignazio di Antiochia si indirizzava alle varie comunità nelle sue lettere: «Cercate di tenervi ben saldi [...] nella fede e nella carità, nel Figlio, nel Padre e nello Spirito, al principio e alla fine. Siate sottomessi al vescovo e anche gli uni agli altri, come Gesù Cristo al Padre, nella carne, e gli apostoli a Cristo, al Padre e allo Spirito».28

Copyright © 2011 Filippo Tramelli

Filippo Tramelli. «Credo nello Spirito Santo: la pneumatologia per la fede dei credenti». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**46 B].

Note

  1. C. Mowry LaCugna, Introduzione, in K. Rahner, La Trinità. Testo

  2. A. Cozzi, Manuale di dottrina trinitaria, Queriniana, 2009. Testo

  3. Giovanni Paolo II, Lo Spirito Santo e Maria nel concepimento verginale di Gesù, Udienza generale, 4 aprile 1990. Testo

  4. At 10,47; 11,15-17; 15,8. Testo

  5. G. Rota, Appunti di Ecclesiologia, FTIS, 2010-2011. Testo

  6. Gal 4,5-6; Rm 8,15; cfr. Ef 1,5. Testo

  7. Cfr. 1Tim 2,5-6. Testo

  8. G. Rota, Appunti di Ecclesiologia; FTIS, 2010-2011. Testo

  9. Ibid.. Testo

  10. Gv 15,26-27 e 8,12-20. Testo

  11. Gv 20,29. Testo

  12. A. Cozzi, Manuale di dottrina trinitaria, Queriniana, 2009, cit., p. 15. Testo

  13. Gv 14,16; Gv 3,24; 4,12. Testo

  14. Ibid.. Testo

  15. At 2,7.11.17.29; 3,6.13.22. Testo

  16. 2Cor 3,17. Testo

  17. Rm 6,3s; Gal 3,27-28; Col 2,12; Col 3,3; Fil 3,1; 4,4; 2Cor 2,17; 12,19; 1Ts 5,12; Rm 12,5; 1Ts 4,16. Testo

  18. 2Cor 12,18; Gal 5,16.25; 1Cor 12,3.13; 14,2. Testo

  19. A. Cozzi, Manuale di dottrina trinitaria, 2009, cit., p. 218. Testo

  20. Ibid.. Testo

  21. H. Mühlen, «L'evento di Cristo come atto dello Spirito», in Mysterium Salutis VI, Queriniana, 1971. Testo

  22. Ippolito, La tradizione apostolica, 21. Testo

  23. G. Thils, Les notes de l'Église dans l'Apologétique Catholique depuis la Reforme (Gembloux 1937), pp. 343ss. Testo

  24. Lumen Gentium 39. Testo

  25. Accenniamo soltanto qui la posizione di Walter Kasper che proponeva una distinzione che rimanda all'immagine di fondo della vita trinitaria: quella occidentale pensa al Padre che pronuncia la Parola e in essa ama la sua divinità. Lo Spirito è l'amore che scaturisce dalla Parola pronunciata da Dio. E quella orientale in cui il Padre pronuncia la Parola con l'alito dello Spirito. In tal modo il Figlio e lo Spirito risultano co-originari nel loro procedere dal Padre (non c'è parola senza la voce che la dice). Rispetto a questi tentativi di distinguere è forse più utile indagare la differente sensibilità teologica. Due tratti caratterizzano il suo procedimento, il cui esito è "l'apofatismo". Testo

  26. Tertulliano, De Baptismo 6,2. Testo

  27. Did. 7,1.3, ove cita la formula di Mt 28,19. Testo

  28. Magn. 13,1-2. Testo

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