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Monoteismo ebraico e Dio trinitario. Note filosofiche «al confine»

di Paola Ricci Sindoni (Roma, 26-28 maggio 2011)

L'uomo non deve accontentarsi di un Dio pensato,
perché quando il pensiero svanisce, anche Dio svanisce.
In tutte le sue opere e in tutte le cose, l'uomo deve cogliere
Dio nel modo più sublime possibile

-- Meister Eckhart

In quel giorno il Signore sarà Uno e il suo Nome sarà Uno

-- Zc 14, 9

1.

Solo l'intensa caratura simbolica dell'idea geofilosofica di confine permette di avvicinarsi ad un tema così complesso: monoteismo ebraico, da un lato, forma assoluta e compatta di caratterizzazione univoca di Dio e, dall'altro, monoteismo trinitario cristiano, anch'essa forma assoluta, non compatta, all'interno della quale Dio si autodistingue in tre Persone, pur mantenendo la sua essenziale unità. Due mondi religiosi separati, immediatamente evidenti nella struttura teorica e metafisica, come nelle espressioni della pratica cultuale: lo Shema'Jisrael -- "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno" (Dt 6, 4) è inizio e ossatura portante della preghiera dell'ebreo, così come l'inizio cristiano si esprime attraverso le parole: "Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito santo".

Più che confine, sottile linea di demarcazione, ma anche di contatto fra due diversi territori, sembra qui profilarsi una sorta di muraglia, tale da giustificare storicamente le reciproche incomprensioni, e -- specie da una parte -- i conflitti armati e le persecuzioni, seminando di sangue i confini di questa lunga striscia di terra. Né si può subito pensare che quelle tragedie, culminate dentro l'Europa cristiana del Novecento con il più orribile annientamento degli ebrei nei campi di sterminio nazisti, abbiano trovato la loro spinta mortifera nell'antico antigiudaismo teologico, dando ragione a quanti suppongono che sia proprio il monoteismo, o, meglio, le sue tre espressioni, a generare violenza e sopraffazione; monoteismo, insomma, come forma del Dio esclusivo, proprietà unica, chiuso dentro il cerchio paralizzante del possesso.1 Se così fosse, si spalancherebbe subito un abisso e l'impossibilità teorica di guardare a questi due universi religiosi, se non nella forma dell'irriducibile differenza o nell'idea della contrapposizione e del vuoto.

Né appare proficuo -- almeno in questa sede -- tentare un qualche approccio scientifico, proprio degli storici delle religioni, volti a comporre analisi comparative; anche in questo caso l'idea di confine apparirebbe superflua, o -- se mai- utilizzata come frontiera, capace di far transitare alcuni elementi di quel codice genetico che apparenta la religione più antica con il cristianesimo, che da questa si è originata.

È necessario perciò un lavoro di misura, volto a rispettare la prospettiva altra che si apre davanti a chi sosta in quel simbolico confine, con l'avvertenza, difficile da sopportare, che il proprio territorio, fonte di identità e di appartenenza, non può che sporgersi, senza mai possedere o comprendere pienamente lo scenario vicino e al contempo lontano che si offre al suo sguardo. Occorre dunque situarsi al confine, anche perché la misura della troppa vicinanza non illuda rispetto ad una appropriazione di tipo sincretico, vera trappola ingenua di chi non suppone che l'apertura incondizionata nasconda in verità il desiderio di imprigionare l'altro dentro il proprio territorio. Neppure la troppa distanza giova a quanti si affidano ad un lungo sguardo prospettico, incapace sia di mettere a fuoco l'oggetto, sia di liberarsi dalla convinzione che, dopotutto, omogeneizzare le differenze rende più sicuro il mondo.

La filosofia, come esercizio di riflessione e pratica di un pensiero aperto e paziente, sostenuta da una razionalità allargata e disponibile a farsi provocare dall'esperienza di fedi diverse e dall'energia che queste suscitano dentro le dimensioni sociali e politiche dei rispettivi territori, può forse fornire la giusta misura di quel "sostare al limite", sulla linea del confine tra ebraismo e cristianesimo. Con il suo apparato concettuale, libero da presupposti fideistici come da verità già precostituite, può offrire lo spazio per indagare quei luoghi strategici che garantiscano, da un lato, il reciproco riconoscimento delle due differenti identità religiose, gelosamente legate al loro rispettivo "Nome" di Dio e, dall'altro, favoriscano la dilatazione di reciproci orizzonti ermeneutici, così da apprezzarne tutte le possibili consonanze.

Allo stesso modo in cui, entrando in un territorio straniero di cui si disconosce la lingua e le usanze, si prova ad avvicinarsi con cautela, cercando sì di vedere quanto si spalanca intorno, ma anche di captare quel mormorio sconosciuto, di ascoltare cioè quei suoni estranei affidandosi ai modi in cui l'altro vuol farsi comprendere, si può provare ad entrare nel complesso "tempio" linguistico in cui è custodito il Nome, quell'impronunciabile Nome in cui è avvolto il Dio di Israele e che rappresenta senza dubbio l'essenza propria del suo monoteismo.

2.

È questo il primo, inequivocabile messaggio da intercettare: il Dio di Israele è Nome indicibile perché impronunciabile, se non attraverso alcuni nomi comuni o espressioni del tipo, "il Signore dal Nome proprio". Per una sorta di convenzione linguistica comune a molte religioni, anche gli ebrei utilizzano il nome comune -- Dio -- "etimologicamente derivato dalla lingua indoeuropea *Dieus, legato a sua volta a *deiwa, che indica la luminosità della volta celeste, da cui Zeus, deus, divus".2 Anche la tradizione occidentale, come si sa, ha scelto questo termine per caratterizzare l'Essere supremo, scrivendolo con la lettera maiuscola Dio, appunto e declinandolo al singolare come segno della sua singolarità, dunque unicità.

Fedele al primo e secondo comandamento del decalogo sinaitico, oltre che avvertito dal racconto biblico del "roveto ardente" (Es 3, 13-15), il popolo ebraico esprime il suo credo monoteista, indicando con il Nome tetragrammato l'indisponibilità di Dio a farsi riconoscere nella sua specifica identità, scegliendo piuttosto di farsi incontrare nelle varie forme delle sue rivelazioni. All'inizio, infatti, sulla scena del roveto, sceglie di presentarsi a Mosè ricordando i suoi interventi dentro la storia dei patriarchi: " Io sono Elo-hìm di tuo padre, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco, Elo-hìm di Giacobbe" (Es 3, 15), nome che rinvia alla veridicità della promessa, ma non ancora alla sua piena realizzazione. All'incalzare interrogante di Mosè, Dio rivela infine il suo Nome, non prima di aver ricordato le gesta di liberazione da lui compiute, per salvare il suo popolo dall'oppressione egiziana: " Ehyeh asher ehyeh" " Sarò colui che sarò", utilizzando l'imperfetto -- futuro, quasi a voler proiettare la sua identità nel passato e nel futuro. Qualche versetto dopo Dio infine annuncia ai figli di Israele che lui, l'Elo-hìm in realtà si chiama con Nome impronunciabile tramite il tetragramma: Yod -- he-vav- he (Y-H-W-H), lettere senza vocali, senza possibilità di potersi dire. Elo-hìm ribadisce in tal modo di volersi far riconoscere, ma non attraverso un nome proprio pronunciabile, valido per tutti, nome che sia garanzia assoluta non tanto, o non solo della sua unità, ma anche della sua unicità. Nessuna affermazione, che non sia quella relativa alla promessa delle sue rivelazioni, totale rifiuto a rispondere in ordine alla sua identità che va oltre il mero esserci ed è proiettata leolàm, per sempre, dentro il futuro messianico.

Sarà Jehudah ha-Lewi, il filosofo medievale, autore del Khàzari, a commentare questo episodio del roveto, precisando:

Dio rispose dicendo: "Perché dovrebbero indagare su ciò che non possono comprendere? [. .] Dì loro soltanto "Ehjeh, che vuol dire "io sarò", cioè l'Essere che sarà trovato da loro quando mi cercheranno; non cerchino maggior prova di quella che Io mi sono trovato con loro, ed in questo modo mi accettino.3

La logica del nome, nel contesto biblico, è sempre legato alla verità che esso custodisce e al senso compiuto che promette: il significante fuso con il significato, come alludono i primi versetti di Genesi quando Dio affida ad Adamo il compito della nominazione di tutte le cose. Dentro tale dimensione linguistica è possibile riconoscere il carattere proprio del monoteismo ebraico: Dio si fa riconoscere attraverso le sue rivelazioni, pur essendo sempre al di là, oltre le sue manifestazioni: qui sta il senso dell'impronunciabilità del Nome che Dio riserva per sé e per il tempo messianico. Può dirsi al riguardo che esiste e al contempo non esiste un luogo privilegiato del suo esserci, così come esistono tanti nomi che lo chiamano, pur ponendosi sempre oltre tutti i nomi, affinché nessuno possa arrogarsi il diritto di possederlo, di farlo proprio e di brandire questo possesso come segno di sopraffazione sugli altri.

Vale la pena accennare, sia pure con brevi tratti, alla particolate teoria linguistica sul Nome, concepita dalla Kabbalah, secondo cui tutte le parole e tutte le lingue sorgono dalla scomposizione e dal dispiegamento del Nome impronunciabile, come con accenti diversi sostengono Isacco, il Cieco, Gigatilla, Abulafia, oltre che nei due testi più noti, il Sefer Yezirah e il Ma'ayan-ha-Hochmah, che significa "La fonte della saggezza" e che già nel 1651 aveva avuto molte ristampe, come ricorda Gershom Sholem.4 Qui si legge che ogni lingua ha la sua origine in due consonanti: la prima è la consonante yod, il cui segno grafico in ebraico -- simile a un piccolo uncino, puntiforme -- è la prima consonante del Tetragramma. La seconda è la consonante alef, prima lettera dell'alfabeto, segno dell'intonazione laringale che precede ogni emissione vocalica ed è per questo muta, impronunciabile, traccia originaria del Nome di Dio, suo esclusivo possesso, sua promessa messianica. Dirà in proposito Hermann Cohen:

La parola "nome" possiede per la sensibilità religiosa dell'ebreo una forza espressiva inesauribile. Il Nome di Dio non è più una parola magica, se mai lo è stata, ma è la parola mirabile della speranza messianica [...] . Il Nome stesso è destinato ad attestare un giorno l'unicità di Dio, a rendergli testimonianza in tutte le lingue, presso tutti i popoli. "Un giorno io convertirò tutti i popoli a una lingua più pura, così che tutti insieme invocheranno il Nome di Dio" . Questo è l'originario senso messianico del Nome di Dio.5

La sua attuale impronunciabilità è dunque soltanto il segnale potente di quel processo della redenzione finale, entro cui tutto troverà compimento nel Regno: proclamare l'unità di Dio significa per l'ebreo impegnarsi nella storia a realizzare l'unificazione dei nomi del Signore, riconducendolo al suo Nome proprio o, per dirla con Rosenzweig, conducendolo al di là del suo stesso Nome, così che nel cammino del tempo, nella disciplina etica, nelle azioni storiche trovino compimento tutte le promesse rivelative di Dio, così come lui le ha chiamate e volute. I nomi di Dio, insomma, recano testimonianza dei suoi attributi e sono riferiti a quegli atti da lui compiuti, quando si è messo e continua a porsi in relazione con il mondo dell'uomo.

Lo esplicita un midrash ad Esodo 3, 6 che afferma:

Il Santo, benedetto Egli sia, disse a Mosè: "Cosa cerchi di sapere? Sono chiamato secondo i miei atti. A volte sono chiamato 'El Shaddaj [Dio onnipotente], o Zeva'ot [eserciti] o 'Elohim [Dio] o: Yod -- he-vav- he (Y-H-W-H) ossia il Signore dal Nome proprio. Quando giudico l'umanità sono chiamato 'Elohim, quando faccio guerra contro il malvagio sono chiamato Zeva'ot, quando sospendo il peccato dell'uomo sono chiamato 'El Shaddaj, quando ho compassione del mio mondo sono chiamato con Yod -- he-vav- he, perché il tetragramma non significa altra qualità se non la misericordia, come è detto: "Signore, Signore, Dio pietoso e ricco di misericordia" (Es. 34, 6). Questo è il significato del versetto: 'Ehjeh 'asher 'ehjeh (Io sarò colui che sarò): sono chiamato secondo i miei atti (Esodo Rabbah 3, 6).

Posto in mezzo a due futuri: "Sarò colui che sarò", il Signore afferma una identità in fieri, ponendosi dentro l'intervallo da riempire con il tempo del linguaggio e della storia. La sua presenza nei giorni umani, denominata anche Shekinah, scandisce e accompagna le vicende umane, conservando al suo interno la tensione verso il compimento messianico, a cui deve poter tendere anche ogni uomo. Ed "è in questo scarto che l'Io divino si lascia declinare e coniugare nella grammatica del tempo umano [...] . Nel nominarsi al tempo futuro e nella modalità dell'im-perfetto, rivela sua esigenza di divenire, palesa la sua incompiutezza".6

Su tale prospettiva possono essere lette alcune icastiche espressioni messianiche di Rosenzweig:

Confessare l'unità di Dio, l'ebreo lo chiama: "unificare Dio". Infatti questa unità è, in quanto diviene, essa è diventare unità. E tale divenire è affidato all'animo e alle mani degli uomini. L'uomo ebreo e la legge ebraica: qui tra i due si gioca nulla meno che il processo di redenzione che abbraccia Dio, il mondo e l'uomo.7

Né si pensi che questo "divenire" di Dio significhi un mutare, un crescere o un aggiungere, esprime piuttosto l'idea che il Signore è presenza, sempre rivelazione in atto, Lui "c'è" non nell'ordine metafisico dell'essenza, ma nel senso buberiano di esserci come Er ist da, nel momento in cui di-viene per opera dell'uomo che lo ascolta, gli risponde, fecondando la storia e la vita di tutti, anche di Dio stesso, come si legge anche nel midrash Tehillim al salmo 91, 16: " Rav Abbahu disse: " Questa è una delle più importanti parole della Scrittura, che la redenzione di Israele è anche la redenzione del Santo, benedetto Egli sia"".

L'idea della ricapitolazione messianica, contenuta nel monoteismo ebraico, è ben presente anche in Paolo di Tarso quando, nella prima lettera ai Corinzi intravvede il Regno come tempo in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15, 26). È su questo nuovo scenario che conviene ora soffermarsi, sempre sostando "al confine" e sempre rimanendo in territorio ebraico, che guarda al nuovo Dio dei cristiani, un Dio molto diverso, un Dio Trinità.

3.

Guadagnare una prospettiva non cristiana sul monoteismo trinitario non è solo proficuo al fine di delineare qualche tratto comparativo fra le due religioni limitrofe, ma diventa produttivo per cogliere un differente orizzonte ermeneutico, un nuovo punto di osservazione in grado di stabilire le misure delle affinità e il peso delle differenze. Non fa meraviglia, in prima battuta, osservare come il pensiero teologico giudaico guardi con diffidenza questa espressione monoteista, colta come una sorta di triunvirato celeste, o -- per dirla con un rabbino molto accorto, di recente scomparso, come Pinchas Lapide -- " un triteismo, che dà l'impressione di una ricaduta nel politeismo pagano".8

La questione è antica e risale alle famose dispute interreligiose della Spagna del duecento, quando -- ad esempio -- rabbi Moses Ben Nachman da Gerona interrogava di fronte alla corte reale a Barcellona nel 1263 un giovane convertito, tale Paulus Christianus:

Chiesi a fra Pablo -- racconta il rabbino nel suo Milchemet Choba, ritrovato e poi pubblicato a Costantinopoli nel 1710 -- che cosa fosse allora la Trinità [. .] e lui rispose: " sapienza, volontà e potenza". Al che Ben Nachman replicò: "Anch'io confesso che Dio è saggio e non sconsiderato, possiede una volontà immutabile, è potente e non debole. Ma il concetto di Trinità è senza dubbio un errore [...] perché Lui, la sua sapienza, la sua volontà e la sua potenza sono un'unica cosa [...] . Secondo l'argomentazione trinitaria -- incalzava il rabbino -- si dovrebbe parlare di una quaternità, perché Dio, la Sua sapienza, la Sua volontà e la sua potenza sono quattro. [...] e addirittura cinque se vi si aggiunge la Sua vitalità". A quel punto fra Pablo si alzò e disse di credere nell'unità, che comunque include la trinità. Ma questo -- concludeva -- è un mistero così profondo che nemmeno gli angeli e i principi celesti comprendono.9

Di fronte alle perplessità dei cristiani, che nei secoli indicando l'autorità della comune Scrittura, facevano esplicito riferimento alle molteplici figure del Dio ebraico, secondo -- ad esempio -- la classica espressione: "Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe", al posto della più "monoteistica dicitura" Il Dio di Abramo, Isacco, e di Giacobbe, si rispondeva da parte ebraica che la Torah, aliena ad ogni definizione astratta, indicava le tre diverse esperienze di Dio da parte dei Patriarchi: un conto, insomma, è far riferimento alle molte rivelazioni di Dio, volte a delinearne differenti suoi attributi, presenti nella tradizione millenaria dal Talmud al Chassidismo, un altro è definire Dio attraverso una specifica caratterizzazione, che preveda la distinta complementarietà di tre differenti ma uguali persone nell'unico Dio.

La tradizione ebraica, infatti, non ha disdegnato nel tempo di parlare di Spirito santo, della ruach del soffio vitale creatore, che alleggia all'interno dello scenario della creazione, e neppure desta meraviglia, quando Dio è chiamato Shekinah, forma specifica della presenza di Dio nella storia: anche in questi casi non si intacca il monoteismo compatto, dal momento che questi "attributi" non fanno che illuminare la molteplice azione di Dio verso il popolo da lui scelto, concretizzatosi nel tempo con i tanti segni della sua giustizia, della sua misericordia, della sua sollecitudine, anche quando sembrava lontano o assente.

Ben differente, come si sa, è la posizione del Dio cristiano, il cui monoteismo prevede al contrario, non solo le diverse rivelazioni preparatorie, per così dire, di Dio, culminate nel tempo pieno con la comparsa di Gesù Cristo sulla terra, ma anche una "autodistinzione" di Dio stesso che si specifica nelle tre Persone "uguali e distinte", in relazione di comunione fra di loro.

La differenza non potrebbe essere più netta e precisa: siamo di fronte a due monoteismi assai diversi e inconciliabili, come diverse e inconciliabili sono le due religioni di ebraismo e cristianesimo. Eppure il sostare "al confine" permette di allargare lo sguardo e di scorgere una complessa e suggestiva corrente della Kabbalah di intonazione mistica, dove non è difficile intravvedere alcune insospettate consonanze. Rabbi Salman Schneur von Ladi, il fondatore della dinastia Lubawitsch, non ha timore a sostenere che "Lui è il conoscente, il conosciuto e la conoscenza. In Lui queste tre dimensioni formano un'unità indivisibile. [...] ".10 Qui i mistici kabbalisti sembrano affermare che ci troviamo di fronte a Tre, Dio stesso, il Suo Spirito e il suo Detto, in ebraico davar, in aramaico memra, i due antenati del Logos greco, concepito come unica rivelazione di Dio. Quando il coro degli angeli -- in Isaia 6, 3 -- canta: " Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria", in una sorta di triplicazione della santità di Dio, offre la base per una serie di speculazioni quasi trinitarie, presenti nell'ebraismo, anche se guardate con sospetto, come esortava rabbi Elieser, che dettò una sorta di regola ermeneutica generale per evitare letture erronee:

Tutti quelli che interpretano o traducono un detto biblico alla lettera sono bugiardi. Ma quelli che vi aggiungono qualcosa sono dei bestemmiatori, perché trasformano il Dio di Israele in una Trinità, cioè kavod, shekinah e Dio stesso.11

Un modo indiretto, ma significativo per evitare falsi contatti tra i due differenti monoteismi, ma anche espressione di una corrente sotterranea che, soprattutto in merito al messianismo, trovava qualche possibile consonanza.

È Gershom Scholem, ad esempio, a rileggere il secondo Testamento, soprattutto le lettere di Paolo, in direzione di una pronunciata messianicità, ricapitolatrice del differente monoteismo trinitario verso la forma escatologico-finale dell'unico Dio. Si legge infatti nella prima lettera ai Corinzi: "Ma capo di Cristo è Dio" (11, 3) ed ancora "Un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui" (8, 6); e più esplicitamente: "Uno solo è Dio che opera tutto in tutti" (12, 6), ed ancora: "Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio" (3, 22).

In tema di unificazione messianica Franz Rosenzweig sarà più esplicito; all'indomani della decisione di rimanere ebreo scriverà una lettera al cugino Rudolf Ehrenberg -- 31 ottobre 1913 -- in cui, elaborando una particolare esegesi della prima lettera ai Corinti e del versetto 6 del capitolo 14 del vangelo di Giovanni, focalizzerà il paradosso dei due monoteismi, differenti e al contempo simili:

Il cristianesimo riconosce il Dio dell'ebraismo, ma non come Dio, lo riconosce soltanto come "il Padre di Gesù Cristo". Esso riferisce se stesso al Signore, ma lo fa perché sa che solo lui è la via al Padre. Egli rimane come Signore presso la sua chiesa tutti i giorni fino alla fine del mondo. Allora però cessa di essere Signore e sarà anch'egli sottomesso al Padre e questi sarà -- allora- tutto in tutti (1 Cor 15, 28). Ciò che il Cristo e la sua chiesa significano nel mondo, è una cosa cui siamo d'accordo: nessuno viene al Padre se non attraverso di lui (Gv 14, 6).

Nessuno viene al Padre -- è però diverso se uno non ha più alcun bisogno di venire al Padre, perché è già presso di lui. E questo il caso del popolo di Israele (non del singolo ebreo). Il popolo di Israele, eletto da suo Padre, guarda fisso oltre il mondo e la storia, a quest'ultimo remotissimo punto quando questo suo Padre, questo stesso, sarà -- "tutto in tutto"- l'Uno e l'Unico. In quel punto, dove Cristo cessa di essere il Signore, Israele cessa di essere eletto: Allora Dio non è più "il suo" Dio.12

Se Rosenzweig scorgeva nel momento finale dell'evento messianico il punto di confluenza dei due monoteismi, conviene ora calpestare di nuovo, per così dire, quella simbolica linea di confine, guardando dentro, sia pure per breve cenni, al territorio irrigato dal cristianesimo, guadagnando in tal modo uno sguardo d'insieme.

4.

Qui subito si legge, seguendo una classica definizione di Gregorio di Nazianzio, che risale al 381 e che ancora oggi risulta teologicamente valida: "Indivisibilmente distinti, uniti nella diversità, Uno in Tre: è questa la divinità e i Tre sono Uno".13 Sintesi efficace e frutto del lungo lavoro dogmatico dei Padri della Chiesa, rivolti, soprattutto nel secondo Concilio di Costantinopoli a dotare lo Spirito santo di una sua specifica e autonoma personalità metafisica, così da completare la "canonizzazione" definitiva della Trinità.14

Al di là di questa complessa vicenda teologica che, seguendo la scuola di Adolf von Harnack, si sarebbe nutrita del patrimonio speculativo della filosofia greca,15 va subito precisato con Jürgen Moltmann che nell'attuale clima di riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo, la figura centrale del Dio trinitario, più che essere riconosciuta come frutto dell'elaborazione filosofico-teologica del Logos greco, va piuttosto colta all'interno della storia di Gesù, il Nazareno o, detto meglio, di quella del Cristo crocefisso. Questo taglio esegetico è davvero suggestivo:

La dottrina della Trinità -- sono sue parole -- non è altro se non la cornice concettuale che ci permette di comprendere la storia di Gesù come storia di Dio. La dottrina della Trinità è il compendio teologico della storia della passione di Cristo. Per mezzo di essa noi comprendiamo la storia della passione di Cristo come storia della passione divina.16

Queste dense affermazioni teologiche sembrano rimandare a due elementi distinti e al contempo correlati, che si offrono anche all'attenzione della filosofia: da un lato l'idea che il monoteismo trinitario riflette l'esperienza della sofferenza di Dio, ben presente -- fra l'altro -- in molte pagine del primo Testamento, come il filosofo ebreo Heschel ha più volte esplicitato quando parla di pathos di Dio.17 Dall'altro Moltmann indica nel Cristo crocefisso sul Golgotha, nucleo generativo della fede cristiana, "la" specifica rivelazione dell'"autodistinzione" di Dio: il Padre dona il Figlio al mondo nello Spirito.

Nonostante le scarse formule trinitarie presenti nel Nuovo Testamento, la fede cristiana nel Dio trinitario è già presente, prima della sua elaborazione teologico-dogmatica, proprio perché l'evento divino della croce mette in opera, per così dire, il movimento trinitario: nel grido di abbandono del Figlio sulla croce, Dio consegna/lascia/abbandona Gesù Cristo alla sua morte, lo affida definitivamente alla storia degli uomini, lo lascia alla finitezza peccaminosa della morte: "Dio lo ha fatto peccato in nostro favore", dice Paolo (2 Cor 5, 21).

Hans Urs von Balthasar svilupperà ulteriormente questo evento cristologico, spingendosi ad affermare:

Nell'amore del Padre si trova una rinuncia assoluta ad essere Dio solo per se stesso, un lasciare andare dell'essere divino e, in questo senso, una (divina) a-teità (naturalmente nell'amore), che non è lecito confondere in nessun modo con l'a-teismo intramondano, ma che tuttavia fonda (superandola) tale possibilità.18

Soprattutto nel Sabato, successivo a quel Venerdì di morte, è possibile rintracciare l'interna struttura trinitaria di Dio, che va oltre la rigidità monistica e identitaria dell'essenza metafisica divina. Guardare l'abbandono mortale nella tomba come un "evento" che riguarda solo il Figlio significherebbe ammettere che all'interno della vita di amore trinitario sia avvenuta una lacerazione arbitraria, che avrebbe finito con il compromettere la relazione e la comunione, quasi una rovina dentro l'economia trinitaria. Da qui la percezione che le tenebre dell'abbandono del Figlio non rappresentino un segno di alienazione dal Padre, ma abbiano la loro radice proprio nelle tenebre del Padre. Le tenebre, la notte, il peccato è come la riserva del Padre, quella "porzione", per così dire, che egli, in qualità di creatore, ha separato dalla luce e che si è riservato per sé. Ora queste tenebre, raccolte nel sabato santo -- nota Adrienne von Speyr, la mistica svizzera vicina a von Balthasar -- se le assume il Figlio con la discesa agli inferi; tutto quanto c'è di imperfetto, di deforme e di caotico il Figlio può riportarlo, in quanto redentore, sotto il suo possesso. Questo perché vuole essere immagine perfetta del Padre e il Padre riconosce in questa obbedienza cadaverica il mistero recondito del loro legame amoroso: là dove la loro estraneità diventa la forma della loro grande intimità.19 Grazie a queste tenebre, che ora sono proprietà comune, lo Spirito Santo, quale presenza di Dio nel tempo, effonde nella storia questa creazione assolutamente nuova, sorta dalla relazione immutata all'interno delle tre persone divine, così che anche il dolore e la morte dell'uomo, per nulla private del loro tragico peso, possano essere coinvolte dentro quell'"oltre" rivelato dalla corrente di vita-morte, annunciata dalla vicenda della croce.

Nell'abbandono storico della morte di Gesù sulla croce -- continua Moltmann -- è possibile scorgere l'abbandono del Figlio ad opera del Padre deciso sin dall'eternità. Non risparmiando nemmeno il proprio Figlio, il Padre risparmia tutti gli abbandonati da Dio. Abbandonando il suo proprio Figlio, egli diventa salvatore di tutti gli abbandonati da Dio.20

Nell'abbandono di Gesù ad opera del Padre, così che il Padre abbandona il Figlio ed anche il Figlio abbandona il Padre, si determina "una frattura" in Dio stesso, tanto profonda da sanare qualsiasi altra frattura che tra Dio e l'uomo si compie, attraverso il peccato e il giudizio. Nell'auto- distinzione trinitaria, "accaduta" con la morte del Figlio sulla croce, Dio si lascia comprendere non tanto per la sua sublimità, per la sua Grazia o il suo giudizio, quanto piuttosto per l'amore, così come si legge nei noti versetti di Giovanni: "Così Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3, 16).

Ciò sembra significare che l'amore non è un attributo di Dio o una possibile forma di rivelazione, ma inerisce all'essenza stessa, non nel significato speculativo del termine, ma nel senso del suo più proprio essere vita per l'altro: Dio è donazione di sé che trova il punto più alto nel dono della sua vita sul Golgotha; l'autodonazione è dunque movimento interno dell'amore, sua necessaria rivelazione, che si esprime dando qualcosa di sé all'altro. Il Padre dà il Figlio, il Figlio dà se stesso per noi, e ciò avviene per mezzo dello Spirito, come si legge nella lettera agli Ebrei: " Il sangue di Cristo, il quale con lo Spirito eterno, offrì se stesso immacolato a Dio, purificherà la vostra coscienza dalle opere morte" (Ebr 9, 14).

La forma trinitaria di Dio, insomma, è funzionale alle dinamiche dell'amore che, esprimendosi nelle molteplici forme del dono, sia autolimita, si sacrifica, soffre e patisce l'opacità del mondo, così che la storia della sofferenza del mondo diventa la storia della sofferenza di Dio. Non più consegnata alla signoria della morte, la storia in tal senso è spinta, grazie anche all'opera dei credenti, verso la ricapitolazione escatologica, verso quella unificazione finale di Dio tutto in tutti (1Cor 15, 24), che Paolo coglie come estrema, acuta realizzazione dell'amore trinitario.

Prima che nell'elaborazione teologica del IV secolo, come si diceva, questa intensa percezione dell'autocomunicazione di Dio che dona il Figlio, distinguendosi da lui e dallo Spirito, è presente in molti testi cristiani delle origini, per lo più contemporanei alla redazione dei vangeli canonici: si pensi al bellissimo testo Didachè, con il suo insegnamento circa la "via della vita" prodotta dall'azione trinitaria, contrapposta alla "via della morte", o alla Lettera di Clemente, indirizzata alla chiesa di Roma e che disegna l'impronta trinitaria degli autentici apostoli.21 Valga come esempio questa citazione tratta dalla lettera di Ignazio (110-120 d. C.), che così si rivolge agli abitanti di Efeso:

Ho appreso che di là sono passati alcuni, portatori di un cattivo insegnamento, ma non avete permesso che seminassero tra voi e avete chiuso le orecchie per non accogliere la loro semente, in quanto siete pietre del tempio del Padre, preparati per la costruzione di Dio Padre, sollevati in alto dalla macchina di Gesù Cristo, ossia dalla croce, usando dello Spirito santo come fune. La vostra fede è la nostra guida, l'amore è la via che porta a Dio.22

È alla fine della via che porta a Dio, che occorre guardare, così i credenti cerchino la parola futura che ancora non c'è, come allude il carattere relativo all'impronunciabilità messianica del Nome, oppure attendano escatologicamente il ritorno del Figlio e la riconsegna dei Nomi all'unico Nome. Quel Nome che alla fine esprima che Dio è sempre oltre, sempre più grande delle sue rivelazioni.

Da qualsiasi lato del confine si vogliano osservare le differenti rivelazioni di Dio nelle sue irriducibili modalità di presenza nel mondo, un unico imperativo religioso sembra imporsi. Di fronte alle persistenti degenerazioni del sacro, ammantate di potere e di ideologia, che nei secoli hanno macchiato la difesa gelosa dei diversi monoteismi, occorre restituire a Dio "l'odore di santità", come suggerisce Levinas,23 che appartiene solo al Dio vivente e che al credente é dato di custodire "con labbro chiaro", come si legge in Sofonia (3, 9), ossia con parola leggera, con filo vocale agganciato all'Unico.

Copyright © 2011 Paola Ricci Sindoni

Paola Ricci Sindoni. «Monoteismo ebraico e Dio trinitario. Note filosofiche «al confine»». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**38 B].

Note

  1. Fra la vasta bibliografia sull'argomento, valga il recente P. Sloterdijk, Gottes Eifer. Vom Kampf der drei Monotheismen, trad. it., Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi, Raffaello Cortina, Milano 2008. Testo

  2. R. DI Cesare, Grammatica dei tempi messianici, Giuntina, Firenze 2011, pp. 65-66. Testo

  3. Yehudah HA-Lewi, Il re dei Khazari, trad. it. Boringhieri, Torino 1960, pp. 195-196. Testo

  4. G. Scholem, Der Name Gottes und die Sprachtheorie der kabbala, trad. it. Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 2010, p. 50 e sgg. Testo

  5. H. Cohen, Jüdische Schriften , vol. I, Schwetschke, Berlin 1924, p. 63. Testo

  6. R. DI Cesare, Grammatica dei tempi messianici , cit., p. 62. Testo

  7. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, trad it. La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 439. Testo

  8. P. Lapide --J. Moltmann, Jüdischer Monotheismus --Christliche Trinitätslehre. Ein Gespräch, trad. it. Monoteismo ebraico -- dottrina trinitaria cristiana. Un dialogo, Queriniana, Brescia 1980, p.18. Testo

  9. Ivi, pp. 20-21, nota n.15. Testo

  10. Ivi, p.24 Testo

  11. Midrash Agadol, ed. a cura di S. Schchter, London 1902 su Es 24,10. Testo

  12. F. Rosenzweig Die Schrift: Aufsätze, Übertragungen und Briefe, trad. It. La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929,a cura di G. Bonola, Città Nuova, Roma 1991, p. 288. Testo

  13. Patrologia greca 36,345D. Testo

  14. Cfr. al riguardo: P. Coda, Dio Uno e Trino, Rivelazione, esperienza e teologia del Dio dei cristiani, Paoline, Cinisello Balsamo 1993. Testo

  15. Cfr. A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, trad. it. Storia del dogma, Claudiana, Torino 2007. Testo

  16. P. Lapide --J. Moltmann, Monoteismo ebraico -- dottrina trinitaria cristiana. Un dialogo, cit., p. 34. Testo

  17. Mi permetto di rinviare al mio: Heschel. Dio è pathos, Il Messaggero, Padova 2002. Testo

  18. H.U. von Balthasar, Theologie der drie Tage,trad. it. Teologia dei tre giorni, a cura di G. Ruggeri, Queriniana, Brescia 1990, p. 111. Testo

  19. A. von Speyr, Das Johannesevangelium I, Das Wort wird Fleisch, trad. it. Il Verbo si fece carne. S. Giovanni. Esposizione contemplativa del suo vangelo, Jaca Book, Milano 1982. Testo

  20. P. Lapide --J. Moltmann, Monoteismo ebraico -- dottrina trinitaria cristiana. Un dialogo, cit., p. 42. Testo

  21. E. Prinzivalli -- M. Simonetti, Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini, vol. I, Fondazione Lorenzo Valla/ Arnoldo Mondadori, Milano 2010. Testo

  22. Ignazio agli Efesini, in Ivi, p. 351. Testo

  23. E. Levinas, Du Sacré au Saint, Cinq nouvelles lectures talmudiques, trad. it. Dal Sacro al Santo. Cinque nuove letture talmudiche, Città Nuova, Roma 1985, p.102. Testo

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