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L'originalità del Verbum nel De Trinitate di Agostino d'Ippona

di Gaetano Piccolo (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. Introduzione

L'obiettivo del mio intervento è quello di mettere in luce i tratti originali della dottrina della conoscenza che emerge dal De Trinitate di Agostino d'Ippona. Parlo di originalità rispetto a riletture riduttive di tipo platonico o neoplatonico, ma anche originalità rispetto al peso, poco riconosciuto, che la filosofia stoica ha avuto nella prima fase del pensiero di Agostino. I luoghi principali in cui questa originalità appare più evidente sono lo sviluppo del concetto di verbum (concetto ricavabile per induzione mediante l'analisi degli usi del lemma verbum e della famiglia lessicale cui fa riferimento) e il concetto di notitia, come emerge dal De Trinitate (specificamente il rapporto tra notitia e verbum).

A tale scopo è necessario rilevare alcuni passaggi decisivi nello sviluppo del concetto di Verbum, per far emergere da quale concezione Agostino si sia affrancato. Mi riferirò pertanto innanzitutto alla funzione assegnata alle parole nel De magistro, uno scritto databile al periodo tra il 388 e il 390,1 quindi nella fase a cavallo tra il periodo di Cassiciaco, quello dei Dialoghi, e il ritorno in Africa, che segnerà poi l'inizio del periodo del presbiterato e quindi dell'episcopato di Agostino. Per seguire il percorso dello sviluppo del concetto di verbum sarà necessario ampliare la riflessione all'intero ambito dei signa, di cui i verba fanno parte (secondo una relazione non univoca).

2. Struttura e scopo del De magistro

Per capire un testo di Agostino è sempre utile partire dall'interpretazione che ne dà Agostino stesso. A proposito del De magistro Agostino ne spiega così il senso in Retractationes I, 12: «In quo disputatur et quaeritur, et invenitur, magistrum non esse, qui docet hominum scientiam, nisi Deum, secundum illud etiam quod in Evangelio scriptum est: Unus est Magister vester Christus».

L'analisi della struttura del De magistro conferma la veridicità dell'interpretazione agostiniana.2 Al fine di mostrare che Cristo è l'unico maestro (Mt 23, 10), Agostino costruisce tutta la prima (e più ampia) parte del libro, nella quale mette in luce l'incapacità delle parole, e di conseguenza di coloro che usano le parole, cioè i cosiddetti maestri umani, di insegnare.3 Il limite della trattazione di Agostino sta nel fatto che la sua pars destruens, nella quale dimostra l'incapacità della locutio ai fini dell'insegnamento, è una condizione necessaria per affermare che l'unico maestro è Cristo, ma non è una condizione sufficiente. Dal momento che non sono le parole dei maestri ad insegnare, la possibilità dell'insegnamento va certamente ricercata altrove, ma ciò non vuol dire necessariamente che l'alternativa debba essere il maestro che insegna dentro.4

Il De magistro si potrebbe prestare ad una rilettura platonica molto riduttiva. In realtà la maieutica agostiniana che emerge dal libro presenta significative differenze rispetto alla maieutica socratica descritta per esempio da Platone nel Menone, il dialogo a cui si suole accostare il De magistro.

Agostino per esempio non pone l'accento sul ruolo del maestro umano, al contrario egli vuole evidenziare l'autonomia del discepolo nel rinvenire la verità nell'interiorità. Mentre l'obiettivo della maieutica socratica è il portar fuori le verità custodite nella memoria, l'indicazione fornita dalla locutio nel De magistro è piuttosto quello di ritornare dentro, perché è l'interiorità il luogo in cui si può vedere la verità (totum conspicere):

Velut si abs te quaererem hoc ipsum quod agitur, utrumnam uerbis doceri nihil possit, et absurdum tibi primo uideretur non ualenti totum conspicere, sic ergo quaerere oportuit, ut tuae sese uires habent ad audiendum illum intus magistrum, ut dicerem: ea quae me loquente uera esse confiteris et certus es et te illa nosse confirmas, unde didicisti?5

E più avanti:

At istas omnes disciplinas, quas se docere profitentur, ipsiusque uirtutis atque sapientiae cum uerbis explicauerint, tum illi, qui discipuli uocantur, utrum uera dicta sint, apud semetipsos considerant interiorem scilicet illam ueritatem pro uiribus intuentes.6

Un'ulteriore differenza significativa sta proprio nel riferimento al ricordare (commemorare o commonefacere). Lungo il dialogo ci si rende conto infatti di un progressivo spostamento dell'attenzione: la domanda-risposta che apre il dialogo individua nell'insegnare e imparare gli scopi del parlare, ma sin dal primo capitolo, anche a livello quantitativo di occorrenze, l'imparare è nettamente sostituito dal ricordare come scopo del parlare. Quando però si arriva al capitolo 9, anche il ricordare scompare dagli scopi del parlare. Lo scopo è individuato unicamente nell'insegnare. È proprio questo trascurare consapevolmente l'aspetto della memoria che allontana ulteriormente il De magistro da riduttive riletture platoniche:

Quod si haec uera sunt, sicuti esse cognoscis, uides profecto, quanto uerba minoris habenda sint quam id propter quod utimur uerbis, cum ipse usus uerborum iam sit uerbis anteponendus; uerba enim sunt, ut his utamur; utimur autem his ad docendum.7

Per capire quale sia il sostrato filosofico dominante nel De magistro, è necessario seguire lo sviluppo della riflessione su quel particolare tipo di segni che sono le parole.

Su un totale di 14 capitoli, i primi 9 sono dedicati infatti alla descrizione del funzionamento dei segni, per poi arrivare al cuore della trattazione in De magistro 10, 34 dove Agostino capovolge improvvisamente quello che sembrava l'esito scontato del libro: in realtà «per ea signa, quae verba appellantur, nos nihil discere». L'enigma del De magistro è capire perché le parole non insegnano nulla. La demolizione del ruolo delle parole nell'insegnamento non solo consente ad Agostino di giungere alla conclusione che gli interessa, ossia l'esegesi di Mt 23, 10, ma anche di ridefinire i limiti e i compiti della locutio.

Nella prima parte del De magistro, Agostino offre una sua classificazione dei segni, distinguendo tra i segni che mostrano altri segni e i segni che mostrano le cose. Le cose (res) a loro volta sono distinte tra le cose che vengono mostrate per mezzo dei segni e le cose che possono essere mostrate senza segni.

I limiti dei segni sono anticipati nel capitolo 9, dove Agostino fornisce una gerarchia nel rapporto tra verba, locutio e docere sulla base del principio aristotelico secondo cui ciò che serve per qualcosa è inferiore a ciò in funzione di cui esiste8: le parole pertanto sono a livello più basso di una scala che porta alla locutio e quindi al docere. Questa è la premessa del capovolgimento che troviamo nel capitolo 10 del De magistro. La tesi centrale è che le parole non ci consentono mai di conoscere un oggetto che non conosciamo già. L'esempio di Agostino è quello del termine 'sarabara' che egli riprende dal libro di Daniele.9 Se infatti non conosciamo già questo oggetto, il nome, da solo, è del tutto incapace di farcelo conoscere:

Cum enim mihi signum datur, si nescientem me inuenit, cuius rei signum sit, docere me nihil potest, si uero scientem, quid disco per signum?10

Un primo grado di conoscenza sta dunque nella visione dell'oggetto. Infatti sono le cose stesse che insegnano, non le parole:

Non enim, cum rem ipsam didici, uerbis alienis credidi, sed oculis meis; illis tamen fortasse ut adtenderem credidi, id est ut aspectu quaererem, quid uiderem.11

Se infatti non conosciamo in precedenza un oggetto, il nome da solo non ci consente di conoscerlo, ma d'altra parte se conosco già quell'oggetto, il nome semplicemente mi rievoca l'oggetto, ma ciò non vuol dire che me lo faccia conoscere. Le parole possono talvolta suggerire dove volgere l'attenzione: è il caso dei termini deittici che spesso sono accompagnati da un gesto.

L'incapacità delle parole di insegnare potrebbe essere definita come vuoto epistemico del segno. Per Agostino la conoscenza avviene infatti nell'interiorità, perché è il solo luogo in cui, superando la frammentarietà del reale è possibile vedere l'intero (totum conspicere). Le parole affettano i sensi e indicano dove cercare, ma non entrano nell'interiorità. Si tratta di capire perciò che cosa induca Agostino a tenere le parole fuori dall'interiorità. Una delle piste possibili rimanda alla nozione stoica di segno, che Agostino sicuramente conosceva.12

Agostino assegna dunque alle parole due funzioni principali: una funzione evocativa (richiamare alla mente l'oggetto già conosciuto) e una funzione segnaletica (indicare dove portare lo sguardo, adtendere, per trovare l'oggetto che mi consente di apprendere). In questa fase del pensiero di Agostino, il modello rappresentativo, di una conoscenza per immagine, sembra dunque essere prevalente rispetto a quello linguistico.

Le parole conservano ad ogni modo un rapporto privilegiato con la verità. Sebbene la verità sia indipendente dal parlante, essa dipende però dalle parole, come emerge dall'esempio dell'epicureo, che non conoscendo l'immortalità dell'anima, argomenta citando le prove tradizionali a favore dell'immortalità:

At ille, qui dicit, utrum uera dicat ignorat, immo etiam falsissima existimat; num igitur putandus est ea docere, quae nescit?13

Il discepolo che ascolta sarà portato, secondo Agostino, a considerare nella sua interiorità tali argomenti e a dare il suo consenso all'immortalità dell'anima. In questo caso non è stato il parlante ad insegnare, perché nessuno insegna ciò che non conosce. Il discepolo, invece, sostenuto dal maestro che insegna dentro, ha ritenuto di dare il proprio assenso alla verità. Anche il riferimento ad un assenso dato nell'interiorità richiama il concetto stoico di assenso concesso alla sola rappresentazione catalettica.

3. Signum nel pensiero di Agostino

Per comprendere l'idea del vuoto epistemico del segno espressa nel De magistro è necessario indagare come si è sviluppato il concetto di signum nel pensiero di Agostino.14 Ritengo sia questa la chiave non solo per capire il tipo di sfondo filosofico a cui Agostino sta facendo riferimento, ma anche l'originalità nell'idea di verbum e più in generale nella dottrina della conoscenza che Agostino giunge ad elaborare nel De Trinitate.

Due cesure evidenti nel modo di intendere il signum emergono dal confronto tra il De dialectica (386) 15 e il De magistro (389) e tra il De magistro e il De doctrina Christiana (iniziato nel 397).16

Il De dialectica esprime una visione piuttosto ingenua circa una corrispondenza immediata tra i segni e le cose (cf De dialectica V, vii, 7). I segni coincidono sostanzialmente con le parole (verba) e il parlare è inteso come un signum dare.

È proprio questa idea di una corrispondenza tra signa e res che va in crisi nel De magistro. Anzi lo stesso De magistro potrebbe essere considerato come un dialogo tra il vecchio modo di intendere i segni (espresso da Adeodato) e la nuova concezione (espressa da Agostino). Agostino infatti non è più convinto di questa corrispondenza tra signa e res, come dimostra la sua analisi di un verso di Virgilio («Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui») 17 con cui incalza Adeodato affinché trovi dei corrispondenti nella realtà di termini come nihil ed ex:

(Augustinus) Quare secundum uerbum in hoc uersu non est signum, quia non significat aliquid, et falso inter nos constitit, quod omnia uerba signa sint aut omne signum aliquid significet.

(Adeodatus) Nimis quidem urges, sed quando non habemus quid significemus, omnino stulte uerbum aliquod promimus; tu autem nunc me cum loquendo credo quod nullum sonum frustra emittis, sed omnibus, quae ore tuo erumpunt, signum mihi das, ut aliquid intellegam.18

Nel De magistro dunque troviamo, rispetto al De dialectica, un ampliamento dell'universo dei segni, che non contengono più solo i verba, e anche le res possono a loro volta diventare segni.

È importante notare che nel De magistro Agostino evidenzi la distinzione tra una componente materiale del verbum, quella che colpisce l'orecchio e la componente che viene intesa, che è la vis verbi, cioè il significato (cf De magistro 10, 149).

Rileggendo però i testi del De doctrina Christiana in cui Agostino definisce il segno, troviamo un'idea ancora diversa e che, per certi versi, sembra un ritorno alle posizioni del De dialectica.

È ovvio che il vuoto epistemico del segno, cui Agostino era giunto nel De magistro, mal si adattava a un contesto esegetico come quello del De doctrina Christiana, in cui la debolezza della parola avrebbe inficiato ogni tentativo di elaborare una teoria dell'interpretazione.

Il passaggio che si verifica con il De doctrina Christiana è evidente fin dal confronto tra la definizione di signum che troviamo in De magistro 10, 149 con quella che troviamo all'inizio del primo libro del De doctrina Christiana:

De magistro, cap. 10, linea 149De doctrina Christiana, lib. 1, cap. 2, linea 1
Per ea signa, quae uerba appellantur, nos nihil discere.Omnis doctrina uel rerum est uel signorum, sed res per signa discuntur.

A differenza di quanto era emerso dal De magistro, nel De doctrina Christiana si afferma la possibilità di far passare i contenuti interiori da un'anima all'altra, si individua l'obiettivo nel portar fuori i contenuti interiori piuttosto che nel cercare la verità nell'interiorità come nel De magistro, i segni tornano a svolgere un ruolo di mediazione fondamentale (che era andato in crisi nella trattazione del De magistro) e le parole tornano ad assumere il primato (principatum) nell'universo dei segni.19 In particolare i capitoli 3 e 4 del secondo libro del De doctrina Christiana mettono in relazione il primato delle parole con quel primato ricercato dagli uomini attraverso la costruzione della torre di Babele, accostando in tal modo guarigione del linguaggio, che è l'obiettivo dell'opera di Agostino, e guarigione dell'interiorità dell'uomo, che è il problema emerso per Agostino a partire dall'Ad Simplicianum:

Data uero signa sunt, quae sibi quaeque uiuentia inuicem dant ad demonstrandos, quantum possunt, motus animi sui uel sensa aut intellecta quaelibet. Nec ulla causa est nobis significandi, id est signi dandi, nisi ad depromendum et traiciendum in alterius animum id, quod animo gerit, qui signum dat.20

Verba enim prorsus inter homines obtinuerunt principatum significandi quaecumque animo concipiuntur, si ea quisque prodere uelit.21

Benché Agostino definisca l'argomento del II e del III libro del De doctrina Christiana come "doctrina signorum" o "de signiis", egli elabora una vera e propria teoria dei segni in pochi paragrafi all'inizio del II libro (II, i, 1 -- iv, 5).22 Si tratta della distinzione tra signa naturalia e signa data. Questi ultimi, a loro volta si distinguono in signa propria e signa translata. Non mi soffermo su queste distinzioni, in quanto l'obiettivo per ora è quello di mettere in evidenza la continuità (nonostante le discontinuità) della riflessione agostiniana sul segno. Si tratta in altre parole di una chiave preziosa per accedere al pensiero di Agostino.

La mia ipotesi è che nella sua riflessione sul concetto di segno Agostino si sia alimentato alla dottrina stoica dei segni e abbia dialogato con essa.

4. La rielaborazione agostiniana della logica stoica

La conoscenza della logica stoica da parte di Agostino è innegabile. Basta considerare Contra Academicos III, xiii, 29 dove Agostino fornisce esempi di proposizioni che oggi chiameremmo molecolari, mostra di conoscere i connettivi di implicazione, congiunzione e disgiunzione, usa espressioni tipiche della logica stoica come per connexionem e per disiunctionem, cita in forma metalogica i cinque postulati della logica stoica.23

Un'analogia di fondo tra la logica stoica e quella agostiniana sta nel fatto che entrambe assumono la riflessione sul segno all'interno della riflessione sul linguaggio, cosa insolita all'interno della letteratura patristica, come ha messo in evidenza Jackson.24

L'ipotesi di una rielaborazione della logica stoica da parte di Agostino era stata già messa in evidenza in un articolo di M. Baratin del 1981.25 L'autore propone un'analisi prevalentemente linguistica accennando soltanto alle conseguenze per una teoria della conoscenza. La tesi centrale di Baratin è che il concetto di segno di Agostino viene dalla filosofia stoica, ma in maniera mediata attraverso la tradizione dei grammatici alessandrini.

Condividendo l'analisi di Baratin, ritengo che a partire da questa ipotesi sia possibile capire il motivo per cui le parole, nel De magistro, non insegnano nulla.

Per capire la rielaborazione operata da Agostino, bisogna partire dalla tripartizione operata dagli stoici all'interno del significante (tò semaînon). Il significante ha tre possibili realizzazioni: la phoné che non è, a priori, né articolata né portatrice di significato (comprende quindi tanto la voce animale che quella umana); la léxis che è caratterizzata dal fatto di essere articolata, e dunque è suscettibile di essere presentata nella forma scritta, ma essa non è, a priori, portatrice di significato; il lógos che è invece doppiamente caratterizzato dal fatto che è significante articolato e portatore di significato, è cioè il significante come enunciato.

Tra la dottrina stoica e quella agostiniana viene però a realizzarsi uno spostamento decisivo: mentre per gli stoici il portatore di significato (cioè del lektón immateriale) è l'enunciato (lógos), per Agostino il portatore del significato è il verbum, la parola, identificata da Agostino nella léxis (che, come ogni altro aspetto della dottrina stoica, ad eccezione del lektón, è materiale). Questo spostamento dall'enunciato alla parola come unità di significato non è probabilmente opera di Agostino, perché è già presente nel libro X del De lingua latina di Varrone e nella parte degli Adversus Mathematicos di Sesto Empirico conosciuta come "Contro il logici".

La mia ipotesi è che fin quando opera l'idea di un verbum materiale assimilato alla léxis, Agostino eviterà di attribuire il termine verbum alla seconda persona della Trinità. Sarebbe stato infatti imbarazzante e teologicamente fuorviante. È in questo senso che il De Trinitate rappresenta invece un superamento di quella prima concezione agostiniana del verbum.

5. L'originalità del De Trinitate

Nel De Trinitate l'incarnazione del verbo che era presso il Padre è la chiave teologica che Agostino sceglie per interpretare la relazione tra Creatore e creatura. I continui riferimenti al prologo giovanneo e le distinzioni operate nel concetto di verbum inducono a chiedersi il perché di questo cambiamento nell'uso di verbum.

A tal proposito P. Brown ritiene che proprio in riferimento a un cambiamento nell'uso di verbum sia opportuno individuare nell'anno 389 uno spartiacque della produzione agostiniana.26

Prendendo le distanze dalle posizioni di autori come P. Alfaric e A. D. R. Polman, D. W. Johnson ritiene che l'uso agostiniano del termine verbum nel periodo 386-387 non si radichi in una visione neoplatonica e che non sia equivalente al termine biblico di sapientia, piuttosto, secondo Johnson, il termine verbum ha una connotazione eminentemente linguistica.27

La tesi di Johnson mi sembra supportata dalla costatazione della stretta relazione, evidente nel De Trinitate, tra la dottrina dell'incarnazione e la riflessione sulla connotazione linguistica di verbum. In un certo senso estenderei l'affermazione di Johnson, nel senso che la connotazione linguistica di verbum si mantiene costante in Agostino. La novità è che nel De Trinitate ci viene offerta una chiave teologica (il Verbo che era presso il Padre si è fatto carne) per interpretare un problema epistemologico e linguistico (rapporto tra notitia e cogitatio e struttura della parola).

Nelle opere precedenti al 389, soprattutto i Dialoghi di Cassiciacum e il De magistro, l'idea agostiniana di verbum è strettamente legata all'idea stoica della materialità della parola. Proprio l'influenza dello stoicismo sulle prime opere di Agostino l'aveva indotto a non attribuire questo termine alla seconda persona della Trinità.

Un momento decisivo di questa sorta di svolta linguistica in Agostino è costituito dalla distinzione tra verbum e vox. La prima chiara indicazione di questa distinzione si trova nel Sermo 288, datato intorno al 405, che viene quindi ad essere un momento di svolta tra una prima accezione di verbum fortemente connotata in senso stoico e l'elaborazione successiva di un'idea originale di verbum che sarà presente nel De Trinitate. Questo sviluppo passa quindi attraverso la recezione di un dualismo platonico che si prestava meglio alla elaborazione di una teologia cattolica. In tale contesto Agostino identifica il verbum con Gesù e la vox con Giovanni, la voce che grida nel deserto.28

L'idea di verbum si è dunque affrancata dalla visione stoica iniziale, ed evidentemente risente adesso di una rilettura platonica. Questo comunque non autorizza una riduttiva rilettura platonica della filosofia della conoscenza agostiniana nel De Trinitate, così come non eravamo autorizzati a fare una simile lettura rispetto al De magistro.

È possibile che fin dai primi scritti Agostino volesse presentare il Verbum come autoespressione attiva di Dio, ma di certo non poteva farlo per l'inadeguatezza della sua teoria linguistica per un uso simile. In effetti l'uso di verbum in relazione al Figlio di Dio comincia ad apparire a partire dal De Genesi contra Manichaeos. 29 Al contrario, negli scritti precedenti il termine verbum non sembra solo assente, ma addirittura volutamente evitato, come per esempio in De libero arbitrio I, ii, 5:

Ex quo fit ut de nihilo creaverit omnia; de se autem non crearit, sed genuerit quod sibi par esset, quem Filium Dei unicum dicimus, quem cum planius enuntiare conamur, Dei Virtutem et Dei Sapientiam nominamus, per quam fecit omnia, quae de nihilo facta sunt.30

Un altro testo in cui può sorprenderci l'assenza di verbum è De magistro 11, 38. Dal momento che Agostino ha appena affermato che le parole non insegnano nulla, ci si aspetterebbe che, mediante un procedimento antonimico, egli giochi la carta del Verbum, quale unico verbum capace di insegnare. Sorprendentemente invece Agostino usa anche qui la coppia che abbiamo già trovato nel De libero arbitrio, cioè virtus et sapientia:

De universis autem quae intellegimus non loquentem qui personat foris, sed intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem, verbis fortasse ut consulamus admoniti. Ille autem qui consulitur, docet, qui in interiore homine habitare dictus est Christus, id est incommutabilis Dei Virtus atque sempiterna Sapientia.31

Attraverso la riflessione sul verbum, Agostino sta esponendo nel De Trinitate anche la sua cristologia. In De Trinitate IV, ii, 4 Agostino considera l'illuminazione come partecipazione del verbo: «Illuminatio quippe nostra participatio Verbi est».

Nelle differenze tra verbum Dei e verbum hominis, su cui Agostino riflette nel libro XV del De Trinitate, occupa un ruolo centrale il rimando alla differenza tra nosse e cogitare. In Dio infatti i due aspetti coincidono, perché in Dio la conoscenza è sempre attuale e fuori dal tempo ed è una conoscenza coeterna a sé. Pertanto notitia e cogitatio coincidono. Nell'uomo invece la cogitatio porta, nel tempo, l'attenzione su ciò che si conosce, ma ogni volta che il pensiero si porta su un oggetto, si distoglie da un altro.

È fondamentale a questo punto capire perché il verbum hominis sia formabile, mentre il verbum Dei è sempre e solo formato. Per capire questa distinzione è necessario tornare ancora una volta alla distinzione tra nosse e cogitare. Infatti, le conoscenze verbalizzabili -- ma non verbali in atto -- sono ovviamente quelle contenute nel nosse, quelle cioè a cui non pensiamo attualmente, ma che, non per questo, non sono conoscenze possedute. A livello della cogitatio invece sarebbe insostenibile -- e Agostino ne è consapevole -- l'idea di un pensiero non verbalizzato. Di fatto noi verbalizziamo le conoscenze che possediamo solo quando portiamo il pensiero su di esse. Tali conoscenze però sono da sempre verbalizzabili.

L'analogia tra verbo umano e verbo divino è comunque rintracciabile, secondo Agostino, in quel verbo che si produce quando si dice ciò che si sa, ossia quando c'è una piena coincidenza tra verbum e notitia. Questo verbo si produce nel cuore e non appartiene a nessuna lingua: «quando quod scitur dicitur, et nullius linguae cordis verbum est, habeat in sua magna disparitate nonnullam similitudinem Filii».32

Agostino parte dal principio generale che ogni conoscenza è mossa dall'amore. In un certo senso ogni conoscenza è completamento di una conoscenza parziale che, in una sorta di curiosità, stimola a proseguire l'itinerario. Se un oggetto non è conosciuto per niente, non è possibile che inizi un processo di conoscenza. Applicando questo principio alla stessa mens, che nel linguaggio agostiniano è il soggetto della conoscenza, Agostino si chiede cosa ami la mens quando cerca di conoscersi: in questo caso l'initium imprescindibile, che non può non essere già dato da sempre, è la consapevolezza di essere un soggetto che cerca e, come tale, un soggetto che ignora. Non a caso in De Trinitate X, iii, 5, dove si parla appunto della ricerca di sé da parte della mens, Agostino costruisce questa descrizione muovendosi tra due avverbi, iam e dum, proprio per indicare una conoscenza già (iam) data (anche se bisognerà chiarire di quale tipo di conoscenza si tratti), ma nel contempo una conoscenza che si sta realizzando mentre (dum) si conosce:

Quid ergo amat mens, cum ardenter se ipsam quaerit ut noverit, dum incognita sibi est? Ecce enim mens semetipsam quaerit ut noverit, et inflammatur hoc studio. Amat igitur: sed quid amat? [...] Deinde cum se quaerit ut noverit, quaerentem se iam novit. Iam se ergo novit. Quapropter non potest omnino nescire se, quae dum se nescientem scit, se utique scit.33

Memoria, intelligentia e voluntas costituiscono non solo la struttura trinitaria all'interno dell'uomo, ma sono anche i termini fondamentali del processo di conoscenza. La memoria è definita da Agostino arcana notitia, in quanto in essa sono depositate le conoscenze che potremmo definire passive, ossia quelle conoscenze sapute, ma non attualmente pensate, conoscenze acquisite, possedute, ma su cui ora non si volge lo sguardo dell'intelletto. Quando invece lo sguardo dell'intelletto (Agostino usa spesso questa metafora del vedere), spinto dalla dilectio, che è un altro nome per la voluntas, va a cercare quei contenuti nella memoria, li riconosce e genera la conoscenza (cognitio). La memoria funziona però anche come una sorta di specchio per la stessa mens che si vede nella memoria, si riconosce mediante l'intelletto e genera la conoscenza di sé: «Mens igitur quando cogitatione se conspicit, intellegit se et recognoscit: gignit ergo hunc intellectum et cognitionem suam». 34

In questo testo emerge la centralità della cogitatio, termine fondamentale dell'epistemologia agostiniana. Cogitatio indica quella funzione della mente umana per mezzo della quale l'uomo può raccogliere insieme gli elementi delle sue esperienze, elementi che giacciono latenti nei recessi della memoria.35

Questo processo dà luogo a quella che per Agostino è la seconda immagine della Trinità. Una prima immagine, infatti, Agostino la ritrova già nel livello più esterno della conoscenza sensibile. Si tratta della relazione costituita da soggetto conoscente, dall'oggetto sensibile verso cui è spinto, e dalla volontà che mette in moto questo movimento. Dell'oggetto sensibile, però, una volta conosciuto, resta un'immagine nella memoria e, se da una parte è vero che abbiamo nella memoria solo le immagini delle cose conosciute, è anche vero che possiamo poi liberamente combinare queste immagini. Proprio queste immagini, che costituiscono il primo elemento della seconda trinità intravista da Agostino, sono l'oggetto della visione interna, secondo elemento della trinità. Anche in questo caso è poi la volontà a legare insieme immagini e visione interiore. È proprio all'unità di questi tre elementi che Agostino dà il nome di pensiero (cogitatio).36

Già nelle Confessiones37 Agostino aveva definito la funzione della cogitatio come un raccogliere (colligere) e tenere insieme (cogere) i ricordi dispersi e ritrovati nella memoria e, sebbene i ricordi corrispondano a quanto conosciuto, è anche vero che le possibili combinazioni e adattamenti di questi ricordi sono infiniti. Proprio dalla possibilità di credere che quanto elaboro nell'immaginazione, a partire dai ricordi posseduti nella memoria, necessariamente esista nella realtà, apre all'eventualità dell'errore e fa emergere la necessità dell'illuminazione interiore, come ricorso a un criterio certo di verità.38

La conoscenza generata dalla cogitatio è il punto d'arrivo di un processo. Tale conoscenza pertanto ha come sua caratteristica immanente l'esprimibilità. Sta qui il rapporto essenziale tra la cogitatio e il verbum, ovviamente verbum interius, pienamente autonomo e autosufficiente rispetto alla sua espressione esterna e materiale nella vox del verbum exterius. Probabilmente proprio nella relazione tra cogitatio e verbum va ricercato il motivo per cui Agostino non parla mai del Figlio come cogitatio Dei, ma solo come verbum Dei. La cogitatio infatti implica un processo mentale per mezzo del quale raggiungiamo la conoscenza e, una volta raggiunta tale conoscenza, formiamo la nostra parola. Ma in Dio non c'è nulla senza forma, niente che necessiti di assumere una forma, cosa che costituirebbe un'imperfezione in Dio. La cogitatio si predica perciò propriamente solo dell'uomo.39

Come ha fatto notare Biolo «si deve ammettere una reale distinzione tra l'intelligentia e la sua conseguente formulazione che è il verbum, tanto nella nostra mens che nella Trinità»,40 distinzione che è del resto espressa dallo stesso Agostino quando afferma «et verbum nostrum intimum nisi nostra cogitatione non dicitur».41 Mi sembra piuttosto evidente che Agostino legga la relazione tra notitia (non cogitatio che è informe) e verbum alla luce della generazione del Figlio.42 Notitia e verbum traducono entrambi aspetti del logos, quel logos che era presso Dio, ma anche che era Dio. Dio che è logos come pensiero compiuto genera il logos come parola che lo esprime, parola che è da sempre nel pensiero e che ha, come dice Agostino, nella conoscenza il suo inizio. La relazione tra verbum e notitia è a mio avviso il luogo più stimolante e fecondo per comprendere l'originalità del concetto di verbum che Agostino giunge ad elaborare nel De Trinitate.

6. L'enigma della relazione tra verbum e notitia

Nel De Trinitate i lemmi verbum e notitia cooccorrono in 14 luoghi a partire da VIII, vi, 9 fino a XV, xv, 24.43 Su 14 occorrenze, 6 sono concentrate nell'ultima parte del libro IX, e 5 nel libro XV. Oltre alla prima cooccorrenza del libro VIII, rivolgerò quindi l'attenzione soprattutto sul libro IX e sul XV.

In De Trinitate VIII, vi, 9 Agostino parla della conoscenza dell'anima (come oggetto) e si chiede come sia possibile una tale conoscenza di un oggetto che non può essere visto sensibilmente:

Et Carthaginem quidem cum eloqui volo, apud me ipsum quaero ut eloquar, et apud me ipsum invenio phantasiam Carthaginis; sed eam per corpus accepi, id est per corporis sensum, quoniam praesens in ea corpore fui et eam vidi atque sensi, memoriaque retinui, ut apud me invenirem de illa verbum, cum eam vellem dicere. Ipsa enim phantasia eius in memoria mea verbum eius, non sonus iste trisyllabus cum Carthago nominatur, vel etiam tacite nomen ipsum per spatia temporum cogitatur; sed illud quod in animo meo cerno, cum hoc trisyllabum voce profero, vel antequam proferam.44

Nel caso in cui volessi parlare di Alessandria, dice Agostino, cioè di un luogo che, a differenza di Cartagine, non ho visto, il verbum che indica Alessandria sarebbe ciò che io vedo dentro prima di parlare di Alessandria. In questo caso questo verbo indica le informazioni che ho ricevuto su questa città e che mi hanno permesso di farmene un'idea. Il verbo interiore è quindi la rappresentazione che ho di un oggetto, sia che si tratti di un oggetto di cui ho avuto un'esperienza sensibile sia che si tratti di un oggetto di cui mi sono fatto un'idea a partire da altre informazioni. Il verbo di cui Agostino sta parlando qui non è quindi né la vox che pronuncio per far conoscere il mio pensiero, né la parola silenziosa, quella che pronuncio nel mio cuore. Il verbo è qui la rappresentazione interiore, cioè quell'aspetto della notitia interiore, cioè della conoscenza interiore, che mi permette, a priori, di dire la conoscenza.

Agostino spiega ulteriormente l'idea di rappresentazione a cui rimanda il concetto di verbum, distinguendo la ricerca di cosa sia il 'giusto' da quella relativa alla conoscenza delle città di Cartagine e di Alessandria:

Non autem ita quaero quid sit iustus, nec ita invenio, nec ita intueor, cum id eloquor; nec ita probor, cum audior; nec ita probo, cum audio; quasi tale aliquid oculis viderim, aut ullo corporis sensu didicerim, aut ab eis qui ita didicissent audierim.45

Agostino distingue tra phantasia (nel senso di immagine dell'oggetto, un concetto che richiama da vicino quello della rappresentazione nella dottrina stoica) dal phantasma come costruzione arbitraria.

Nel caso della giustizia non si tratta di richiamare una realtà assente, come nel caso di Cartagine, o di una cosa di cui mi sono fatto un'immagine approssimativa, come nel caso di Alessandria, ma contemplo una realtà presente, e la contemplo in me, sebbene non sia me stesso ciò che contemplo.

In De Trinitate IX, vii, 12 Agostino stabilisce un rapporto tra notitia e verbum, affermando che sono in noi allo stesso modo (tamquam). Nel rapporto tra vox e verbum Agostino sembra rileggere la relazione tra natura divina e natura umana: il figlio si incarna senza perdere la natura divina. In questo senso un concetto teologico viene utilizzato per spiegare una struttura linguistica.

Il riferimento alla 'verità eterna' per mezzo della quale sono fatte tutte le cose richiama infatti il verbo giovanneo (Gv 1, 3: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste), così come colui per mezzo del quale le cose sono state fatte è colui che esiste fin dal principio (quod non in corde suo prius dixerit):

In illa igitur aeterna veritate, ex qua temporalia facta sunt omnia, formam secundum quam sumus, et secundum quam vel in nobis vel in corporibus vera et recta ratione aliquid operamur, visu mentis aspicimus; atque inde conceptam rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo intus gignimus; nec a nobis nascendo discedit. Cum autem ad alios loquimur, verbo intus manenti ministerium vocis adhibemus, aut alicuius signi corporalis, ut per quandam commemorationem sensibilem tale aliquid fiat etiam in animo audientis, quale de loquentis animo non recedit. Nihil itaque agimus per membra corporis in factis dictisque nostris, quibus vel approbantur vel improbantur mores hominum, quod non verbo apud nos intus edito praevenimus. Nemo enim aliquid volens facit, quod non in corde suo prius dixerit.46

Quando la volontà aderisce alla conoscenza (notitia), cioè quando c'è un'adesione tra ciò che si intende comunicare e ciò che realmente si comunica, allora c'è un'identità tra il verbo concepito e quello nato. Questo è quello che accade nelle conoscenze spirituali.47

Colui che conosce la giustizia è già giusto prima ancora che traduca questo ideale di giustizia in un comportamento esteriore. Ogni buona azione o ogni peccato nasce da un verbo. Sarebbe questo per Agostino il senso dell'espressione di Gesù "dalle tue parole sarai giustificato e dalle tue parole sarai condannato" (Mt 12, 37), parole in cui Gesù farebbe riferimento alle labbra interiori, non a quelle visibili, cioè le labbra invisibili del pensiero e del cuore.

Ma dicendo che si viene giudicati dalle parole, si intende ovviamente che si è giudicati sulla base dei nostri pensieri, cioè della notitia interiore che per sineddoche, visto il ragionamento di Agostino, può essere chiamata parola.

Il dogma trinitario è messo in stretta relazione con quello dell'incarnazione. Ciò è evidente anche dal costante riferimento al prologo giovanneo. L'operazione compiuta da Agostino consiste quindi nel capire il rapporto tra parola, pensiero e voce, attraverso l'analogia con l'incarnazione: l'intimo rapporto tra notitia e verbum interiore si capisce alla luce del verbo che era presso il Padre, quel verbo che è pensiero creatore e che al contempo può essere detto in ogni momento (è notitia e verbum da sempre). Questo verbo, senza perdere la sua relazione con la notitia interna a Dio si esprime in una lingua umana (il verbo esteriore).

La parola che si identifica con la notitia è comunque solo la conoscenza vera (cf De Trinitate IX, x, 15), cioè la notitia amata, quella in cui è coinvolta la volontà, ossia l'amore che spinge il soggetto verso l'oggetto della conoscenza.

In questo modo il verbo è d'altra parte inserito anche all'interno della struttura trinitaria costituita da mens (che genera), verbum (che è generato) e amor (che procede da entrambi).48 Quando la mens si conosce, la conoscenza che viene generata è imago e verbum. In questo caso il generato è uguale al generante.49

Nell'ultima parte del libro IX è lo stesso Agostino ad affermare chiaramente che possiamo usare l'analogia con la Trinità suprema per capire la struttura trinitaria all'interno del soggetto conoscente:

Cur itaque non utrumque genuerit, difficile est dicere. Haec enim quaestio etiam de ipsa summa Trinitate, omnipotentissimo creatore Deo, ad cuius imaginem homo factus est, solet movere homines, quos veritas Dei per humanam locutionem invitat ad fidem.50

Proprio in virtù di questa analogia, d'altronde, è possibile ripartire dalla realtà umana della conoscenza per investigare il problema della processione, piuttosto che della generazione, dell'amore:

Cur non Spiritus quoque Sanctus a Patre Deo genitus vel creditur vel intellegitur, ut filius etiam ipse dicatur? Quod nunc in mente humana utcumque vestigare conamur, ut ex inferiore imagine, in qua nobis familiarius natura ipsa nostra, quasi interrogata respondet, exercitatiorem mentis aciem ab illuminata creatura ad lumen incommutabile dirigamus.51

Spostandoci al libro XV, troviamo una prima cooccorrenza in De Trinitate XV, vi, 10, un paragrafo interessante perché in esso è Agostino stesso a fornirci una sintesi del percorso. Egli stesso infatti nota che a partire dal libro VIII «la nostra intelligenza ha cominciato a intravvedere la Trinità». In quel libro si è cercato, dice Agostino, di elevare il nostro spirito fino alla Trinità suprema. La difficoltà di questo passaggio ha reso necessaria una digressione che si è consumata nella parte che va dal libro IX al libro XII per approfondire ciò che riguarda lo spirito umano (la mens), creato ad immagine di Dio. La mens rappresenta infatti un oggetto di studio più familiare. Solo a partire dalla contemplazione delle cose create è possibile poi vedere con l'intelligenza le perfezioni invisibili di Dio. Nel libro XV è invece giunto il momento di elevarci alla contemplazione della Trinità suprema, ma ancora una volta sperimentiamo l'incapacità di farlo (nec valemus). Il paragrafo XV, vi, 10 si conclude ancora una volta con un'analogia tra la Trinità suprema (sapienza, conoscenza che la sapienza ha di sé, amore che ha di sé), amor, notitia sui, dilectio sui, e la trinità trovata nell'uomo: mens, notitia qua se novit, dilectio qua se diligit.

Proprio perché il verbum interior è un aspetto immanente della notitia, il ruolo del verbum non è chiaro nell'analogia con la Trinità, in quanto l'analogia trinitaria mette in relazione il dinamismo interno a Dio con il processo di conoscenza. Pertanto il riferimento è alla notitia, non al verbum. Il ruolo del verbum emerge invece quando l'analogia viene fatta rispetto all'incarnazione del Verbo. In questo caso infatti viene esplicitata la relazione tra notitia e verbum.

Ciò che viene pensato è certamente vero per Agostino, in quanto conosciamo le cose false quando sappiamo che sono false. Pensare qualcosa è la necessaria premessa per poterla esprimere. Pensare è inevitabilmente un parlare (anche quando è un parlare silenzioso, cioè un parlare nel cuore: in corde suo dicit utique qui cogitat). Ciò vuol dire che il parlare è intrinseco al pensare (cogitatio). Nel pensare stesso c'è già il parlare (è il tema del paragrafo XV, x, 17). Se la cogitatio è la conoscenza riflessa, ossia il portare l'attenzione sulla notitia, ciò dovrebbe implicare che nelle notitia ci sia un'esprimibilità intrinseca, così come nella cogitatio c'è una parola portata ad espressione, anche se talvolta silenziosa. L'esprimibilità è dunque già dentro la notitia.

Nel momento in cui l'analogia di riferimento diventa l'incarnazione, allora Agostino esplicita la relazione tra verbum e notitia, come in De Trinitate XV, x, 19. Il verbo interiore sta prima della cogitatio e non appartiene a nessuna lingua, proprio come il Verbo di Dio che non appartiene a nessun popolo prima di incarnarsi. Qui è l'analogia con il Verbo che era presso Dio che ci permette di capire cosa avviene nel rapporto tra pensiero e parola:

Quisquis igitur potest intellegere verbum, non solum antequam sonet, verum etiam antequam sonorum eius imagines cogitatione volvantur: hoc enim est quod ad nullam pertinet linguam, earum scilicet quae linguae appellantur gentium, quarum nostra latina est: quisquis, inquam, hoc intellegere potest, iam potest videre per hoc speculum atque in hoc aenigmate aliquam Verbi illius similitudinem, de quo dictum est: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum.52

L'analogia tra verbo umano e verbo incarnato continua nel paragrafo successivo (De Trinitate XV, xi, 20), che forse rappresenta anche il vertice di questa relazione: «Ita enim verbum nostrum vox quodam modo corporis fit, assumendo eam in qua manifestetur sensibus hominum; sicut Verbum Dei caro factum est (Io 1, 14.), assumendo eam in qua et ipsum manifestaretur sensibus hominum (Cf. 1 Tim 3, 16.) ».53

Ma Agostino precisa che l'analogia è tra il verbo interiore e il Verbo che era presso Dio:

Sed illud Verbum Dei quaerimus qualitercumque per hanc similitudinem nunc videre, de quo dictum est: Deus erat Verbum; de quo dictum est: Omnia per ipsum facta sunt; de quo dictum est: Verbum caro factum est; de quo dictum est: Fons sapientiae Verbum Dei in excelsis. Perveniendum est ergo ad illud verbum hominis, ad verbum rationalis animantis, ad verbum non de Deo natae, sed a Deo factae imaginis Dei, quod neque prolativum est in sono, neque cogitativum in similitudine soni, quod alicuius linguae esse necesse sit, sed quod omnia quibus significatur signa praecedit, et gignitur de scientia quae manet in animo, quando eadem scientia intus dicitur, sicuti est. Simillima est enim visio cogitationis, visioni scientiae. Nam quando per sonum dicitur, vel per aliquod corporale signum, non dicitur sicuti est, sed sicut potest videri audirive per corpus.54

Il verbo umano nasce dalla scienza, così come il Verbo di Dio, che è esso stesso Dio, è nato dalla scienza del Padre: «atque inde utcumque simile est in hoc aenigmate illi Verbo Dei, quod etiam Deus est, quotiamo sic et hoc de nostra nascitur, quemadmodum et illud de scientia Patris natum est».55 In questo caso (De Trinitate XV, xiv, 24) Agostino inverte l'analogia, cioè usa il riferimento teologico per comprendere la struttura del linguaggio. Qui è esplicito il rapporto tra verbo e scienza, nel senso che il verbo, quello che non comporta suono né pensiero di un suono («illud quod non habet sonum neque cogitationem soni»), è dentro la scienza, perché, a mio giudizio, ne rappresenta la verbalizzabilità intrinseca. Ancora una volta vediamo che quando Agostino deve precisare il rapporto tra verbo e conoscenza, l'analogia non è quella trinitaria, ma quella che fa riferimento all'incarnazione.

È a questo punto che Agostino sente la necessità di sottolineare però anche la differenza tra verbo del linguaggio e Verbo di Dio (De Trinitate XV, xv, 24). La differenza è sintetizzata in quella tra essere e conoscere, che in Dio coincidono ma non nell'uomo:

Quid, cum verum est verbum nostrum, et ideo recte verbum vocatur, numquid sicut dici potest vel visio de visione, vel scientia de scientia, ita dici potest essentia de essentia, sicut illud Dei Verbum maxime dicitur maximeque dicendum est? Quid ita? Quia non hoc est nobis esse, quod est nosse.56

Agostino tratta della relazione tra pensiero e parola anche in un altro testo molto eloquente e cronologicamente pressoché parallelo57 al De Trinitate. Mi riferisco a In Iohannis Evangelium tractatus XIV, 7, dove Agostino si interroga proprio sulla perplessità che può nascere dal confronto di espressioni evangeliche apparentemente contraddittorie: da un lato infatti si dice che il Figlio ha udito dal Padre le parole, ma dall'altro sappiamo che il Figlio è la parola del Padre. Agostino risolve la questione proprio facendo appello alla distinzione tra l'esprimibilità presente fin dall'inizio nella conceptio del pensiero, quindi un'esprimibilità che non si identifica con nessuna lingua umana, e l'espressione del pensiero in un linguaggio umano al fine di comunicare il pensiero a un altro (o anche a me stesso):

Cor tuum adtende. Quando concipis verbum quod dicas: dicam enim, si potero, quod in nobis adtendamus, non unde illud comprehendamus: quando ergo concipis verbum quod proferas, rem vis dicere, et ipsa rei conceptio in corde tuo iam verbum est; nondum processit, sed iam natum est in corde, et manet ut procedat: attendis autem ad quem procedat, cum quo loquaris; si Latinus est, vocem latinam quaeris; si Graecus est, verba graeca meditaris; si Punicus est, adtendis si nosti linguam punicam; pro diversitate auditorum diversas linguas adhibes, ut proferas verbum conceptum: illud autem quod corde conceperas, nulla lingua tenebatur. Cum ergo Deus loquens, linguam non quaereret, et genus locutionis non assumeret, quomodo auditus est a Filio, cum ipsum Filium sit locutus Deus?58

La distinzione tra concipere verbum e proferre verbum sottende quella tra verbum interius e verbum exterius e sul piano teologico questa differenza è resa evidente dalla relazione tra il verbo che è Dio e il verbo che è detto da Dio. Il verbo che è già nella conceptio, che nasce con essa, è analogo al verbo che è da sempre presso Dio, così come il verbo proferito nella vox è analogo al verbo detto da Dio. L'esigenza della vox, dice ancora Agostino in questo testo, è un'esigenza comunicativa, infatti la lingua umana è scelta in relazione all'interlocutore. In questa possibilità di adattare il verbum interius della conceptio a qualunque lingua umana è rinvenibile la possibilità della traduzione,59 il verbum interius è infatti autosufficiente e pienamente realizzato indipendentemente dalla formulazione vocale.

Procedendo a ritroso, nel Sermo 223/A, scritto intorno al 399 (o comunque non dopo il 405), troviamo già questa analogia tra il Verbum che era presso il Padre e il pensiero umano che si serve di un veicolo sensibile per comunicarsi alla mente dell'interlocutore, entrandovi attraverso la porta costituita dalle orecchie. In questo testo l'identificazione tra verbum e conceptio è evidente: «Gero intus verbum corde conceptum, et volo in auribus tuis parere quod corde concepi».60 Il suono è dunque come un veicolo (quasi vehiculum sonum) che permette di far arrivare all'altro il verbum concepito nell'interiorità senza che questa parola/pensiero si allontani da colui che la proferisce. Anche qui Agostino propone l'incarnazione come chiave di lettura, per cui l'incarnazione del Verbum ci aiuta a capire la realtà umana dei verba e dei suoni. Il Figlio infatti ha assunto la carne come una sorta di veicolo per arrivare all'umanità, senza però mai allontanarsi dal Padre, presso il quale è da sempre.

Nel Sermo 28, la cui datazione è più controversa, troviamo la stessa analogia, ma con qualche variante terminologica. Agostino descrive la relazione tra sonus e intellectus: il primo rimane nelle orecchie, il secondo arriva al cuore; il primo è un po' come il corpo, il secondo è come l'anima. In questo testo mi sembra di particolare interesse l'analogia che Agostino pone tra vox e Verbum Dei. La voce infatti non si divide ma rimane unica pur rivolgendosi a molti e pur venendo ascoltata da molti, così il Verbum Dei conserva la sua totalità pur nelle sue manifestazioni particolari: «Sic cogitate Verbum Dei [...] Haec dixi de sono».61

7. Dalla reminiscenza alla partecipazione

L'articolazione del processo di conoscenza nel De Trinitate, con tutta la sua complessità, ci permette di distinguere l'idea agostiniana di apprendimento da una sua banale riduzione all'idea platonica di reminiscenza. La formazione dei concetti presuppone una forma di conoscenza preconcettuale che è espressa dal nosse e che molto chiaramente Agostino ha distinto dal cogitare come conoscenza riflessa. D'altra parte il pensiero forma i concetti ritornando nella memoria, ma non riconoscendo semplicemente dei contenuti pregressi, quanto piuttosto mettendo insieme e legando, in modo attuale, nel presente, ciò che è ritrovato nella mens, e in tale operazione la cogitatio è spinta dalla voluntas, cioè da un amore che è sempre già amore di qualcosa che si intuisce, o preconosce, seppur in maniera imperfetta, o comunque in modo tale che susciti il desiderio di essere conosciuto di più. La nozione stessa di memoria è articolata da Agostino in modo più complesso, non solo per la differenza tra memoria rerum e memoria sui, ma anche per l'introduzione di un nuovo aspetto della memoria, la memoria praesentis, nozione che richiama la consapevolezza latente o riflessa, che la mens ha di sé.

Nel libro XII Agostino affronta il tema dell'apprendere come ricordare. Egli stesso sembra però prevenire delle letture riduttive di tipo platonico. Nonostante il rispetto nei confronti di Platone (ille philosophus nobilis), Agostino sostiene che apprendere non significa ricordare cose anteriormente conosciute.

Rifiutando di ammettere una preesistenza delle anime, Agostino si trova costretto a spiegare in modo diverso l'attività della cogitatio nella memoria.

Molto probabilmente Agostino conosceva il Menone di Platone attraverso la mediazione di Cicerone e prova a darne una rilettura originale e in armonia con la sua teologia.

Del resto con il passaggio all'era cristiana non è insolita una rilettura in chiave cristiana di una dottrina classica, come per esempio aveva fatto anche Ambrogio nel De officiis, dove riprende nel titolo l'opera di Cicerone, e nel contenuto sviluppa l'argomento in modo diametralmente opposto a quello di Platone nel Menone, sostenendo piuttosto l'insegnabilità della virtù.

Una comparazione tra Tusculanae disputationes I, xxv, 57 e De Trinitate XII, xxv, 24 sembra confermare questa ipotesi:

Tusculanae disputationes I, xxiv, 57De Trinitate XII, xv, 24

Habet primum memoriam, et eam infinitam rerum innumerabilium.

Quam quidem Plato recordationem esse volt vitae superioris. Nam in illo libro, qui inscribitur Menon, pusionem quendam Socrates

interrogat quaedam geometrica de dimensione quadrati.

Ad ea sic ille respondet ut puer, et tamen ita faciles interrogationes sunt, ut gradatim respondens eodem perveniat, quo si geometrica didicisset. Ex quo effici volt Socrates, ut discere nihil aliud sit nisi recordari. Quem locum multo etiam accuratius explicat in eo sermone, quem habuit eo ipso die, quo excessit e vita; docet enim quemvis, qui omnium rerum rudis esse videatur, bene interroganti respondentem declarare se non tum illa discere, sed reminiscendo recognoscere, nec vero fieri ullo modo posse, ut a pueris tot rerum atque tantarum insitas et quasi consignatas in animis notiones, quas ennoias vocant, haberemus, nisi animus, ante quam in corpus intravisset, in rerum cognitione viguisset.

Unde Plato ille philosophus nobilis persuadere conatus est vixisse hic animas hominum, et antequam ista corpora gererent; et hinc esse quod ea quae discuntur, reminiscuntur potius cognita, quam cognoscuntur nova. Retulit enim, puerum quemdam nescio quae de geometrica interrogatum, sic respondisse, tamquam esset illius peritissimus disciplinae.

Gradatim quippe atque artificiose interrogatus, videbat quod videndum erat, dicebatque quod viderat.

Il testo di Agostino sembra sì derivato da quello di Cicerone, ma nel contempo si possono osservare modifiche significative.

Innanzitutto notiamo una dovizia di particolari nel testo di Cicerone che manca in quello di Agostino. Quest'ultimo parla solo di Platone e non fa alcun riferimento né a Socrate né al titolo del dialogo in questione. In entrambi i testi notiamo l'accostamento tra discere e reminisci che fornisce la chiave di interpretazione della descrizione: la questione cioè è l'interpretazione del discere come ricordare, ed è su questo punto che Agostino vuole introdurre delle differenze.

A livello terminologico notiamo l'uso in entrambi i testi di tre espressioni che possono indicare la derivazione dell'uno dall'altro: la prima, che è forse la più scontata, è puer, la seconda è la locuzione de geometrica interrogare, la terza invece è forse quella più interessante, perché è una nota tecnica sulla modalità dell'apprendimento, cioè l'avverbio gradatim.

Alcune sfumature e aggiunte, come dicevamo, sembrano però indicare una certa volontà di denigrare la dottrina platonica: Cicerone per esempio non usa il superlativo peritissimus che invece troviamo in Agostino con una sfumatura ironica, anzi Cicerone parla di faciles interrogationes. È un cambiamento significativo perché permetterà ad Agostino di sostenere l'infondatezza della dottrina platonica dal momento che non tutti possiamo essere stati geometri nella vita precedente, visto che i geometri sono cosa rara, ma in realtà Platone non sta parlando di una scienza specifica, né vuole dire che il servo di Menone sia stato un geometra nella vita precedente e che questa sia la ragione per cui può rispondere alle domande di Socrate. La critica di Agostino, dobbiamo ammetterlo, non colpisce nel segno. Lo stesso tentativo di sminuire il processo descritto da Platone sta forse anche nell'uso dell'avverbio artificiose in relazione al modo in cui sono poste le domande al servo, quasi a dire che si tratta di una sorta di "artificio", cioè di inganno, elaborato dall'astuto Socrate per dimostrare la sua teoria.

Ma la teoria di Socrate nel Menone evidenzia alcuni aspetti affini al De magistro. Per esempio l'idea che non sia possibile insegnare, neppure usando lo strumento privilegiato delle parole,62 benché le ragioni dell'impossibilità siano diverse. Socrate infatti nel Menone dice: «Certo, mi chiedi ora s'io ti possa insegnare, proprio a me che sostengo non esistere insegnamento, ma reminiscenza».63

Criticando quindi la dottrina platonica della reminiscenza, Agostino sta rielaborando, per certi versi, anche la sua dottrina esposta nel De magistro: in un certo senso è Agostino stesso a voler evitare un'interpretazione platonica del suo Dialogo.

Ritengo che il sistema agostiniano, così come appare ormai strutturato nel De Trinitate, non possa accogliere una dottrina come quella della reminiscenza platonica, innazitutto per la distinzione che egli ha operato tra il sensibile e l'intelligibile.64 Se infatti la conoscenza mediante il ricordo può funzionare sulla base di una visione precedente, ciò non è assolutamente possibile per ciò che riguarda le verità intelligibili, ovviamente una volta che si è esclusa la possibilità di una preesistenza dell'anima. E ciò, dice Agostino, non riguarda solo le ragioni intelligibili e incorporee delle cose sensibili, ma anche i movimenti che passano nel tempo: «verum etiam motionum in temporibus transeuntium sine temporali transitu stant etiam ipsae utique intelligibiles, non sensibiles».65 Agostino sembra dire quindi che oltre ai pensieri che ci formiamo sulla base dell'esperienza e che affidiamo alla memoria, in modo da non doverli riformulare ex novo, ci sono delle verità che strutturano la ragione stessa, nel senso che fanno parte del nostro essere razionali, capacità come il riconoscere che c'è un'armonia o che il tempo sta scorrendo.

L'apprendimento come reminiscenza, sembra dire Agostino, va spiegato in altro modo, perché non può essere fondato sulla preesistenza delle anime. Esso va spiegato piuttosto alla luce della creazione: l'anima intellettiva è creata in modo tale da essere da sempre in relazione alle cose intelligibili e intanto può riconoscerle in quanto è illuminata da una luce incorporea (lucis sui generis incorporea). E come l'occhio è stato creato capace di vedere, nella luce corporea, le cose sensibili, così l'anima è stata creata in modo tale da vedere, nella luce incorporea, le cose intelligibili.66

La dottrina della preesistenza delle anime viene quindi sostituita dalla dottrina dell'illuminazione che è insieme dottrina della partecipazione.67 E la reminiscenza, in cui si compendia l'apprendimento, non è un ricordare cose viste nel passato, ma un vedere nel presente.68

8. Conclusione

In sintesi ho cercato di mostrare l'originalità del concetto di verbum nel De Trinitate e di conseguenza l'originalità della riflessione sulla conoscenza che vi è connessa. In questo modo è emersa una prima fase del pensiero di Agostino maggiormente caratterizzata da uno sfondo filosofico di tipo stoico che ha alimentato un'interpretazione del verbum in modo tale da renderne difficile l'utilizzo in chiave teologica. Attraverso una rielaborazione del concetto di verbum alla luce di suggestioni platoniche, Agostino è giunto a formulare una sua teoria sul verbum e sulla conoscenza, che, pur conservando un interessante matrice linguistica, si presentava estremamente feconda per l'elaborazione dei concetti fondamentali della teologia cattolica.

Copyright © 2011 Gaetano Piccolo

Gaetano Piccolo. «L'originalità del Verbum nel De Trinitate di Agostino d'Ippona». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**91 B].

Note

  1. M. Bettetini (ed.), Agostino. Il maestro e la parola. Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, Bompiani, Milano 2004, 20; A. Trapè, «S. Agostino. Il Maestro», in Sant'Agostino, Dialoghi, vol. III/2, Città Nuova, Roma 1976, 712. Tra le più recenti traduzioni in inglese del De magistro, segnaliamo la traduzione che compare in appendice a Saint Augustine's childhood: Confessiones book one, Garry Wills (ed.), Continuum, London 2001. Circa l'edizione critica più recente del testo del De magistro rimando a De magistro liber unus, cura et studio K.-D. Daur, in Sancti Aurelii Augustini, Opera, pars II, 2 (CCL, XXIX), Turnholti 1970, 139-203. Testo

  2. E. Piacenza, «El De magistro de san Agustín y la semántica contemporánea», in Augustinus 37 (1992) 55 e 57. Sulla struttura del De magistro si veda anche F.G. Crosson, «The structure of De Magistro», REAug 35 (1989) 120-127 e G. Madec, «Analyse du De magistro», REAug 21 (1975) 63-71. Testo

  3. C. Ando, «Augustine on Language», REAug 40 (1994) 49. Testo

  4. Agostino si riferisce a Cristo come maestro che insegna dentro (intus), usa quindi un avverbio di luogo e non un aggettivo. L'identificazione esplicita tra il maestro interiore e Cristo avverrà solo più tardi e in testi propriamente esegetici: In Iohannis epistulam ad Parthos III,13 e In Iohannis evangelium tractatus XCVI,4 e XCVII,1. Testo

  5. De magistro 12,40: «Come se ti interrogassi su ciò di cui stiamo trattando, vale a dire che niente può essere insegnato con le parole, e all'inizio a te sembrerebbe assurdo non essendo capace di vedere l'intero, così sarebbe dunque opportuno fare in modo che, affinché le tue stesse forze siano disposte ad ascoltare dentro quel maestro, io possa dire: quelle cose che, mentre io parlavo, hai ritenuto fossero vere e ne sei certo e confermi che le hai sapute, da dove le hai apprese?» Testo

  6. De magistro 14,45: «Piuttosto, quando hanno spiegato con parole tutte queste discipline, che dichiarano di insegnare, comprese quelle della morale e della filosofia, allora coloro che sono chiamati discepoli, considerano in se stessi se siano state dette cose vere, osservando cioè quella verità interiore come possono». Testo

  7. De magistro 9,26: «Poiché, se queste cose sono vere, come riconosci che sono, ti accorgi certamente di quanto le parole siano da ritenere inferiori a ciò per cui usiamo le parole, dal momento che l'uso stesso delle parole è già da anteporre alle parole stesse; le parole infatti sono in funzione di ciò per cui le usiamo; e di fatto le usiamo per insegnare». Testo

  8. La fonte diretta di Agostino è probabilmente Cicerone, De finibus bonorum et malorum III,xi,39. Per i possibili riferimenti ad Aristotele e Plotino si veda Etica Nicomachea I,vii,1097a 30-34 e Enneadi V,1,1. Testo

  9. Dn 3,94. Testo

  10. De magistro 10,33: «Quando infatti mi è dato un segno, se mi trova nella non conoscenza della cosa di cui è segno, non mi può insegnare nulla, ma se la so già, allora che cosa imparo mediante il segno?» Testo

  11. De magistro 10,35: «Quando ho imparato la cosa stessa, non ho creduto infatti alle parole di un altro, ma ai miei occhi; tuttavia in un certo senso ho creduto alle parole al fine di volgere l'attenzione, cioè affinché cercassi con lo sguardo, verso ciò che dovevo vedere». Testo

  12. Nel De magistro coesistono due modalità di conoscenza: la prima potremmo definirla per assenza (il segno sta al posto di o implica la cosa), la seconda è quella per presenza (vedo l'oggetto o il concetto). Testo

  13. De magistro 13,41: «Ma colui che parla, ignora di dire cose vere, anzi le ritiene estremamente false; si deve allora pensare che insegna le cose che ignora?». Testo

  14. Per una rassegna degli studi sulla teoria del segno in Agostino si veda A. Pieretti, «Introduzione generale», in Sant'Agostino, Enciclopedia, vol. XXXVI, Città Nuova, Roma 2005, 55 (note 255 e 266). Testo

  15. Il De dialectica fa parte di quel gruppo di opere, cui Agostino fa riferimento in Retractationes I,6, informandoci del fatto che, nel periodo in cui era a Milano in attesa di ricevere il battesimo, si dedicò ad elaborare un'opera in più libri sulle discipline, coinvolgendo con le sue domande le persone che erano con lui e che non erano del tutto aliene dai suoi interessi. Questi dialoghi sono da collocare dunque negli ultimi mesi del 386 o nei primi dell'anno successivo. Nelle Retractationes, Agostino ci avverte anche del fatto che, dei libri progettati, è riuscito a portare a termine solo il De grammatica e i sei libri del De musica. Gli altri sono stati portati a termine dopo il ritorno di Agostino in Africa, perché a Milano egli li aveva solo abbozzati, cf A. Pieretti, «Introduzione generale», in Sant'Agostino, Enciclopedia, vol. XXXVI, Città Nuova, Roma 2005, 6 e 9. Uno studio di cui tener conto è J. Pepin, Saint Augustin et la dialectique, Villanova University Press, Villanova 1976. Testo

  16. Circa la questione della datazione, gli studiosi sono concordi nel ritenere che la stesura dell'opera sia avvenuta in due momenti, sebbene la cucitura tra le due parti sia così perfetta che forse non ce ne saremmo accorti se Agostino non l'avesse detto esplicitamente. La prima parte, dunque, che corrisponde sostanzialmente ai primi tre libri (arrivava fino a III,xxv,35), sarebbe stata composta intorno al 396-397. Il seguito sarebbe stato aggiunto solo trent'anni dopo, quando nel 426-427, interrompendo la stesura delle Retractationes, Agostino aveva sentito l'esigenza di dare una conclusione ai primi tre libri del De doctrina Christiana e di aggiungerne un quarto. Cf G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De doctrina christiana, Morcelliana, Brescia 2001; M. Simonetti, «Introduzione», in Sant'Agostino, L'istruzione cristiana, M. Simonetti (ed.), Fondazione Lorenzo Valla -- Mondadori, Milano 1994; G.A. Press, «The Subject and Structure of Augustine's "De Doctrina Christiana"», AugSt 11 (1980) 99-124; E. Kevane, «Augustine's De doctrina christiana: A Treatise on Christian Education», RechAug 4 (1966) 97-133; L.M.J. Verheijen, «Le De doctrina christiana de saint Augustin», Aug(L) 24 (1974) 10-20. Testo

  17. Virgilio, Eneide, II,659. Anche Cenacchi ritiene che questa domanda abbia una funzione cruciale e afferma che dal tentativo di spiegare nihil ed ex si arriva ad introdurre la distinzione tra linguaggio segnico-cosale e linguaggio segnico-non-cosale, ossia tra linguaggio e metalinguaggio. Secondo Cenacchi, Agostino nel De doctrina Christiana preciserà poi il significato di segno, come aggiunta di significato attribuita dall'uomo alle cose, cf G. Cenacchi, «Problemi linguistici in S. Agostino», SapDom 38 (1985) 291. Testo

  18. De magistro 2,3: «(Agostino) Perciò la seconda parola in questo verso non è un segno, perché non significa qualcosa, e ci siamo sbagliati nel dire che tutte le parole sono segni o che ogni segno significa qualcosa. (Adeodato) Mi incalzi troppo in verità, ma quando non abbiamo cosa significare, è proprio sciocco proferire delle parole; ma tu adesso, mentre parli con me, credo che non emetti nessun suono inutilmente, ma con tutti quelli che escono dalla tua bocca, mi dai un segno, affinché io capisca qualcosa. Testo

  19. Un'altra differenza significativa tra il De magistro e il De doctrina Christiana riguarda proprio la figura del maestro: mentre secondo il De magistro non si potrebbe neanche attribuire il titolo di maestro ai maestri umani, nel De doctrina Christiana l'oratore è capace non solo di insegnare, ma addirittura di flectere, cioè di persuadere. A mio parere questa differenza rispecchia l'altra differenza che è andata emergendo con il De doctrina Christiana a proposito della necessità e dell'efficacia della grazia. Testo

  20. De doctrina Christiana II,ii,3: «I segni dati sono quelli che gli esseri viventi si danno a vicenda per mostrare, per quanto possibile, un moto dell'animo o qualsivoglia cosa sentita o compresa. E non abbiamo alcun motivo di significare, cioè di dare segni, se non per tirar fuori e far passare nell'animo altrui ciò che ha in animo colui che dà il segno». Testo

  21. De doctrina Christiana II,iii,4: «In realtà, le parole hanno tra gli uomini il primato nel significare le cose che sono concepite nell'animo, se uno le vuole portare fuori». Testo

  22. D.B. Jackson, «The Theory of Signs in St. Augustine's De doctrina christiana», REAug 15 (1969) 9-10. Testo

  23. Questi elementi della logica stoica si trovavano già espressi per esempio in Diogene Laerzio, Vitae, VII,xlvii,48; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos, VIII,124. Testo

  24. L'unico caso sarebbe quello rintracciabile nel Commento al Vengelo di Giovanni di Origene, cf D.B. Jackson, «The Theory of Signs in St. Augustine's De doctrina christiana», REAug 15 (1969) 13 e 30. Testo

  25. M. Baratin, «Origines stoïciennes de la théorie augustinienne du signe», REL 59 (1981) 260-268. Testo

  26. P. Brown, Augustine of Hippo, Faber and Faber, London 1967, 137. Testo

  27. D. W. Johnson, «"Verbum" in the early Augustine (386-397)», RechAug 8 (1972) 28. Testo

  28. Cf anche D. W. Johnson, «"Verbum" in the early Augustine (386-397)», RechAug 8 (1972) nota 10. Testo

  29. O. Du Roy, L'intelligence de la foi en la Trinité selon saint Augustin, Paris, Études Augustiniennes, 1966, 148, 269-71, 428-29. Testo

  30. De libero arbitrio I,ii,5: «Da ciò segue che ha creato dal nulla tutte le cose; da sé però non ha creato, ma generato ciò che è simile a lui, colui che chiamiamo l'unico Figlio di Dio, che, quando cerchiamo di esprimerci più chiaramente, chiamiamo Forza di Dio e Sapienza di Dio, per mezzo del quale fece tutte le cose, che dal nulla sono state fatte». Testo

  31. De magistro 11,38: «Ma circa tutte le cose che comprendiamo non consultiamo il parlante che risuona fuori, ma nell'interiorità consultiamo la verità che presiede alla mente stessa, tutt'al più spinti dalle parole a consultare. Ma insegna colui che è consultato, Cristo, di cui è stato detto che abita nell'uomo interiore, ossia l'immutabile forza di Dio e l'eterna Sapienza. Testo

  32. De Trinitate XV,xxiii,43. Cf anche De Trinitate XV,xii,22: «sed verbum ante omnem sonum, ante omnem cogitationem soni». Testo

  33. De Trinitate X,iii,5: «Che cosa ama dunque la mens, quando ardentemente si cerca per conoscersi, mentre è ancora ignota a se stessa? La mens infatti cerca se stessa per conoscersi ed è accesa da questo desiderio. Ama dunque, ma cosa ama? [...] Dunque, quando si cerca per conoscersi, si conosce già come uno che cerca. Dunque già si conosce. Perciò non può ignorarsi del tutto, essa che, mentre si sa come non conoscente, senz'altro si sa». Testo

  34. De Trinitate XIV,vi,8: «La mens dunque, quando mediante il pensiero si vede, si comprende e si riconosce; genera dunque questa comprensione e la sua conoscenza». Testo

  35. Cf R.G. Gassert, «The Meaning of "cogitatio" in St. Augustine», MSM 25 (1948) 239. Testo

  36. De Trinitate XI,iii,6. Testo

  37. Confessiones X,xi,18: «cogitando quasi colligere». Testo

  38. De Trinitate XI,viii,13: «Hae autem rerum formae, quoniam corporales atque sensibiles sunt, errat quidem animus, cum eas opinatur eo modo foris esse, quomodo intus cogitat». Queste forme delle cose, poiché sono corporali e sensibili, l'anima sbaglia in verità quando pensa che esse esistano nel medesimo modo in cui le pensa interiormente. A tal proposito si veda anche R. G. Gassert, «The Meaning of "cogitatio" in St. Augustine», MSM 25 (1948) 244. Testo

  39. Cf R. G. Gassert, «The Meaning of "cogitatio" in St. Augustine», MSM 25 (1948) 244. Testo

  40. S. Biolo, La coscienza nel "De Trinitate" di S. Agostino, PUG, Roma 1969, 147. Testo

  41. De Trinitate XV,xv,25. Testo

  42. Credo che Biolo sia giunto a una conclusione simile, in quanto afferma: «anche il nostro verbo interiore, prima di incarnarsi in una parola esterna che lo giustifichi agli altri, o prenda corpo dentro noi in un fantasma, preesiste già in qualche modo nella gestazione della scienza dalla quale ha origine», cf S. Biolo, La coscienza nel "De Trinitate" di S. Agostino, PUG, Roma 1969, 131. Testo

  43. De Trinitate VIII,vi,9; IX,vii,12; IX,ix,14; IX,x,15; IX,xi,16; IX,xii,17; IX,xii,18; X,i,2; XIII,i,2; XV,vi,10; XV,x,17; XV,x,19; XV,xi,20; XV,xv,24. Testo

  44. De Trinitate VIII,vi,9: «Così quando voglio parlare di Cartagine, è in me che cerco ciò che ne dirò, e in me trovo l'immagine (phantasia) di Cartagine; ma questa immagine l'ho ricevuta per mezzo del corpo, cioè per mezzo dei sensi del corpo, perché è una città in cui sono stato fisicamente presente, che ho visto, percepito con i miei sensi, di cui conservo il ricordo, cosicché ne trovo in me un verbo quando intendo parlarne. Questo "verbo" è l'immagine (phantasia) che ne conservo nella mia memoria; non questo suono, queste tre sillabe che pronuncio quando nomino Cartagine, neppure il nome che penso in silenzio durante un certo intervallo di tempo; no, è ciò che vedo nella mia anima quando pronuncio queste tre sillabe o anche prima di pronunciarle». Testo

  45. De Trinitate VIII,vi,9: «Ma non è così che cerco che cosa sia il giusto, né così che lo trovo, che lo vedo, né così che mi si approva, quando ne parlo, né così che approvo quando ne sento parlare, come se si trattasse di qualcosa che ho visto con gli occhi, o percepito con qualche senso corporeo, o udito da coloro che l'hanno appreso mediante la conoscenza sensibile». Testo

  46. De Trinitate IX,vii,12: «Dunque in quella eterna verità, per mezzo della quale sono state create tutte le cose temporali, vediamo, con lo sguardo della mens, la forma che è il modello del nostro essere, e di quanto facciamo in noi o nei corpi, quando agiamo secondo la vera e retta ragione; e come verbo presso di noi abbiamo quindi la conoscenza vera concepita delle cose, e generiamo [il verbo] parlando dentro di noi, ma nascendo non di separa da noi. Quando parliamo ad altri, restando il verbo dentro, ricorriamo all'aiuto della parola o di un segno sensibile affinché, mediante un'evocazione sensibile, qualcosa avvenga anche nell'animo di chi ascolta, un qualcosa di somigliante a ciò che permane nell'anima di chi parla. Così nulla facciamo con le membra del nostro corpo, nei gesti o nelle parole, con cui approviamo o disapproviamo la condotta degli uomini, che non anticipiamo con un verbo espresso dentro di noi. Nessuno infatti fa qualcosa volontariamente, che prima non abbia detto nel suo cuore». Testo

  47. De Trinitate IX,ix,14. Testo

  48. De Trinitate IX,xii,18 Testo

  49. De Trinitate IX,xi,16 Testo

  50. De Trinitate IX,xii,17: «Dunque è difficile capire perché non generi tutti e due [il verbo e l'amore]. Questa stessa questione si pone a proposito della Trinità suprema, Dio onnipotente creatore, ad immagine del quale l'uomo è stato creato, e ingenera molto spesso questa difficoltà per gli uomini che la verità divina, per mezzo del linguaggio umano (per humanam locutionem), invita alla fede». Testo

  51. De Trinitate IX,xii,17: «Perché non si crede o non si pensa che anche lo Spirito Santo è stato generato da Dio Padre, cosicché anche lui si chiami figlio? È ciò che ci sforziamo ora di investigare in qualche modo, nello spirito umano, affinché, partendo da una immagine inferiore, nella quale la nostra stessa natura, interrogata in qualche maniera, ci offre delle risposte che sono più alla nostra portata, dirigiamo lo sguardo del nostro spirito, meglio esercitato dalla creatura illuminata, alla luce immutabile». Testo

  52. De Trinitate XV,x,19: «Chiunque dunque può capire cosa sia il verbo, non solo prima che risuoni, ma anche prima che ci si volga con il pensiero alle sue immagini: questo infatti è ciò che non appartiene a nessuna lingua, ossia a nessuna di quelle che sono chiamate 'le lingue delle genti', come per esempio la nostra lingua latina; chiunque, dico, può capire questo, può ormai vedere attraverso questo specchio e in questo enigma una qualche somiglianza con quel verbo, di cui è detto: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo». Testo

  53. De Trinitate XV,xi,20: «Infatti il nostro verbo si fa in qualche modo voce del corpo, assumendola in modo da manifestarsi ai sensi degli uomini; così come il Verbo di Dio si è fatto carne, assumendola in modo da manifestarsi ai sensi degli uomini». Testo

  54. De Trinitate XV,xi,20: «Ma il Verbo di Dio che adesso cerchiamo di vedere in qualche modo attraverso questa similitudine, di cui è detto: Dio era il Verbo, di cui è detto: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, di cui è detto: E il Verbo si è fatto carne, di cui è detto: La fonte della Sapienza è il Verbo di Dio nei luoghi eccelsi. Bisogna quindi giungere a quel verbo dell'uomo, al verbo di un essere razionale, al verbo dell'immagine di Dio, non dell'immagine nata da Dio, ma fatta da Dio, verbo che non è neppure proferito nel suono, né pensato alla maniera del suono, che non ha bisogno di appartenere ad alcuna lingua, ma che precede tutti quei segni per mezzo dei quali viene espresso, e nasce dalla scienza che rimane nell'animo, quando la stessa scienza è detta dentro così com'è. Infatti la visione del pensiero è del tutto simile alla visione della scienza. Infatti quando la scienza è detta per mezzo di un suono, o attraverso un qualunque altro segno corporeo, non è detta così com'è, ma come può essere vista o sentita attraverso il corpo». Testo

  55. De Trinitate XV,xiv,24: «E di conseguenza in questo enigma è simile a quel Verbo di Dio, che è anche Dio, perché anch'esso nasce dalla nostra scienza, come quello divino è nato dalla scienza del Padre». Mi sembra che G. Lettieri giunga ad una simile conclusione in G. Lettieri, «La dialettica della coscienza nel "De Trinitate"», in L. Alici (ed.), Interiorità e intenzionalità in S. Agostino. Atti del I e II Seminario Internazionale del Centro di Studi Agostiniani di Perugia, Institutum Patristicum «Augustinianum», Roma 1990, 145-176, in particolare p.149. Testo

  56. De Trinitate XV,xv,24: «Quando il nostro verbo è vero e merita il nome di verbo, si può dire forse come si può dire che è visione da visione e scienza da scienza, così come si può dire essenza da essenza, come lo si dice massimamente per quel Verbo di Dio? Certo che no? Perché no? Perché per noi essere non è la stessa cosa che conoscere». Testo

  57. Si ritiene sia stato scritto nel 407. Cf J. Anoz, «Cronología de la producción agustiniana», Augustinus 47 (2002) 263. Testo

  58. In Iohannis Evangelium tractatus XIV,7: «Presta attenzione al tuo cuore. Quando concepisci la parola che dici, intendo dire, se potrò, ciò che notiamo in noi, non come lo comprendiamo, quando dunque concepisci la parola che proferisci, vuoi dire una cosa, e la stessa concezione della cosa nel tuo cuore è già la parola; non è ancora venuta fuori, ma è già nata nel cuore, e vi rimane per venir fuori; ma tu presti attenzione a chi ti rivolgi, alla persona con cui stai parlando; se è latina, cerchi una parola latina, se è greca pensi a parole greche; se è punica vedi se conosci il punico; ricorri alle diverse lingue in base alla diversità degli ascoltatori, per proferire la parola che hai concepito; ma ciò che avrai concepito nel cuore non era legato a nessuna lingua. Ora, dal momento che Dio, quando parla non si serve di nessuna lingua e non assume nessun tipo di linguaggio, in che modo è ascoltato dal Figlio, dal momento che Dio ha detto il Figlio stesso?». Testo

  59. Si tratta di una riflessione per molti versi analoga a quella proposta da Chomsky circa l'ipotesi di una grammatica universale. Cf N. Chomsky, Current issues in linguistic theory, The Hague, Mouton 1966; Id., Topics in the theory of generative grammar, The Hague, Mouton 1966; Id., La grammatica trasformazionale: scritti espositivi, Bollati Boringhieri, Torino 1975. Testo

  60. Sermo 223/A, 2: «Porto dentro di me la parola che ho concepito nel cuore e voglio partorire nelle tue orecchie ciò che ho concepito nel cuore». Testo

  61. Sermo 28,4: «Pensate così il Verbo di Dio [...] Queste cose ho detto del suono». Testo

  62. De magistro X,34. Testo

  63. Platone, Menone, 82a. Testo

  64. Questa distinzione era già presente in Plotino, Enneadi, V,i,10; V,ix,1. Testo

  65. De Trinitate XII,xiv,23. Testo

  66. De Trinitate XII,xv,24. Testo

  67. Per una trattazione specifica della dottrina dell'illuminazione, rimando a É. Gilson, Introduzione allo studio di sant'Agostino, Marietti, Genova 1983, 99-120. Testo

  68. Sono pienamente d'accordo con quanto afferma Gilson: «Che s. Agostino non abbia insegnato la reminiscenza platonica, è cosa abbastanza evidente, poiché noi scopriamo la verità nella luce divina sempre presente alle nostre anime e non in ricordi depositati un tempo in essa. Se dapprima ha fatto uso di espressioni platoniche, più tardi ne ha limitato il significato e l'ha ridotto nel modo più netto alla propria dottrina dell'illuminazione. Vedere le cose nella luce di Dio non implica la memoria platonica del passato, ma quella agostiniana del presente, cosa del tutto diversa», cf É. Gilson, Introduzione allo studio di sant'Agostino, Marietti, Genova 1983, 106. Testo

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