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L'amore tra fragilità e speranza.
L'esperienza di Dio in Simone Weil

di Donatella Pagliacci (20-21 marzo 2009)

Credere in Dio non dipende da noi,
ma dipende da noi non accordare
il nostro amore a false divinità

(S. Weil, Appunti sull'amore di Dio)

1. Premessa

«La purezza cristallina»1 di una delle intelligenze più illuminate e limpide del '900 risplende nelle pagine vibranti e appassionate degli scritti che Simone Weil dedica all'amore di Dio.2

La necessità di riaffermare la dignità della persona umana ispira la tormentata ricerca interiore di Simone, che diviene sempre più profonda e raffinata, man mano che affronta e chiarisce tanto la dimensione ontologica del malheur, quanto le cause della libertà e dell'oppressione sociale. Malheur rivela la condizione insuperabile, irriducibile dell'essere umano, che investe, irrimediabilmente e senza spiegazione, l'umanità in quanto tale. Non parla solo il linguaggio della colpa o della condanna e, prima ancora di essere un concetto, malheur è nel lessico weiliano, l'«esperienza dell'infelicità che è presente nel mondo come una realtà dolorosa inevitabile, di cui non si riesce a dare una spiegazione».3

Il nostro intervento vorrebbe cercare dunque di penetrare proprio dentro l'intima passione che la Weil mostra per l'umanità ferita, che la spinge a consumarsi fino a sprofondare nell'abisso del fragile, dove scopre il riverbero del mistero più recondito dell'amore di Dio, che è la sostanza stessa della mutilazione e dell'amarezza degli esseri umani.

Accanto alla consapevolezza dell'ineliminabile tormento che pervade l'esistenza umana, Simone prende, infatti, coscienza della permanenza di un desiderio che spinge a ristabilire un'armonia tra superiore e inferiore, ovvero tra un Essere che si abbassa per sollevare chi non è più in grado nemmeno di gridare il proprio dolore e un essere marchiato nella carne e nell'anima dalla sventura, che prova a volgere lo sguardo verso quel mondo superiore «dove non succede niente, perché succede sempre la stessa cosa».4

Diviene dunque essenziale chiarire la natura e il senso di questo legame sempre possibile e sempre difficilmente reale tra l'io e l'alterità trascendente e tra l'io e gli altri esseri con i quali l'io stesso condivide il proprio destino di fragilità e di morte. Vuoto e attesa, distanza e soglia, libertà e obbedienza, sono soltanto alcuni dei termini chiave del vocabolario weiliano con il quale proveremo a confrontarci, un vocabolario che rivela un pensiero profondissimo e paradossale in cui l'incontro con Dio è sempre cercato, temuto e, forse in ultima analisi, persino evitato.5

L'esperienza dell'amore di Dio in Simone Weil chiarisce e stravolge l'esigenza di trovare risposte sensate al mistero della sofferenza e del male. Raccogliendo l'appello di Gabriel Marcel vorremmo a questo punto lasciare a Simone Weil la parola:

A tutti gli uomini di questo mondo ella rivolge un interrogativo di gravità insuperabile. Dobbiamo certamente resistere a ogni tentazione di canonizzarla. Ma non possiamo sopportare che un inquisitore qualunque innalzi contro di lei una accusa iniqua. Ciò che si domanda ad ognuno dei suoi lettori è di aprirsi a lei, non per accogliere indiscriminatamente posizioni di pensiero spesso discutibili e talvolta contraddittorie, ma per ricevere da lei ciò che gli è destinato, ciò che può prendere radici nel suo destino personale. Perché si può affermare -- ed è il segno irrefutabile della sua universalità -- che Simone Weil reca un messaggio adatto ad ognuno di noi.6

2. L'amore è proporzionato alla distanza

Una pagina memorabile delle Riflessioni senza ordine sull'amore di Dio, offre una testimonianza lucida ed efficace della «follia d'amore che distoglie da sé e apre varchi».7 Qui infatti Simone, nel percepire la fragilità dell'esistenza umana sospesa entro un limite oltre il quale non è più possibile andare, manifesta al contempo: la passione ardente di Dio per l'umanità8 e la lacerazione della creatura da cui riesce a sorgere come linfa sempre nuova l'amore.

Non intendiamo rileggere le pagine di Simone Weil sull'amore di Dio cercando di ricostruire un sistema che, come osserva Del Noce, non potremo trovare,9 ma vorremmo piuttosto seguire l'itinerario da lei condotto lasciandoci guidare dalle incongruenze e anche dai suoi eccessi nella convinzione di incontrare un pensiero che, attraversando l'amore che l'essere umano rivolge a Dio, è capace di riconoscere e valorizzare la dignità della natura umana ferita e avvinta dall'infelicità, ma pur sempre orientata verso un'alterità irriducibile e distante, prossima e lontana.

Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, ma l'infelicità. Non stupisce che degli innocenti siano uccisi, torturati, cacciati dal loro paese, ridotti in miseria o in schiavitù, rinchiusi in campi o in prigioni, poiché esistono criminali capaci di compiere queste cose. Non stupisce nemmeno che la malattia costringa a lunghe sofferenze che paralizzano la vita e fanno di essa un'immagine della morte, poiché la natura è sottomessa a un gioco cieco di necessità meccaniche. Ciò che stupisce è il fatto che Dio abbia permesso all'infelicità di afferrare l'anima degli innocenti e di impadronirsene totalmente.10

L'infelicità affligge la vita dell'uomo da sempre ed indipendentemente dalle condizioni sociali di ciascuno. È in questo senso più di «una categoria di cui si serve per definire le situazioni di disagio che registra».11

L'infelicità è un dolore a parte, specifico, irriducibile. È una cosa ben diversa dalla semplice sofferenza. S'impadronisce dell'anima e la segna, fino in fondo, con un segno suo proprio, il segno della schiavitù».12

Ma l'infelicità possiede anche, nella riflessione della Weil, un volto per così dire positivo, almeno nel senso in cui l'intende Gabellieri, dal momento che esprimerebbe una condizione rivelativa di tipo metafisico sulla realtà umana: in quanto «condizione che investe tutta la storia umana, senza distinzioni né ideologiche né sociologiche [...] e contiene qualcosa di misterioso e di inesplicabile».13 L'infelicità definisce l'esistenza in quanto tale, ogni singola esistenza in quanto toccata dall'infelicità è svuotata del suo valore eccedente ed appiattita al rango di cosa: «L'infelicità è prima di tutto anonima, priva le sue vittime della loro personalità e le trasforma in cose».14 Nell'abbrutimento prevale un principio di uguaglianza che restituisce dignità ad ogni singolo, principe o schiavo, servo o padrone.

Penetrare nell'intima essenza dell'infelicità significa riconoscere una duplice impotenza: quella dell'uomo che a causa del malheur è irrimediabilmente separato dal bene che desidera15 e quella di Cristo che morendo come un criminale ha trasformato l'infelicità in una faccenda ridicola: Cristo, dice infatti la Weil: «è morto come un criminale di diritto comune, in mezzo ai ladroni, solo un po'più ridicolo di quelli. L'infelicità infatti è ridicola».16

La vita dell'uomo sembra così essere sospesa entro due polarità estreme tenute insieme dall'amore di Dio: necessità e distanza. L'amore di Dio, che è principio dell'unità e della separazione, deriva dall'essere stesso di Dio che, essendo amore, ama innanzitutto se stesso. Ora ammette la Weil, «all'infinito potere unificatore dell'amore corrisponde l'infinita separazione di cui esso trionfa».17 Separazione è sinonimo di creazione da cui dipendono appunto tanto la necessità, quanto la distanza.

L'uomo è dunque chiamato per un verso a prendere progressivamente coscienza della distanza «posta dall'amore divino tra Dio e Dio»;18 per l'altro a confrontarsi con la realtà circostante che reca il riflesso della necessità. Necessità, a sua volta, non come cieca e accecante passività di fronte all'inesorabile, ma quale contemplazione attiva della bellezza del mondo in cui «la necessità bruta diventa oggetto d'amore».19

Ora la stessa Weil sembrerebbe interessata a sostenere come la struttura stessa dell'essere umano sia in qualche modo predisposta ad acconsentire alla necessità, mediante quel dinamismo interiore che la Weil definisce anche come desiderio impotente del sovrannaturale20. Da qui deriva una sorta di inettitudine tale per cui l'anima umana è sempre in qualche modo ignara rispetto all'oggetto del suo desiderio e incapace di opporre la benché minima resistenza. Indebolita dal fardello dell'infelicità, l'anima «non ama come una creatura, con un amore creato. In lei quest'amore è divino, increato, poiché è l'amore di Dio per Dio che passa attraverso di lei».21

Lasciarsi attraversare dall'amore di Dio significa, dunque, per Simone, scoprire di essere stati rapiti e totalmente svuotati fino al limite della perdita totale del nostro egoismo individuale. L'uomo, così trafitto dall'amore infinito di Dio, può dimenarsi per cercare di opporre una qualche resistenza, ma la sua iniziativa è del tutto inutile: «L'uomo la cui anima rimane orientata verso Dio, mentre è trafitta da un chiodo, si trova inchiodata al centro stesso dell'universo. Esso è il vero centro, che non è nel mezzo, ma fuori dello spazio e del tempo, che è Dio».22

L'amore è dunque l'essere orientati e proiettati verso questo punto fuori dal mondo, ma senza dover rinunciare a vivere nel mondo, accanto ad altri esseri che con noi e come noi condividono l'esperienza del vivere nel punto di intersezione tra creazione e Creatore. L'esperienza cristiana gravita attorno a due orbite: la Trinità e la croce. L'una dice il nostro destino eterno e definisce i contorni ultraterreni della speranza, l'altra descrive lo stato attuale della nostra esistenza, la «nostra patria».23

3. In mezzo all'immensa e sventurata massa

La croce, icona universale della sventura e della salvezza, salda insieme infelicità e attesa e si offre come unico criterio di verità per ogni uomo in ogni tempo e a qualsiasi fede dica di appartenere.24 La croce unisce perché riscatta e risolleva l'umanità dall'infelicità: «L'infelicità senza la croce è l'inferno, e Dio non ha posto l'inferno sulla terra».25

Come è stato opportunamente osservato: «La riflessione sulla croce, dunque, si delinea nel senso di un'assunzione totale e non di un superamento dell'esistenza; infatti ciò che conta è accettare la realtà così com'è, cogliendo nel corso di tutta la storia la presenza del Cristo crocifisso come salvezza per tutti ipopoli, anche precristiani, per ogni persona, credente o meno».26

Se la sventura ci rende cosa tra le cose, l'amore riscatta l'umanità e riattiva la necessità di accompagnarci e sostenerci gli uni gli altri lungo il cammino della sofferenza e lo svuotamento di sé. Tuttavia dobbiamo ammettere, dice la Weil, che «nessuno può stabilire quali siano le relazioni fra un'anima e Dio; vi è un modo di concepire la vita di quaggiù, gli uomini e le cose, che è caratteristico dell'anima soltanto dopo la trasformazione prodotta dall'unione d'amore con Dio».27

Si penetra così nell'essenza stessa del suo pensiero che con Marie-Magdeleine Davy può «formularsi così: il distacco assoluto, l'annientamento dell'io perché Dio operi nell'anima. L'essere umano presta la sua umanità a Dio affinché, attraverso questa, possa entrare in contatto con altri».28 L'amore ispira e diviene il criterio di riferimento delle relazioni interpersonali private e pubbliche. Per mezzo dell'amore la Weil scopre il valore del decentramento di sé rispetto a se stessi, per mezzo del quale ciascun essere umano è chiamato a partecipare alla creazione e alla passione di Dio accompagnando e condividendo con gli altri esseri umani il destino della propria esistenza temporale. Essere con gli altri significa rinunciare, mettersi al secondo posto, come fa Dio. Solo restando in periferia l'uomo può sperare di conservare la giusta prospettiva nel rispetto e in vista dell'amore degli altri.

Da questo punto di vista si aprono due varchi alla riflessione. Il primo concerne vincoli e legami affettivi tra i quali domina l'amicizia, il secondo investe il legame con gli altri, anonimi compagni di lavoro e in certi casi rivali, desiderosi di sopprimerci o più semplicemente di farci concorrenza per «via dell'organizzazione della fabbrica».29

L'amicizia «è un dono incomparabile, senza misura, una sorgente di vita, non metaforicamente, ma letteralmente»,30 questa è un genere di amore capace di racchiudere «in sé un presentimento e un riflesso dell'amore divino. È l'amicizia, purché si usi questa parola rigorosamente nel significato che le è proprio».31 Ma la Weil si interroga anche sui moventi che spingono l'uomo cercare la compagnia dell'altro, come il bisogno e il bene. Possiamo desiderare di avvicinarci e stare con l'altro o per un proprio bisogno personale o per la promozione del bene, perché come dice la Weil, sulla scia di Platone: «Vi è una grande differenza tra l'essenza del necessario e quella del bene».32

Nel caso specifico dell'amicizia sembra esserci qualcosa che oltrepassa la ricerca di un bene, dal momento che essa è «un'armonia sovrannaturale, una unione dei contrari».33 L'amicizia si offre come occasione per una matura considerazione del rapporto virtuoso che deve intercorrere tra me e l'altro da me. Essa smaschera le insidie dell'egoismo e ci proietta verso un ordine di tipo soprannaturale. Si tratta dunque di un genere particolare di legame interpersonale, nel quale viene salvaguardata l'identità e l'autonomia di ciascuno. Si direbbe che nell'amicizia si realizza una perfetta fusione spirituale, capace di salvaguardare le diverse identità dalla confusione.34

Accanto a ciò si consideri che essa è autentica quando è realmente fondata su un legame di reciprocità,35 che trova nel riferimento al dinamismo interno alla vita trinitaria il suo fondamento e il suo senso.36 L'amicizia pura è rispetto della distanza; essa è «il miracolo grazie al quale un essere umano accetta di guardare a distanza e senza avvicinarsi quello stesso essere che gli è necessario come un nutrimento».37

Nell'amicizia vi è qualcosa di impersonale che, superando ogni forma di individualismo, eleva il rapporto con l'alterità verso una purezza limpida e disinteressata che nel linguaggio della Weil prende il nome di universalità:

L'amicizia ha qualcosa di universale. Essa consiste nell'amare un essere umano come sarebbe desiderabile poter amare in una forma particolare ciascuno degli esseri che compongono la specie umana [...] chi sa amare dirige su un essere umano particolare un amore universale.38

Nel testo che certo l'ha resa più famosa: La condizione operaia, la Weil, interrogandosi su cosa spinga gli uomini ad agire e cosa impedisca loro di ricercare il benessere comune condiviso, scopre l'importanza dell'interesse e dell'orgoglio. L'affanno che incessantemente attraversa la vita degli esseri umani è spesso aggravato dalla instabilità delle condizioni lavorative, come nel caso del lavoro di fabbrica sperimentato e profondamente analizzato dalla Weil. Il lavoro servile nelle officine, contrassegnato dalla sottomissione, determina un profondo e radicale senso di sradicamento per cui gli operai non sono altro che degli esiliati, confinati sulla terra della loro stessa patria.39

Afflitti da questa condizione cercano una via di fuga, almeno mentale, per questo tentano di spingere il pensiero all'evasione: ciò perché il pensiero si rifiuta di considerare la disgrazia che lo affligge. Pur di uscire dalla frustrazione che li tormenta, gli operai utilizzano frasi di propaganda coniata da gente che non è operaia. Al di fuori degli operai a nessuno sembra importare nulla di ciò che accade in fabbrica tanto che la Weil arriva a pensare che via un'intenzionalità latente di coprire la sventura degli operai con l'oblio. Gli operai appartengono alla «classe di quelli che non contano -- in nessuna situazione e agli occhi di nessuno... e che non conteranno mai, qualsiasi cosa accada».40

Questa consapevolezza le consente di approcciarsi mediante una sorta di metacognizione al sentimento di chi vive l'esperienza di fabbrica. Leggendo quella realtà dal di dentro si scopre che non c'è nulla di casuale in fabbrica: «il caso non ha diritto di cittadinanza in fabbrica», nemmeno il rumore. L'esperienza di fabbrica rappresenta una rottura rispetto alla vita reale, rottura resa ancora più drammatica dal fatto che in fabbrica si diventa i succubi del tempo, tutto è urto e necessità.41

In una parola, dice la Weil, in fabbrica non ci si sente a casa: non c'è diritto di cittadinanza, si è stranieri ammessi come intermediari fra le macchine e i pezzi forgiati. Questo porta inevitabilmente ad un senso di disfatta senza ritorno da cui si finisce per ammettere nel più profondo di se stessi di non contare nulla: «Tutti gli operai di fabbrica, o quasi, e anche quelli che hanno il piglio più indipendente, hanno qualcosa di quasi impercettibile nei movimenti, nello sguardo, e soprattutto nella piega delle labbra, che esprime il fatto d'essere stati costretti a considerarsi nulla».42

Questa situazione viene poi ulteriormente aggravata tanto dalla monotonia, quanto dal cambiamento: la monotonia è sfibrante, ma anche il cambiamento è deleterio e richiede un'obbedienza brutale: «Il nuovo lavoro è imposto improvvisamente, senza preparazione, nella forma di un ordine al quale si deve obbedire immediatamente e senza replica. Chi obbedisce così avverte allora brutalmente che il suo tempo è sempre a disposizione di altri».43

Nel lavoro artigianale, a differenza di quello di fabbrica, vi è ancora la possibilità di «abbracciare con il pensiero il prossimo avvenire, disegnarlo in anticipo, possederlo», che manca al lavoro industriale, nel quale, per contro si produce un ripiegamento sul presente che determina una specie di stupore. In questa prospettiva osserva: «Il solo avvenire sopportabile per il pensiero, al di là del quale non ha la forza di estendersi, è quello che, quando si è in pieno lavoro, separa l'istante nel quale ci troviamo dal compimento del pezzo in corso, se si ha la fortuna che esso sia di lavorazione un po'lunga».44

L'economia moderna e il sistema produttivo hanno determinato un'anomalia senza ritorno, tale per cui «le cose fanno la parte degli uomini, e gli uomini quella delle cose; questa è la radice del male».45 Entrato nel mondo, il male pervade ogni sfera dell'essere umano che finisce per disorientarsi e allontanarsi da se stesso e dagli altri. È questa la situazione descritta dalla Weil, la quale dopo aver ricostruito i moventi che spingono l'uomo ad agire, riconosce che la vita della fabbrica provoca un'invincibile durezza a cui nessuno riesce a sottrarsi.46

Nella fabbrica «una forza quasi irresistibile, paragonabile alla pesantezza, impedisce allora di avvertire la presenza d'altri esseri umani che soffrono, anch'essi accanto a te; è quasi impossibile non diventare indifferenti e brutali come il sistema nel quale si è invischiati, e, reciprocamente, la brutalità del sistema è riflessa e resa sensibile dai gesti, dagli sguardi, dalle parole di chi sta intorno».47

Estraniati dal luogo di lavoro, dagli altri, dal dominio sul tempo gli uomini sono ulteriormente alienati anche rispetto agli strumenti del proprio lavoro, per cui nessuno in fabbrica può dire che la macchina che sta servendo in un dato momento sia sua. Questa mancanza di legame con tutto ciò che lo circonda debilita la coscienza morale degli operai che sono sempre più impotenti rispetto al proprio destino: «Nessuna intimità lega gli operai ai luoghi e agli oggetti fra i quali si consuma la loro vita e l'officina fa di loro, nella loro stessa patria, degli stranieri, degli esiliati, degli sradicati».48

Lo sguardo compassionevole e leale della Weil nei confronti delle condizioni di vita di tanti diseredati «è direttamente proporzionale all'accettazione della propria sofferenza, dell'amarezza irriducibile, e quindi alla capacità di soffrire del dolore altrui».49 Nella compassione l'essere umano ripete un abbraccio che non è lui a dare; l'uomo può abbracciare la sofferenza dell'altro e assumerla come propria, perché «la compassione e la gratitudine discendono da Dio, e quando vengono donate attraverso uno sguardo, Dio è presente nel punto in cui gli sguardi s'incontrano».50 Questo sguardo pietoso verso la condizione dei diseredati nasce solo dall'amore. L'infelicità rivela l'amore di Dio, perché ci costringe ad una docilità altrimenti impensabile, fa percepire la scomposizione del nostro essere granitico, disintegra e frantuma tutte le certezze. Solo grazie alla polverizzazione operata dall'infelicità possiamo soccorrere l'altro: «Trasportare il proprio essere in un infelice significa assumere, per un momento, la sua infelicità, assumersi quindi volontariamente ciò la cui essenza consiste nell'essere imposto per costrizione e contro la volontà».51

4. Vogliamo vivere per qualche cosa

Condividiamo e facciamo nostro il giudizio, che già Peguy aveva usato per Cartesio e che Miklos Vetö rivolge al pensiero e l'opera di Simone Weil: «Una grande filosofia non è quella contro la quale non c'è niente da dire. È quella che ha detto qualcosa. Non è quella che non ha vuoti. È quella che ha dei pieni».52

La capacità di scoprire nell'anima umana la risorsa e la risposta alla drammatica sfida del male e della sofferenza,53 riporta in primo piano la questione della responsabilità personale dinanzi all'infelicità. Prestare l'assenso al male o lasciarsi trasformare mediante l'amore dipende dalla capacità dell'uomo di non ripiegarsi completamente su se stesso e di rimanere aperto alla sfida del nuovo che la bellezza e l'incontro con l'altro sono in grado di offrire. La vita e gli scritti appassionati di Simone Weil costituiscono in tal senso la testimonianza più efficace di quanto il desiderio puro e disinteressato sia capace di attraversare e stravolgere un'esistenza individuale fino a farle scoprire la bellezza dell'amore di Dio che «abita dentro ad ogni uomo, dapprima come germe invisibile».54

L'amore rinnova la tensione al bene e dirige l'energia positiva dell'essere umano verso ciò che merita di essere amato. Contrastando la potenza letale dell'egoismo la lettura di Simone Weil sull'amore apre un varco alla speranza perché non lascia al male l'ultima parola:

«Possiamo trionfare del male solo quando nutriamo una specie di indifferenza nei confronti della nostra contaminazione, quando riusciamo ad essere felici al solo pensiero che esiste qualcosa di puro, senza ripiegarci su noi stessi».55

Copyright © 2009 Donatella Pagliacci

Donatella Pagliacci. «L'amore tra fragilità e speranza. L'esperienza di Dio in Simone Weil». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [37 KB].

Note

  1. C. Bo, Nel fuoco della Weil, in G. Fiori, Simone Weil. La biografia interiore di una delle intelligenze più alte e pure del nostro secolo, Milano 1997, p. 11 Testo

  2. Il presente studio si limita a prendere in considerazione alcune opere nel vasto panorama degli scritti weiliani, tra cui: L'ombra e la grazia, L'amore di Dio, Attesa di Dio, Lettera a un religioso, Quaderni III, IV. Testo

  3. A. Pezzini, Pensare la soglia. La riflessione di Simone Weil tra filosofia e mistica, Siena 2007, p. 55. Testo

  4. J. M. Perrin, G. Thibon, Simone Weil come l'abbiamo conosciuta, tr. it. di G. Giaccio, Milano 2000, p. 27. Testo

  5. «Ho bisogno che Iddio mi prenda di forza; perché se ora la morte, sopprimendo lo schermo della carne, mi mettesse davanti al suo volto, io fuggirei» (S. Weil, L'ombra e la grazia, tr. it. di F. Fortini, Milano 2002, p. 107). Testo

  6. G. Marcel, Simone Weil testimone dell'assoluto, in M-M. Davy, Simone Weil, tr. it. di A. M. Scotti, Torino 1964, p. 11. Testo

  7. M.C. Sala, Il promontorio dell'anima, in S. Weil, Attesa di Dio, a cura di M.C. Sala, Milano 2008, p. XXVIII. Testo

  8. «In ogni istante il nostro essere ha come stoffa e sostanza l'amore che Dio nutre per noi. L'amore creatore di Dio che ci tiene in vita non è solo generosità sovrabbondante: è anche rinuncia, sacrificio. Non solo la passione, ma anche la creazione è rinuncia e sacrificio da parte di Dio. la passione ne è solamente la conclusione. Già come creatore, Dio si svuota della sua divinità, prende forma di uno schiavo, si sottomette alla necessità, si abbassa. Il suo amore mantiene nell'esistenza, in un'esistenza autonoma e libera, degli esseri diversi da lui, diversi dal bene, degli esseri mediocri. Per amore li abbandona all'infelicità e al peccato: senza un tale abbandono essi non esisterebbero. La sua presenza li priverebbe dell'essere come una fiamma brucia una farfalla» (S. Weil, L'amore di Dio, tr. it. di G. Bisacca e A. Cattabiani, Roma 1979, p. 105). Testo

  9. Cf. A. Del Noce, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, L'amore di Dio, p. 28. Testo

  10. S. Weil, L'amore di Dio, pp. 163-164. Testo

  11. Pezzini, Pensare la soglia, p. 57. Testo

  12. Weil, L'amore di Dio, p. 162. Testo

  13. M. Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Milano 1994, p. 98. Testo

  14. Weil, L'amore di Dio, p. 170. Testo

  15. «Le malheur brise en effet la dignité qui restait à Epictète, il abolit réellement l'esprit, la liberté spirituelle, la dignité pensante [...] Il consiste dans cette évidence d'une essentielle «modificabilité» de l'être, interdisant toute garantie absolue envers soi-même, toute certitude concernant la capacité, pour la volonté, d'être à la hauteur d'elle-même et du bien» (Gabellieri, Être e don. Simone Weil et la philosophie, Paris 2003, p. 195). Testo

  16. Weil, L'amore di Dio, p. 170. Testo

  17. Ivi, p. 172. Testo

  18. Ivi. Testo

  19. Ivi, p. 174. Testo

  20. «Le malheur vécu comme les tragiques grecs l'ont compris est donc déjà, de ce point de vue, une véritable expérience surnaturelle, celle d'une nuit obscure où l'amour du bien continue d'exister même sans objet, même sans révélation explicite, Dieu y répondant dans le secret. Il est ainsi participation à la «passion», où S. Weil verra le cœur de la vérité surnaturelle propre au christianisme» (Gabellieri, Être e don, p. 200). Testo

  21. Weil, L'amore di Dio, pp. 179-180. Testo

  22. Ivi, p. 181-182. Testo

  23. Ivi, p. 189. Testo

  24. «Ogni uomo che ami la verità al punto da non tuffarsi nelle profondità della menzogna per sfuggire il viso dell'infelicità, partecipa della croce di Cristo, qualunque sia la sua fede» (Weil, L'amore di Dio, p. 201). Testo

  25. Weil, L'amore di Dio, p. 201. Testo

  26. Pezzini, Pensare la soglia, p. 69. Testo

  27. Weil, L'amore di Dio, p. 127. Testo

  28. M.M Davy, Simone Weil, p. 38. Testo

  29. S. Weil, La condizione operaia, tr. it. di F. Fortini, Milano 1994, p. 123. Testo

  30. Weil, L'amore di Dio, p. 156. Testo

  31. S. Weil, L'amicizia pura. Un itinerario spirituale, a cura di D. Canciani e M. A. Vito, Troina (Enna) 2005, p. 117. Testo

  32. Weil, L'amicizia pura, p. 119. Testo

  33. Ivi. Testo

  34. ««L'amicizia è un'uguaglianza fatta di armonia», dicevano i Pitagorici. Vi è armonia perché vi è unità sovrannaturale tra due contrari che sono la necessità e la libertà, quei due contrari che dio ha combinato creando il mondo e gli oumini. Vi è uguaglianza perché si desidera mantenere la facoltà di libero consenso per se stesso e per l'altro» (Ivi, p. 123). Testo

  35. «Una certa reciprocità è essenziale all'amicizia. Se da una delle due parti ogni forma di benevolenza è completamente assente, l'altra deve sopprimere l'affetto dentro di sé per rispetto vero il libero assenso al quale non deve mai desiderare di portare oltraggio. Se una delle due parti non ha rispetto per l'autonomia dell'altra, questa deve rompere il legame per rispetto di se stessa» (Ivi, p. 123). Testo

  36. Cf. Ivi, p. 128. Testo

  37. Ivi, p. 124. Testo

  38. Ivi, p. 126. Testo

  39. Weil, La condizione operaia, p. 260. Testo

  40. Ivi, p. 94. Testo

  41. «La fabbrica potrebbe colmare l'animo con il potente senso della vita collettiva - si potrebbe dire: unanime - che è data dalla partecipazione al lavoro di un grande organismo. Tutti i rumori vi hanno un significato, tutti sono ritmati, e si fondono in una specie di grande respiro del lavoro comune cui inebria partecipare. Ciò è tanto più inebriante il quanto il sentimento della solitudine è inalterato. Ci sono rumori metallici, ruote che girano, morsi nel metallo; rumori che non parlano della natura né della vita bensì dell'attività seria, continua ininterrotta dell'uomo sulle cose. Si è perduti in quel grande fragore, ma contemporaneamente, lo si domina, perché su quel basso continuo, permanente e sempre mutevole, quel che risalta, pur fondendosi al resto, è il rumore della macchina che noi stessi stiamo impiegando. Non ci si stente piccoli come in una folla: ci si sente indispensabili»(Ivi, pp. 260-261). Testo

  42. Ivi, p. 262. Testo

  43. Ivi, p. 263. Testo

  44. Ivi, p. 264. Testo

  45. Ivi, p. 266. Testo

  46. «Il corpo è talvolta sfinito, la sera, quando esce dalla fabbrica; ma il pensiero lo è sempre e lo è di più. Chiunque abbia provato quello sfinimento e non l'abbia dimenticato può leggerlo negli occhi di quasi tutti gli operai che la sera escono da una fabbrica. Come si vorrebbe poter deporre la propria anima, entrando, insieme al proprio cartellino e riprenderla intatta all'uscita!» (Ivi, p. 265). Testo

  47. Ivi, p. 268. Testo

  48. Ivi, p. 270. Testo

  49. Pezzini, Pensare la soglia, p. 74. Testo

  50. Weil , Attesa di Dio, p. 112. Testo

  51. Weil, L'amore di Dio, p. 195. Testo

  52. M. Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, tr. it di G. Giaccio, Casalecchio (Bo), 2001, p. 190. Testo

  53. «Il bene infatti non ci viene dal di fuori: penetra in noi soltanto quel bene a cui acconsentiamo» (Weil, L'amore di Dio, p. 215). Testo

  54. Weil, L'amore di Dio, p. 148. Testo

  55. Weil, L'amore di Dio, p. 80. Testo

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