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Trinità senso dell'uomo. Fede e ragione in P. A. Florenskij

di Giuseppe Malafronte (Roma, 26-28 maggio 2011)

Il dogma della Trinità consustanziale diventa radice comune della religione e della filosofia e in esso viene superato il secolare conflitto dell'una con l'altra.1

1. Introduzione

Indagare la portata filosofica, teologica, ma anche esistenziale, della Trinità nel pensiero di Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937)2 significa giungere al cuore stesso della sua riflessione, all'anello di congiungimento verso cui tendevano tutti i suoi sforzi nei campi più disparati di ogni disciplina con cui si è cimentato. Essa rappresenta, e cercherò di dimostrarlo in queste pagine, il centro affinché potesse compiersi il suo grande progetto di una visione olistica del mondo, tanto quello fisico quanto quello metafisico.

Scopo di una vita è stato quello di costruire una Weltanschauung integrale in cui ogni tassello, dal pensiero più astratto alla vita più concreta, possa inserirsi e trovare dignità e spazio.3 Tale visione non è però una mera costruzione intellettuale o un opera di sintesi tra gli opposti, essa ha come proprio scopo di consentire al flusso vitale e dinamico di poter scorrere liberamente attraverso di essa.4 La visione totale di cui parla Florenskij ha un carattere completamente organico, oserei dire personale, ma per il momento non aggiungo altro. Per poter comprendere il pensare trinitario di Florenskij, che ora ci apprestiamo a chiarire, è importante non perdere mai di vista questo suo particolare metodo di indagine.

Ed è così che si giunge al suo interesse per la Trinità che non sfocerà mai in un vero e proprio trattato a se stante ma pervaderà, con la sua logica e il suo senso, ogni ambito esplorato da questo fecondo autore. Se, quindi, come vedremo, Florenskij affronterà e tratterà specificatamente il dogma trinitario secondo la teologia e lo indagherà attraverso l'analisi filosofica, ciò che rende davvero unico tale autore è la centralità data a tale concetto, o, per meglio dire, a tale/i Persona/Persone. Esiste un vero e proprio trinitario-pensiero che si va ad installare lì dove il pensiero classico erge divisioni e mura, un pensiero onnicomprensivo che si oppone alle rigide settorializzazioni e specificazioni che non permettono alcuna visione globale. La Trinità non è un fine ultimo cui tendere, meno ancora un concetto da raggiungere o una visione mistica da ricevere come dono: è questo ma anche molto di più. Essa è la radice unica su cui impostare tutta l'esistenza in quel legame inscindibile tra teoria e pratica, tra intelletto e azione. Va intesa in questo senso la breve frase di Florenskij riportata in alto; essa basterebbe, da sola, a rendere conto della centralità della Trinità nel nostro autore.

Ma perché proprio la Trinità? Qui accenno solo ad uno dei significati che hanno spinto il nostro autore a rintracciarla come la radice della sua Weltanschauung integrale. Da un lato vi è il molteplice, il movimento e la diversità delle Persone e il loro reciproco scambio, il tutto, però, dall'altro lato, tenuto indissolubilmente insieme nell'unità mai spezzata che non si riduce ad una semplice addizione. Tale è anche l'ambizione florenskijana: tenere insieme ogni molteplice aspetto di un campo di ricerca, e tutti gli aspetti globalmente, in una visione unitaria che non risultasse né solamente sommatoria né intellettualistica né, tantomeno, risultasse distruggere la realtà concreta e la dignità di ogni singolo tassello, anche il più insignificante.

Esplorare, quindi, le sfaccettature di questo trinitario pensiero significa andare ben al di là della singola interpretazione dogmatica della Trinità o del suo utilizzo da parte della filosofia, vuol dire entrare nei meandri più profondi e reconditi del pensiero e della vita per andare a rintracciare la sua presenza viva ed efficace che permette di cambiare lo sguardo, di rompere gli schemi tradizionali, di giungere ad una comprensione complessiva. In questo senso qui sarà utile non tanto una dissertazione sulla Trinità nella sua costituzione e nella sua economia, quanto un'analisi di alcuni ambiti in cui essa si rivela, più o meno esplicitamente, nel suo ruolo di radice.

Giocando con le parole, proprio come il nostro autore amava fare,5 sarà doveroso, dopo questa breve introduzione, dare spazio a ben due premesse.6 La prima è una premessa esistenziale: attraverso l'evoluzione delle vicende storiche e familiari di questo teologo russo si può ritrovare la traccia di un esistenza attraversata dalla Trinità. Si cercherà di comprendere come la sua stessa vita sia stata un'intensa ricerca di quel principio unitario e molteplice che solo la Trinità riesce ad incarnare.

La seconda è una premessa scientifico-matematica: attraverso la rottura dell'aridità del logicismo matematico e dell'ingresso principio vitale si affaccia anche qui, in una materia a prima vista immune, la traccia trinitaria di cui siamo alla ricerca. In questo ambito è importante notare come non sia possibile vedere la scienza come qualcosa di esatto che poco ha a che fare con la molteplice e "inesatta" vita.

A queste due premesse seguiranno due promesse.7 Promessa, come anticipa il termine, è qualcosa che si mette in azione ma solo potenzialmente, ma che ha già in sé tutti i requisiti dell'atto vero e proprio. La prima promessa è quella della filosofia con cui il nostro autore, scardinando alcuni principi pensati inamovibili, riesce a giungere nel pensiero trinitario. La Trinità diviene qui il baluardo per non cadere nel nulla di una scepsi assoluta in cui nulla più risulta essere certo.

La seconda promessa è incarnata nella teologia che, pur serbando un silenzio mistico di fronte al mistero di Dio, apre degli sprazzi di luce in cui godere la visione della Trinità. In tali pagine Florenskij oltre a spiegare la dottrina trinitaria secondo la dogmatica classica tende a inserirla nel tessuto umano concreto e a farla interagire con esso. Anche quando si appresta al cuore stesso del dogma trinitario non lo fa mai con l'aridità del trattato ma con la vivacità del ricercatore e con i toni di chi ha fatto una vera esperienza del Dio-Trinità e possa raccontarne le emozioni.

Tutte queste quattro sezioni saranno suddivise, a loro volta, in due: una prima parte, per così dire, distruttiva, in cui, con padre Pavel, si andranno a distruggere capisaldi all'apparenza inamovibili. Esso sarà il momento della catharsis. Ad essa seguirà, come sempre nel pensiero florenskijano, la parte costruttiva, cioè lo sforzo di inglobare nella visione totale e trinitaria ogni disciplina attraverso una logica, un processo diversamente impostato. Questo è il momento della mathesis.8

E dopo? Queste premesse e promesse verranno mantenute?

Sì, esse troveranno compimento, uno dei tanti esempi, nel terzo momento, quello della praxis.9 I campi di questa attuazione sarebbero infiniti, dalla letteratura alla vita concreta, dall'arte alla liturgia. Ho qui scelto, per motivi di spazio, l'immagine dell'amicizia, che, a mio avviso, può riassumere tutto il nostro percorso all'insegna della Trinità, simbolo nascosto, mezzo e fine, di tutto il percorso spirituale, mentale ed esistenziale di Florenskij.

È giunto ora il momento di mettersi in cammino sperando di portare almeno un po' di luce sul pensiero di Florenskij e su ciò che resta sempre "sotterrato" in esso: la radice trinitaria.

2. Le premesse

2.1. Una premessa esistenziale. Catharsis e Mathesis

Che cosa ho fatto io per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma in ogni istante o, più precisamente, in ogni fase della mia vita, da un determinato angolo di osservazione.10

L'infanzia

La citazione di Florenskij, tratta da una delle sue ultime lettere spedite alla famiglia dal gulag presso le isole Solovski, dimostra in maniera mirabile la sua vocazione ad un pensiero unitario. Come già accennato, nelle due premesse che seguiranno non apparirà chiaramente, almeno come termine esplicito, una trattazione sulla Trinità eppure se ne vedrà, in nuce, la sua azione e il suo porsi come radice che fanno maturare scelte e percorsi diversi.

Se la tensione verso l'integrità ha guidato la vita del nostro autore, il suo percorso non fu certo lineare né piano: fin dall'infanzia egli dovette innanzitutto liberarsi da tutto ciò che lo allontanava dalla contemplazione della totalità del reale. È proprio dalla più tenera età che si può scoprire l'ansia di ricerca del nostro autore.11

Della sua formazione, dalla giovinezza fino alla maturità e all'iscrizione alla Facoltà di Matematica di Mosca, ce ne parla lo stesso Florenskij nella bellissima testimonianza scritta per i suoi figli.12 Cresciuto in Georgia, dove la famiglia si era trasferita per seguire il padre, Aleksandr, ingegnere capo della costruzione della ferrovia Transcaucasica in quel territorio; il giovane Pavel crebbe in un ambiente sereno e pacifico, dove vigeva la più assoluta indifferenza religiosa13 e il culto invece per la matematica e la fisica.

In casa Florenskij si respirava una grande apertura mentale grazie soprattutto al capofamiglia con cui il nostro autore conserverà sempre un ottimo rapporto, anche dopo l'allontanamento da casa e la svolta religiosa che li porterà, inevitabilmente, a posizione distanti. Con la madre, figura assai affascinante, il giovane Pavel viveva un rapporto di profondo amore ma anche di distanza, forse dovuto al pudore di entrambi o ad una certa distanza che la genitrice, involontariamente, sembrava frapporre tra i due.14

Già in queste prime fasi, secondo Florenskij, si ravvisa un primo movimento di discostamento dalla temperie familiare per intraprendere una strada autonoma che non inficerà mai l'affetto verso i suoi familiari, ma solo il limite del loro approccio alla vita.15

Alla contemplazione della materia pura e semplice cui faceva riferimento suo padre, con occhio da vero ingegnere, egli contrapponeva invece una materia da contemplare inscindibilmente dalla vita ivi contenuta.16 È questo il primo punto di rottura: ad una visione arida, semplicistica e perfetta Florenskij, affianca senza distruggere, una visione più completa e dinamica che non escludesse alcun particolare. I due grandi pilastri familiari cui il nostro autore andò contro furono, da un lato, il disinganno scientista secondo cui la fisica rappresenta una perfezione senza anima e vita, dall'altro, il disinganno esistenziale secondo cui tutto si risolveva nell'immediato hic et nunc senza alcun riferimento né al passato né ad una dimensione sovrarazionale.

Contro il primo disinganno egli agì, con i suoi occhi di bambino, accostando alla mai rinnegata visione scientifica una visione oserei dire più profonda e complessa, in bilico tra una mitologia della natura ed una sua teologia, che trovava il suo perno centrale nella ricerca del particolare, del simbolo, del bello.17

Al secondo disinganno, risponderà la sua stessa coscienza prorompendo nel riconoscimento della religione come unico canale per comprendere la sua esistenza e quella degli altri. Ma procediamo con calma.

Fiabesco, bello, simbolo erano tutte cose che il piccolo Pavel ricercava nella florida natura che lo circondava e che non gli era stato mai insegnato in famiglia. A casa imparava già le prime nozioni di fisica e chimica impartite dal padre che poi applicava nelle sue lunghe passeggiate, ma ad esse affiancava sempre una visione diversa: non si accontentava della parzialità del dato arido. In ogni cosa cercava il lato misterioso,18 o per meglio dire, globale che, da un lato lo legasse al suo essere proprio questa cosa, ma, dall'altro lato, lo mettesse vivamente in comunicazione con il tutto.

La natura si presentava agli occhi di Florenskij non semplicemente come una macchina da "rodare", ma come una creatura da contemplare nella sua bellezza e nel suo mistero, a tratti magico. Allo sguardo paterno di tipo analitico egli aggiungeva uno scavo profondo di tipo sintetico e integrale19 che gli permetteva di scorgere ciò che c'era al di là di ogni semplice apparenza. Nella mente di questo giovinetto non esistevano scompartimenti a chiusura stagna, ma ogni percezione ne rimandava ad un'altra.20

Si ha così a che fare con un modo di vedere le cose e le persone completamente diverso, che poco ha a che fare con la scienza.21 È questo il modo di vedere trinitario, anche se in questo momento Florenskij si ferma solo col definirlo mistico.22

Si giunge così al secondo disinganno, quello esistenziale che lo porterà verso la religione. Cresciuto in un ambiente pressocchè agnostico,23 la ricerca religiosa nel giovane Florenskij nasce dagli strati più profondi del suo essere.24 In principio si è trattato di un'immagine generale e a tratti sbiadita che intendeva la religione come quella risposta alla sua sete di totalità, senza però incarnarsi in un qualsiasi credo storico.25 In un primo momento il suo rapporto con il nuovo mondo della religiosità apparve alternato e fluttuante26: ciò che lo colpiva principalmente era la carica vitale e onnicomprensiva che la religione portava con sé. La religione, più e meglio di ogni altra cosa, leniva la sete di conoscenza profonda e integrale del giovane Florenskij.27

Nel burrascoso rapporto personale con la persona di Dio, il nostro autore, apprezza della religione l'ansia di andare oltre di ritrovare in ogni cosa, al di là dell'apparenza fenomenica, il vero senso, il centro noumenico. In questa prima fase colpisce l'ingegno florenskijano l'estremo simbolismo che condivideva nelle sue ricerche e che ritrovava nel pensiero religioso, usando il termine nel suo uso più ampio possibile.

L'affacciarsi del religioso nella vita di Florenskij significò l'abbandono di una visione positivistica tout court senza però veleggiare sulle alte mete di un'altrettanto arida e sterile metafisica astratta: il simbolo, mettendo insieme due realtà -- spirituale e materiale -- non perdeva mai di vista né la particolarità e singolarità di ogni cosa, né lo schema generale a cui essa attivamente partecipava.28 Il simbolo è appunto quella premessa non ancora articolata che prenderà il nome di Trinità, è quel movimento dinamico che però non si perde mai in un circolo senza fine; è la certezza che non abbandona nessun particolare, che non generalizza tralasciando la concretezza.

L'affacciarsi del simbolo e della religione mandarono in profonda crisi la conoscenze acquisite da Florenskij che dovette vagliarle alla luce di queste sue nuove scoperte. La scepsi scientifica e l'esteriore perfezione matematica non reggevano alla loro prova: le verità di cui erano portatrici non riuscivano ad esaurire la sua sete di verità. Sì, il simbolo gli apri un nuovo accesso alla verità cui però non riusciva ancora a giungere e a cui non bastava la somma delle singole verità. Ed egli vide, o meglio intravide, la sua risposta in Dio.29 E in Dio, in quel Dio-Trinità, che si presentava a Florenskij il modo per sedare tutte le sue ansie, il modo per dare alle sue domande un senso.

Qui si conclude questo primo punto con la domanda angosciosa di verità che si cerca ma appare irraggiungibile, eppure con la speranza di poterla finalmente incontrare nelle trame nascoste dell'io più intimo, nell'essenza stessa della vita.30 Perché l'uomo è un cercatore di verità.

Il sacerdozio

Lasciamo ora la giovinezza di Florenskij per trasferirci nei tempi e nei luoghi dove maturò, quasi inaspettatamente, la sua vocazione. Già negli anni di formazione scientifica presso la Facoltà di matematica e fisica dell'Università di Mosca non lo abbandonò mai il desiderio di una comprensione maggiore e olistica della realtà, tanto da frequentare contemporaneamente i corsi di Storia della filosofia e, soprattutto, rinunciando alla carriera scientifica per iscriversi, nel 1904, all'Accademia teologica. Il travagliato percorso che lo portò al sacerdozio è anch'esso una implicita testimonianza trinitaria del nostro autore: da un lato la distruzione (catharsis) dell'ideale religioso dell'intelligencija russa distante dalle gerarchie, dall'altro la lotta interiore tra una scelta familiare e atea e una scelta monastica. Anche il sacerdozio rappresenta quella premessa silenziosa del camino trinitario nella vita di Florenskij. Ma andiamo con ordine.

Gli anni di formazione universitaria consentirono a Florenskij di approfondire le domande che già lo avevano attanagliato in gioventù. Iscrittosi alla facoltà di matematica e fisica egli non continuò la carriera scientifica ma preferì iscriversi all'Accademia teologica dove, lentamente, maturò la sua scelta di consacrarsi come sacerdote sposato della Chiesa Ortodossa Russa. Anche qui ci troviamo di fronte ad un doppio movimento, dapprima la distruzione dell'ideale dell'intellettuale russo legato agli ambiento della più raffinata intelligencija per poi costruire, fondandosi proprio sulla vocazione presbiterale, una nuova immagine di sé più completa.

C'era un dilemma che rodeva il vivo intelletto di Florenskij: abbandonarsi alla pura scienza, tutta perfetta nella sua visione complessiva che però non appagava appieno la sua sete, o lasciarsi andare ad una fede silenziosa e monastica che però, forse, mal si addiceva al suo spirito inquieto di indefesso ricercatore.31

In questo percorso verso la verità più piena e integrale egli trovò, con gli anni e con l'aiuto dei suoi maestri, una soluzione che ne mettesse insieme ogni aspetto. Accolse la scienza nel suo metodo e nelle sue analisi non rinunciando però mai a trovare risposte che andassero al di là di ogni apparenza e parcellizzazione; accolse la fede e il sacerdozio non come muta obbedienza o cieco riconoscimento, ma come atto dinamico tra se stesso e Dio. Ordinato sacerdote nel 191132 egli riuscì con tale gesto a segnare la strada, tutta personale, della sua ricerca tra la passione per la conoscenza e la passione per la trascendenza, non più contrapposte ma riunite, non confuse né distinte.33

È importante comprendere che anche questa scelta, e forse proprio questa, servono per capire la traccia trinitaria che si sta cercando di delineare in questa prima premessa. È nel cuore stesso dell'ordinazione sacerdotale che Florenskij rintraccia la sua stessa salvezza.34

2.2. Una premessa scientifico-matematica. Catharsis e mathesis

La matematica è la più importante delle scienze che formano il pensiero, essa approfondisce, precisa, generalizza e lega in un unico nodo la visione del mondo, educa e sviluppa, dà un approccio filosofico alla natura. Da noi, invece, la presentano come una disciplina morta che non serve a nessuno, terrorizzando così gli studenti.35

Per un pensiero scientifico integrale e trinitario: Bugaev e Cantor

Nel lungo cammino di comprensione e di approfondimento sia teorico che esistenziale Florenskij non abbandonerà mai la sua "prima" vocazione scientifica. Come si vede già dalla citazione posta in alto, la matematica rappresenta, naturalmente nella maniera indicata da Florenskij, un aiuto ad avere una visione globale del mondo. Interessarsi di filosofia e teologia, di linguaggio ed arte non sarà, per il nostro autore, un rinnegamento del suo pensiero scientifico ma un completamento che avrà numerosi addentellati e risonanze.36

È necessario, però, capire di quale scienza si stia parlando: c'è, quindi bisogno, innanzitutto di liberarla da ogni preconcetto sbagliato che si abbia su di essa e, cosa ancor maggiore, di una costruzione interna che non riesca a rispondere alla sete di totalità dello stesso Florenskij.

Florenskij lascia la casa paterna alla fine del 1899 e frequenta l'Università di Mosca laureandosi in matematica pura nel 1904 con una tesi dal titolo Le particolarità delle curve piane come luoghi di violazione della discontinuità. Nel nostro autore la riflessione scientifico-matematica sarà sempre al centro del suo pensare, sia come riflessione specifica,37 sia come sfondo e contesto per ogni suo altro scritto di natura anche differente. La matematica resta sempre lo sfondo primario della sua concezione del mondo e il metodo scientifico sarà sempre quello che Florenskij prediligerà nelle sue ricerche per il rigore e la correttezza, anche nelle sue analisi filosofiche, teologiche, artistiche e letterarie insieme.38

Naturalmente ciò che lo colpiva non erano le ricerche matematiche pure, egli era convinto fin dall'inizio che con la matematica si sarebbero aperte immense possibilità per la ricerca filosofica ed esistenziale. Per questo la scelta dell'università di Mosca si rivelò assai indicata. Infatti mentre a «San Pietroburgo l'indirizzo prevalente della ricerca scientifica era in mano ai positivisti, a Mosca si diffuse invece un orientamento più idealistico, poi una vera e propria scuola di pensiero filosofico-matematica (Società matematica di Mosca) ».39 L'orientamento verso la filosofia dell'Idealismo dell'Università moscovita apre scenari ben più ampi alla ricerca scientifica che non può fermarsi solo al suo ambito proprio di riflessione ma deve cercare di interpretare la totalità del reale.

Florenskij resta affascinato dalla proposta del professor Bugaev,40 che divenne poi suo maestro, per l'indubbia novità metodologica che proponeva: rimettere in discussione il metodo dominante dell'analisi matematica, incentrata sul principio di continuità, cioè sulla subordinazione dell'esistente e del suo accadere a leggi analitiche costanti e irrevocabili. Si trattava di far entrare nei principi matematici la realtà concreta, la casualità, l'orizzonte metafisico e trascendente, tale teoria è detta aritmologia o teoria della discontinuità. Bisognava concretizzare la matematica perché essa non può essere considerata e trattata come un "arido" sistema formale-razionale di simboli; le sue formule devono invece essere "riempite" con i contenuti legati alla concretezza.

La teoria della discontinuità ammette che sia necessaria una concezione generale del mondo. Per far ciò l'indagine deve condurre ad abbracciare non solo i fenomeni che si sviluppano in maniera continua e piana, senza fratture, ma anche su ciò che è discontinuo, non vincolato e che contiene nella propria struttura il principio del caos. Secondo Florenskij infatti una delle idee più antiche della filosofia, la lex continuitatis, cioè che non si possa andare da un estremo all'altro senza passare per un punto intermedio, si è impadronita, nel corso del tempo, di tutte le scienze. La continuità ha, così, esteso la propria influenza a tutte le ricerche scientifiche. È diventata totalizzante e fuorviante. La conseguenza principale è che il principio di continuità elimina il concetto di forma: laddove un processo è continuo, non segmentabile, non è possibile riconoscere gli oggetti, caratterizzare l'identità. Il progetto globale di un fenomeno, ciò che lo unisce alle sue parti ed ai diversi elementi pur distinguendolo da essi, rimane nascosto.

Tale idea della discontinuità sarà, da quel momento in poi, una delle idee chiavi del suo pensiero al di là dell'ambito matematico. La ritroveremo presente anche nelle future opere di filosofia, teologia ed arte.41 L'idea della discontinuità aprì la strada alla contemplazione del mondo nella sua unità integrale, intesa non in senso astratto o concettuale, bensì nella sua concretezza completa e "storica".

Altra grande figura di riferimento per questi anni di formazione è quella del matematico G. Cantor42 e soprattutto l'incontro con la teoria degli insiemi nella quale Florenskij subito intuì una nuova occasione per poter continuare la sua costruzione di una Weltanshauung integrale. Al centro del pensiero cantoriano vi è un tema essenziale: quello dell'esistenza dell'infinito nelle condizioni del finito. Punto di partenza è la netta distinzione tra il concetto di "infinito attuale" e quello di "infinito potenziale". Per capire questa distinzione lo stesso Florenskij si serve della definizione di quantum. Ogni quantum può essere duplice: costante e fisso nel tempo e variabile, dinamico; entrambi si completano e si contrappongono a vicenda.43

Per Cantor l'infinito potenziale non ha realtà effettiva, è legato al contingente, .44 Esso non si conclude mai, resta astratto, resta un concetto limite dello stesso infinito: è una negazione che non entra nelle profondità recondite dello stesso infinito.

L'infinito attuale invece è l'unico reale.45 Esso è il presupposto per ogni infinito potenziale; per permetterne i suoi infiniti mutamenti è necessario l'infinito attuale quale "limite sovrafinito". L'infinito è il massimo assoluto e quindi l'unico vero infinito, ciò che veramente trascende ogni cosa. Tale concezione viene detta teoria del Transfinito. È importante volgersi verso questo "vero" infinito altrimenti si corre il rischio di illudersi nella costruzione di un infinito molto, molto finito, a portata della riflessione umana e della sua apprensione mentre l'infinito è proprio ciò che sta di fronte, l'alterità assoluta che però nello stesso tempo appartiene ad ogni soggetto.

Dalla teoria del Transfinito Florenskij raccoglie la scintilla che gli farà approfondire un'altra categoria centrale della sua riflessione: l'antinomia. Si vedrà in seguito, con una maggiore profondità, la valenza di tale concezione, basti ora dire che constatare l'antinomia reale della verità, cioè ammettere contemporaneamente due cose, apparentemente opposte, risulterà assolutamente logico seppure secondo una logica diversa.46

Florenskij in conclusione non rinnegherà mai la sua formazione scientifica e soprattutto l'apporto di questi due grandi matematici, che con molto acume hanno precorso i tempi della ricerca tanto da fargli ammettere che una "nuova scienza" è pensabile solo grazie all'azione di persone qual Bugaev e Cantor.47

A partire da questi incontri Florenskij svilupperà ancora di più la sua idea, la sua domanda, che accompagnerà tutto l'arco della sua riflessione teoretica: è possibile un senso unitario, integrale, comprensivo eppure non apprensivo, non metafisico, rispettoso dell'altro, di qualsiasi natura sia: mondo, uomo o Dio. La risposta sarà trovata nel concetto vivente di Trinità.

La logica del numero "tre"

Muovendosi ancora su un terreno di logica formale e matematica Florenskij dedica una piccola parte della sua opera fondamentale, La colonna e il fondamento della verità,48 proprio alla logica interna del numero "tre", che, a differenza del "due" e del "quattro", meglio riesce a mettere insieme il momento della diversità e dell'unità.49 Questo numero non indica la perfezione identitaria del due né il caos multiforme del quattro, ma stabilisce un mirabile equilibrio tra questi due estremi: da una parte mantiene l'unità, dall'altro la diversità assicurata dal confronto tra i due elementi al cospetto di un terzo.50

Il numero "tre" non è solo di pertinenza concettuale o solo appannaggio della concezione trinitaria di Dio, ma è una «categoria fondamentale della vita e del pensiero» di ogni uomo. Senza sforare nel campo di analisi successivo proprio della riflessione filosofica e teologica, qui è importante segnalare come un concetto numerico-matematico diviene icona di quel pensiero nuovo e integrale cui Florenskij tendeva con tutte le sue forze. Tale passaggio è possibile senza tema di essere smentiti perché, anche solo nel campo scientifico, Florenskij proponeva una concezione di tipo formale e, oserei dire, ontologica del numero che non rappresenta solo una quantità ma un intero organismo multiforme.51

Se da un lato, quindi, la Trinità informa la realtà cui si comunica, è in questa stessa realtà, nella sua forma, che esiste già una traccia, una scintilla per accoglierla. La filosofia e la teologia trinitaria che a breve tratteremo non scendono dall'alto sull'esistenza e sulle riflessioni scientifiche di Florenskij per influenzarle dall'esterno, ma svelano ciò che di già implicito vi era in esso. Senza questo ulteriore chiarimento qualsiasi presupposto di una visione integrale che rispetti nello stesso tempo il più infimo particolare scadrebbe in un misero idealismo assolutizzante in cui l'idea più forte ingloberebbe e condizionerebbe quella più piccola e debole.

3. Le promesse

3.1. La Trinità nel percorso filosofico

Dopo un accurato studio della teodicea, risulta che soltanto la Triunità è en kai pollà in senso proprio e definitivo, cioè in essa soltanto trova una risposta la questione fondamentale di tutta la filosofia. [...] Ecco perché il supremo dogma della fede è quello spartiacque a partire dal quale si diramano le diverse riflessioni filosofiche.52

Inizia qui la seconda parte del nostro percorso che ci vedrà ora impegnati nello scandagliare i rapporti che Florenskij traccia tra la Trinità da un lato, e la filosofia e la teologia dall'altro. In queste pagine il discorso diverrà più esplicito riguardo ai temi e alla presenza costante del concetto trinitario. Anche in questo caso sarà presente una pars destruens che tende, nelle intenzioni del nostro autore, ad appianare le difficoltà e a pulire il campo di indagine da ogni tipo di preconcetto o idea sbagliata. Ad essa seguirà poi la pars costruens, quella più propriamente attiva e teoretica.

Entrambi i percorsi, più quello filosofico che quello teologico, useranno, a volte, come sinonimi di Trinità, la parola Verità che andrebbe presentata con molto più spazio e tempo nel panorama florenskijano,53 ma che qui lasciamo, per il momento, da parte.

Fatte queste brevissime chiarificazioni è giunto il momento di incamminarsi.

Catharsis

Florenskij deve, nella sua proposta filosofica, prima di tutto, sgombrare il campo da tutta una logica di tipo duale e identitario che cercava la verità attraverso i due classici pilastri del ragionamento: il principio di identità e quello di ragion sufficiente.

La verità, classicamente intesa, si basa sui due principi fondamentali della logica: il principio di identità e quello di non-contraddizione. La Verità intesa da Florenskij è invece tutta pervasa da contraddizioni che mettono in crisi proprio la linearità di questi principi. Mentre la verità era pensata in una sola direzione, forte, ora si chiarisce, invece, la sua natura complessa, frutto di una ragione che trova basi altrettanto complesse e diverse. È nella ragione, dove confluiscono pensieri ed azioni, vita e riflessione, che nasce l'esigenza di coniugare i due lati della Verità, quello del finito e quello dell'infinito. La ragione non procede più secondo un piano monodirezionale, ma ha una struttura biassiale, duplice, fedele alla concretezza e tesa, al contempo, verso le profondità ontologiche del senso. La ragione che qui si delinea è chiaramente simbolica,54 intendendo con questo termine proprio la capacità di mettere insieme senza confusione i due momenti della concretezza e della trascendenza. È chiaro che la Verità và da una parte rintracciata con l'ausilio della ragione, ma dall'altro si trova sempre al di là di essa, la trascende completamente, proprio come il simbolo è già tutto il suo significante anche se non lo rivela pienamente, conservandone il mistero. Inoltre essa si ritrova non grazie ad un processo razionale ed astratto, ma solo immergendosi nell'esperienza vissuta, nel concreto contesto storico che contiene tutte le molteplici verità, simboli della Verità.55

Il raziocinio si muove solo per affermazioni che si dimostrano autoevidenti: è superflua, oltre che impossibile, ogni altra motivazione. I giudizi che esprime sono sempre assolutamente validi anche se relativi al particolare cui si riferiscono; essi non cercano nemmeno di assurgere a regola generale, ad inserirsi in una complessità più ampia. Nel momento, però, che tale raziocinio cerca l'evidenza e l'esistenza della verità si ritrova in mano un mero concetto senza alcuna vita, senza concretezza.

Per avere la certezza della Verità bisogna metterla in atto, verificarla attraverso il giudizio, farne cioè esperienza. Ogni percorso veritativo si basa, per Florenskij, sull'attendibilità (certitudo) di ogni giudizio: l'atto fondamentale della conoscenza è il giudizio. Il che vuol dire che la Verità si rivela per mezzo dell'affermazione di essa, nel suo concreto esercitarsi attraverso le verità. Questa constatazione, ovviamente, suscita subito la domanda: quali sono i criteri che garantiscono la giusta scelta del giudizio? Ossia, quale è il segno rivelatore che occorre cogliere nel giudizio per essere certi dell'esattezza della sua affermazione?56

Nel pensiero del nostro autore russo ci sono due possibilità per fondare un giudizio: il giudizio o è dato immediatamente, fondandosi su un'immediata "evidenza dell'intuizione",57 o è dato mediatamente, fondandosi su una "mediata evidenza della dimostrazione". Ma sta proprio qui il nucleo centrale del problema su cui Florenskij richiama l'attenzione: è vero che sia nel primo che nel secondo caso si arriva a una evidenza certa del giudizio; ma si tratta di un'evidenza insufficiente. Il motivo è che sia all'evidenza dell'intuizione che a quella della dimostrazione manca il criterio certo della Verità.

Per quanto riguarda l'intuizione, per esempio, alla domanda in che cosa consista l'immediatezza si risponde: "Nel fatto che ogni immediatezza è se stessa; ogni A è A". Ora è chiaro che la ragione di questa affermazione, formulata nello spirito dell'autoidentità e dell'auto-evidenza, non è sufficientemente fondata. Perché se fosse così bisognerebbe definire A ricorrendo a un altro da sé, un non-A. Ma ciò non è possibile a causa della legge d'identità. Per poter dar ragione (cerititudo) di un affermazione autoidentitaria sarebbe necessario un secondo concetto che la dimostri vera, ma con ciò si verrebbe meno all'intuizione immediata della legge di identità.

Altrettanto problematico è il caso dell'evidenza della dimostrazione. Se l'evidenza di un giudizio consiste nel fatto che esso trova il suo fondamento in un altro giudizio, allora giustificare un giudizio significa ricorrere a un altro e così via, fino a far nascere una catena infinita di giustificazione dei giudizi. L'impossibilità di una tale operazione sta nella ragione umana che, per la sua limitatezza, è incapace di un tale regressus in infinitum.

Detto ciò diventa chiaro che né nel caso dell'intuizione né in quello della dimostrazione si può parlare dell'evidenza del giudizio. Se l'intuizione, da una parte, si può realizzare per la sua finitezza, dall'altra non ha un fondamento razionale sufficiente, non apporta reali conoscenze. La dimostrazione, al contrario, avendo come base la legge della ragione sufficiente, ha un fondamento razionale, ma, per la sua infinitezza, non è praticamente realizzabile. Da sole, l'intuizione e la dimostrazione, non riescono a rendere ragione della Verità, mancano di coglierne la certezza. Infatti, affinché il giudizio possa soddisfare il criterio della verità, esso dovrebbe essere fondato sia sull'immediata evidenza dell'intuizione che sulla mediata evidenza della dimostrazione.

È la stessa attività della ragione a rivelare l'esistenza della sua natura "bi-nomica, bi-centrica, bi-assiale". Essa, cioè, viene coordinata da "due leggi" le quali, sebbene fondamentali e inevitabili per la ragione come tale, sono tra loro del tutto antinomiche: si tratta della legge d'identità e della legge di ragion sufficiente.

Per legge d'identità Florenskij intende l'insieme delle leggi analitiche del pensiero che esprimono l'esigenza di pensare un oggetto determinato.58

In concreto la legge d'identità rappresenta la staticità del pensare con la quale ogni A viene riconosciuto dalla ragione solo come A e nient'altro (A=A). È evidente che il criterio dell'immediatezza, rappresentato dalla formula A=A, non è in grado di assicurare la certezza di questa affermazione autoevidente. Si tratta di una cieca equazione tautologica -- qualcosa è perché è -- che minaccia di non essere mai dimostrata, né di dimostrarsi come fondamento della realtà.

Difatti, la legge d'identità, che pretende di essere un fondamento assoluto e universale di ogni intuizione, è in realtà infranta da ogni intuizione reale.59

In altre parole, un'eterna affermazione dell'Io porta solo ad un'eterna negazione di ciò che è diverso da tale Io. L'affermazione veritativa del principio di identità non reca assolutamente guadagni alla conoscenza, né approfondimento alla ricerca di senso, ma è una polarizzazione estrema del discorso sul soggetto conoscente che non ha nulla da chiedere alla realtà che lo circonda perché priva dell'essere identitario.60

Risulta evidente che aderire alla formula A=A significa cadere nel vuoto dell'affermazione Io=Io e, quindi, nella chiusura di sé, nell'egoismo che rifiuta categoricamente l'esistenza di ogni diversità e pluralità, sia fuori che dentro di sé.61

In questo senso, assunta come "legge di vita", la formula A=A forma uomini privi di esistenza reale, uomini che non sono individui ma solo "ombre razionalistiche di persone". La legge d'identità plasma, da sola, un universo senza alcun contatto e rimando con la vita, con la realtà concreta, regno della pluriformità e del movimento dinamico: la legge d'identità regna sovrana su dei sudditi che però non hanno una realtà concreta.62

Assodato che il principio di identità non può, da solo, reggere il confronto con la vita non riuscendo ad andare oltre se stesso, il nostro autore passa in rassegna l'altro grande principio veritativo: il principio di ragion sufficiente. Secondo Florenskij è altrettanto inimmaginabile che la ragione possa funzionare fidandosi esclusivamente della legge della ragion sufficiente, basandosi cioè su un giudizio dato mediatamente (discursio). La certitudo di ogni "giudizio mediato" si basa, come dice il nome stesso, sulla riducibilità a un altro giudizio. Grazie a ciò ogni giudizio costituisce la conseguenza di un altro, nel senso che ciascun A si fonda su un non-A, cosicché vale che A=B.63

Dunque, dimostrare un giudizio significa mostrare come esso costituisce la conseguenza di un altro e significa ricorrere al giudizio fondante. Il problema è che, seguendo tale logica della dimostrazione, la ragione non può giungere mai a un dato sicuro e certo. La legge della ragion sufficiente trascina la ragione in un processo senza fine, senza nessuna speranza di giungere a un risultato definitivo: ogni giudizio rinvia ad un altro giudizio e così all'infinito.64 Tutta la razionalità, tutto il criterio della dimostrazione sta nella possibilità di giustificare "ciascun gradino della scala discendente dei giudizi".

Risulta, perciò chiaro che né l'intuizione né la dimostrazione appagano la ricerca della Verità; difatti, nessuna della due ottiene da sola la certitudo, la certezza reale e concreta. Non resta che percorrere una strada alternativa rispetto a quella classica che vedeva i due principi contrapposti tra di loro. Florenskij postula che le due leggi della ragione non possono esistere l'una senza l'altra: una funzione presuppone l'altra, e allo stesso tempo tiene fede all'idea classica che le due leggi si escludono a vicenda.65

Il dramma della ragione sembra irrisolvibile. Come conciliare la finitezza e staticità dell'una (legge d'identità) con l'infinitezza e dinamicità dell'altro (principio di ragion sufficiente)? Secondo Florenskij, a questo punto restano solamente due possibili soluzioni: o rassegnarsi alla scepsi raziocinante, accettando non solo l'impossibilità di arrivare alla conoscenza della Verità, ma addirittura riconoscendo come chimerica l'idea stessa della Verità; oppure cercare tenacemente una via alternativa della conoscenza.66

In entrambe le direzioni si assiste di fatto al consumarsi della ragione, al suo smarrimento, proprio perché questa non può accontentarsi di una verità semplicemente assertoria, e non trovando in sé i mezzi sufficienti per una chiarezza apodittica finisce per sprofondarenel dubbio assoluto e nella totale epochè, nell'assenza di ogni giudizio.

Bisogna prescindere dalle due leggi67 e nel contempo conservarle nonostante l'epochè. Di fronte ai tentativi di razionalismo filosofico e teologico, Florenskij sottolinea come il criterio razionale è una direzione, non un fine. Da questa aporia insormontabile dell'epochè il pensatore non può affatto sottrarsi.68 In questa sua ineluttabilità l'epochè assoluta deve essere intesa come una dolorosa esperienza necessaria.69

La coscienza assetata di verità cade in questo tormentoso inferno scettico, di cui si mostra tutta l'angosciosa agonia, ma anche tutta la profonda e autentica passione per la verità.70

Il passaggio che consente all'uomo di oltrepassare questo tormento scettico forse consiste nell'accesso ad un nuovo suolo, quello della possibilità, quello del dialogo mai precostituito, mai regolato dai rapporti di forza soggetto-oggetto, quello della vita reale e concreta.

Un passaggio che invoca una dichiarazione di speranza,71 chiede che si conceda credito alla relazione, mai stabile, che si instaura tra la ragione e la vita, tra la conoscenza e l'esperienza, tra l'intuizione e il discorso. È una speranza fondata, "logica" perché non è campata in aria, ma si fonda sul principio dell'esperienza e della vita come nuova modalità di approcciarsi al reale e alla verità, di contemplare quel senso ulteriore nascosto e presente nella stessa realtà mondana. È una speranza, una possibilità che ogni volta chiede di essere confermata, assicurata; non vi possono essere più statiche certezze, ma solo verità molteplici e in divenire che però non eliminano l'unità di senso che la Verità, pur nelle sue infinite forme, possiede. La relazione cognitiva nella sua originalità viene a essere illuminata dall'umiltà della conoscenza vera: non catturiamo il dato, ma l'accogliamo con fiducia, con un atto immediato e ragionato insieme.

Per costruire questa fiduciosa esperienza della Verità c'è bisogno di formulare alcuni giudizi fondamentali: che la Verità esiste, che essa sia conoscibile e che sia data come intuizione ma sia nello stesso tempo dimostrata. La Verità è quindi, sotto il medesimo riguardo, intuizione e discorso, cioè frutto di un processo.72

Da questa sintesi deriva una completa trasformazione degli esiti teoretici delle due categorie, prima esaminate isolatamente nei loro limiti oggettivi, poi compenetrate dialetticamente e sinergicamente. Intuizione e discorso si danno nella loro reciprocità, conservando tuttavia il loro carattere oppositorio e irriducibile, in una serie indefinita di fondamenti, orientati verso l'unità.73

La Verità, contro ogni definizione monolitica e classica è vista da Florenskij come l'agglomerato dinamico e positivo di tutta la realtà in ogni sua dimensione spaziale, temporale e ontologica in cui le differenze non si conciliano pianamente ma si concordano nella loro irriducibile lontananza.74

Con questa definizione la Verità si riappropria del principio vitale, lo rende logico, razionale, discutibile e dinamico. Tale Verità ha bisogno di un approccio anch'esso differente da ogni altro metodo usato precedentemente. Questa Verità non è più un concetto ma diviene un ente dinamico e cosciente che Florenskij riconosce appieno nella Trinità, anche dal punto di vista teologico.

Mathesis

La ricerca della Verità si è andata modulando attraverso l'incontro tra la legge d'identità e il principio di ragion sufficiente, in un processo dinamico e votato verso la concretezza. La concretezza, dal canto suo, dice multiformità, dice incontrollabilità, dice mistero, dice, insomma, tante -- forse troppe -- cose. Innanzitutto risulta inammissibile ormai un pensiero modellato sul solo soggetto conoscente: è riduttivo basare ogni realtà solo sull'Io che la pone, essa è ben al di là, esprime la vita stessa. Quindi il pensiero è chiamato a trascendersi, a rivolgersi oltre se stesso, all'altro. La conoscenza è tale solo nel momento in cui osa andare oltre se stessa.75

Il pensiero tende all'unità, alla sintesi nella Verità unica, ma può farlo, secondo Florenskij, solo attraverso la reale composizione del molteplice, contemplato però nella sua assoluta dignità ontologica, e quindi non come momento di passaggio o accidente secondario. Il momento dell'unità rende giustizia all'ideale dell'integralità, quello della molteplicità testimonia la concretezza della vita.76

La conoscenza della Verità è quindi una grande sintesi sempre diveniente tra l'uno e il molteplice, tra il finito e l'infinito nella loro paradossale unione. La loro possibile coincidenza non resta su un piano meramente linguistico, terminologico, ma è essenziale: l'uno è i molti e i molti sono l'uno.

Bisogna comprendere che la molteplicità ha una sua realtà ontologica ben specifica, è lo spazio della vita in cui si realizza la dialettica della verità, ha una dimensione non deficitaria rispetto all'uno -- all'Essere, all'Io -- ma proprio in essa e per essa tale unità si rende percepibile, direi di più, possibile. Senza il molteplice l'uno resta chiuso nella sua astrattezza e quindi non è. Senza il molteplice l'uno non potrebbe fare esperienza del mistero dell'infinito, perché tutto resta nella dimensione uni-versale, mentre Florenskij cerca di aprire gli spazi del pluri-verso, della multiformità che si diffonde in spazialità, in temporalità e in profondità77: più che all'analisi che riduce ad un'unità astratta gli interessava contemplare organicamente le stratificazioni del reale.

L'uno è quindi chiamato a rendere viva la Verità che porta, a uscire fuori dalle sicurezze del raziocinio. Queste dimensioni sono già presenti nella sua stessa costituzione ma vanno scoperte. L'Uno, infatti, va ben oltre il suo mero contenuto razionale.78

Comprendere questo significa capire che il motivo unificante l'uno e i molti, il senso di questo idealismo è, ancora una volta, la vita. Questa vita, questa ideale unione, senza confusione, tra il principio unitario e quello molteplice, si incarna appieno solamente nella Trinità, che nella sua apparizione-donazione agli uomini appare come la visione unitaria ed integrale che raccoglie in sé, senza mortificazioni, tutto il reale.79

3.2. La Trinità nel percorso teologico

Catharsis

Ancora una volta il nostro autore inizia prima con lo sgomberare il campo da facili incomprensioni per poi entrare nel vivo della discussione, in questo caso teologica, sulla Trinità. Florenskij tenta, innanzitutto, di dare nuova linfa alla speculazione dogmatica differenziandola da tutto ciò che ha solo la parvenza di teologia, ma che, invece, è una pura teoresi arida e senza preoccupazione di centrare la sua attenzione sul cuore pulsante della fede che è Dio-Trinità.

Padre Pavel usa il termine "dogmatica" per indicare l'ontologia dell'esperienza da lui proposta differenziandolo dal "dogmatismo" vuoto e intellettualistico dell'ortodossia tradizionale.80

Innanzitutto è sempre bene precisare la maggiore ampiezza dell'esperienza sul mero concetto, da essa superato senza comunque rifiutarlo. Il concetto, anche in teologia, senza il supporto e la controprova della realtà resta soltanto un fantasma senza alcun significato.81 Per cui Florenskij affermerà che, affidandosi ai soli concetti astratti, il sistema dogmatico è, a tutti gli effetti, "noioso".82

La costruzione di un'ontologia veramente trinitaria nasce essenzialmente dalla e nella vita83 di cui si vuole fare conoscenza e trasporre nel pensiero e che, come conoscenza e pensiero, torna alla vita. Per cui il nostro autore arriva a sostenere che «non c'è Dio nella nostra dogmatica»,84 se ad essa non si affianca l'essere vivente. C'è stato come il requiem della dogmatica viva a cui è subentrato un già defunto dogmatismo.85

Partendo da questa "aridità" emerge più chiaramente che l'uomo è, innanzitutto, un essere che vive nello spirito e nella vita e poi un essere che schematizza ed astrae.86 L'astrattezza comporta un errore letale per la riflessione: non si ricerca più la Verità.87 Eppure questa Verità resta sempre la stessa, non è stata lei ad allontanarsi, ma è stato l'uomo a discostarsene, a renderla, col tempo, inattingibile. Infatti Florenskij non propone di mettere una nuova Verità in un posto vecchio, ma esige un posto nuovo per la vecchia Verità.88

Nasce spontanea, però, una domanda: «Ma si può dimostrare la dogmatica? Ciò non è escluso dallo stesso concetto di rivelazione? ».89 In poche parole: si può parlare di Dio e non valicare le soglie del mistero che la sua vita conserva?

Ciò è possibile a patto di non intendere la Verità, oggetto della ricerca dogmatica, in senso "logico-formale" ma in maniera gnoseologica, ontologica ed esistenziale. Naturalmente, la Trinità resta inattingibile concretamente nel suo in sé ed esperibile esclusivamente nel suo dispiegarsi, nella relazione con l'uomo, con ogni uomo. Non si pone in discussione che Dio sia ma che e-sista;90 non che la Verità sia ma che esca fuori di sé e si comunichi. L'ontologia dogmatica trinitaria è sempre una relazione manifesta di un'esperienza che l'uomo fa di Dio e Dio fa dell'uomo in un reciproco scambio e arricchimento che trova il suo centro nel doppio movimento tri-unitario, quello umano e quello divino. Il cuore è rappresentato dalla vita nel suo effettivo dispiegarsi, vita intratrinitaria intendendo cioè la vita delle persone divine e la vita delle persone umane nel Deus-Trinitas.

Mathesis

Le affermazioni sull'essenza del Deus-Trinitas sono chiare e semplici in se stesse secondo Florenskij. Si possono ricapitolare in due assunti fondamentali: "Dio è Amore"91 e "la Trinità è omoousìa (uni-sostanziale)".92

Iniziamo con la prima affermazione. Bisogna comprendere cosa Florenskij intenda con la parola "amore". Sicuramente non la intende al modo della "comprensione nuova" della filosofia moderna dove domina l'accezione meramente psicologica dell'amore.93 Occorre invece sottolineare maggiormente la dimensione ontologica dell'amore.94

Mentre per la prima comprensione, la nuova, l'amore resta solo un sentimento legato allo stato psicologico dell'uomo, per la seconda esso è una vera e propria realtà ontologica che pervade tutto il mondo e ne costituisce l'essenza. Per dimostrare le due differenti concezioni Florenskij si affida alla differenza tra identità generica (e specifica) e identità numerica.95 L'amore della prima consente solo di cogliere la somiglianza tra gli amanti (ὁμοιουσία), l'identità numerica, invece, coglie l'essenza delle persone e la loro identità (ὁμοουσία) .96

Trattare dell'identità numerica significa andare all'essenza dell'amore e soprattutto significa ricentrare la ricerca teologica e filosofica di nuovo sulla persona e non più sulle cose, o sulle persone trattate però come oggetti.97 In primo luogo quindi va nuovamente confermato il superamento della legge di identità: essa non può aiutare, nella sua struttura cieca e tautologica, lo studio della persona che è vita, movimento e dialettica. Ai concetti chiari e fissi che la legge di identità -- l'identità generica -- propone si deve sostituire la legge dell'amore che si basa sulla relazione, sul dialogo. Ai concetti si sostituisce il simbolo, l'evocazione, il dono d'amore più che l'apprensione intellettuale. All'astrattezza del raziocinio si impone la persona nella sua vita, nella pienezza del suo bagaglio esperienziale; il tutto senza mai abdicare alla comunicazione.

La "filosofia dell'omoousìa"98 ed insieme la teologia dell'amore pongono nel proprio cuore la persona come origine e fine del loro procedere. La persona è origine in quanto la stessa divinità, il Deus-Trinitas è una persona, tre ipostasi che si relazionano alla pari tra di loro. La persona è fine in quanto ogni uomo concreto rappresenta la finalità intrinseca sia della logica triadica, ma anche dell'ontologia trinitaria, è sempre l'uomo il centro e l'oggetto dell'amore divino. Questi due aspetti della persona non sono separati tra di loro: Dio conserva l'umanità, è uomo nella seconda Persona, in Gesù Cristo; l'uomo ritrova dentro di sé la traccia del divino, riscopre la sua divino-umanità. Entrambe le realtà sono perciò concretamente unite nella dinamica dell'amore che le mette in comunicazione e permette alla divinità di rivolgersi verso l'uomo e viceversa.

Credere in questa concezione ontologica dell'amore significa che questa proposta di Florenskij non è solo una semplice metafora ma una realtà simbolica, l'unica possibile e realizzabile, l'unica fonte della vera conoscenza.99

Solo una svolta ontologica dell'amore può far comprendere la centralità trinitaria del percorso florenskijano che diventa immagine vera e vitale proprio di questo amore puro e realizzato. Proprio dalla caratterizzazione del Deus-Trinitas come essenzialmente Amore, nasce la sua comunicazione con l'amore limitato dell'uomo che si rivolge a Dio e da Lui viene assicurato.100 L'amore non può mai diventare possesso per cui l'eccedenza, che può essere insita nell'amore trinitario, non compromette la dignità dell'amore umano, limitato certo, ma essenziale per instaurare qualsiasi relazione.

In questo contatto l'uomo si apre all'ulteriorità di Dio che gli fa riscoprire la dimensione prettamente sociale e comunitaria del suo essere. L'amore permette di uscire dall'immobilità di un soggetto autoreferente, assoluto per entrare nella dialettica della relazione interumana. L'amore comunicato incessantemente da Dio riesce così a sciogliere il "cuore prometeico" dell'umanità che la teneva legata solo alla dimensione terrena ed egotica.101

L'ontologia trinitaria viene ripensata nel pensiero di Florenskij a partire dalla carità; tale cambiamento di prospettiva comporta l'abbandono di ogni tentativo di affermazione autoidentitaria: solo nella relazione fondamentale d'amore è possibile cogliere il cuore e il senso di ogni esistenza e di Dio stesso.102

In questo processo relazionale il Deus-Trinitas sembra quasi svanire, mettersi da parte per lasciare libero l'uomo. Se egli si affermasse nella sua potenza, nel suo essere, non ci sarebbe libertà. L'amore, invece, permette di conservare l'onnipotenza di Dio e la libertà umana: solo il Dio che ama può permettere questa assoluta libertà che può spingersi finanche alla negazione di sé. L'ontologia tri-unitaria trapassa ed agisce nella storia per una necessità insita all'idea stessa di amore, per la sua radicale eccedenza essa non può che costituirsi come dono e contatto con l'altro. La Trinità vuole, e perciò può e deve, relazionarsi con ogni creatura attraverso il suo universale ed essenziale amore.

Più di ogni altra cosa l'amore riesce ad esprimere appieno l'eccedenza di Dio e preserva, nello stesso tempo, la libertà degli individui. Non è mai messo in discussione il primato assoluto della persona e della sua irriducibilità nella dottrina trinitaria di Florenskij.103

Passiamo ora, in continuità col cammino fatto sinora, alla seconda affermazione: "la Trinità è omoousìa (unisostanzialità -- consustanzialità) ".

Come si prospetta questa "filosofia dell' omoousìa"?104 Il termine "uni-sostanziale" esprime l'unità concreta -- non nominale -- del Dio-Trinità, ma allo stesso tempo rivela che ognuna delle tre ipostasi è la sostanza personale, nel senso che, sebbene ogni ipostasi sia separabile dalle altre due, esse non si fondono ma rimangono se stesse, realmente distinte tra loro.105 Su questo concetto si basa tutta la logica e l'esperienza della vita trinitariamente intesa.106 Le persone della Trinità sono una cosa sola e distinte nello stesso momento e nel medesimo riguardo.

In questa affermazione si colgono e si uniscono entrambi gli aspetti di questa ontologia tri-unitaria: da un lato la concezione di Dio-Amore sottolinea con più forza il divenire eterno come tangenza tra un circolo d'amore interno alla stessa relazione trinitaria e un circolo, esterno ad essa, che coinvolge ogni uomo che si riconosce oltre l'ordo necessarium del raziocinio; dall'altro lato la comprensione di questo stesso Dio come omoousìa consente di non perderne l'unità concreta, di poter sempre ricapitolare in un punto fermo il processo diveniente e quindi di non prescindere dalla trascendenza. Il Deus-Trinitas si pone al riparo dal rischio di una fissità senza relazioni, ma anche di un eterno divenire senza punti certi. L'amore di Dio è reale ed essenziale perché si fonda sulla relazione tra le tre ipostasi divine.

L'ontologia tri-unitaria di Florenskij può essere definita, contemplando tutti e due gli aspetti sin qui analizzati, come la ricerca della Verità che ogni volta già ci è data ma mai in modo esauriente: la Verità è intesa non come immobile concetto che si dona a noi, ma come relazione personale fondata sulla certezza della sua sostanzialità. La Verità resta di fronte come stimolo ad essere ricercata ma senza mai essere posseduta. Un'esigenza insieme interna all'uomo e a lui differente, comprensibile ma concettualmente irraggiungibile, perché non di sua proprietà, non a suo solo appannaggio. La Verità è appunto la stessa Tri-unità che si dona, nelle tre ipostasi, all'uomo e lo richiama al senso profondo della propria esistenza; essa è relazione d'amore essenziale che irrora tutta la vita e la rende capace di quello sguardo unitotale impossibile al solo raziocinio.

Praxis. L'amicizia realizzazione dell'ideale trinitario

L'amicizia sta nel contemplare se stesso attraverso l'amico in Dio, vedendosi con gli occhi dell'altro al cospetto di un Terzo. L'Io rispecchiandosi nell'amico, riconosce nel suo Io il proprio alter ego.107

Alla fine di questo percorso non ci resta, ora, che vedere si applichi tutta questa visione florenskijana nella realtà concreta. L'incarnazione dell'ideale trinitario trova nell'amicizia la sua più piena e completa realizzazione e Florenskij ne fornisce una delle più belle e mirabili trattazioni non solo sotto l'aspetto etico ma, soprattutto, sotto il profilo teoretico, filosofico e teologico.

L'amicizia non è vista solo come quel sentimento che affratella due o più anime, ma consiste in qualcosa di più.108 L'amicizia rende evidente la divinità dell'uomo e il suo essere volto verso l'ulteriore: oltre ogni schema, oltre ogni legge d'identità.

L'amicizia, è una sorta di uni-sostanzialità anticipata, è omoousìa realizzata. In questo senso Florenskij la intende come segno reale dell'apertura dell'uomo al divino, come realizzazione del suo ingresso nelle relazioni trinitarie.

Una tale definizione dell'amicizia fa emergere in una luce nuova anche la figura dell'amico che, nel caso della riflessione del nostro autore, incarna il tentativo di arrivare a una fondazione nuova delle principali categorie antropologiche tra le quali il concetto di persona. Egli infatti è convinto che il concetto di persona si basi sul principio della relazionalità.109

Come per il divino, anche l'uomo si esprime essenzialmente nella relazione; tale espressione non disconosce, però, il valore intrinseco dell'Io personale. Si tratta un rapporto basato sul principio dialettico che esprime l'unità e, al contempo, la diversità non solo ontologica, ma anche spirituale tra persona e relazione.110

Ciò che caratterizza, come suo tratto distintivo, la figura dell'amico è proprio il radicamento in un tale principio che permette una definizione dinamica, e non statica, della sua stessa identità ontologica. Uno è, esiste nella peculiare identità del proprio Io, solo in o attraverso un altro, un non-Io.111 Nell'altro come in uno specchio, l'Io può contemplare e ritrovare se stesso, la propria auto-identità.112

L'amicizia è una realtà complessa, come tutto il fenomeno vita, difficilmente imprigionabile in una formula razionale. «Non la si può ridurre ai legami particolari né a un nesso esclusivamente generale».113

«Si può anche paragonare l'amicizia alla consonanza».114 Essa, cioè, nasce dalla vita e questa, come si è visto, è piena di dissonanze, di contraddizioni; ma nell'amicizia le dissonanze si risolvono in una polifonia115 che non rinuncia a nessuna partitura ma le fa suonare tutte insieme armonicamente. Essa rappresenta il modo di accogliere e di vivere la vita, un modo che non è stato inventato dalla fantasia dell'uomo. L'amicizia non risulta solo un costrutto mentale o, al massimo, sociale: essa è una dimensione ontologica fondamentale del'uomo.116

Il punto chiave della riflessione florenskijana sull'amicizia sta nel capire la dinamica dell'accadere di tale consonanza. Florenskij, per spiegarlo, ricorda il tentativo di Platone117 di superare o, meglio, di "coprire" la contraddittorietà dell'amicizia con il concetto di "proprietà" contenente in sé sia la somiglianza che la dis-somiglianza dei due.118 Ma subito aggiunge che si tratta di un concetto che non è in grado di «colmare l'abisso tra le due strutture dell'amicizia».119

La consonanza accade nelle profondità mistiche della vita stessa dei due amici vissuta nella dinamica della reciproca pericoresi, secondo l'esempio della vita tri-unitaria caratterizzata dalla completa donazione di ognuna della ipostasi, dalla dinamica relazionale. Altrettanto accade nell'amicizia per cui l'amico apre tutto se stesso all'altro e gli si dona totalmente e reciprocamente.120

Anche l'amore degli amici, derivante da quello tri-unitario, è donazione totale, che manifesta l'armonia di tutte le loro azioni sentite, desiderate, pensate, parlate. Florenskij vede, dunque, nell'amicizia una realtà indispensabile per la formazione umana della persona. «L'amicizia dà all'uomo l'autocoscienza, rivela dove e come è necessario lavorare su se stessi».121 E il lavoro di è quello di donarsi totalmente, di dare la vita per gli amici. Una donazione che si concretizza nella totale apertura al "Tu" dell'amico, nell'accogliere in sé come pienezza tutto ciò che egli è.122

La vera essenza di tale donazione sta nel perdere la propria anima per il proprio amico. In altri termini, l'amicizia si basa su un totale rinnegamento di sé per l'altro, che richiede il «sacrificio della propria figura personale, della propria libertà, della propria vocazione. Chi vuole salvare la propria anima deve darla tutta per i suoi amici, ed essa non rivivrà se non muore».123

Di per sé l'amicizia rifiuta le pose eroiche124 che suscitano lo scalpore degli altri ma solo per un breve attimo. L'atteggiamento che la costruisce e caratterizza, è la totale donazione di sé per l'altro che richiede invece la quotidiana perseveranza dell'amico, la continua scelta di essere ancora amico dell'altro. L'eroismo pecca di un amore sbrigativo, esteriore, superficiale, insomma, di un amore che non è quello di philìa. L'amicizia, invece, richiede un totale immedesimarsi nell'altro, fonte di conoscenza intima e completa dei due, che sfocia nell'incondizionata accoglienza.125 Affinché tutto questo sia possibile è necessaria la "vita in comune", cioè un concreto stare insieme degli amici.126

Questa vicinanza corporea, questo stare insieme, dev'essere inteso come una vera e propria co-esistenza nel senso più profondo della parola, dove la particella "co-" indica ciò che è il nerbo vitale dell'amicizia e, allo stesso tempo la sua croce: il servizio vicendevole che sta nel portare i fardelli l'un per l'altro.127 Una delle espressioni concrete di tale atteggiamento è la fedeltà: l'amicizia si fonda sul comandamento dell'indissolubilità stretta come nel matrimonio,128 dell'incrollabilità fino all'ultimo, fino all'effusione di sangue.129

In ultima analisi si può costatare che l'amicizia, per Florenskij, è una realtà che mette alla prova la scelta più profonda di ogni uomo: quella di vivere o meno alla luce della Verità trinitaria. L'uomo è ciò che sceglie come sua meta, la sua esistenza si identifica con la via che ha deciso di percorrere; il rifiuto della vita trinitaria o l'adesione all'ideale del rinnegamento di sé per gli altri. L'amicizia è la realizzazione dell'ideale trinitario sempre in divenire, mai completamente realizzato.

4. Conclusione

Si è giunti così alla fine di questo cammino in compagnia della proposta trinitaria florenskijana. Non mi resta che sperare di essere stato chiaro nell'esporre il complesso e integrale punto di vista di Florenskij che fonda tutta la sua speculazione e la sua vita nel dogma della Trinità e da esso e con esso affronta ogni realtà che gli si presenta.

Copyright © 2011 Giuseppe Malafronte

Giuseppe Malafronte. «Trinità senso dell'uomo. Fede e ragione in P. A. Florenskij». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**161 B].

Note

  1. P. A. Florenskij, Ragione e dialettica, in N. Valentini, Pavel A. Florenskij, Morcelliana, Brescia 2004, p. 102. Testo

  2. In questo lavoro mi limiterò a citare i testi florenskijani tradotti in italiano; per gli studi a lui dedicati cercherò di usare esclusivamente materiale in lingua italiana o comunque tradotto. Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937), laureato in Matematica, rifiutò la cattedra per studiare Teologia. Ordinato presbitero ortodosso, fu docente di Filosofia presso l'Accademia Teologica di Mosca, svolse un'attività filosofica, teologica, scientifica di livello assoluto fino a quando venne rinchiuso nel famigerato gulag delle isole Solovski e fucilato. Per una visione complessiva ed abbastanza esaustiva della biografia di Florenskij reinvio a: A. Pyman, Pavel Florenskij. La prima biografia di un grande genio cristiano del XX secolo, Lindau, Torino 2010. Per una panoramica sul suo pensiero rimando a: G. Lingua, Oltre l'illusione dell'Occidente. P. A. Florenskij e i fondamenti della filosofia russa, Zamorani, Torino 1999; S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano 2006; N. Valentini, Pavel A. Florenskij, Morcelliana, Brescia 2004; Id., Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997; L. Zak, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998. Mi scuso, anticipatamente, per questa omissione generale che tanto avrebbe potuto giovare alla comprensione dell'autore che lega in maniera indissolubile il suo pensiero con gli altri campi di indagine e con la sua stessa esistenza, ma non sarebbe stato possibile essere esaurienti e entrare nello specifico contemporaneamente. Per ovviare a tale problema cercherò di utilizzare il corpo delle note non tanto per ampliare l'orizzonte su autori o pensieri paralleli (seppur interessanti), quanto per lasciare che sia la stessa voce di Florenskij, attraverso i suoi testi, a riecheggiare per la maggior parte così da non appesantire neanche la lettura con sospensioni o pause. Testo

  3. Ecco cosa scrive di sé, redigendo la voce che lo riguardava sul Dizionario enciclopedico dell'Istituto bibliografico russo Granat. «Florenskij assunse a scopo della propria vita l'apertura di nuove vie per una futura e globale visione del mondo» (P. A. Florenskij, Avtoreferat [Nota autobiografica], in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 5. Testo

  4. «La concezione del mondo che egli [Florenskij] elabora si delinea per contrappunto a partire da alcuni temi tenuti saldamente insieme da una peculiare dialettica e non si presta perciò a essere riassunta e sistematizzata. Essa ha una struttura di carattere organico, non logico, dove le singole formulazioni non possono essere estrapolate dal materiale concreto» (P. A. Florenskij, Avtoreferat [Nota autobiografica], in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 6). In tale contesto è importante comprendere la portata teoretica dell'esperienza che, molto spesso, viene affiancata ad un'assenza di pensiero. La riflessione, invece, come notato da uno studioso del pensiero ortodosso ««riprende il suo punto d'avvio dall'esperienza e da ciò che è esperimentabile e con un consenso sempre più ampio oppone a quello analitico-occidentale un pensiero originariamente unitario, includente anche l'esperienza e persino il sentimento, talora accentuando anche il "cuore" come centro della persona rispetto alla "testa". [...] Pensiero unitario o pensiero della totalità significa pensiero, non sentimento. Non si disprezza l'intelletto, ma un intellettualismo unilaterale» (K. C. Felmy, La teologia ortodossa contemporanea. Una introduzione, Queriniana, Brescia 1999, p. 36). Testo

  5. Ecco, ad esempio, come giustifica l'utilizzo, alquanto dubbio, di sue spiegazioni etimologiche. «Per evitare malintesi, ritengo non inutile ricordare che il vero oggetto delle nostre considerazioni è la vita interiore e non la linguistica. Ecco perché qui, come in altri passi, mi richiamo a etimologie dichiaratamente dubbie o per lo meno non sufficientemente studiate. Per noi le teorie linguistiche non sono argomenti nel significato proprio del termine. (E in genere sono possibili questi argomenti nelle questioni di vita interiore? E anche se fossero possibili, sono necessari dove la vita stessa parla con più eloquenza di qualsiasi argomento?) Ma se non sono argomenti, che cosa sono? Naturalmente, a loro modo, simboli. Allora non è tanto importante sapere in qual misura questi simboli vengano approvati dai linguisti attuali, perché le esperienze interiori valgono per tutti i tempi e per tutti i popoli, mentre le opinioni scientifiche sono cose della moda corrente e mutevole, per niente più stabile della moda dei cappelli e dei manicotti. [...] La filosofia crea il linguaggio, non lo studia. Secondo l'espressione, diventata classica, di Wilhem Humboldt, la lingua non è una cosa immobile, non è un e;rgon, bensì un'attività, una evne,rgeia. La parola si crea incessantemente e in ciò è la sua stessa essenza. Quindi la parola è ciò che gli conferisce di essere il creatore del linguaggio, il poeta o il filosofo» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 761-762). Testo

  6. Pre-metto, mettere prima. Questa la definizione: «premessa: chiarimento preliminare a un discorso o ad un testo» (G. Devoto, G. C. Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana [vol. II], Selezione dal reader's digest, Milano 197912, p. 602. Con queste due premesse intendo ciò che, appunto, viene prima ed è indispensabile alla corretta comprensione della Trinità in Florenskij senza che essa appaia però mai tematizzata. Testo

  7. Pro-metto: metto in favore di qualcosa o qualcuno. Io intendo qui promessa nel suo significato etimologico di un mettersi per, con, più che nella sua cristallizzazione nel linguaggio odierno. Queste promesse mantengono, appunto, l'impegno preso a partire dalla prime premesse di raggiungere una maggior consapevolezza del percorso trinitario di Florenskij. Al contrario delle due premesse, queste promesse tematizzano appieno la Trinità e ne fanno il fulcro di tutto il discorso florenskijano pur non risolvendolo del tutto. Testo

  8. «In una lettera del 27 luglio 1912 al pensatore religioso Valentin Koževnikov, suo amico e collega, Florenskij definisce le tre fasi del suo pellegrinaggio spirituale: la catharsis, cioè il processo di purificazione dal positivismo contemporaneo avvenuto dopo la conversione, la mathesis, cioè l'apprendistato, la fatica intellettuale per incorporare l'esperienza religiosa in una visione del mondo olistica; la praxis, ovvero l'ascetismo positivo e l'amore attivo all'interno della vita sacramentale della Chiesa» (A. Pyman, Pavel Florenskij. La prima biografia di un grande genio cristiano del XX secolo, Lindau, Torino 2010, p. 217). Testo

  9. Cioè dell'azione, della dimostrazione, dell'attuazione integrale senza divisioni. Testo

  10. P. A. Florenskij, Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Mondadori, Milano 2006, p. 379. Testo

  11. «Guardando più attentamente dentro me stesso, trovo ancora qualcosa che ho appreso da quel nostro vivere in due appartamenti collegati da un cortile. Ed è la convinzione ferma, organica, nell'"essere" mistico contrapposto all'empirico "apparire"» (P. A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 65) «Tutto il mio sapere sulla vita si era formato nelle mie primissime esperienze, e quando la coscienza le rischiarò le trovò completamente formate, terreno ubertoso che attendeva solo condizioni propizie per dare frutto» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 113). Fin dalle prime esperienze familiari il giovane Pavel riconosce la parzialità di una visione superficiale e scientista del mondo che non riesce a cogliere la totalità e soprattutto a tenerla insieme. Testo

  12. P. A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2003 (ora anche nell'edizione Oscar Mondadori, 2009). Testo

  13. Persino le fiabe erano vietate a casa sua perché potevano suggestionare negativamente la giovane mente e non renderla aperta alla spiegazione scientifica. «Fiabe. A dispetto dell'innata componente fiabesca di tutta la mia concezione del mondo, i miei genitori si adoperavano con ogni mezzo per tenermi distante dal mondo delle fiabe. Una delle ragioni era la mia spropositata sensibilità; i miei genitori credevano che introdurmi nel regno della "fantasia" avrebbe nuociuto alla mia salute, già cagionevole di suo, cosicchè il mio sistema nervoso venne salvaguardato da tutte quelle impressioni in cui -- non senza fondamento -- essi scorgevano un ricco cibo per le paure e il senso di mistero della natura» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, pp. 210-211). Testo

  14. «Mia madre era per me come il caro grembo dell'esistenza, ma stringermi a lei come a qualcosa di caro mi pareva strano, fuori luogo. [...] Non intendo dire che non avessi alcun rapporto con mia madre. Tutt'altro. Il nostro era un legame forte. Però non era un legame personale. Era più di tipo panteistico che morale (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 70). Testo

  15. Infatti già osservava come «i grandi mi volevano molto bene, ma capivano molto poco, o così mi sembrava, del senso vero delle mie domande» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 91). Testo

  16. «La materia del mondo mi insegnò ad amarla e ad ammirarla. E io la amia. Non la materia del fisici, però, non gli elementi della chimica, non il protoplasma della biologia, ma la materia stessa, con la sua verità e la sua bellezza, e con la sua integrità» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 97). Testo

  17. «Io non amavo l'uomo in quanto tale, mentre ero innamorato della natura. E, in secondo luogo, il regno della natura lo ripartivo in due categorie: il bello e il particolare» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 109). Si può vedere da questa dichiarazione come il giovane Florenskij vedesse nella natura qualcosa che andasse al di là delle semplice contemplazione teoretica dell'insieme. Testo

  18. «L'esistenza è fondamentalmente misteriosa e non desidera che i suoi misteri vengano svelati dalla parola. La superficie della vita di cui si può ed è concesso parlare è molto sottile; al resto, alle radici della vita e forse all'essenziale, si addicono le tenebre sotterranee» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 103). «Il bello era pervaso di aria e di luce, era soave e mi era misteriosamente affine. Lo amavo teneramente, estasiato fino a sentirmi mancare il respiro, fino a dispiacermi di non potermi fondere con lui per sempre, di non poterlo accogliere dentro di me e di non potere, io, entrare in lui» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 109). Testo

  19. «La mia vista non era di tipo analitico, non estrapolava -- acuendoli -- singoli elementi; quel che coglievo era soprattutto la forma» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 110). Testo

  20. «Ogni percezione rimandava ad un'altra, e nella mente si formava una sorta di sistema in cui quanto era eterogeneo si correlava per dettagli piccoli ma, a mio parere, significativi. Piante, pietre, uccelli, animali [...], fenomeni atmosferici, colori, odori, sapori, corpi celesti ed eventi sotterranei si intrecciavano tra loro in legami multiformi, andando a formare il tessuto del parallelismo universale» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 125). Testo

  21. «La percezione infantile, infatti, è più di tipi estetico rispetto a quella di un adulto, più scientifica, o quantomeno pseudoscientifica» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 126). Testo

  22. «La comprensione scientifica del mondo fiacca la differenza esteriore tra i fenomeni rendendoli estranei l'uno all'altro persino quando essi sono qualitativamente identici così che il mondo, privato di una vivace varietà, non solo non si unifica, ma al contrario si disperde. La percezione infantile supera la frammentazione del mondo dal di dentro. È al di dentro si afferma l'unità sostanziale del mondo, dovuta non al tale o al tal altro segno generico, ma percepibile senza mediazioni quando l'anima si fonde con i fenomeni percepiti. Si tratta di una percezione mistica del mondo» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 127). Testo

  23. C'è però da notare che gli avi del padre appartenevano tutti al clero come piccoli pope di campagna sposati. Testo

  24. Florenskij narra un episodio emblematico di questa ricerca. Incontrato per caso durante una passeggiata un pope, questi gli offrì una prosfora (pane benedetto che si dona alla fine di ogni funzione liturgica). La sorpresa fu grande, ma tornato a casa prima non volle saperne di mangiarla e poi andò a trafugarla dalla dispensa dove era stata risposta (Cfr. P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, pp. 158-159). E queste sono le conclusioni cui giunge il nostro autore. «Quanto accedde allora rappresenta in forma ristretta l'humus religioso su cui sarebbero cresciute le mie idee successive. Volendo usare la lingua moderna della psicoanalisi, in me c'era l'eccitazione repressa del sentimento religioso: non ero stato tagliato fuori in modo tanto efficace che con la forza della mia inclinazione interiore innalzavo ancor di più il muro che era stato eretto tra me e la religione. Tanto maggiore era la mia esigenza religiosa, tanto più io, sul cammino a me indicato, mi allontanavo mea sponte dall'eventualità di appagarla» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 159). Testo

  25. Influenzato dal padre egli afferma che «proprio dai sovratoni dei suoi giudizi lapidari che si sono cristallizzati gli embrioni delle mie opinioni successive, vale a dire, in sostanza, che non esistano le religioni, ma che esiste la Religione. La religione cambia continuamente volto nell'umanità, e continuamente differente è il suo valore nei diversi suoi sembianti. Ma le forze che la formano sono simili (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 162). Testo

  26. «Quanto alla religione crebbi completamente selvatico. Non mi portavano mai in chiesa, non parlavo con nessuno di argomenti religiosi e non sapevo nemmeno come si faceva il segno della croce. Però sentivo che c'era tutto un ambito della vita, importante e misterioso, e che c'erano dei gesti particolari che preservavano dalla paura. In segreto ne ero attratto, ma non li conoscevo e non osavo domandare notizia. Captavo quel che potevo e di nascosto cercavo, come mi era possibile, di applicare le mie osservazioni. Sotto una coltre di indifferenza, il mio rapporto con la religione era fluttuante e non poteva certo essere definito distaccato. Ero combattuto tra un'appassionata attrazione e degli eccessi di ostilità contro quanto non conoscevo ma la cui realtà mi era data imperiosamente» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 191). Testo

  27. L'ostacolo forse maggiore ad una scelta radicale di fede è stato, per il nostro autore, il riconoscersi come creatura come debitore a questa entità superiore senza però sentirsi una nullità. «Dio è realtà e luce. Egli è grande; ma anch'io sono realtà e anch'io non sono tenebra, poiché non ho ancora conosciuto gli strali del peccato, né ho conosciuto la morte, e di conseguenza non mi sono ancora riconosciuto quale sua creatura. "Io non nego Dio, ma anch'io, essere umano, sono un dio, e voglio disporre di me stesso": questo era il senso delle mie emozioni» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 192). Testo

  28. «Il fenomeno -- bi-unitario, spirituale-materiale --, il simbolo, mi è sempre stato caro nella sua immediatezza, nella sua concretezza, con la sua carne e la sua anima. In ogni vena della sua carne io vedevo, volevo vedere, cercavo di vedere e credevo di poter vedere l'anima, la sola sostanza spirituale; e tanto salda era la mia convinzione che la carne non fosse solo carne, che non fosse solo materia inerte, solo esteriore, quanto lo era la convinzione opposta, e cioè che fosse impossibile, inutile e pretestuoso pensare di vedere quest'anima incorporea spogliata del suo velo simbolico. [...] Il positivismo mi disgustava, ma non meno mi disgustava la metafisica astratta. Io volevo vedere l'anima, ma volevo vederla incarnata. Qualcuno vorrà chiamarlo materialismo. Non si tratta, però, di materialismo, ma della necessità del concreto, o simbolismo. Sono sempre stato simbolista» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 202). Testo

  29. «Dopo gli anni dell'infanzia è l'estate del 1899 il pilastro della mia coscienza» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 265). Quell'estate era l'ultima che Florenskij passò in famiglia prima di trasferirsi a Mosca presso la Facoltà di Matematica. Ed ecco la viva testimonianza della sua esperienza di Dio. «Con una fermezza che non ammetteva dubbio alcuno sentivo quanto impotente fosse ciò che mi aveva interessato fino a quel momento nella zona di buoi in cui ero capitato. Lì c'erano le mie necessità, le mie sofferenze. Ed evidentemente dovevano esserci anche i miei mezzi e le mie gioie. E io li stavo cercando, ma non li trovavo; mi lanciavo verso le uscite, ma sbattevo contro le pareti e mi perdevo tra sotterranei e passaggi. Fui preso da una grande disperazione e dovetti ammettere l'impossibilità di uscire di lì, l'evidenza di essere definitivamente tagliato fuori dal mondo visibile. In quell'attimo un raggio sottilissimo, che era o una luce invisibile o un suono impercettibile, mi recò un nome: Dio. Non era ancora un'illuminazione né una rinascita, ma solo la notizia di una possibile luce. Però conteneva la speranza e nel contempo la consapevolezza tumultuosa e improvvisa che la morte o la salvezza erano tutte in quel nome e nulla più. Io non sapevo come fare a essere salvato, né perché. Non capivo dove fossi finito e perché in quel luogo le cose della terra non avessero effetto. Ma mi ritrovai faccia a faccia con un nuovo fatto, tanto incomprensibile quanto indiscutibile: esisteva un regno delle tenebre e della morte, e da esso veniva la salvezza. Fu una rivelazione improvvisa, come, sui monti, nello strappo di un mare di nebbia appare all'improvviso un dirupo minaccioso. Per me fu una rivelazione, una scoperta, uno choc, un colpo. E per quel colpo inatteso mi svegliai all'improvviso, come destato da una forza esterna e senza sapere perché, ma, tirando le somme di quanto accaduto, gridai per tutta la stanza: "No, non si può vivere senza Dio!"» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 267). Testo

  30. «"La verità è irraggiungibile", "non si può vivere senza la verità": queste due asserzioni ugualmente forti mi straziavano l'anima e portavano all'agonia il mio spirito. [...] Cominciò a diventarmi chiaro che, se c'era mai, la verità non poteva essere esterna rispetto a me, e che essa era la fonte della vita. La vita stessa è la verità nel suo profondo, e questo profondo non sono già più io e non è più dentro di me, sebbene io possa toccarlo. [...] "La verità è la vita" mi ripetevo più volte al giorno; "senza verità non si può vivere. Senza verità non c'è esistenza umana". Era lampante, ma su queste e altre considerazioni simili il mio pensiero si bloccava, incocciando ogni volta contro qualche ostacolo invalicabile. Un giorno, di colpo, sorse spontanea una domanda: "E loro?". E con quella domanda il muro fu abbattuto. "E loro, tutti quelli che esistono e che sono esistiti prima di me? Loro, i contadini, i selvaggi, i miei avi, l'umanità in genere: davvero sono esistiti ed esistono senza la verità? Oserò dunque sostenere che gli uomini non abbiano avuto e non abbiano la verità, e che dunque non siano vivi e non siano uomini?"» (P. A. Florenskij, Ai miei figli Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, pp. 302-305). Testo

  31. Come suggerisce un noto studioso del pensiero florenskijano, Pavel si dibatteva tra «Sacerdozio o scienza: questa contrapposizione gli rodeva l'anima non meno di quella fra Dio o famiglia. Così si sviluppò dentro di lui il "senso vivo dell'antinomicità". Ognuno di questi elementi aveva le proprie radici, la propria giustificazione. Che cosa scegliere?» (Igumeno Andronik [A. S. Trubacev], La vocazione di Florenskij, La Nuova Europa 5 (2007), pp. 51-52. Testo

  32. Esattamente fu ordinato diacono il 23 aprile e il giorno seguente seguì l'ordinazione sacerdotale. L'anno precedente aveva sposato Anna Michajlovna Giacintova da cui ebbe ben cinque figli. Testo

  33. «"Sacerdozio e scienza", lo esortava monsignor Antonij. Così si risolse la prima contrapposizione. Dal giorno dell'ordinazione la teologia e la scienza di padre Pavel sarebbero passate al vaglio dell'esperienza dell'altare, sarebbero vissute dentro la vita della Chiesa» (Igumeno Andronik [A. S. Trubacev], La vocazione di Florenskij, La Nuova Europa 5 (2007), p. 52). Testo

  34. «Leggiamo in un appunto di Florenskij del 23 aprile 1916, a cinque anni dall'ordinazione: "Guardandomi indietro, ringrazio il mio Signore, che mi ha donato la Sua grande misericordia. Non starò qui a parlare della grandezza del dono in quanto tale, forse non lo comprendo ancora neppure in minima parte. Lo dico rispetto alla mia vita. Che cosa avrei fatto, come avrei potuto vivere senza la vocazione sacerdotale? Come mi sarei agitato, quanto sarei stato infelice... quanto avrebbero avuto a soffrire per causa mia Anna e i bambini. Anche ora, non è che tutto vada bene, ma in quel caso saremmo periti tutti. Certo, ho avuto sofferenze, contrasti anche a causa del ministero sacerdotale, ma che cosa sono mai, in confronto al dono della grazia!"» (Igumeno Andronik [A. S. Trubacev], La vocazione di Florenskij, La Nuova Europa 5 (2007), p. 62). Ed ecco il caro ricordo di Bulgakov: «Ma tutto quello che si può dire dello straordinario talento scientifico di padre Pavel, come della sua originalità, in virtù della quale poteva sempre dire la sua, come una qualche rivelazione su tutto, è tuttavia secondario e di poca importanza se non si riconosce in lui la cosa più importante. Il centro spirituale della sua personalità, il sole che illuminava tutte le sue doti era il suo sacerdozio. [...] Il sacerdozio di padre Pavel, come tutto nella sua vita (tranne ciò che su di lui compiva il male satanico anticristiano), era anche un suo atto di autodeterminazione, cha da fuori era come se contraddicesse assolutamente ogni sua condizione di vita. Un tale jurodstvo [pazzia], come la tonaca, non se lo potevano sognare allo stesso modo né suo padre ingegnere, né i suoi compagni di ginnasio e di università. Esso non derivava necessariamente neanche dall'ingresso all'Accademia teologica, ma era una sua voce interiore, una sua scelta e una sua vocazione» (S. N. Bulgakov, Il sacerdote Pavel Florenskij, in Id., Lo spirituale della cultura, Lipa, Roma 2006, pp. 148-149). Testo

  35. P. A. Florenskij, Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Mondadori, Milano 2006, p. 363. Ed ancora: «La matematica non deve essere nella mente come un peso portato dall'esterno, ma come un abitudine del pensiero: bisogna imparare a vedere i rapporti geometrici in tutta la realtà e a individuare le formule in tutti i fenomeni. Chi è capace di rispondere all'esame e di risolvere i compiti, ma dimentica il pensiero matematico quando non si parla direttamente di matematica, non ha appreso la matematica» (P. A. Florenskij, Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Mondadori, Milano 2006, p. 68). Testo

  36. Si veda, su tutti, l'analisi geometrica e fisica attuata su la Divina Commedia di Dante (P. A. Florenskij, Gli Immaginari in geometria, in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007) in cui si mettono in contatto mondi a prima vista impossibili a paragonarsi: la poesia, da un lato, e la scienza più astratta, dall'altro. In seguito a questo accostamento non proprio ortodosso, ecco come si difende lo stesso autore: «La mia intenzione è quella di dimostrare, prendendo le stesse parole di Dante, che egli, in modo simbolico, ha espresso un pensiero geometrico incredibilmente importante, riguardo la natura e lo spazio. Non è forse vero che Euclide è protetto dallo stato come intoccabile? [...] ritengo che l'analisi matematica e l'utilizzazione della geometria di immagini poetiche, in quanto espressione di alcuni fatti psicologici, meritino l'attributo di "scientifico" e io ho proprio fatto un'analisi di questo tipo» (cit. in Ibidem, p. 288). Testo

  37. Molti saranno gli scritti e gli studi dedicati alla scienza anche negli anni successivi e persino nel lager delle Solovski potrà lavorare a vari esperimenti scientifici e riuscire a brevettare alcune scoperte. Testo

  38. Florenskij «vede nella matematica il primo e indispensabile presupposto della concezione del mondo, ma è proprio nell'autoreferenzialità della matematica che egli individua la causa della sua sterilità culturale» (P. A. Florenskij, Avtoreferat, in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 10). Così si esprime un anno dopo l'iscrizione all'Università in una lettera al padre del 4 ottobre 1900: «Ora mi occupo di Matematica, e me ne dovrò occupare sempre di più, e un po' di Filosofia. Sia l'una che l'altra mi sono assolutamente necessarie e sento che la Matematica mi attrae sempre più fortemente. Dappertutto si trovano relazioni, analogie, paralleli [...] sono convinto di ricevere più di quanto mi attenda o speri. La Matematica per me è la chiave del mondo, di quel mondo in cui non c'è niente di così insignificante da non doverne tenere conto, niente che non sia in relazione con altro. Nel mondo della Matematica non c'è bisogno di ignorare intenzionalmente o inconsciamente intere regioni di fenomeni, ridurre e completare il reale. La Filosofia della natura si salda con l'etica e l'estetica. La religione riceve un senso completamente nuovo e trova un corrispondente posto nel tutto, un posto del quale era in precedenza priva, per il fatto di costruirsi un ambiente isolato» (brano citato in S. Demidov, O matematike v tvorcestve P. A. Florenskogo [Sulla Matematica nell'opera di P. A. Florenskij], in M. Hagemeister, N. Kauchtschischwili, P. A. Florenskij i kul'tura ego vremeni [P. A. Florenskij e la cultura del suo tempo], Blaue Hörner Verlag, 1995, pp. 171-183). Testo

  39. N. VAlentini, La simbolica della scienza in Pavel A. Florenskij, in P. A. Florenskij, Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. XXXII. Testo

  40. N. V. Bugaev (1837-1903) fu una conoscenza personale di Florenskij, professore di Matematica all'Università di Mosca e presidente della Società matematica della stessa città. «Egli fa risalire la nozione alla saggezza antica: "Tu hai disposto con misura, calcolo e peso" (Libro della Sapienza di Salomone 11, 21) e anche al pitagorismo: "Tutto è numero", inteso come numero intero, che idealizza il discreto e rappresenta la forma. con ciò Bugaev tentava di elevare la ricerca matematica dai tradizionali settori di applicazione alla conoscenza della natura e dell'arte» (R. Betti, La matematica come abitudine del pensiero. Le idee scientifiche di Pavel Florenskij, Università Commerciale Luigi Bocconi -- Centro Pristem, Milano 2009, p. 26). Con lui si fa strada una concezione universale della matematica. Il gruppo dei matematici che gli si raccoglie intorno pensa che la concezione continua delle leggi evolutive sia capace di descrivere ogni fenomeno il maniera sempre più precisa pur di ridurne indefinitamente le componenti elementari con un processo che non ha termine e che, nell'indefinita approssimazione, non riesce mai ad arrivare al fondo dei problemi, al loro nocciolo. Per questa concezione, la verità scientifica è soltanto approssimata. Ciò che avanza nella ricerca è il casuale. Questa è ciò che viene chiamata Aritmologia e di cui Bugaev è considerato il padre. Egli colpì il nostro autore soprattutto per le sue idee sulla discontinuità, che sono state anche il tema della sua tesi di laurea. Innanzitutto il pensiero di Bugaev apriva un nuovo percorso per eliminare la scissione tra l'ambito del pensiero scientifico-filosofico e l'ambito della religione, tale strada si apriva dalla teoria degli infiniti e dall'accettazione della crisi della continuità matematica vista come pensiero arido e improduttivo. La teoria della discontinuità invece affiancava alle astratte teorie la concretezza del pensiero dell'uomo. Cfr. P. A. Florenskij, Su un presupposto della concezione del mondo, in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007 pp. . Testo

  41. «Si può dire che l'aritmologia si mostra come il modo di filosofare di Florenskij, che impregna tutta la sua opera» (S. M. Polovinkin, P. A. Florenskij: Logos protiv chaosa, Moskva 1989, p. 18). Testo

  42. G. Cantor (1845-1918) ha molto influenzato il pensiero del nostro autore per ciò che riguarda la sua teoria degli insiemi transfiniti e la correlata teoria dell'infinito attuale e potenziale. Cfr. P. A. Florenskij, I simboli dell'infinito (Saggio sulle idee di G. Cantor), in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. . Testo

  43. Il quantum «può essere dato e stabilito in modo fermo e immutabile e del tutto determinato, e allora rappresenta ciò che va sotto il nome di costante. Ma può essere anche non determinato, e può mutare divenendo maggiore o minore. In quest'ultimo caso viene detto variabile. L'infinito attuale, dunque, è un caso particolare del quantum costante, mentre l'infinito potenziale lo è del quantum variabile, e in ciò consiste la loro profondissima distinzione essenziale o, se si vuole, la loro sostanziale contrapposizione» (P. A. Florenskij, I simboli dell'infinito (Saggio sulle idee di G. Cantor), in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 26-27). Testo

  44. «L'infinito potenziale è quel che gli antichi definivano àpeiron, gli scolastici syncategorematice infinitum, i nuovi filosofi cattivo infinito» (P. A. Florenskij, I simboli dell'infinito (Saggio sulle idee di G. Cantor), in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 27). Testo

  45. In esso «non è difficile riconoscere ciò che per gli antichi andava sotto il nome di àforismènon, per gli scolastici categorimatice infinitum e per i nuovi filosofi di infinito positivo, proprio» (P. A. Florenskij, I simboli dell'infinito (Saggio sulle idee di G. Cantor), in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 30-31). Testo

  46. Altamente significative proprio queste parole di Florenskij. «Se per un verso, siamo nulla di fronte all'Assoluto, per l'altro siamo comunque moralmente in parentela con Esso, possiamo comprenderlo; non direttamente, però, ma tramite simboli; dentro di noi portiamo qualcosa di finito, di direttamente opposto alla Divinità: noi siamo transfiniti, siamo "il mezzo tra il tutto e il nulla"» (P. A. Florenskij, I simboli dell'infinito (Saggio sulle idee di G. Cantor), in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 77). Il nostro autore russo si riferisce poi in questo saggio proprio alla condizione umana che è da un lato finita, mortale ma dall'altro è divina, immortale, l'idea cara al pensiero ortodosso russo della divino-umanità che appartiene indifferentemente sia a Dio che all'uomo. Testo

  47. «Siamo alle soglie della "nuova scienza". E solo quando essa verrà fondata potremo apprezzare degnamente l'attività di profeti quali Georg Cantor e Nikolaj Bugaev» (P. A. Florenskij, Su un presupposto della concezione del mondo, in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 24). Testo

  48. La colonna e il fondamento della verità, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010; da ora in poi CFV. Testo

  49. Il nostro autore vede il «numero tre come immanente alla Verità, come da essa intimamente inseparabile» (CFV, p. 57). Testo

  50. Immaginiamo un cerchio. Sulla circonferenza rotonda, qualsiasi delle tre persone può essere considerata la prima e, allo stesso tempo, qualsiasi delle altre due può essere riconosciuta come la seconda, così che l'ultima diventa la terza. Se le persone fossero, per esempio, quattro, tutto ciò non sarebbe possibile. Cfr. L L. Zak, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998, pp. 300-303 (da cui prendo anche lo schema delle circonferenze). «Il numero "tre" [...] caratterizza l'assolutezza della Divinità, è proprio di tutto ciò che possiede una relativa autonoma completezza, degli aspetti in sé completi dell'essere. Decisamente il numero "tre" appare dappertutto come categoria fondamentale della vita e del pensiero» (P. A. Florenskij, CFV, p. 584 [654]). Testo

  51. «Di conseguenza il numero è un prototipo, uno schema ideale, una primitiva categoria di pensiero ed essere. È una forma di organismo elementare intelligente, qualitativamente distinto da altri simili organismi-numeri. E non a caso Platone identificava quasi le proprie idee con i numeri pitagorici e i neoplatonici fondevano le une e gli altri con gli dei» (P. A. Florenskij, I numeri pitagorici, in P. A. Florenskij, Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. ???). Testo

  52. P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, Rusconi, Milano 1999, p. 161. Testo

  53. Si pensi alle molte pagine dedicate ad essa, alla sua opera principale. È però il caso, qui, di tralasciare questa analisi per non rendere ancor più difficile il già complesso cammino qui intrapreso. Sono certo che il concetto di Verità riuscirà, comunque, a balzar fuori, dalle stesse parole di Florenskij e dai suoi illuminanti ragionamenti. Per approfondire il tema rimando a: N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997; L. Zak, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998; M. Žust, À la recherche de la Vérité vivante. L'experience religieuse de Pavel A. Florensky (1882-1937), Lipa, Roma 2002. Testo

  54. La concezione del simbolo è molto importante in Florenskij ed è uno dei capisaldi del suo pensiero. Al simbolo appartiene lo speciale compito di tenere uniti il mondo del visibile, cui appartiene, col mondo dell'invisibile, cui rimanda non solo figuratamente ma in maniera formale. «Per tutta la vita ho pensato, in sostanza, a una sola cosa: al rapporto tra fenomeno e noumeno, al rinvenimento del noumeno nei fenomeni, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Sto parlando del simbolo. E per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del SIMBOLO» (P. A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori (Oscar), Milano 2009, p. 201). Ed ancora: «Una realtà che è più di se stessa. Questa è la definizione fondamentale del simbolo. Esso è un'entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che però si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza. Analizziamo questa definizione formale: il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme o, meglio, confluita [sratvorennaja] insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest'ultimo» (P. A. Florenskij, La venerazione del nome come presupposto filosofico, in Id., Il valore magico della parola, Medusa, Milano 20032, p. 28). In questo senso uno dei simboli per eccellenza è rappresentato dal nome che per Florenskij è qualcosa di oltre un semplice segno significante ma una realtà a sé stante con una vita autonoma e positiva frutto dell'incontro tra la realtà e il soggetto conoscente e pensante. «Due energie, quella della realtà e quella del conoscente, sono prossime l'una all'altra, e forse si mescolano, ma tale mescolanza fluttuante non rappresenta ancora un'unità e suscita, a seguito della lotta in conciliata dei suoi elementi nel nostro intero organismo, un forte desiderio di equilibrio. La tensione cresce, e sempre più forte si percepisce il contrasto tra colui che conosce e ciò che dev'essere conosciuto. È come prima del temporale: la parola è il lampo che straccia il cielo da est a ovest e rivela il senso incarnato; nella parola vengono compensate e unite le energie accumulate. La parola è un lampo, non è l'una o l'altra energia, ma un nuovo fenomeno energetico, costituito da due unità, una nuova realtà nel mondo: un canale di collegamento tra ciò che finora era separato» (Ibidem, pp. 32-33). Testo

  55. «A=A dice tutto; e cioè: "La conoscenza è limitata ai giudizi convenzionali [relativi]", o semplicemente: "Taci!, ti dico". Questa formula, chiudendoci meccanicamente la bocca, ci condanna a restare nel finito e quindi nel casuale, e afferma in partenza la divisione e il particolarismo egoistico degli elementi ultimi dell'esistente, spezzando ogni nesso razionale tra loro. Al quesito: "Perché? Per quale ragione?", essa ripete: "È così e basta" (Sic et non aliter), interrompendo l'interrogante, incapace sia di soddisfarlo, sia di insegnargli l'autolimitazione» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 35-36). Testo

  56. «Ogni giudizio è emesso o attraverso di sé o attraverso un altro, vale a dire è dato o immediatamente o mediatamente, cioè come conclusione di un altro, e in questo caso ha in quest'altro il proprio fondamento sufficiente. Se non è né per sé né per un altro, risulta privo di contenuto reale e di forma ragionevole, cioè non è un giudizio ma solo suoni, flatus vocis, una vibrazione dell'aria» (P. A. Florenskij, CFV, p. 34). Testo

  57. L'evidenza dell'intuizione «può essere l'auto-evidenza dell'esperienza sensibile, e allora il criterio di verità sarà il criterio degli empirici, dell'esperienza esterna (empirico-criticisti, ecc.): "È attendibile ciò che può essere ridotto alla percezione immediata degli organi dei sensi"; attendibile è la percezione dell'oggetto. Può essere l'auto-evidenza [evidenza]dell'esperienza intellettuale, e in questo caso il criterio di verità sarà il criterio degli empirici dell'esperienza interiore (trascendentalisti, ecc.): "È attendibile tutto ciò che si riduce alle tesi assiomatiche del raziocinio; attendibile è l'auto-percezione [percezione di sé] del soggetto". Infine, l'auto-evidenza dell'intuizione può essere l'evidenza dell'intuizione mistica. In questo caso il criterio di verità è quello enunciato dalla maggior parte dei mistici (specialmente indiani): "È attendibile tutto ciò che resta quando è scomparso tutto ciò che non è riducibile alla percezione del soggetto-oggetto; attendibile è soltanto la percezione del soggetto-oggetto nel quale non ci sia divisione in soggetto e oggetto"» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 34-35). Testo

  58. È legge d'identità quella che consente di « pensare l'oggetto del pensiero come questo e non altro e di allacciarvi tutte le precisazioni che gli competono» (P. A. Florenskij, CFV, p. 493. Qui padre Pavel sta citando G. Hagemann, Logik und Noetik, ed. 4, Friburgo in B., p. 23, cit. in Ibidem, p. 768). Testo

  59. «Ogni A, escludendo tutti gli altri elementi, viene escluso da tutti questi, perché se ognuno di essi per A è soltanto non-A, anche A rispetto a non-A è soltanto la negazione di non-A. Dal punto di vista della legge d'identità, tutto l'essere, mentre desidera affermare se stesso, in realtà si annienta, perché si riduce a un ammasso di elementi ciascuno dei quali è un centro di negazione e soltanto di negazione; in tal modo tutto l'essere è semplice negazione, un solo grande "No". La legge dell'identità è uno spirito di morte, di vuoto, di annientamento» (P. A. Florenskij, CFV, p. 37). Testo

  60. Lo stesso si può dire poi della prospettiva storica. Ogni A è diverso storicamente da ogni altro A passato e futuro. Non vi è nessun momento sintetico. La metafisica del principio di identità non esprime la vita storica nel suo divenire perché non può rendere il mutamento che resta qualcosa di accidentale, di spurio rispetto al processo della verità. «L'A di prima non è identico all'A di adesso e l'A futuro sarà diverso da quello presente. L'A presente si contrappone nel tempo a quello passato e a quello futuro, come avviene nello spazio per l'elemento separato e isolato. Anche nel tempo la coscienza è in contraddizione con se stessa. In nessun luogo è mai identica» (P. A. Florenskij, CFV, p. 37). Testo

  61. Stando così le cose, da una parte « l'Io odia ogni Io fuori da se stesso [fuori di sé], perché il secondo Io non è per lui Io, e, odiandolo, si sforza di escluderlo dalla sfera dell'essere; siccome poi anche l'Io passato è visto oggettivamente, cioè come non-Io, anch'esso è implacabilmente destinato all'esclusione. L'Io non sopporta se stesso nel tempo, nega in ogni maniera se stesso nel passato e nel futuro, e perciò (essendo il nudo "adesso" un puro zero quanto a contenuto) odia ogni suo contenuto concreto, cioè ogni sua vita propria. L'Io risulta un deserto morto di "qui" e "adesso"» (P. A. Florenskij, CFV, p. 38). Testo

  62. La legge di identità «è un [monarca] assoluto, ma i suoi sudditi non protestano contro la sua autocrazia solo perché sono spettri senza sangue, privi di esistenza reale, non sono persone ma solo ombre razionalistiche di persone. Questo è lo sheol, il regno della morte» (P. A. Florenskij, CFV, p. 38). Testo

  63. «Nell'altro giudizio il dato immediato viene come giustificato (oprav-dànnoe), vi viene quasi a trovare la sua verità»(P. A. Florenskij, CFV, p. 40). Testo

  64. «Tutta la razionalità, tutta l'essenza, tutto il senso del nostro criterio sta, come germe nell'uovo, nella possibilità di giustificare ciascun gradino della scala discendente dei giudizi, cioè nella assoluta e costante possibilità di discendere ancora per lo meno un gradino al di sotto di qualsiasi dato, cioè nel potere sempre passare da n a n + 1, qualunque sia n» (P. A. Florenskij, CFV, p. 41). «Si marcia indefinitamente all'indietro, in un regressus in indefinitum, in una discesa nella grigia nebbia della "cattiva" infinità, in una caduta senza arresto nell'indefinito e nell'infondato» (P. A. Florenskij, CFV, p. 41). Testo

  65. «Il fondamento del raziocinio è la legge d'identità e la sua trama la legge di ragion sufficiente. Il suo tessuto è fatto di finito e infinito, è una cattiva infinità e indeterminatezza che si lacera nelle contraddizioni [nella contraddizione]. Il raziocinio ha ugualmente bisogno di ambedue le norme e non può operare senza l'una o senza l'altra. Ma non può lavorare nemmeno adoperandole tutte e due, perché sono incompatibili» (P. A. Florenskij, CFV, p. 494). Se la prima, cioè, esige che il pensiero sia immediato e quindi che si fermi su un determinato dato che è unico, finito e limitato, la seconda esige l'esatto contrario, e cioè che esso si muova senza fine. Testo

  66. «Egli, da parte sua, cerca innanzitutto di dimostrare l'assurdità della rinuncia alla Verità, ricorrendo, in un secondo momento, al metodo ipotetico per definire -- alla luce di quella che è ("se esiste") la Verità Assoluta -- i presupposti teorici della sua conoscenza» (L. Zak, Verità come ethos, p. 237). L'impostazione gnoseologica florenskijana di partire dalla scepsi risente dell'influsso dell'archimandrita S. Maškin. «L'attenzione di p. Serapion fu volta fino alla morte alla costruzione di un sistema che iniziando dalla scepsi assoluta e abbracciando tutte le questioni fondamentali dell'umanità, si concludesse con un programma di attività sociale» (P. A. Florenskij, CFV, p. 606 [672-673]). Testo

  67. «L'intuizione cieca è una cinciallegra in mano, mentre la discursio razionale è una gru in volo. Se la prima dà una soddisfazione non filosofica, con la sua presenza e con la sua certezza, la seconda, di fatto, non è raggiunta dalla ragione ma semplicemente da un principio regolativo, da una norma d'azione della ragione, da una strada che dobbiamo eternamente percorrere per non arrivare mai a nessuna meta. Il criterio razionale è una direzione, non un fine» (P. A. Florenskij, CFV, p. 42). Qui il nostro autore ci offre una stravagante ed originalissima parafrasi della classica osservazione kantiana posta all'inizio della logica trascendentale, secondo la quale "i pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche". Testo

  68. «Il dubbio come insicurezza è ormai lontano: è incominciato il dubbio assoluto come totale impossibilità di affermare una cosa qualsiasi, perfino la propria non affermazione» (P. A. Florenskij, CFV, p. 45). Testo

  69. L'epochè si deve ritenere «non come rinuncia tranquilla e spassionata al giudizio, bensì come dolore interiore nascosto che fa stringere i denti e tende ogni nervo e muscolo nello sforzo per non urlare e non prorompere in un folle ululato. Questa chiaramente non è atarassia; è anzi la tortura più crudele che strappa le fibre più profonde dell'essere, il martirio del pirronismo, veramente di fuoco» (P. A. Florenskij, CFV, p. 46). Testo

  70. «Io non ho la Verità in me, ma l'idea della Verità mi brucia; non ho i dati per affermare che cosa sia la Verità e che io la raggiungerò, ma confessandolo rinuncerei alla sete dell'assoluto, perché accetterei qualcosa di indimostrato. Tuttavia l'idea della Verità brucia in me come "fuoco divoratore" e la segreta speranza di incontrarla faccia a faccia incolla la mia lingua al palato; è essa il torrente infuocato che mi ribolle e gorgoglia nelle vene» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 46-47). Testo

  71. «Io provo a edificare qualcosa lasciandomi guidare non dalla scepsi filosofica ma dal mio sentimento, desistendo per ora dal bruciarlo con la lava di Pirrone. Nutro, infatti, in me una segreta speranza, la speranza nel miracolo» (P. A. Florenskij, CFV, p. 49). Testo

  72. «Quali giudizi dovremmo formulare nei riguardi di questa esperienza (e ribadisco ancora una volta che non ce l'abbiamo? Eccoli: 1) la Verità assoluta esiste, cioè è assoluta realtà; 2) essa è conoscibile, cioè è assoluta ragionevolezza; 3) essa è data come fatto, cioè è l'intuizione finale; ma è anche assolutamente dimostrata e quindi ha la struttura di un infinito discorso. L'analisi ci dice che la terza tesi implica le altre due. Infatti se la Verità è intuizione, significa che è; se la Verità è discorso significa che è conoscibile. Infatti l'intuitività è l'immediatezza effettiva dell'esistenza, mentre la discorsività è la possibilità ideale della conoscibilità. Quindi tutta la nostra attenzione deve concentrarsi sulla tesi duplice nella forma, ma unica nell'idea ispiratrice: "La Verità è intuizione, la verità è discorso", o semplicemente: La verità è intuizione-discorso» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 50-51). Testo

  73. «L'intuizione discorsiva è un'intuizione differenziata all'infinito, il discorso intuitivo è una discursio integrata fino all'unità. Quindi se la Verità esiste, è una razionalità reale e una realtà razionale, un'infinità finita e un infinita finitezza, ovvero, per esprimerci in termini matematici, un'infinità attuale, un Infinito pensabile come Unità complessiva, come Soggetto uno e in sé finito» (P. A. Florenskij, CFV, p. 51). Testo

  74. La Verità «racchiude tutta la pienezza della serie infinita dei suoi fondamenti, la profondità della sua prospettiva; è il sole che con i suoi raggi illumina se stesso e tutto l'universo; è un abisso di potenza e non di nullità. La Verità è moto immobile e immobilità che si muove, unità degli opposti, è coincidentia oppositorum» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 51-52). Nel nostro autore echeggia consapevolmente la formula classica (coincidentia oppositorum) adoperata da Nicolò Cusano. Testo

  75. La conoscenza è tale «solo nel momento in cui può pretendere un significato che va oltre i limiti del dato momento e del dato luogo e cioè quando questo momento unico è rivolto verso un'altra esistenza, esce dai suoi stessi confini ed indica qualcosa di più rispetto a quanto esso stesso è» (P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, p. 45). Testo

  76. «La conoscenza si ha solo dove l'en (uno) si estende nel pollà (molti), formando en kaì pollà (l'uno e il molteplice) [...]. La conoscenza è possibile là dove l'uno è diretto verso il molteplice, si estende verso l'altro» (P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, p. 46). Si può notare in questa formula tutto l'ascendente platonico di Florenskij. Egli non lo nasconde, anche se ciò che più lo interessa non è il platonismo (i cui sinonimi sono per lui idealismo, realismo) in se stesso come la filosofia di Platone, ma in quanto visione peculiare del mondo che riesce simultaneamente a tener insieme la ragione filosofante e la ragione teologica. «Il platonismo si è rivelato come la concezione del mondo più vicina al sentire della religione in quanto tale e, per parte sua, la terminologia del platonismo si è dimostrata come il linguaggio più adatto ad esprimere la vita religiosa» (Ibidem, p. 34). «Dunque il distinguere secondo genere e non ritenere come diverso un aspetto che sia lo stesso, né per lo stesso uno che sia diverso, non diremo forse che questo è proprio della disciplina dialettica? [...] Dunque colui che è capace di fare questo conosce perfettamente anche un'idea sola fra molte, che se ne sta disposta per ogni dove, mentre ciascun elemento se ne sta a parte, e molte altre differenti tra di loro, che sono strette insieme dall'esterno da una sola, e quest'una che si tiene congiunta in unità attraverso una moltitudine di interi, e molte ancora che si tengono del tutto distinte» (Platone, Sofista, 253d). «L'idea platonica tocca uno dei punti nevralgici di tutta la filosofia occidentale. Con l'én kai pollà, la filosofia pur agli albori, è già massimamente matura perché individua un centro a partire dal quale assumere i diversi livelli del problema della verità. Si crea infatti una proficua tensione di rimando tra la manifestazione molteplice della realtà e la riconciliazione all'unità del sapere, tensione che impone un'analisi psicologica (sulle condizioni della percezione del soggetto), gnoseologica (su come i giudizi possano accedere alla conoscenza oggettiva delle cose e dei processi, ovvero esprimere le peculiarità di ciò che è diverso dalla ragione stessa) e in ultimo ontologica (su come sia costituita la realtà perché sia valida la pretesa di verità dei nostri giudizi)» (G. Lingua, Oltre l'illusione dell'Occidente. P. A. Florenskij e i fondamenti della filosofia russa, Zamorani, Torino 1999, p. 174). Florenskij sceglie la strada platonica mettendola a confronto con l'idealismo trascendentale di Kant che rappresenta «una vera e propria filosofia della solitudine, che, riconoscendo nell'Io dell'uomo chiuso in se stesso il suo principio fondamentale, non può non condurre all'egoismo, all'odio, al nichilismo assoluto. Nell'idealismo concreto di Platone, invece, egli riconosce la strada che porta, attraverso una conoscenza idealista del mondo -- che vede nel reale i realiora -- alla conoscenza vera della vita concreta. In questo senso -- constata Florenskij -- uno è la "fede nella morte", l'altro la "fede nella vita"» (L. Zak, Verità come ethos, p. 168). Testo

  77. Florenskij tenta proprio di scardinare la visione tridimensionale classica per proporne una quadrimensionale in cui risulta centrale la visione simbolica e concreta della vita, della storia. Nella visione tridimensionale c'è successione, analisi ma, mai un'appercezione integrale, intuitiva. La percezione quadrimensionale permette di cogliere il tutto come un insieme, di concepire l'unità nella molteplicità. La quarta coordinata che permette questo è il tempo, cioè rendere attraverso uno strumento conoscitivo lo stesso processo di analisi, la successione diventa essa stessa essenziale alla conoscenza. Nelle tre dimensioni l'uno è posto di fronte al molteplice, nelle quattro dimensioni l'uno è presente nella molteplicità come moto interno di unità e la molteplicità pervade l'unità come suo motivo dinamico e vitale. La quarta dimensione è la profondità ontologica della realtà che appare nella sua interezza e complessità. «L'idea della contemplazione quadrimensionale è già apparsa più volte: è addirittura possibile che essa entri proprio a far parte della composizione della concezione della vita, perciò, se volessimo datarla, vedremmo che non è più antica rispetto al tutto con il quale è sostanzialmente legata. Per lo meno la simbolica religiosa delle più antiche religioni prende vita quando la si guarda nella prospettiva che abbiamo proposto più in alto. Per i filosofi il pensiero della realtà quadrimensionale (cioè di una percezione superiore della profondità del mondo) si esprime in maniera distinta. Riprendo il mito platonico "della caverna". Gli schemi piatti e le proiezioni delle cose sono per i corpi come delle ombre; allo stesso modo si attua la relazione fra il mondo tridimensionale e quello vero: così Platone enuncia il mistero delle contemplazioni della caverna. Tale mistero però è l'erede della grotta di Ditte a Creta, rifugio del neonato Zeus. I misteri delle caverne sono poi stati studiati ulteriormente dai filosofi, fino ad arrivare addirittura a Schelling e Goethe. Ma le Idee, Madri di tutto ciò che esiste, vivono in profondità, cioè secondo quell'orientamento che è la profondità del nostro mondo tridimensionale, perciò i discorsi su di esse, anche i più chiari, per un udito tridimensionale non sono che un ronzante balbettio donnesco delle Parche (A. S. Puškin)» (P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, p. 105). Testo

  78. L'Uno «ha una profondità che si estende con lunghe radici fino a penetrare negli altri mondi, e dai quali riceve la vita. La sua tonalità sonora non è quella del secco e isolato diapason, ma è una viva armonia che si incarna in un insieme di toni melodici, alti, svariati... L'e;n (uno) è infinitamente più grande e più ricco di contenuto di quanto non sia razionale» (P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, p. 67. Testo

  79. «La dottrina della SS. Trinità non attrae la mia mente solo perché è il centro delle sante verità comunicateci per mezzo della Rivelazione -- scriveva il 2 ottobre 1852 I. V. Kireevskij ad A. Košelev -- ma anche e soprattutto perché, occupandomi di filosofia, sono giunto alla convinzione che l'orientamento della filosofia dipende, sin dal suo principio, dal concetto che noi abbiamo della SS. Trinità» (P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, pp. 161-162. Testo

  80. Pur non riferendosi a nessun periodo storico particolare Florenskij sembra polemizzare con la deriva intellettualistica che la dogmatica ha preso nel corso dei secoli fino alle teorizzazioni a lui contemporanee che non percepiscono più il valore della vita e non riescono più ad inserirlo nelle proprie speculazioni troppo fredde e aride. A questo contrappone la dogmatica di stampo patristico che partiva dalle esperienze concrete di vita ed era scritta e insegnata da autentici pastori d'anime sempre in contatto con le concrete esigenze delle loro comunità. Su questa linea, dal punto di vista filosofico, si può riscontrare un parallelo con la predilezione per la dialettica paolina al posto di quella troppo intellettualistica dell'idealismo tedesco dell'Ottocento. Cfr. P. A. Florenskij, Ragione e dialettica, pp. 102-111. Testo

  81. « Il concetto, che di per sé non vale nulla, acquisisce un valore convenzionale attraverso il suo legame con le esperienze che schematizza» (P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999, p. 143. altrove: «Ecco un piano solo approssimativo del lavoro che si presenta davanti a tutti noi: la costruzione di una dogmatica esperienziale» (Ibidem, p. 168). Testo

  82. «Il nostro sistema dogmatico si presenta noioso, talmente noioso che non si trova nemmeno il tempo per polemizzare con esso; colui che lo elogia riconosce che la dogmatica è buona, ma non per lui, "per qualcun altro". In una parola, esso esiste non per la vita e nemmeno per le persone: viene tenuto in serbo, però non si sa bene per chi» (P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico, p. 147). Testo

  83. «La vita scorre al di fuori del nostro insegnamento dottrinale e la fede scorre al di fuori della vita» (Ibidem, p. 149). Testo

  84. P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico, p. 151. «Il sistema è diventato inesorabilmente noioso e incapace di convincere la maggior parte delle persone, spesso persino coloro che accolgono tutto il Vangelo» (Ibidem). Testo

  85. Alla dogmatica viva è «subentrato il dogmatismo, ecco la ragione della nostra freddezza di fronte alle forme meravigliose, ma ormai prive di vita, di questa dogmatica» (P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico, p. 152). Testo

  86. «Non bisogna dimenticare che l'uomo vive prima per mezzo dello spirito e solo in seguito compie le astrazioni di ciò che ha vissuto: i principi teorici sono solo schemi, segni, contorni delle effettive esperienze, mentre in queste ultime troviamo la fonte, la vita e il fine di tutte le teorie» (P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico, p. 154). Testo

  87. «Voi [teologi di professione] non solo non potete dimostrare la falsità, ma non ne intravedete neppure la veridicità. Nel migliore dei casi, è proprio questa la condizione della dogmatica contemporanea, che si fonda meccanicamente sull'autorità delle Sacre Scritture, della santa Tradizione e non offre alcun motivo di opporsi ad essa; ma per la maggior parte delle persone nemmeno la sua veridicità è visibile» (P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico, p. 156). Testo

  88. Cfr. P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico, p. 158. Testo

  89. P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico, p. 161. Testo

  90. Nella sua valenza etimologica di porsi fuori, rendersi conoscibile ed apparire altro a se stesso. E-siste colui che si percepisce esistente nella copula "è" (essere). Sono due «metodi di ricerca: uno incerto, che parte dall'ignoto per arrivare al conosciuto, l'altro vero, che va dal conosciuto all'ignoto» (Ibidem). Questo saggio florenskijano termina poi con un appello alla centralità dell'uomo concreto nella dogmatica (la chiama via dei Padri) in favore di una astratta via universalmente umana. La prima via, quella dei Padri studia l'uomo «privo di contenuto, che ha in sé una minima parte di vita spirituale», invece nella via per ogni uomo si rende necessario lo studio del campione dell'umanità: Gesù Cristo (o uiòs tou avthropou). Rifacendosi alla cristologia paolina della lettera ai Galati (Gal. 3, 26-29), Florenskij riconosce in Gesù uomo il riempimento di ogni categoria concettuale umana. La vera pienezza di senso. È una dogmatica esperienziale che parte dalla concreta "vita vissuta" dell'uomo-Dio per eccellenza. È la fondazione di una conoscenza mistica nata dalla comunanza umana con il Dio che è Cristo. Una conoscenza tutta umana, mai troppo ascetica perché compenetrata nell'intimo dalle aporie e dai limiti dell'umanità, quindi essenzialmente esperienziale. Cfr. sull'argomento Y. Spiteris, La conoscenza «esperienziale» di Dio e la teologia nella prospettiva orientale, Antonianum 3 (1997), pp. 365-426. Testo

  91. Gv. 4, 8.16. Secondo la definizione di Bulgakov: «Dio è Amore significa non soltanto che l'amore è il proprio di Dio, perché egli è colui che ama, ma appunto ch'egli stesso è amore, che tale è il suo essere stesso. Qui abbiamo una definizione non descrittiva ma ontologica» (S. Bulgakov, Paraclito, Bologna 19872, p. 137). « Dio è essere assoluto perché è atto sostanziale di amore, atto-sostanza» (P. A. Florenskij, CFV, p. 82). Ancora Bulgakov è illuminate sul tema: «L'Amore non è una qualità, ma l'essenza stessa di Dio; la relazione sostanziale del soggetto trino è amore come reciprocità e come abnegazione reciproca, come amore che si sacrifica. Poiché esprime se stesso solo nell'altro, l'Amore si realizza soltanto in e attraverso l'altro» (S. Bulgakov, Capitoli sulla Trinitarietà, in P. Coda, Sergej Bulgakov, Morcelliana, Brescia 2003, p. 125). Testo

  92. Nella Professione di fede dei 318 padri del concilio Niceno I (325) si legge: «Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, artefice di tutte le cose visibili e invisibili, e in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre (ἐκ τῆς οὐσίας τοῦ Πατρός), Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non fatto, consostanziale al Padre (ὁμοούσιον τῷ Πατρί)» (DS, 125). Occorre aggiungere che Florenskij traduce il termine omoousios con la parola edino-suùnij (uni-sostanziale) e non, come si può trovare in altri autori, con konsubstancialìnij (consustanziale). Cfr. L. Zak, Verità come ethos, p. 255. «Tutto il senso del dogma sta nell'omooúsios, stabilito da Atanasio e ciò che gli è estraneo è soltanto vanità dell'uomo, opinione transeunte» (P. A. Florenskij, CFV, p. 67). Testo

  93. «Nella comprensione nuova, illusionistica, domina l'accezione psicologica dell'amore [...]. Questa nuova comprensione sembra risalire a Leibniz e se ne capisce la ragione. Per lui infatti "le monadi non hanno finestre o porte [porte o finestre]" attraverso le quali possa avvenire l'azione reciproca reale dell'amore; condannate all'autoclausura dell'egoismo ontologico e dello stato puramente interiore, esse perciò amano soltanto illusoriamente, non uscendo da sé per mezzo dell'amore. [...] Come abbiamo visto, per Leibniz e i suoi seguaci l'amore è condizionato dalla concezione della felicità dell'altro, mentre per Spinoza "l'idea della causa esterna", cioè di un certo non-Io, accompagna soltanto il diletto, il quale è uno stato d'animo puramente soggettivo dell'Io. [...] L'amore è possibile verso una persona, la concupiscenza verso una cosa; ora la concezione razionalistica non distingue, e non è capace di distinguere, la persona e la cosa, o meglio, dispone dell'unica categoria della reitas e quindi reifica tutto, compresa la persona, e la prende come cosa, res» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 86-88). Testo

  94. Cfr. P. A. Florenskij, CFV, p. 86. Testo

  95. «La cosa è caratterizzata dall'unità esteriore, cioè dalla somma delle sue caratteristiche, mentre la persona ha per caratteristica l'unità interiore, cioè l'unità delle'attività di autoedificazione dell'Io, come dice Fichte. Di conseguenza l'identità delle cose si ricava dall'identità dei concetti, mentre l'identità della persona dall'unità dell'attività che la auto-edifica o auto-pone. Di due cose non si può mai dire che sono "identiche" in senso stretto, perché sono soltanto "analoghe", anche se "in tutto" (kata, pa,nta), soltanto somiglianti l'una all'altra, anche se in tutte le loro caratteristiche. Perciò l'identità delle cose può essere generica, secondo il genere (identitas generica, tauto,thj t? i;dei) o specifica, secondo l'aspetto (identitas specifica), insomma, sintomatica, un'identità di apparenze esteriori, perché connessa a un certo numero di sintomi comuni, compresa la coincidenza di una loro quantità transfinita, o, nel caso estremo, di tutti i sintomi; ma non potrà mai essere identità numerica (identitas numerica, tauto,thj kat'avriqmo,n)» (P. A. Florenskij, CFV, p. 89). Ci sono tre tipi di identità, unità: «unitas generica, specifica, numerica. Siccome l'uno indica l'essere indivisibile, l'ens individuum, le unitates saranno tante quante sono le divisioni. Ora le cose si distinguono o nel genere (come per esempio l'uomo dalla pietra) o nella specie (come il leone dal cavallo) o nel numero (come Pietro da Paolo). Così esistono tre unità: quella che nega la divisione del genere si chiama generica, quella che nega la divisione della specie si chiama specifica, quella che nega la divisione del numero si chiama numerica o individuale. [...] Solo la unitas individualis è un'unità reale, perché in rerum natura esistono solo i singularia. Le unità generica e specifica, se non vi si aggiunge l'unità individuale, non sono unità perfette a parte rei ma solo negazioni di diversità» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 517-518). Testo

  96. « L'amore delle persone pure, cioè di coloro che hanno acquistato una piena padronanza del meccanismo della propria organizzazione, di coloro che hanno spiritualizzato corpo e anima, postula semplicemente la pura identità numerica, la ὁμοουσία (omoousìa), mentre l'amore delle pure cose richiede esclusivamente la mera somiglianza generica, la ὁμοιουσία (omoiousìa)» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 89-90). Testo

  97. «Quanto più è rigorosa la definizione dell'identità, tanto più distintamente dà rilievo nel suo oggetto all'identità degli aspetti esteriori e più precisamente esclude dalla propria visuale l'identità numerica; sempre e dovunque si tratta di cose. Quando invece si tenga conto dell'identità numerica, la si può solo descrivere, spiegare, rimandando alla fonte, all'origine prima dell'idea di identità che è denominata identità originaria e si trova nell'interiorità della persona viva. È chiaro che non può essere diversamente. Perché l'identità numerica è la caratteristica più profonda e, si può dire, unica della persona viva, e definire l'identità numerica significherebbe definire la persona» (P. A. Florenskij, CFV, p. 92). Florenskij qui entra anche in polemica con due grandi filosofi occidentali come H. Bergson e W. Stern. Secondo lui entrambi non sono riusciti a scrollarsi di dosso totalmente, nelle loro proposte filosofiche, le pecche del razionalismo; non si sono decisi per "l'eroismo della fede". Entrambi danno una definizione razionale della persona che nella sua propria essenza è invece indefinibile. Cfr. Ibidem, pp. 630-631. Testo

  98. «Il razionalismo, cioè la filosofia del concetto e del raziocinio, è la filosofia della cosa e dell'immobilismo senza vita, perciò ancora una volta è totalmente legato alla legge d'identità; è, in breve, la filosofia dell'omoiousìa. È una filosofia carnale. Al contrario, la filosofia cristiana, cioè la filosofia dell'idea e della ragione, la filosofia della persona e dell'ascesi creativa [dell'eroismo creativo], ancora una volta si basa sulla possibilità di superare la legge dell'identità e può essere definita filosofia dell'omoousía. È una filosofia spirituale» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 90-91). Testo

  99. «La necessità di una delimitazione rigorosa dell'identità numerica da un lato, dell'identità generica dall'altro e quindi dell'amore come stato psicologico, che corrisponde alla filosofia della cosa [reificata], dell'amore come atto ontologico, che corrisponde alla filosofia della persona. In altre parole, l'amore cristiano deve essere, nel modo più indiscutibile [reciso], sottratto alla psicologia e trasferito nell'ontologia; solo tenuto conto di questa esigenza il lettore può comprendere che tutto quanto si è detto (e si intende ancora dire) dell'amore non è una metafora, ma l'espressione verace della vera nostra conoscenza» (P. A. Florenskij, CFV, p. 93). Testo

  100. «L'amore per il fratello è una specie di manifestazione, quasi un'emanazione della forza Divina irradiante da Dio che ama» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 95-96). Testo

  101. «Così afferma Prometeo. Ciò che prima non potevano strappargli né l'orrore della sfida contro Dio, né i tuoni di Zeus, né le efferate torture della crocifissione, ora lo dona lui stesso, come un bambino, al Padre celeste, dopo aver conosciuto la sua verità nell'esperienza di preghiera della coscienza purificata» (P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico, pp. 140-141). Prometeo è il simbolo dell'uomo che non si pone in ascolto della divinità ma reputa di bastare a se stesso, di potersi trascendere da solo senza rivolgersi a nulla e a nessuno. Naturalmente tale situazione è destinata alla sconfitta. Testo

  102. «Nell'amore come atto ontologico avviene un reale superamento trans-logico dell'autoidentità che, unito all'autentico donarsi libero e gratuito, lascia trasparire la sua natura rivelativa in tutta la sua forza divina» (N. Valentini, La sapienza dell'amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997, pp. 154-155). «In forza di questa uscita da sé l'Io diventa nell'altro, nel non-Io, il non-Io, diviene uni-sostanziale (ὁμοούσιος, omooúsios) e non semplicemente simil-sostanziale (ὁμοιούσιος, omoioúsios) come richiede il moralismo, che è lo sforzo futile e demente di un amore umano, fuori di Dio» (P. A. Florenskij, CFV, p. 101). Testo

  103. Cfr. N. Valentini, La sapienza dell'amore, p. 155-ss.; si confrontino sul tema di un'antropologia trinitaria le opere dei Padri Cappadoci e di Gregorio di Nissa in particolare. Cfr. O. Clement, Riflessioni sull'uomo, Jaca Book, Milano 19913, pp. 39-52. Testo

  104. «L'esempio più luminoso e originale dell'ethos ontologico trinitario proposto da Florenskij si può incontrare nella lettera sull'amicizia che è il più bel fiore della filosofia dell'omoousìa» (M. Silberer, Die Trinitätsidee im Werke von Pavel A. Florenskij. Versuch einer systematischen Darstellung in Begegnung mit Thomas von Aquin, Augustinus Verlang, Würzburg 1984, p. 175). Testo

  105. «Ciascuna delle ipostasi della triade che ha in sé la vita spirituale (conoscenza-amore-diletto), nei diversi aspetti metafisici conformi alla sua posizione nella triade, si distingue anche per un suo tipo particolare di vita spirituale, per una conformazione particolare del suo cammino verso Dio. Ciò conferisce una sfumatura speciale alla sua conoscenza, al suo amore, al suo diletto: l'amore della prima ipostasi è infuocato e geloso, nella seconda è mite e pronto al sacrificio; nella terza è entusiastico e trepidante» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 104-105). Testo

  106. «Considerare l'albero di senape fronzuto e ombroso, che è la concezione cristiana della vita, come originato dal minimo seme dell'idea dell'"unisostanzialità" non è una possibilità soltanto logica, perché di fatto così fu storicamente. Il termine ὁμοούσιος (omooúsios) esprime proprio questo germe antinomico, un nome unico per Tre Ipostasi ("nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo", e non "nei nomi" della Tre Ipostasi)» (P. A. Florenskij, CFV, p. 64. Testo

  107. P. A. Florenskij, CFV, p. 504. Testo

  108. «L'amicizia non è solo etica e psicologica ma prima di tutto ontologica e mistica, così l'hanno veduta in tutti i tempi coloro che hanno contemplato le profondità dell'esistenza» (P. A. Florenskij, CFV, p. 504). Testo

  109. «Da un lato la persona singola è tutto, dall'altro è qualcosa soltanto dove si trovino "due o tre". Questo "due o tre" è qualcosa di qualitativamente superiore all'"uno", benché sia stato il cristianesimo a creare l'idea del valore assoluto della persona individuale. La persona non può essere assolutamente valida se non in una comunicazione assolutamente valida, benché non si possa dire se la persona sia prima della comunicazione o la comunicazione prima della persona. Il primato della persona o della comunicazione si escludono a vicenda, dal punto di vista razionalistico, ma sono dati insieme come fatto immediato nella vita ecclesiale» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 484-485). Testo

  110. P. A. Florenskij, CFV, p. 485. Testo

  111. «"Due" non è "uno più uno", ma qualcosa per essenza di più, di più plurisignificante e possente. "Due" è una nuova composizione chimica dello spirito, quando "uno più uno" si trasfigurano qualitativamente e costituiscono un terzo". P. A. Florenskij, CFV, p. 486. Testo

  112. «L'amico non è solo un Io ma un altro Io, altro per l'Io. Però l'Io è unico e tutto ciò che è altro rispetto all'Io è già non Io; l'amico è un Io che è non Io, una contraddizione, e il concetto stesso di amico implica un'antinomia. Se la tesi dell'amicizia è l'identità e la somiglianza, la sua antitesi è la non identità e non somiglianza. Io non posso amare ciò che non è Io, perché altrimenti ammetterei in me stesso qualcosa di estraneo; d'altra parte amando non voglio ciò che sono io stesso perché di ciò che già possiedo non m'importa niente» (P. A. Florenskij, CFV, p. 505). Testo

  113. P. A. Florenskij, CFV, p. 525. Testo

  114. P. A. Florenskij, CFV, p. 506. Testo

  115. Cfr. S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano 2006, pp. 7-18. Testo

  116. « L'ideale dell'amicizia non è innato all'uomo ma gli è dato a priori, quale elemento costitutivo della sua natura» (P. A. Florenskij, CFV, p. 508). Testo

  117. «E se pertanto uno desidera o ama l'altro, ragazzi miei, non potrebbe mai desiderarlo né amarlo né essergli amico, se non fosse affine all'oggetto del suo amore o nell'anima o in qualche altra attitudine dell'anima o nei comportamenti o nell'aspetto». Platone, Liside, 221e-222a. Testo

  118. «Gli amici "sono per essenza propri (oikeìoi)" l'uno dell'altro, nel senso che ciascuno di loro è una parte dell'altro, del cui essere completa l'insufficienza metafisica e che perciò è della stessa natura» (P. A. Florenskij, CFV, p. 505). Testo

  119. P. A. Florenskij, CFV, p. 506. Testo

  120. «Fra coloro che si amano si squarcia la cortina dell'aseità e ciascuno vede nell'amico come se stesso, la sua propria essenza più intima, il suo alter ego che poi non è diverso dall'Io. L'amico viene accolto nell'Io, gli diventa accetto nel significato più profondo del termine, viene ammesso nella struttura dell'amante alla quale non riesce estraneo e dalla quale non viene respinto» (P. A. Florenskij, CFV, p. 498). Testo

  121. P. A. Florenskij, CFV, p. 506. Testo

  122. «Ma ricevere la pienezza è difficile, perché bisogna prima accogliere l'amico stesso e in lui ritrovare la pienezza; ora non è possibile accogliere l'amico senza aver dato se stessi, e dare se stessi è difficile» (P. A. Florenskij, CFV, p. 511). Testo

  123. P. A. Florenskij, CFV, p. 522. Testo

  124. «L'eroismo è sempre e soltanto l'ornamento e non l'essenza della vita e come tale ha sempre la sua legittima parte di affettazione; se si sostituisce alla vita, degenera inevitabilmente in trucco, in posa più o meno verosimile. L'eroismo più naturale è nell'amicizia, nel suo pathos; ma anche qui ne è solo la corolla, non lo stelo né la radice. L'eroico dissipa e non raccoglie, vive sempre a spese dell'altro, si nutre dei succhi che mette in serbo la vita quotidiana, nelle cui oscurità affondano le radici sottilissime e delicatissime dell'amicizia; esse succhiano la vera vita, e nessuno le vede, e talvolta nessuno nemmeno le sospetta, nutrono tuttavia la vita effettiva e il fiore in boccio dell'eroismo, quando non sia vacuo, produce semplicemente il seme dell'amicizia futura». P. A. Florenskij, CFV, pp. 501-502. Testo

  125. «L'amico non si meraviglia mai dell'amico e non lo disprezza, non se ne invaghisce e non lo odia. Egli ama e per l'amore l'unica anima amata è infinitamente cara, senza prezzo, superiore a tutto il mondo, con tutti i suoi allettamenti. Perché la philìa riconosce l'amico al suo sorriso, alle sue placide parole, alle sue debolezze, alla maniera con cui tratta con la gente nella vita quotidiana, alla maniera con cui mangia e dorme, e non alla posa esteriore e alla veste eroica» (P. A. Florenskij, CFV, pp. 502-503). Testo

  126. «La "comunità" dell'amore non deve limitarsi a un'idea astratta ma esige assolutamente manifestazioni sensibili e concrete fino allo "stretto" contatto compreso. Bisogna non soltanto "amarsi" a vicenda, ma stare stretti (pyknòs) insieme, sforzandosi, se possibile, di stringersi «più stretti» (pyknòteron), l'uno all'altro. [...] Bisogna vivere la vita comune, illuminare e compenetrare la vita quotidiana con la vicinanza anche esteriore, corporea» (P. A. Florenskij, CFV, p. 507). Testo

  127. "L'obbedienza dell'amicizia sta nel portare la croce del proprio amico. Ibidem, p. 510. "Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo". (Gal. 6,2) Testo

  128. «L'amore è una scelta libera: tra molte persone, molti Io, sceglie con un atto di autonoma decisione interiore una persona e con lei allaccia un rapporto unico e di intimità spirituale. L'Io vuole vedere in questa persona comune una persona straordinaria, in questa persona grigia una persona briosa, in questa persona feriale una persona festiva. Essa sta nella folla ma l'Io la chiama e la introduce nella dimora ornata del proprio cuore, ne disegna l'effige su uno sfondo di oro zecchino. E a ragione, perché questa effige non è una caricatura come la disegnano gli uomini il più delle volte, non è nemmeno un ritratto dipinto da un sapiente. Essa è l'immagine dell'immagine di Dio, un'icona. Infrangendo la legge d'identità, l'Io con un atto metafisico di autodeterminazione (non un atto razionalistico) con tutto il proprio essere, decide di vedere nella persona scelta tra molte una persona eccezionale, eminente; in una parola, la persona scelta diventa per lui Tu. Ripeto: l'amicizia è esclusiva come è esclusivo l'amore coniugale». P. A. Florenskij, CFV, pp. 536-537. «Attraverso un incomprensibile atto di elezione una persona diventa unica, è chiamata alla sublime e regale dignità di Tu. Quando essa ha acconsentito a questa scelta, ha detto «sì» e si è posta sul capo la corona della grandezza, che cosa vuole ancora l'Io? Una cosa sola: il suo amore. [...] L'io desidera che il Tu non gli sia d'ostacolo nell'amore, cioè che nei rapporti con lui sia veramente Tu. Che il Tu si comporti come unico, che non scenda dal piedistallo dell'appartato, del singolare, dell'eletto![...] Nei rapporti con l'Io il Tu deve comportarsi da Tu e non come uno dei tanti, deve portare la corona regale e non la berretta da notte. La coscienza della necessità di questo Tu affinché sia possibile l'amore comporta il desiderio di attuare questa elezione e quindi di rinsaldarla e conservarla: tutto questo insieme è la gelosia». P. A. Florenskij, CFV, pp. 538-539. Testo

  129. «Il comandamento fondamentale dell'amicizia è la fedeltà, l'indissolubilità, stretta nel matrimonio, l'incrollabilità fino all'ultimo, fino all'effusione di sangue». P. A. Florenskij, CFV, p. 510. «Questa compenetrazione reciproca delle persone è un compito e non un dato iniziale dell'amicizia; quando è raggiunta, l'amicizia diventa per forza di cose indissolubile e la fedeltà alla persona dell'amico cessa di essere un eroismo perché non può essere infranta. Ma fino a quando questa unità superiore non sia raggiunta, la fedeltà è, e la coscienza ecclesiale l'ha sempre considerata tale, qualcosa di indispensabile non soltanto per conservare l'amicizia ma anche per la stessa vita degli amici. Conservare l'amicizia iniziata dà tutto, il romperla mette in pericolo la stessa esistenza dell'apostata, perché le anime dei due amici avevano già incominciato a fondersi» (P. A. Florenskij, CFV, p. 512-513). Testo

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