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La confessione della Trinità. Un confronto con la comprensione di Dio nel Corano

di Felix Körner (Roma, 26-28 maggio 2011)

«Adoriamo l'unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità, senza confusione delle persone e senza divisione dell'essenza». Che cosa significa ciò? Per rispondere dobbiamo anzitutto porre una domanda apparentemente del tutto differente: come ha parlato Gesù? e come ha parlato Muhammad?

1. Il linguaggio

Contro questa domanda si può subito obiettare che è posta male, e più esattamente da sei punti di vista:

  1. Per i cristiani non sono decisive le parole di Gesù: decisiva è la sua persona.
  2. Gesù non ha solo parlato nel passato: egli parla anche nel presente.
  3. I musulmani non sono tanto interessati alla parole di Maometto, quanto alla parola divina inviata tramite lui.
  4. Ciò che Gesù ha annunciato non fu immediatamente memorizzato; nel caso di Muhammad invece ciò avvenne in maniera molto affidabile. Abbiamo quindi una base di partenza diversa.
  5. Ciò che Gesù e Muhammad rivendicarono per sé è radicalmente diverso.
  6. Non si dovrebbe ripiegare sulla forme linguistiche quando bisogna chiarire i contenuti di fede.

Ciononostante vale la pena fare un confronto. Infatti in primo luogo è perfettamente possibile affermare che dal testo dei vangeli si può benissimo dedurre ciò che Gesù ha detto prima della Pasqua; e se si contrappone Gesù non a Muhammad, ma alla scrittura da lui predicata, le parole di Gesù e del Corano possono essere benissimo confrontate. Inoltre, islam e cristianesimo possono percepirsi come qualcosa di stabile grazie alle rispettive parole. Che questo confronto non debba rimanere al livello linguistico-formale, bensì abbia conseguenze decisive per la confessione di fede, speriamo che risulterà presto da quello che diremo. Dovremo interrogare un passo del Corano e una pericope evangelica per mostrare in qual modo essi, esplicitamente e implicitamente, esprimono una teologia, dunque esprimono la confessione di fede. Scegliamo due passi che hanno molti elementi in comune. Entrambi contengono un linguaggio parabolico, entrambi cercano di chiarire come sia possibile la mancanza di fede e come Dio sia potente. Ma soprattutto il passo del Corano presenta la situazione linguistica tipica del Corano, il brano evangelico invece quella specificamente biblica. I passi presi in considerazione sono Sura 2: 1-22 e Luca 8, 1-10.

Luca 8

1 E accadde in seguito che egli [Gesù] se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. 2 C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, 3 Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni.

4 Poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, disse con una parabola: 5 «Il seminatore uscì a seminare la sua semente. Mentre seminava, parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la divorarono. 6 Un'altra parte cadde sulla pietra e appena germogliata inaridì per mancanza di umidità. 7 Un'altra cadde in mezzo alle spine e le spine, cresciute insieme con essa, la soffocarono. 8 Un'altra cadde sulla terra buona, germogliò e fruttò cento volte tanto». Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per intendere, intenda! ».

9 I suoi discepoli lo interrogarono sul significato della parabola. 10 Ed egli disse: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole, perché vedendo non vedano e udendo non intendano. »

Sura 2 La Giovenca

In nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso

1. Alif, Lâm, Mîm.

2. Questo è il Libro su cui non ci sono dubbi, una guida per i timorati,

3. coloro che credono nell'invisibile, assolvono all'orazione e donano di ciò di cui Noi li abbiamo provvisti,

4. coloro che credono in ciò che è stato fatto scendere su di te e in ciò che è stato fatto scendere prima di te e che credono fermamente all'altra vita.

5. Quelli seguono la guida del loro Signore; quelli sono coloro che prospereranno.

6. In verità [per] quelli che non credono, non fa differenza che tu li avverta oppure no: non crederanno.

7. Dio ha posto un sigillo sui loro cuori e sulle loro orecchie e sui loro occhi c'è un velo; avranno un castigo immenso.

8. Tra gli uomini vi è chi dice: «Crediamo in Dio e nel Giorno Ultimo! » e invece non sono credenti.

9. Cercano di ingannare Dio e coloro che credono, ma non ingannano che loro stessi e non se ne accorgono.

10. Nei loro cuori c'è una malattia e Dio ha aggravato questa malattia. Avranno un castigo doloroso per la loro menzogna.

11. E quando si dice loro: «Non spargete la corruzione sulla terra», dicono: «Anzi, noi siamo dei conciliatori! ».

12. Non sono forse questi i corruttori? Ma non se ne avvedono.

13. E quando si dice loro: «Credete come hanno creduto gli altri uomini», rispondono: «Dovremmo credere come hanno creduto gli stolti? ». Non sono forse loro gli stolti? Ma non lo sanno.

14. Quando incontrano i credenti, dicono: «Crediamo»; ma quando sono soli con i loro dèmoni, dicono: «Invero siamo dei vostri; non facciamo che burlarci di loro».

15. Dio si burla di loro, lascia che sprofondino nella ribellione, accecati.

16. Sono quelli che hanno scambiato la retta Guida con la perdizione. Il loro è un commercio senza utile e non sono ben guidati.

17. Assomigliano a chi accende un fuoco; poi, quando il fuoco ha illuminato i suoi dintorni, Dio sottrae loro la luce e li abbandona nelle tenebre in cui non vedono nulla.

18. Sordi, muti, ciechi, non possono ritornare.

19. [O come] una nuvola di pioggia nel cielo, gonfia di tenebre, di tuoni e di fulmini: mettono le loro dita nelle orecchie temendo la morte a causa dei fulmini. E Dio accerchia i miscredenti.

20. Il lampo quasi li acceca: ogni volta che rischiara, procedono; ma quando rimangono nell'oscurità si fermano. Se Dio avesse voluto, li avrebbe privati dell'udito e della vista. In verità Dio su tutte le cose è potente.

21. O uomini, adorate il vostro Signore Che ha creato voi e quelli che vi hanno preceduto, cosicché possiate essere timorati.

22. [Egli è] Colui Che della terra ha fatto un letto e del cielo un edificio, e che dal cielo fa scendere l'acqua con la quale produce i frutti che sono il vostro cibo. Non attribuite consimili ad Dio benché sappiate.

2. Esame del testo

L'inizio della seconda Sura mostra non solo in qual modo il Corano parla, ma anche ciò che esso vuole, ciò che vuole essere e ciò che presuppone. In effetti la Sura offre in questi versi un'autodefinizione del Corano, offre un discorso diretto con il quale Dio si rivolge al Profeta, così come l'espressione universale «voi uomini»; offre un linguaggio parabolico e un appello alla conversione come chiamata al monoteismo.

Anche in Luca 8 viene trasmessa una chiamata alla conversione. Ascoltiamo Gesù nel suo tipico modo di parlare, la «parabola dell'azione» che descrive gli effetti del regno di Dio e al contempo lo rende efficace. Si trova una riflessione sull'evento linguistico della signoria di Dio come anticipazione inclusiva del giudizio. Oltre a ciò Luca offre, a confronto con il Corano, una comprensione di sé in quanto autore espressamente diversa. Sa di essere uno storico distaccato; ma da questa prospettiva presenta Gesù, il modo in cui si rivolge agli uomini, tanto in Galilea quanto nel momento della lettura. Così troviamo qui le figure rappresentative tipiche per la testimonianza ecclesiale: testimoni oculari, primi trasmettitori, presentatore nell'oggi, lettore appellato.

La giovenca. Ogni Sura porta oggi un nome che per lo più riprende una parola caratteristica del testo. Il testo del Corano non è presentato in ordine cronologico, piuttosto è ordinato secondo la lunghezza delle Sure; in questo modo i primi editori cercavano di minimizzare il loro intervento redazionale.

Alif, Lam, Mim. Queste tre «lettere enigmatiche» all'inizio della Sura sollevano difficili questioni. Probabilmente si tratta di codici con cui si identificavano singoli porzioni della tradizione prima che esse fossero raccolte in un codice complessivo di 114 sure. È significativo che si continuino a tramandare questi segni che nel codice non sono più necessari. La redazione vuole intervenire nel testo il meno possibile, perché per essa non si tratta dell'opera di un autore terreno, ma del protocollo stesso della voce di Dio.

Questo è il Libro su cui non ci sono dubbi. Il Corano parla spesso di sé stesso. La parola di Dio va qui incontro al credente con la sua piena e immediata autorità. Parla per sé. Ciò non significa per l'ascoltatore escludere il proprio pensiero: questo viene piuttosto chiamato a compiere in maniera razionale ciò che qui è presentato. Il Corano viene composto allo scopo che l'esperienza primitiva dell'incontro con la parola sia esattamente ripetibile.

Leggiamo a confronto il testo di Luca.

E accadde in seguito. Qui si tratta di un testo greco. Non pretende affatto di essere il puro e semplice protocollo dell'avvenimento verbale di Dio. Tra i cristiani fin dall'inizio domina la gioia della traduzione. Evidentemente il testo vuole far condivisibile un avvenimento attuale di significato universale. Chi parla nel vangelo di Luca? Un evangelista. Egli sa di essere solo uno tra tanti e non pretende di riprodurre letteralmente la parola di Dio; egli ha ascoltato i testimoni e ora vuole narrare con ordine (? a? e? ? ? ). Dunque per lui si tratta di storia, in un triplice senso: 1. Il prima e il dopo dell'avvenimento nella sua dinamica è decisivo per il senso del tutto; 2. Qualcosa è avvenuto (e non solo è stato detto). Per questo Luca adopera volentieri la formula già usata nell'Antico Testamento «E accadde». 3. Un evento può essere reso presente agli uomini di oggi solo nella modalità della testimonianza.

Fin dall'inizio lo sguardo è rivolto ad un procedimento ermeneutico in cui da una sequenza di dati di fatto deriva una sequenza di parole: procedimento che contiene una sfida e un potenziale di variazione. Il trasmettitore, con la sua capacità di indagare e di esporre, partecipa dunque all'avvenimento della mediazione e ne è cosciente.

Torniamo al Corano:

Questo è il Libro su cui non ci sono dubbi, una guida per i timorati. Il Corano stesso indica il proprio senso: esso intende essere un indirizzamento, una guida nell'etica, nel culto, nella dottrina della fede. Il contenuto è già qui esplicitato in una sorta di sequenza di cinque colonne, che didatticamente possono essere contate con le dita di una mano: credere a ciò che è sovrasensibile, pregare, fare l'elemosina, credere a ciò che è stato prima rivelato, credere all'aldilà. Il credo, il culto e l'agire sociale non sono separati quasi fossero piani distinti.

Quelli seguono la guida del loro Signore. È teologicamente interessante che il Corano alluda al fatto che la vita buona non è solo una decisione dell'uomo di fronte all'informazione divina riguardo al bene, ma che si tratta di una trasformazione divina in direzione del bene.

Quelli sono coloro che prospereranno. La salvezza nell'altro mondo -- e forse anche in questo mondo -- viene posta davanti agli occhi in maniera allettante.

Ora segue una parabola, che può riferirsi agli infedeli o agli ipocriti; in ogni caso è indicata con la parola semitica per «parabola» ma? al; letteralmente: «la loro parabola è... ».

Assomigliano a chi accende un fuoco; poi, quando il fuoco ha illuminato i suoi dintorni, Dio sottrae loro la luce e li abbandona nelle tenebre in cui non vedono nulla. Qui si possono porre tre domande teologiche. 1. Che tipo di fuoco c'era all'inizio? Il Corano lo dice chiaramente: fin dall'inizio gli uomini avevano informazioni su ciò che è necessario per la salvezza, ma poi travisarono l'istruzione divina (2: 75). 2. Perché il numero grammaticale cambia (prima «egli», poi «essi»)? Si può pensare ad un profeta che dà luce, e al suo popolo; oppure l'immagine (un uomo) e la realtà (molti infedeli) cambiano reciprocamente. 3. Dio è responsabile dell'incredulità? Si potrà rispondere così: che sia Dio ad agire e a portar via la luce non è un'eliminazione della responsabilità umana, bensì un modo per dire: anche l'incredulità è contenuta nella volontà di Dio, non è una dimostrazione della sua impotenza ma un campo per la futura dimostrazione della sua potenza.

Sordi, muti, ciechi, non possono ritornare. Perché è bloccata non solo la capacità di percezione degli infedeli, ma anche la loro capacità di comunicazione? perché sono denominati anche come «muti»? Qui viene usato la formula bestiale: sono (così si dice) come le bestie che non comprendono nulla, poiché sono prive di linguaggio.

Bisogna ancora aggiungere tre osservazioni formali: 1. La parabola presenta solo l'incredulità, ma non spiega che cosa mai sia la fede; ciò evidentemente viene presupposto come ovvio. 2. La parabola del fuoco sta tra due formule più esplicite, «non sono ben guidati» e «non possono ritornare». La parabola non è dunque il culmine del brano, non fa nessuna affermazione autonoma. Piuttosto serve ad intensificare e illustrare ciò che è comunque detto. 3. Come spesso anche nel Nuovo Testamento, anche nel Corano si trova la parabola doppia: in una seconda ripresa (aw ka-: «o come») la stessa realtà viene nuovamente illustrata:

[O come] una nuvola di pioggia nel cielo, gonfia di tenebre, di tuoni e di fulmini: mettono le loro dita nelle orecchie temendo la morte a causa dei fulmini. E Dio accerchia i miscredenti. Il lampo quasi li acceca: ogni volta che rischiara, procedono; ma quando rimangono nell'oscurità si fermano. Se Dio avesse voluto, li avrebbe privati dell'udito e della vista. In verità Dio su tutte le cose è potente.

Questa parabola offre qualcosa di più che un'illustrazione e intensificazione di ciò che è stato già detto direttamente degli increduli. Offre tre novità inattese. 1. Traccia una connessione dal non vedere al non ascoltare nella rappresentazione del temporale 2. I rapidi lampi mostrano come gli uomini siano dipendenti dall'illuminazione fornita da Dio. 3. Il lampo non è però semplicemente illuminante, è anche accecante. La situazione degli increduli diventa una farsa in cui gli uomini brancolano nell'oscurità, e ciò perché manca la continuità. Sulla base dell'assoluta dipendenza di tutti i processi da Dio, gli increduli sono ciechi proprio a causa della luce che originalmente è guida: essa si è trasformata in un lampo.

O uomini, adorate il vostro Signore Che ha creato voi e quelli che vi hanno preceduto, cosicché possiate essere timorati. [Egli è] Colui Che della terra ha fatto un letto e del cielo un edificio, e che dal cielo fa scendere l'acqua con la quale produce i frutti che sono il vostro cibo. Non attribuite consimili ad Dio benché sappiate.

Si invita a «servire», il che significa tanto una preghiera adorante quanto un agire interumano (1: 5). È stato appena detto che Dio è la causa della fede e dell'incredulità. Il passo si chiude però con un appello alla fede. Si tratta dell'invito, frequente nel Corano, al monoteismo puro. Qui sono ancora una volta da sottolineare tre punti di vista teologicamente rilevanti: 1. La dipendenza totale da Dio non significa che non si può trasmettere nessuna chiamata alla conversione. L'uomo ha sicuramente una volontà, ed essa può essere evidentemente interpellata. 2. Compimento della fede è il riconoscimento meravigliato della potenza creatrice e provvidenziale di Dio; in altre parole: il contrario dell'incredulità è la riconoscenza, gratitudine. 3. L'annuncio monoteistico non si presenta affatto come qualcosa di nuovo; piuttosto è ciò che tutti i profeti hanno predicato e tutti gli uomini hanno una volta originariamente saputo. L'annuncio coranico è un appello alla memoria, una ripetizione.

Osserviamo ora il passo di Luca:

Egli se ne andava per le città e i villaggi. Gesù è già da tempo in cammino. Egli non attende che gli uomini vengano da lui: egli va da loro. Questo essere in cammino non sarebbe stato possibile al Muhammad nella fase Meccana. I suoi compagni di tribù «increduli» lo avrebbero messo da parte fuori della zona che in patria proteggeva contro la vendetta del sangue. Luca disegna una sistematica geografia della predicazione di Gesù. Essa fonda l'attività missionaria della Chiesa, così come è descritta negli Atti degli Apostoli.

Predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. Letteralmente si dice: «mentre egli annunciava la signoria di Dio e la trasmetteva come lieta notizia». Che il regno di Dio non solo venga nominato, ma che il suo evento linguistico sia una modalità della sua realtà, lo mostrerà la sezione seguente.

C'erano con lui i Dodici. Gesù viene sì mostrato come un pellegrino esposto al pericolo, ma contemporaneamente egli è circondato da una compagnia principesca. Prima della linguistica del regno di Dio viene mostrata la sua sociologia, cosicché ogni comprensione del testo diventa anche un ricollegarsi ad una realtà già iniziata: Io entro in una nuova comunità. Essa ha qualcosa di addirittura inaudito:

E alcune donne. Le donne sono i prototipi del testimone. Esse mostrano che cos'è la testimonianza e che cosa essa opera. 1. In quanto compagne femminili sono di scandalo per l'ambiente dell'epoca 2. e mostrano che qui viene creata una nuova forma sociale del rapporto con Cristo; 3. sono nominate come «tre», il che è decisivo per la validità delle loro affermazioni (Dt 19, 15) 4. sono una scelta sorprendente: Magdala è un luogo notoriamente malfamato, la moglie di Cusa, essendo ricca, altolocata, proveniente dalle vicinanze di una potenza nemica, mostra che Dio nella sua scelta non è legato ad un tipo prestabilito e che la sua chiamata è universale; 5. hanno sperimentato la salvezza integrante di Gesù nel loro proprio corpo; 6. nel loro servizio e generosità sono modello per i seguaci che verranno; 7. ricompaiono accanto alla croce e al sepolcro vuoto e così mostrano qual è il contenuto primo della testimonianza. Qui non si tratta dunque di ripetere ciò che ognuno già sa, ma di qualcosa di nuovo.

«Il seminatore uscì a seminare la sua semente. Mentre seminava, parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la divorarono. 6 Un'altra parte cadde sulla pietra e appena germogliata inaridì per mancanza di umidità. 7 Un'altra cadde in mezzo alle spine e le spine, cresciute insieme con essa, la soffocarono. 8 Un'altra cadde sulla terra buona, germogliò e fruttò cento volte tanto».

La parabola ha almeno cinque funzioni.

  1. Ad un primo livello consola i discepoli per il temporaneo fallimento della predicazione di Gesù, affermando che il poco diventerà molto. Ciò significa anche che l'ascoltatore di oggi può farsi trasportare nella situazione galilaica e così essere consolato davanti alla proprie preoccupazioni.
  2. La parabola comincia a disegnare la storia del successo della missione che Luca più tardi narrerà, e la mostra come predetta da Gesù.
  3. Mostra una tipologia del non comprendere: essere calpestato, essere mangiato da uccelli, seccarsi alla superficie, essere soffocato.
  4. Spiega la predicazione come crisi, nella quale di fronte al mistero del regno di Dio il mistero della fede si dimostra come non aperto a tutti.
  5. Permette a chi di volta in volta ascolta di vivere contemporaneamente nel momento dell'ascolto ciò che è raffigurato, cioè il diventar fecondo del regno di Dio.

Perché vedendo non vedano e udendo non intendano. Luca ci presenta esplicitamente Gesù che predica come un compimento dell'annuncio di Isaia. L'incredulità è prevista nella volontà di Dio.

Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per intendere, intenda!». Gesù grida la parola come parola di Dio. Ma essa non è un'autorappresentazione di Dio, che viene solo posta di fronte all'ascoltatore. La realtà di Dio non si esprime come una descrizione di proprietà; la realtà di Dio è piuttosto il suo regno. E come questo regno agisca, Gesù lo descrive e insieme lo compie con la parabola e il suo appello. Nel momento della predicazione la decisione è compiuta chi offre quale terreno alla parola di Dio. Gesù si presenta come l'annuncio che l'ascoltatore con la sua intelligenza può far crescere come terreno buono. Gli uomini in questo modo prendono parte alla realizzazione della realtà di Dio, del suo regno.

Luca pone Gesù davanti alle orecchie e agli occhi del suo lettore e rende possibile agli ascoltatori di ogni generazione che la dinamica del regno di Dio avvenga nella sua vita come crescita viva e feconda. Gesù «chiama» sì con la piena autorità della voce di Dio; tuttavia il linguaggio ritiene una sottigliezza, un «mistero». I «misteri del regno di Dio» non vengono smascherati totalmente per coloro ai quali è stato concesso. Qual è la posizione dei discepoli di fronte ai misteri? Qui è meglio non parlare di un «conoscere», questo sarebbe uno statico avere capito. Piuttosto la relazione che è data ai discepoli nei confronti dei misteri del regno è sempre dinamica. Fare la conoscenza, erkennen: un'intelligenza di amore che cresce. Pure l'interpretazione conclusiva, che spiega la parabola allegoricamente, non elimina il mistero, ma invita solo ad entrare di nuovo in questo processo.

Probabilmente in questi due passi si esprimono i gesti fondamentali del discorso coranico e del discorso di Gesù. «O uomini, adorate il vostro Signore ... Non attribuite consimili ad Dio benché sappiate. » «Ed egli disse: A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio. » Se il discorso coranico si caratterizza fondamentalmente come una ri-petizione tramite un'appello («adorate! ») rimemorante («sapete»), allora a ciò si può contrapporre il gesto fondamentale del Vangelo: un entrare («regno di Dio») tramite un appello («a voi è dato») ricordato («ed egli disse»). Dunque la realtà di Dio viene rappresentata nel Corano come qualcosa di contrapposto da riconoscere, nel Vangelo come un avvenimento da riconoscere e al quale colui che lo riconosce prende parte.

Nei due passi Sura 2: 1-22 e Luca 8, 1-10 si possono ricavare due differenti tratti fondamentali: incontro di Dio nel Corano, movimento di Dio nel Vangelo. Quale risposta di fede corrisponde a queste due modalità di rappresentazione? Entrambe invitano ad un riconoscimento. Il Corano esorta i credenti a riconoscere la realtà di Dio come la sua unità. Il Vangelo provoca i credenti a riconoscere la realtà di Dio come avvenuta nella storia di Cristo e avvenente ora in loro. Essi partecipano alla verità di ciò che è predicato: se essi non la accolgono, la signoria di Dio non giunge a dispiegarsi. Per il Corano la signoria di Dio è un dato di fatto di cui ci si può convincere; la si può dedurre razionalmente, perché essa è già presente. Per Gesù la signoria di Dio è una realtà in divenire, che dipende dall'adesione degli uomini; uno la deve accogliere con fiducia, perché essa è ancora un'anticipazione.

Musulmani e cristiani chiamano «testimonianza» la verbalizzazione della loro fede. Tuttavia le due modalità della testimonianza sono distinguibili l'una dall'altra. Da parte islamica si tratta di una testimonianza oggettivata. «Non c'è altra divinità all'infuori di Dio. » Egli esiste, io lo posso riconoscere o no; non è dipendente dalla mia testimonianza. Al contrario per la testimonianza che deriva dal Vangelo si può trovare un'altra tonalità, diversa e più dinamica. Il linguaggio cristiano è sacramentale in un senso esattamente precisabile. Infatti il riferimento storico, il carattere di immagine e il compimento della comunione dànno forma allo stile che nasce nella testimonianza biblica. Il Nuovo Testamento stesso parla di «confessione».

Chi vuole comprendere che cosa si intende con Trinità di Dio dovrebbe tenere davanti agli occhi che la fede cristiana giunge ad esprimersi, anche nella sua teologia, nella forma della confessione.

3. Confessione

Che cos'è la teologia cristiana? Una risposta potrebbe suonare: la riflessione metodicamente fondata sugli scritti fondamentali, le pretese di interpretazione e normatività cristiane, così come sulle pratiche cristiane, una riflessione che soddisfa a pretese scientifiche, nella maniera in cui per esempio viene portata avanti nelle rispettive facoltà e dai ricercatori formati a questo scopo. Una tale risposta metterebbe tuttavia tra parentesi una difficoltà fondamentale, cioè in che modo degli uomini possono in generale pretendere o sperare di parlare in maniera adeguata di Dio, del senso del mondo, dell'interezza della realtà. Così ci si può chiedere ancora un volta, in modo più cauto e insieme più fondamentale: se alla fine della storia la maniera cristiana di pensare e parlare di Dio si dimostrerà vera, che cos'è essa allora oggi? Abbiamo già fatto allusione al concetto di confessione, al fatto che la descrizione del procedimento teologico può essere essa stessa teologia, senza che con ciò diventi incomprensibile.

Linguaggio e atteggiamento della teologia possono cioè comprendersi come testimonianza di Dio, e «testimonianza di Dio» può in questo caso significare sia il testimoniare l'agire di Dio da parte dell'uomo, sia anche l'autotestimonianza di Dio nel momento in cui gli uomini accolgono il dono della fede. In tal modo la teologia è qualcosa di più che un riferimento a Dio e alla riflessione. La teologia è piuttosto conosciuta essa stessa come un agire di Dio. Ciò può essere mostrato soprattutto in riferimento alla teologia della Trinità, giacché essa rispecchia il fatto che la conoscenza di Dio è essa stessa un agire di Dio. La teologia della Trinità non è dunque adeguatamente determinata come un «descrivere Dio, da parte dell'uomo, con la proprietà «trino»». Piuttosto il riconoscimento di Dio come trino è anche autoconoscenza del credente. Ciò che è peculiare nel predicato «trino» è cioè il fatto che esso non rappresenta una determinazione che noi attribuiamo ad un oggetto «Dio»; al contrario, la teologia della Trinità afferma che gli uomini, che insieme con Gesù Cristo riconoscono Dio, si trovano nella dinamica di testimonianza propria di Dio. La conoscenza di Dio, e così la teologia della Trinità, è anzi resa possibile dallo Spirito, che è esso stesso Dio.

La teologia della Trinità si trova dunque nell'avvenimento di cui essa parla. Ma laddove essa parla di Gesù Cristo come del Figlio di Dio, essa è anche riconoscimento del legame di Dio con Gesù e il suo popolo. Dunque dovremo poi chiederci che cosa bisogna dire degli uomini che non riconoscono ciò e per tal motivo non appartengono al popolo che lo testimonia. Ma già ora bisogna tener fermo che è possibile pensare e vivere in maniera feconda insieme con uomini che non riconoscono che Dio si è legato a Cristo e al suo popolo. Quindi la teologia della Trinità può essere portata avanti senza preoccuparsi che essa sia scandalosa. Ciò accade qui nella forma di una tesi che non dice nulla dei «tre», ma che si dimostra come fondamento della teologia trinitaria e dev'essere spiegata parola per parola.

Tesi: la Chiesa riconosce Dio come Abbà; così egli sta realizzando la sua signoria.

Come spiegazione della teologia della Trinità questa tesi può meravigliare, anzi deludere. Le parole «Padre», «Figlio» e «Spirito» non compaiono per nulla. Tuttavia con l'appellativo «Abbà» ci si rivolge al Padre e in esso è presente Gesù Cristo, il Figlio, giacché qui viene espresso il linguaggio della sua figliolanza; e la realtà dello Spirito si trova laddove in un compimento vitale si tratta di creatura e comunione con Dio. Come si può comprendere tutto ciò?

Chiesa. Nel dialogo con altre religioni la denominazione «cristianesimo» è abituale per indicare la forma dottrinale della fede cristiana. Tuttavia questa è un'astrazione. La forma in cui il vangelo si compie nella dottrina e nella realtà vitale ha in modo più primordiale e adeguato il nome «Chiesa», giacché questa forma non è primariamente una dottrina, ma la fondazione di una comunità testimoniale storico-reale e socio-politicamente riconoscibile: il nuovo popolo di Dio.

Confessione. Il riferimento a Dio con una denominazione verbale nel lessico neotestamentario si chiama confessione. «Confessione» è un vocabolo particolarmente adatto, perché esso indica i tre tratti essenziali del discorso biblico su Dio: essa è storica, imperfetta e trasferente.

(a) Storicità. Israele sperimenta l'agire di Dio come elezione, giudizio e salvezza. Isreale riconosce ciò nell'atteggiamento e nella forma linguistica della gratitudine lodante, cioè nella confessione. La confessione di Dio da parte di Israele è sempre riferimento a colui che si è mostrato come agente. Ogni singola denominazione di Dio si basa su eventi effettivi e particolari e li rievoca. Si tratta di eventi del passato; tuttavia essi conducono Israele a sperare che Dio agisca ancora e a pregare per questo. Entrambe le cose compaiono anche nella confessione della Chiesa primitiva. Le promesse di Dio al suo popolo sono celebrate e confessate come compiute in Cristo; tuttavia si ha sempre presente che si tratta di un'anticipazione di una pienezza che ancora non c'è. La confessione suona per esempio: «Il Signore è risorto». Con ciò si afferma tanto che ciò che è decisivo è già avvenuto, quanto che in questo avvenimento è iniziato e viene alluso qualcosa che ancora non è compiuto: la fine della storia che riconcilierà tutto.

(b) Imperfezione. «Confessione» indica a buon diritto anche la confessione della colpa. L'uomo si riconosce davanti a Dio e al suo agire come destinatario di un'esigenza che lo supera in tre sensi. (1) Egli vede la sua propria vocazione -- amarsi l'un l'altro come Cristo ci ha amati -- come per lui irraggiungibile; si riconosce infatti legato, in preda alla potenza dell'autoschiavitù, che Paolo chiama «peccato». Egli non può porsi nella giusta relazione con Dio da sé stesso, con le sue doti naturali. (2) Inoltre egli non può verbalizzare in maniera adeguata gli eventi compresi come agire di Dio; ogni forma espressiva ecclesiale è aperta ad ulteriori determinazioni da parte dei posteri. Le singole modalità espressive della fede hanno nel cristianesimo una forma provocante: si dice «il regno di Dio, già e non ancora», «Cristo nel Padre e il Padre in Cristo e i credenti in lui», e del pane Cristo dice nell'ultima cena: «Questo è il mio corpo»; si parla addirittura della «genitrice di Dio», si dice di Cristo «vero Dio e vero uomo», si parla di «un solo Dio in tre persone». Sulla base di tali espressioni dense e a prima vista enigmatiche gli uomini possono confessare la fede cristiana come una provocazione sempre nuova. La realtà del Cristo risorto insomma provoca l'uomo e lo spinge ad uscire dalle forme di pensiero abituali delle contrapposizioni ordinate e delle distinzioni definitive; per esempio: Dio da una parte, la creazione dall'altra. Le forme verbali della Chiesa non sono perfette nel senso della definizione conclusiva con la quale tutto sarebbe diventato esplicito; la fede cristiana in questo senso non ha nessuna terminologia. Piuttosto le formule di confessione sono formate a partire dalla testimonianza della prova storica di Dio e dànno ad ogni epoca l'occasione di rinnovare i nostri concetti grazie alla storia di Dio, che riconduce all'unità ciò che finora sembrava separato. Ogni parola confessante è un'anticipazione fiduciosa, il cui contenuto completo deve ancora avvenire.

(3) Ciò costituisce in terzo luogo il carattere di mistero della rivelazione biblica. Dio non rimane nascosto, così che la posizione del credente sarebbe quella dell'ignoranza; né diventa oggetto di scienza grazie al suo agire rivelativo. Non scienza, ma conoscenza del mistero divino è dunque la forma di accesso disponibile: dunque una relazione confessante, che rimane per sempre aperta ad un ulteriore approfondimento.

(c) Trasferimento. La confessione cristiana è il compimento di questa fiducia nella fedeltà di Dio. Questa confessione è sempre qualcosa di sacramentale. Ciò significa che ad un uomo in questo modo, tramite la mediazione della comunità dei credenti, viene reso possibile l'ingresso nella storia concreta della vita, morte e resurrezione di Cristo, viene reso possibile di «abbandonarsi» a lui.

Dio. La Chiesa è, così come Israele, sorprendentemente cauta con il nome proprio «Dio». Un impedimento nel nominare direttamente il nome di Dio, una sostituzione tramite «'Adonai» o più tardi «hash-Shem» e l'oggettivamente ambiguo «Signore» nel Nuovo Testamento (usato sia per Cristo sia per il Creatore) mostrano che si è coscienti del fatto che non abbiamo alcuna scienza riguardo ad un'essenza definibile di Dio, che ci permetterebbe per esempio univoche predizioni. Il linguaggio su Dio non deve diventare una porzione del linguaggio del presunto sapere scientifico. Ma i nostri nomi divini non sono neppure indicazioni definitive nel senso che determinerebbero Dio, che gli attribuirebbero determinate proprietà indipendentemente dal loro significato terreno. Noi speriamo nella fedeltà di Dio e confidiamo che l'esito di tutta le vicende storiche sarà buono. Nella storia egli si è già dimostrato fedele alle sue promesse. I nomi divini sono una memoria del legame di Dio con una determinata storia, tramite la quale egli apre un accesso a sé conoscente e fedele.

Abbà. Paolo testimonia l'invocazione orante della Chiesa «Abbà», nella lingua di Gesù. Paolo scrive in greco, ma cita la parola «Abbà» in aramaico, prima di tradurla. In questa invocazione sarebbe troppo poco parlare di una metafora: è una confessione. Paolo con questa parola nella lingua di Gesù mostra che la Chiesa sa chiaramente che per Cristo, con Cristo e in Cristo essa può essere in maniera fedele e obbediente in relazione con colui del quale Gesù di Nazaret si comprese figlio. L'unirsi alla confessione del Padre è dunque caratterizzato come ingresso nella relazione di Cristo. «Relazione di Cristo» significa qui sia «relazione con Dio come la aveva Cristo» sia «relazione con Cristo».

Realizzazione. Dio è creatore di creature libere. Ma egli è Dio solo se è potente. Tuttavia egli non vuole essere Dio autoimponendosi, ma facendosi riconoscere liberamente. Fino ad oggi non tutte le creature lo riconoscono. Per questo parlare della realtà di Dio in ogni momento della storia significa parlare di un'anticipazione nella speranza. Questa anticipazione dev'essere espressa nel linguaggio della fiducia. Non si parla adeguatamente di Dio a partire da quella convinzione che non ha alcuna comprensione per la non credenza. L'incredulità fa parte del rischio della libertà che Dio ha deciso di correre quando ha creato il mondo. La speranza cristiana consiste nel fatto che colui che Gesù chiama Padre è realmente Dio; essa si realizza già laddove le creature lo riconoscono come Dio. Questo libero agire delle creature è contemporaneamente la storia di Dio. La volontà divina e quella delle creature sono entrambe efficaci. In che rapporto siano l'agire divino e creaturale e come esse si limitino reciprocamente può essere solo intravisto con dei paragoni deboli.

Il Nuovo Testamento parla dell'agire dello Spirito e con ciò tenta di indicare contemporaneamente il libero agire umano e il libero agire di Dio. Non si può quindi parlare dell'essenza e delle proprietà di Dio come se si trattasse di un oggetto che ci sta davanti; la storia non è ancora terminata; però si può, sulla base delle dimostrazioni di potenza che Dio ha finora fornito, confessare fiduciosamente che il Padre di Gesù Cristo alla fine si sarà rivelato effettivamente come Dio. Quindi parlare dell'essenza e delle proprietà di Dio nella tradizione della Bibbia è una confessione di speranza. Dio non sta davanti a noi: la nostra confessione che liberamente aderisce è parte della storia della sua realizzazione. Benché sia sempre solo una parte, la confessione di Dio ha sott'occhio sempre l'intero; noi confessiamo di sperare in colui che alla fine si sarà mostrato come colui che era sempre all'opera. La speranza della fede al di là delle vicende storiche guarda verso Dio e lo conosce come colui che è sempre ciò che ancora accade all'interno della storia: il Padre onnipotente. Nella fiducia dell'amore il Padre vuole essere appunto Padre e dunque l'altro di colui che è suo Figlio, che a sua volta non è il concorrente del Padre, ma il suo Figlio, riconoscendo volentieri la paternità del Padre.

Padre e Figlio si distinguono l'uno dall'altro con piena fiducia e dunque affidano pienamente l'uno all'altro ciò che essi sono. Ciò che avviene nel rapporto filiale è l' «unità dello Spirito Santo». Infatti il rapporto filiale non è né un mettersi da parte né un affermare sé stessi; piuttosto consiste nel fatto che il Figlio si abbandona con amore al Padre, ma proprio così facendo non si annulla, bensì si conferma Figlio. Specularmente, anche il dono di sé e la distinzione di sé del Padre non sono né autoannullamento né autoconservazione, ma proprio la vita del Padre. Padre e Figlio vivono in rapporto l'uno all'altro così da non essere né autonomi né svuotati di sé. Il loro reciproco dono di sé senza riserve e la loro distinzione reciproca dev'essere individuata come una terza entità, altrimenti sarebbe il potere proprio dell'uno o dell'altro. Per questo si parla dello Spirito in cui essi vivono l'uno per l'altro. Ogni uomo può partecipare a questo Spirito della figliolanza: lo fa nella confessione. In questo si osa dunque affermare che il movimento nel tempo e l'essere compiuto non si escludono reciprocamente. Confessare Dio significa allora riconoscere il Padre come onnipotente e contemporaneamente vedere il rischio che corre il suo progetto.

Signoria. Il regno di Dio, il suo essere riconosciuto, è già cominciato e al contempo deve ancora venire. Laddove gli uomini entrano nella comunione di Dio, sul fondamento dell'agire divino testimoniato nella Bibbia, la signoria di Dio è già realtà. La sua essenza è la sua signoria, e la sua signoria non è un'autoaffermazione contro le creature, ma il libero riconoscimento da parte di esse. Tuttavia Dio e il suo regno ovviamente non sono la stessa cosa: la Chiesa adora Dio nella preghiera e nella liturgia come un Dio personale; non celebra solo il suo agire, ma lui stesso. Ma proprio in questo diventa reale la speranza che il Padre di Gesù Cristo si dimostrerà come potente. Proprio in questo modo egli vuole essere potente, vuole essere Dio.

Trinità. Così diventa chiaro il significato gnoseologico, soteriologico e ontologico della confessione del Dio trino: essa riconosce che solo tramite la storia di Cristo possiamo entrare nel fiducioso e fondato riconoscimento di Dio e così nella sua comunione di vita. Questa è la vita dello Spirito. Dio non ci sta davanti al modo di un oggetto, ma anche il nostro riferirci a lui è esso stesso la realtà di Dio, tramite la storia che una volta per tutte ce lo ha reso possibile, in Gesù, e tramite la dinamica che così è stata liberata e ancor oggi è efficace.

4. Significato

Senza aver letteralmente nominato una triade, la tesi presentata costituisce una teologia della Trinità, vale a dire essa fonda il motivo per cui la Chiesa volle confessare una Trinità divina nell'unico Dio. La Chiesa confessa l'unità di Dio perché vi è un senso vitale solo laddove ogni singola cosa è sotto il giudizio di un Unico: giudicata, indirizzata e relativizzata da colui dal quale essa proviene. In tal misura la confessione di fede ecclesiale è univocamente monoteistica. Ma per qual motivo Padre, Figlio e Spirito?

Tutte le confessioni della Chiesa testimoniano gli eventi storici particolari di Israele e di Cristo e la speranza dei futuri eventi di salvezza che ne nasce. Le confessioni sono l'ingresso del confessante nella comunione di vita con Cristo. Questi eventi e questa persona sono il loro vero significato. Spiegare le formule della confessione cristiana tramite altre formule linguistiche è dunque al massimo un ulteriore chiarimento, ma non un modo per condurle da una forma linguistica provvisoria ad una definitiva o addirittura all'unica giusta. Ciò che viene dopo non può sostituire ciò che è venuto prima. Le primitive forme espressive della Chiesa, anche quelle linguistiche, hanno in quanto formule di confessione il vantaggio, di fronte a nuove espressioni, che permettono agli uomini di oggi di compiere anche verbalmente l'ingresso nella comunione con Cristo in cui già si trova chi è vissuto prima. A causa del primato della storia effettiva e del primitivo linguaggio di confessione, anche la spiegazione presentata qui non dovrebbe essere considerata troppo importante: essa deve offrire solo una via d'accesso alla storia della salvezza.

Così bisogna dire: dove degli uomini nella comunione con Cristo, nell'ingresso sacramentale nella prossimità da essa resa possibile che si chiama «Chiesa», riconoscono il Padre di Cristo come Dio, dunque grazie alla storia avvenuta fino a quel momento si aprono l'accesso al suo futuro con fiducia e obbedienza, là Dio opera come Spirito. «Spirito» indica il modo di essere libero che incorpora la libertà dell'altro. Solo quando tutte le creature compiono questo libero riconoscimento, la realtà di Dio è giunta al suo compimento.

La confessione della Trinità è dunque il riconoscimento del Padre di Gesù Cristo come Dio, nella coscienza che questo riconoscimento consiste nell'ingresso nella relazione di Cristo ed è esso stesso un agire di Dio. Il primo contesto vitale della confessione cristiana è certo il battesimo. Nella maniera più breve la confessione della Trinità si esprime come entrata nella relazione di Cristo quando si prega dicendo «Abbà».

5. Fondazione

Finché il corso della storia è aperto, nessuna fondazione avrà come risultato una dimostrazione della Trinità divina. Si tratta appunto di una confessione, dunque di una dichiarazione che sa che la realtà di ciò che qui viene riconosciuto deve ancora essere dimostrata pienamente. Una confessione viene compiuta nella fiducia, non come se fosse dimostrata. La necessità della confessione della Trinità non può dunque essere dimostrata. Ciò che la Chiesa confessa non deriva dal semplice concetto di Dio. Tuttavia si può mostrare perché gli uomini che confessano Dio come Padre, Figlio e Spirito conoscono ciò come qualcosa di necessario, e anzi come necessario per tutti gli uomini. Questa necessità può essere esposta anche in modo argomentativo. Si possono percorrere due diverse strade per questa fondazione; si possono cioè apportare dei motivi in riferimento alla debolezza dell'uomo (in maniera antropologica e soteriologica) oppure alla storia di Cristo (in maniera storica).

(1) L'uomo a causa della sua tendenza all'autoconservazione pregiudica proprio la strada verso una vita in pienezza. Questa consiste nel dono di sé, nella disponibilità a ricevere, nella relazione reciproca. Benché ognuno possa sentire una nostalgia per tutto ciò, le tendenze all'autoaffermazione ci spingono in una direzione opposta. Per questo la liberazione dai lacci in cui l'uomo si impiglia deve avvenire come un «affidarsi». L'uomo deve tirarsi fuori da ogni tentativo di trovare la vera vita nell'autorealizzazione di sé stesso. Perfino l'idea di Dio rimane avvolta nel dubbio che possa trattarsi di una propria costruzione finché essa non è legata ad una certa catena di eventi storici e ad una certa persona, e dunque si trova indubbiamente fuori del credente. Per questo Dio, che vuole redimere l'uomo, agisce lungo una sola determinata storia. Anche nel caso di un piccolo numero di tali storie di redenzione, la redenzione avverrebbe di nuovo tramite un principio, non in maniera personale come un affidarsi. Per questo Dio dona (così afferma la confessione della Chiesa) ogni signoria al suo figlio Gesù. Dio vuole essere completamente in qualcuno altro da sé stesso, senza però così trasformarsi in un astratto o nello scopo di un'operazione conoscitiva universale. Gli uomini vogliono con la loro intera personalità accordarsi con la confessione di Dio, altrimenti questa sarebbe solo a metà. Ma se essa deve dare certezza, le assicurazioni linguistiche non bastano. Solo una storia che dimostra la fedeltà di Dio è convincente. Questa maniera di fondazione vuole rendere comprensibile il motivo per cui Dio opera la redenzione tramite una sequenza di eventi storici particolari e tramite una persona determinata. Alla spiegazione del perché il legame redentivo dovrebbe essere proprio Gesù Cristo questa fondazione non contribuisce però ancora per nulla. Qui la strada fondativa storica può portare un ulteriore aiuto.

(2) In quanto essere storico Dio è certamente al di fuori di ciò che gli uomini possono accertare interiormente. Tuttavia ogni evento storico è anche avvolto dal dubbio che non possa essere dimostrato reale con una certezza logica. I cristiani testimoniano che il Gesù crocifisso è resuscitato dai morti ed è già entrato nella vita eterna di Dio. Alcuni elementi verbali di questa confessione hanno carattere metaforico («risorto»). Il suo contenuto di verità rimarrà controverso, perché l'evento testimoniato è straordinariamente inusuale. Ma la testimonianza ampia e primitiva, i diversi tentativi linguistici di esprimerla, la serietà dei primi testimoni nella vita e nella disponibilità al dono di sé, così come la nascita della Chiesa malgrado la morte in croce di Gesù, sono elementi di peso. Cristo è il primo che è stato accolto nell'unità con il suo Padre celeste, perfetta ma non annullante, e per questo può essere adorato come Dio. Qualificare Cristo come «primo» significa che la sua strada può essere seguita da altri.

6. Teologia trinitaria delle religioni

Ma con ciò abbiamo anche detto che rifiutare la confessione della Trinità significa respingere la resurrezione di Cristo e che una religione che invece di una storia dimostrativa particolare di Dio accetta diversi accessi alla salvezza nega con ciò la problematica dell'uomo come irresolubile impigliamento in sé stesso. Quindi si pone la domanda nell'orizzonte della teologia delle religioni. Per decenni i teologi della religione hanno lavorato con lo schema «esclusivismo, inclusivismo o pluralismo». Qui però dobbiamo chiederci anche che cosa bisogna considerare come inclusivo, esclusivo o plurale. Si può vedere che ci sono tre piani sui quali opera questo schema. Sul piano del significato diverse religioni sono ordinate tra di loro a seconda che in fondo dicano o no la stessa cosa; sul piano della fondazione lo schema chiede se in fondo esse presentino la stessa fondazione della salvezza; e sul piano della redenzione lo schema tripartito chiede se i seguaci delle rispettive religioni possano essere salvati. Su quest'ultimo piano, quella della questione della redenzione, bisognerebbe a loro volta distinguere due domande: la rispettiva religione dev'essere considerata una strada di salvezza? e: i loro sostenitori possono entrare nell'eternità di Dio?

La teologia storico-salvifica della Trinità che qui abbiamo presentato è esclusivista sul piano del significato: essa afferma che le altre religioni non dicono con altre parole la stessa cosa che la Chiesa testimonia, giacché nella confessione cristiana si tratta essenzialmente di una determinata sequenza di avvenimenti. Solo Israele si riconosce appartenente alla stessa storia, benché non tutto Israele veda questa storia compiuta in Cristo. La teologia della Trinità qui sviluppata è inoltre esclusivista sul piano della fondazione. Perché gli uomini posso essere a conoscenza della salvezza eterna? Perché essi si sono uniti sacramentalmente alla comunità di Cristo, nel compimento della vita ecclesiale. Questa teologia è anche esclusivista sul piano della salvezza? La partecipazione alla vita eterna di Dio secondo Mt 25, 37-39 non dipende dal fatto che si confessi Cristo. Tuttavia le altre religioni non dànno nessun motivo storico per la partecipazione alla salvezza eterna, quale lo fa la testimonianza della morte e resurrezione di Gesù. Un fondamento storico probabilmente non si percepisce più convincente che per esempio un fondamento logico o affettivo. La possibilità di entrare nella storia di una persona suscita però una gioia anticipata che ha essa stessa carattere salvifico. Il fatto che la vita della Chiesa si comprenda come vita di speranza non riguarda solo la vita dopo la morte, ma muta anche oggi il sentimento della vita e l'orientamento dell'azione.

7. Prassi della Trinità

Quali sono le conseguenze per la vita della teologia della Trinità? La Trinità divina è un modo in cui la Chiesa esprime il fatto che essa si comprende come partecipazione della storia di Dio. Da essa riceve motivazione e forza per poter vivere le forme particolari della sua testimonianza. Sono forme di vita che non risultano semplicemente dalla situazione dell'uomo e dalla sua inclinazione all'autoaffermazione. La vita sacramentale, la partecipazione alla figliolanza di Gesù nello Spirito, fondano e vivificano per la Chiesa il suo particolare servizio di testimonianza. Questo si ripercuote particolarmente sui quattro piani delle forma di vita ecclesiale. (a) Dalla partecipazione sacramentale alla vita di Cristo la Chiesa riceve orientamento ed energia per servire l'uomo e la società. (b) In vista della croce e della resurrezione di Cristo si mostra che anche il torto subìto nella storia della salvezza ottiene un buon posto, cosicché la riconciliazione diviene possibile anche intuitivamente. (c) Le forme di vita del matrimonio monogamico e fedele e del celibato per il regno dei Cieli hanno il loro fondamento nella comunione di Cristo. (d) Il compimento di tutta la creazione, che diventa esperibile nell'essere, nel celebrare e nell'agire sacramentale della Chiesa, fonda infine la sua esistenza come popolo della testimonianza in un rapporto di distinzione ma non di contrapposizione con lo Stato.

Ciò che abbiamo esposto fonda anche una certa prassi dell'incontro interreligioso. Nella confessione della Trinità la fede cristiana mostra di essere storico-salvifica, cioè sa di essere basata sugli atti di cui Dio ha dato prova fino a quel momento, sa di essere fiduciosa nel compimento sperato, ma non dimostrabile logicamente, nella comunione di Cristo, e sa di essere nella speranza unità di tutti gli uomini in Cristo. Da qui deriva anzitutto l'«alta stima» degli altri espressa per la prima volta nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate. Le loro diverse percezioni dell'uomo e della storia non sono dal punto di vista cristiano un errore di pensiero. Poter conoscere nella storia di Dio con Cristo e con il suo popolo l'unico accesso aperto alla comunione con Dio è piuttosto una difficile sfida: chi la può accettare, sa che si tratta di un dono. Ora la Chiesa e ciascuno dei suoi membri cercherà certo di rendere comprensibile nella testimonianza l'evento trinitario, la storia della redenzione di Gesù. Tuttavia così facendo essa è sempre cosciente della debolezza della testimonianza, non solo a causa dell'imperfezione del testimone, ma anche a causa del grande passo che è richiesto se si vuole riconoscere Dio come colui che lega al suo popolo il successo del suo progetto. Anche dove questa testimonianza si scontra con l'incomprensione, la Chiesa sarà sempre obbligata a dare nuova forma alla coesistenza umana, senza una nascosta sofferenza per il mancato successo della missione, ma continuamente cosciente che la potenza della fede è essa stessa azione di Dio. Sì, la Chiesa deve accogliere con interesse le problematizzazioni teologiche e i progetti alternativi di chi crede diversamente, perché anche loro fanno parte di quell'unica storia in cui Dio vuole realizzare la sua signoria; le incomprensioni e i rifiuti pongono allora continuamente la domanda sulla misura in cui anche nel presente si mostra il mistero dell'agire storico-salvifico di Dio, della sua Trinità.

Abbiamo voluto comprendere meglio la teologia della Trinità. Per questo abbiamo cominciato confrontando due modi di parlare. Come parla il Corano? come parla Gesù? Abbiamo visto nel Corano una contrapposizione tra Dio e l'uomo; Gesù al contrario parla della signoria di Dio che fa la sua comparsa quando gli uomini entrano in essa. Così anche l'uomo è decisivo nella realtà, nella realizzazione di Dio. Si potrebbe parlare dunque, invece che di una contrapposizione tra la realtà di Dio e dell'uomo, di una ordinazione dell'uomo nella realtà di Dio. Questo diverso rapporto della creazione con Dio può essere considerato il motivo per cui la Chiesa vuole confessare la Trinità di Dio. La realtà di Dio non è limitata a qualcosa che ci sta di fronte, ma ci include come esseri liberi nella realizzazione del suo esser Dio.

Copyright © 2011 Felix Körner

Felix Körner. «La confessione della Trinità. Un confronto con la comprensione di Dio nel Corano». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**53 B].

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