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Vie della teologia contemporanea:
il dibattito tra Slavoj Žižek e John Milbank

di Alice Gonzi (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. Premessa

Il dibattito che vede impegnati John Milbank e Slavoj Žižek è assai più complesso di quanto si possa dare qui conto. In effetti, esso si sviluppa a partire dalla mostruosità teologica di Cristo, ma ha ricadute importanti anche sotto altri aspetti, non ultimo quello politico. Gli autori, pur nelle loro diversità, sono, infatti, accomunati da un rigetto del post-moderno. A fronte di un post-modernismo inteso come una ibridazione di quelli che erano i dualismi binari propri del moderno (fede/ragione, spirito/materia, filosofia/teologia, ecc.), la questione verte sulle modalità interpretative di tale post-modernismo: dialettica o analogia. Come afferma Caputo nella sua recensione a La mostruosità di Cristo, «nelle loro parole, il post-modernismo significa che la verità platonica è collassata in una 'conversazione' relativistica, la decisione si è dissolta in un pantano di indecidibilità, l'autentica azione politica nella correttezza politica e l'amore nel libertinismo sessuale.»1

Nello specifico, essi condividono l'avversione per il capitalismo e per l'ipocrisia che caratterizza i governi democratici; entrambi ritengono che la teologia sia una risorsa ricca di spunti fecondi in grado di promuovere una diversa riflessione circa il mondo contemporaneo.

Le similitudini terminano qui, dal momento che le differenti modalità di pensare la contemporaneità che i due autori cercano di far sgorgare dalla propria disamina teologia divergono notevolmente. Slavoj Žižek è un autore molto noto che si inserisce nel pensiero marxiano arricchendolo con riflessioni psicanalitiche desunte da Jacques Lacan, John Milbank è, invece, un pensatore cristiano ed il rappresentante più noto della corrente della "radical ortodoxy". Milbank è propenso ad invocare l'autorità papale per contrastare la Riforma e Žižek si autodefinisce uno stalinista per contrastare la democrazia; Milbank difende il "red torism" e sostiene che una forma di paternalismo abbia una sua fondamentale importanza e Žižek, criticando ironicamente un appunto di Milbank, si chiede perché non dovremmo poter riconoscere la Rosa nella Croce in una "austera dittatura socialista".

2. Presentazione

Non sarà qui possibile, non essendo neanche pertinente, dare conto del serrato confronto tra i due in tutte le sue sfaccettature che rimangono, tuttavia, intriganti, seppur criticabili.

Al di là di ciò, il punto di avvio di tale discussione e dei suoi esiti è, comunque, l'attributo cristologico "mostruoso" declinato secondo due diverse prospettive. Per Milbank, Cristo, Dio che si è fatto uomo assumendo una forma eccessivamente paradossale, è una prodigiosa dimostrazione dell'amore che Dio prova per il mondo. Per Žižek, al contrario, Cristo rappresenta il momento davvero mostruoso in cui è Dio stesso che, morendo realmente sulla croce, manifesta il proprio auto-ateismo. Ancora più radicalmente, a detta di Žižek, non si dovrebbe parlare di morte di Dio, quanto più, correttamente, della sua inesistenza. «In un certo senso, secondo Lacan, al Grande Altro capita lo stesso che a Dio (Dio non è morto oggi, è morto da sempre, solo che lui non lo sapeva...): non è mai esistito».2

Milbank e Žižek partono, inoltre, da una comune rilettura di Hegel e della sua dialettica come di una dialettica negativa, divergendo comunque sull'ulteriore utilizzo di questa circa lo specifico oggetto del loro dialogo e sulla accentuazione da porre sul polo dialettico o paradossale della stessa dialettica hegeliana.

Circa la questione della Trinità, Žižek riconosce l'emergenza di tre precisi momenti nella storia di tale concetto che devono essere messi in parallelo con altrettanti momenti storici ecclesiologici.3

I tre momenti sono, nello specifico: la posizione ortodossa orientale (con particolare riferimento alle analisi di Vladimir Losskij); Meister Eckhart e la linea di sviluppo Jacob Böhme/Hegel.4 Il percorso si snoderebbe, dunque, a partire dall'Ortodossia come fenomeno mediatore della tradizione organica che presenterebbe una unione indistinta tra credente, Chiesa e Dio. Tale indistinzione verrebbe parzialmente superata con la successiva fase cattolico-romana, in grado di presentare un superiore grado di riflessione che consentirebbe una maggiore distinzione tra la fonte trascendente e la particolarità, nonostante esse rimangano connesse nei termini dell'origine e di come tale origine si esprime. «Anche in questo caso sostanzialmente in conformità con la comprensione di Hegel di come la riflessione si dispieghi, questa alienazione, secondo Žižek, raggiunge un estremo molto maggiore con la Riforma protestante, in quanto Dio si fa ormai lontano e imperscrutabile e, allo stesso tempo, solo qualitativamente espresso nei termini di ciò che egli ha decretato tramite la rivelazione. (Un primissimo senso di partecipazione alla vita intima di Dio è, qui, perso di vista.) Žižek ritiene che questa estremità dell'alienazione sia necessaria perché permette finalmente di vedere che l'origine divina è nulla ed "è" solo in ciò che è "creato", anche se questo non è davvero creato, ma è, piuttosto, auto-emergente dal nulla. Ed è stato Hegel che, finalmente, ha compreso questo e ha portato a compimento la Riforma».5

Saremmo qui, dunque, in presenza di un Protestantesimo considerato quale fase finale del processo, quale definitivo disvelamento della verità (atea) del cristianesimo. Alla fine del processo dialettico, quindi, il Cristianesimo svela la propria intima natura: Dio drammaticamente coinvolto nella propria creazione, Dio che soffre più degli uomini, Dio che dubita di se stesso ed abbandona se stesso ("Padre perché mi hai abbandonato"), Dio che muore sulla croce. «Come Hegel ha rilevato, quello che muore sulla Croce non è solo il rappresentante terreno-finito di Dio, ma Dio stesso, lo stesso Dio tracendente dell'aldilà».6 Ovvero, in termini dialettici, i due poli dell'opposizione, il Dio trascendente, l'Assoluta Sostanza in sé, e il Dio per noi, ossia il Dio rivelato alla finitudine, muoiono per subire un processo di sovra-riconduzione nello Spirito Santo. Contro la classica interpretazione di tale sintesi, per cui sarebbe Cristo ad essere ricondotto al Padre, Žižek afferma che qui è Dio stesso ad essere sovra-ricondotto verso lo Spirito Santo. Quest'ultimo è una potenza solo virtuale: il suo orizzonte di esistenza si attua solo nelle concrete esistenze degli uomini finiti che vivono, agiscono e pensano come se lo Spirito Santo esistesse. La valenza e l'insegnamento dell'Incarnazione è riassumibile in ciò: lo Spirito Santo come "sintesi" delle due facce divine (totalmente altra dagli uomini la prima, scesa tra gli uomini la seconda) che diviene luogo attualizzato e presupposto imprescindibile della comunità dei credenti. «Che cosa, allora, è "sovra-ricondotto" nel caso del cristianesimo? Non è la realtà finita che è sovra-ricondotta (negata-mantenuta-elevata) in un momento di totalità ideale; al contrario, è la Sostanza divina (Dio come Cosa-in-Sé), che è sovra-ricondotta: negata (ciò che muore sulla Croce è la figura sostanziale del Dio trascendente), ma contemporaneamente mantenuta nella forma transustanziata dello Spirito Santo, ovvero la comunità dei credenti che esiste solo in quanto presupposto virtuale delle azioni degli individui finiti».7

La critica di Milbank verso tali affermazioni e conclusioni non potrebbe essere più radicale. Gli stadi di tale rigetto, per quello che qui interessa, sono di due tipologie: un preliminare rifiuto della logica dialettica ed una successiva rilettura contrastiva della linea di sviluppo del cristianesimo medievale e tardo-medievale che non riconosce la propria origine nel volontarismo di Duns Scoto e non termina, dunque, in un Protestantesimo disincantato, ma si presenta quale autentica fonte sorgiva e genuino punto di riferimento per l'ortodossia radicale propugnata da Milbank.

Il tentativo di Milbank è quello di proporre, contro la dialettica, una prospettiva diversa fondata sul concetto di paradosso: esiste per Milbank una coappartenenza che lega il paradossale all'analogico e agli aspetti reali-relazionali della realtà. La filosofia che Milbank tenta di prospettare è, dunque, una filosofia paradossale o, secondo la definizione di William Desmond, "metassologica".8 La prima e necessaria critica riguarda il modo in cui Hegel tratta il metaxu: cioè come qualcosa che rimane sempre spezzato tra l'equivoco e l'univoco, dal momento che le dimensioni che interessano sono, a ben vedere, solo queste ultime. In tutto ciò, la mediazione è qualcosa di veramente spettrale, e Cristo può effettivamente essere, come nelle analisi di Žižek, un "mediatore evanescente". Tuttavia, questo è solo un modo, solo una prospettiva, non la prospettiva unica. Milbank si rifà, contro Hegel, a Jacobi. E, in realtà, l'idealismo sarebbe proprio questa risposta critica alla preminenza in Jacobi di un sapere immediato che non necessita di mediazioni razionali e che, piuttosto, si affida all'infinito per poter pensare adeguatamente anche il finito. Contro il "salto mortale" di Jacobi, il tentativo idealista sarebbe stato quello di mostrare come la ragione «attraverso un processo di auto-generazione o di sviluppo storico, avrebbe potuto, infine, raggiungere questa origine esistenziale pre-cognitiva, o dimostrare che l'origine è una e medesima con questo sviluppo». Tuttavia, nel caso di Hegel in particolare, «questo tentativo comporta sempre supposizioni ingiustificate circa questo incerto orizzonte esistenziale che il pensiero può solo supporre o di cui può fidarsi, ma che non può, in linea di principio, mai riunire o dominare nei suoi propri termini». Lo snodo è che il pensiero si presenta sempre solo successivamente sulla scena, per questo motivo esso non può autofornirsi i propri fondamenti, ma sarà sempre «radicalmente mediato da un legame intenzionale all'esistenza».9

«Ciò implica che non si inizia veramente con la negazione alienante, ma con la mediazione, e che si è destinati a rimanere con la mediazione, in modo tale che la verità (se è possibile) può arrivare soltanto come fiducia nella possibilità del discernimento soggettivo circa la partecipazione del finito all'infinito attraverso rivelazioni "momentanee". E l'identità "coerente" di una ripetizione con ciò che ha preceduto e della coincidenza di un momento del tempo con l'eternità, richiede, in entrambi i casi, una fede nell'assoluta unità "paradossale" dello stesso con il diverso, come ha insegnato Kierkegaard.»10

Per dare conto di un concetto così "nebuloso" come il paradosso, Milbank ricorre all'analisi di un paesaggio invaso dalla nebbia: sullo sfondo nebbioso gli oggetti permangono pur essendo anche qualcosa di diverso da se stessi, emergono dallo sfondo senza abbandonarlo del tutto, piuttosto arricchendosi proprio per merito di tale permanenza nella sfumatura.

«Se essere nascosto è essere mostrato (contro uno sfondo di "nebbia" come includente una densità nebbiosa propria alla cosa in sé), e quindi se essere mostrato è essere nascosto, allora ciò implica non una impossibile contraddizione che deve essere superata (dialettica) ma piuttosto una vera e proprio impossibile coincidenza degli opposti che può (in qualche modo, ma non sappiamo quale) essere mantenuta. Questa è la logica cattolica del paradosso -- di un "travolgente gloria" (para-doxa) che satura comunque la nostra realtà quotidiana.»11

Dunque, in una scena siffatta, il rapporto non è dialettico, bensì analogico e paradossale. Le conseguenze possono essere certo ripugnanti per la riflessione: le cose, in effetti, si mostrano ritraendosi, si nascondono nel momento stesso in cui balenano davanti al nostro sguardo. Ma, in tale movimento di dischiudimento/chiusura, non c'è alcuna semplicistica commistione tra l'equivoco e l'univoco. Al contrario, gli oggetti sembrano svelare, nel loro contemporaneo sottrarsi, qualcosa di più rispetto ad una situazione caratterizzata dall'assoluta univocità della luce in cui tutto è nettamente differenziato. «In questo modo l'aliquid è anche, paradossalmente, l'alter aliquid, la cosa che non è, ma a cui è costitutivamente collegato.»12

Ciò che questa scena velata di nebbia permette, se vista e trattenuta nella sua integrità (in modo tale, cioè, che nulla vada annientato nel/dal processo dialettico), è la bellezza. Una bellezza serena, che sta "nella diagonale" tra un'immediata armonia di superficie ed un mistero che avvince, pur se ancora trattenuto. La bellezza è, quindi, il quadro entro cui armonia e mistero stanno, eccedendo contemporaneamente questa sfera che li contiene; essa media "tutta la verità". La bellezza è il vero metaxu, «perché svanisce come una morgana se viene negato ciò che esiste solo in quanto situato tra una cosa e un'altra cosa come armonia, o tra l'apparenza e l'essere come apertura, o tra oggettivo e soggettivo come giudizio estetico.»13

Ciò significa che la funzione trascendentale genuina appartiene solo al metaxu, allo zwischen, al between e che «non la dialettica, ma il metassologico sia la realtà trascendentale incorniciante qualsiasi dato scenario apparente agli esseri umani. Se l'univoco è dominante, allora l'equivoco è in ultima analisi negato. Lo stesso vale, al contrario, se l'equivoco è prevalente. Ma se la dialettica è dominante, allora [...] l'univoco e l'equivoco si muovono verso una sicura distruzione reciproca. Solo un'intelaiatura metassologica permette a tutti e tre gli altri aspetti logici di rimanere e di non essere annullati. C'è lo stesso ed il differente ed una continua creativa (o contingentemente dirompente) tensione tra i due, perché quello che regna senza un'oscillazione sorvegliante (kenoticamente, per così dire) è, al livello finale, l'analogico, che non è altro che l'interazione tra l'uno ed i molti e l'interazione tra la loro pacifica convivenza ed il loro creativo conflitto.»14

3. La questione trinitaria

Si è detto che entrambe le analisi ruotano intorno ad Hegel nel tentativo di criticarlo o di portarlo alle estreme conseguenze. Si è di fronte a due differenti prospettive circa il pensiero hegeliano. Per Milbank l'analisi hegeliana se, da un lato, evidenzia la portata ontologica dell'avvenimento cristologico, dall'altro, presenta una forte ambiguità nella dialettizzazione speculativa della stessa. Sembrano emergere due problematiche essenziali.

1) L'originalità di tale evento si può cogliere solo comprendendo che non Dio genericamente né la natura divina si fanno uomo, bensì la persona del Verbo, mentre Hegel aggirerebbe le conclusioni di Calcedonia circa l'identità personale del Verbo incarnato nella sua relazionalità trinitaria con Dio. Rispetto a ciò, Milbank riafferma che l'«esistenza umana» del Figlio «è interamente derivata dalla persona divina del Logos attraverso cui egli è in-ipostatizzato».15

2) La tematizzazione fortemente accentuata del simbolo trinitario è in Hegel equivoca: la stessa affermazione secondo cui «colui che non sa di Dio ch'egli è trino non sa nulla del cristianesimo» (Vorlesungen über Philosophie des Geschichte) ha finito col ridurre lo stesso simbolo trinitario a concetto, nel quale ciò che è inesauribile, il Trascendente, viene per l'appunto ad esaurirsi.16

Si è visto come, rispetto a questo secondo punto, Milbank opti per una logica paradossale che non concluda nel concetto ma che, piuttosto, riesca a mantenere insieme, in un equilibrio non oppositivo ma creativo, l'univoco e l'equivoco riproponendo, in buona sostanza, l'immagine della coincidentia oppositorum. Per Milbank, la logica trinitaria non è in alcun modo una logica dialettica. Contro Hegel, egli nega che, originariamente, il Padre sia qualcosa come un indeterminato essere-nulla che può (e deve) divenire solo negando se stesso nel Figlio e, successivamente, recuperando se stesso nello Spirito. Al contrario, la logica trinitaria può mantenersi solo come paradossale, seguendo del resto la falsariga della «classica prospettiva cristiana, sviluppata da Gregorio di Nissa attraverso Agostino fino a Tommaso d'Aquino», secondo la quale «il Padre, nella sua pienezza assoluta come arche, non può nemmeno essere considerato "in sé" come un primo "momento", giacché questa origine è compiuta completamente nell'immagine filiale che essa esprime. Ciò non significa, tuttavia, che sia abolita o negata in ciò che essa esprime, in quanto la logica paradossale del rapporto sostanziale opera anche, con una simmetria assoluta, il contrario: il Figlio, come immagine espressa, è solo ciò che egli esprime o immagina.»17 Nondimeno, non si dà qui commistione o indistinzione, sussiste bensì una fonte originaria ed una fonte espressa: tra le due c'è una mutua relazionalità costitutiva che è e li fa essere solo nella ulteriore relazionalità costitutiva con lo Spirito, il «vero grembo del desiderio di verità nel quale il Padre ha originariamente concepito il Verbo della ragione.»18 Con analogia geometrica, il Padre ed il Figlio sono le estremità di una linea (indicante il loro rapporto reciproco) che è tale solo perché costantemente collegata da e attraverso un'altra relazione pura, quella con lo Spirito, il quale ribadendo il primo rapporto evita che si possa intendere quella linea relazionale come indefinita, ossia come assenza di rapporto. La linea è tale solo perché base di un quadrato il cui spazio restante è lo Spirito. Sorta di "quadratura", lo Spirito «richiede che i due punti della base e la proiezione del quadrato dalla base (Padre, Figlio e Spirito) siano riaffermati attraverso la cubatura del quadrato, e così via ad infinitum, in dimensioni inesprimibili. Lo Spirito non è solo il quadrato, ma anche tutte queste dimensioni.»19 Lo Spirito, in effetti, è una sorta di "mondo dietro lo specchio", un mondo "multiplo" e creativo, capace di sostentare, alimentare e vivificare tutta la circolazione relazionale trinitaria.

Il movimento che presiede a ciò non ha nulla a che vedere con una sorta di Aufhebung hegeliana: non c'è tensione, agone (il rapporto è bensì contrassegnato dalla perichoresis), conflitto, abolizione, né fusione. Il residuo non è sormontabile e non scompare in una superiore sintesi. Il residuo, qui, è lo Spirito: non una sintesi «che privilegi la fonte univoca, né che favorisca la differenza equivoca dell'effetto».20 Si tratta, piuttosto, della conferma «che il passaggio estatico tra Padre e Figlio è davvero un amore fra due e non un semplice impersonale "bagliore" di passaggio o di fusione. [...] Per questa logica paradossale, il terzo è solo i due, ma i due sono solo il passaggio al terzo. Pertanto, il terzo è un residuo e non un mediatore evanescente. Il terzo è il metaxu che sempre permette il passaggio dall'uno al due, o dallo stesso al differente, anche se è il "prodotto" dell'uno e del due, dello stesso e del differente. Il terzo, lo Spirito Santo, è pertanto il principio di analogia, che governa "trascendentalmente" la Trinità, ed è in un certo senso l'espressione personale del potere personificante della interazione "essenziale" tra tutte le tre persone [...] . Lo Spirito si trova analogicamente tra identità e differenza, ma consente anche il loro posto univoco ed equivoco, in quanto esso stesso è interamente il risultato dell'interazione tra di essi.»21

L'amore che circola e lega le tre persone si struttura secondo la particolare logica della condilectio, che Milbank riprende, attualizzandola, da Riccardo di San Vittore per il quale «si parla giustamente di condilectio quando un terzo viene amato da due nel segno dell'armonia e con uno spirito comunitario, e [quando] gli affetti dei due si fondono fino a diventare uno solo, a causa della fiamma del terzo amore».22 In una struttura relazionale così concepita non c'è qualcosa che sia mero mezzo, ma ogni soggetto della relazione è meta, non c'è un chiuso rapporto diadico, ma piuttosto, già da subito, la presenza dell'«amata terza persona» come «la stessa "incompletezza" del desiderio, all'interno del quale la verità è generata ma mai interpretativamente esaurita.»23 Un Dio che non sia, dunque, identità dialettica ma paradossale pura relazione d'amore che fa da sfondo all'emergenza della sua personificazione trinitaria. Nella diade, il terzo, lo Spirito, è già da sempre implicato perché «l'amore autentico tra due non è mai amore esclusivo, ma un incontro o un'estasi creativa al di là della dualità e di ciò che è dialetticamente in gioco tra due poli.»24

Tutto ciò permette a Dio anche una ulteriore imprescindibile relazione: il terzo totalmente altro, che anche emerge è la creatura, con essa Dio ha una relazionalità personale fondamentale. Essendo Egli «in se stesso [...] relazione», essendo questa relazione delineata secondo un «amore concepito come uno scambio infinito», la prospettiva che si apre va oltre la tradizionale dicotomia Agàpe/Eros (questa tipologia di amore tiene, piuttosto, paradossalmente insieme «Eros e Agape»), consentendo «in un modo assai non-lacaniano [...] l'infinita possibilità trascendentale della relazione sessuale.»25

Relazionalità che porta alla luce, che genera e fa nascere. Tale è la rilettura che Milbank propone di Eckhart contro Žižek. In termini trinitari, Eckhart affermerebbe che la generazione del Figlio dal Padre è lo stesso atto dell'atto con cui il Padre crea il mondo;26 egli, tuttavia, affermerebbe «anche che la creazione del mondo è interamente compresa all'interno della generazione del Figlio dal Padre».27 Il punto è che per Eckhart «Dio è il Dio che liberamente sceglie di uscire fuori di sé e, uscendo fuori di sé, ritorna a se stesso, in quanto egli è pieno: "più Egli è nelle cose, più ne è fuori". Ciò significa, dunque, che (1) Dio è semplicemente l'uscire fuori di se stesso, che la creazione, nel suo divenire, è il Figlio divino, così come, attraverso il perfetto distacco, noi diventiamo Dio che dà vita a Dio in noi: "il Padre genera il Figlio suo nel più intimo dell'anima". Allo stesso modo, nel suo desiderio immanente, la creazione è Dio che ritorna a se stesso.»28

Perciò, «Dio dall'eternità dentro se stesso e "prima" della Creazione è il Dio che esce da se stesso e che ritorna a se stesso: dunque, egli è Padre, Figlio e Spirito Santo. Allo stesso modo, quando diamo vita a Dio nelle nostre anime, è anche Dio che sta dando vita a noi stessi come suoi figli, per mezzo della grazia dentro suo Figlio che è suo Figlio per natura».29

Contro la lettura žižekiana, Eckhart non è assolutamente estraneo all'ortodossia cattolica; inoltre, egli non afferma l'impossibile coesistenza tra Dio e mondo, o la reciproca abolizione innestata sull' aut-aut per cui o Dio deve essere nulla o il mondo deve essere nulla. «Piuttosto, egli dice -- paradossalmente, con un'iper doppia-gloria -- che "tutti" e due coesistono, anche se ognuno dei due è tutto -- in quanto la quasi-totalità della finitezza ed il più-del-tutto della semplice infinitezza sono su piani diversi, e non in concorrenza, ma sono in qualche modo in grado di coesistere in base alla potenza creativa del "tutto" che è il semplicemente infinito.»30

Tutto ciò porta Milbank a rifiutare l'appiattimento o, meglio, l'abolizione che Žižek compie della Trinità immanente a favore della sola Trinità economica. In effetti, l'analisi žižekiana di Eckhart lo conduce a leggerlo come l'autore che frantuma la differenza fondamentale tra Dio e la sua creatura ed il cui principio originario sarebbe «l'ex-centricità di Dio stesso, a causa della quale Dio stesso ha bisogno dell'uomo per venire a se stesso, per raggiungere se stesso, per attualizzare se stesso, così che Dio è nato nell'uomo, e l'uomo è la causa di Dio.»31 Dio non farebbe quindi semplicemente nascere -- non creerebbe semplicemente -- l'uomo, non si tratterebbe neanche, per Lui, di divenire pienamente Dio solo in e attraverso l'uomo. «Molto più radicalmente, è l'uomo stesso che dà vita a Dio. Dio è niente al di fuori dell'uomo -- anche se questo niente non è un mero nulla, bensì l'abisso della Deità prima di Dio, e in questo abisso, la stessa differenza tra Dio e l'uomo è annichilita, distrutta. Dovremmo essere molto precisi qui, per quanto riguarda tale opposizione tra Dio e la Deità: non è un'opposizione tra due tipi/specie, ma tra Dio come un Qualche (Cosa) e la Deità come Niente».32

Ammesso questo, Žižek critica il tentativo di Milbank di riferirsi alla coincidentia oppositorum di autori come Eckhart e Cusano tra gli altri: il paradosso di cui costoro parlano sarebbe ben diverso del paradosso come espresso da Kierkegaard (cui Milbank fa pure riferimento). La coincidenza starebbe in un assoluto misterioso e trascendente, in grado di armonizzare i conflitti umani e garantire pace e liberazione. Ciò che Žižek tiene, invece, a sottolineare è la categoria del trauma, della frattura propria del cristianesimo: un paradosso che non risulta affatto estinguibile, ma che rimane irrimediabilmente sconvolgente; nessun conforto o rassicurazione. «Il "paradosso" cristiano risiede nel fatto incredibilmente traumatico che noi, umani mortali, siamo intrappolati in una "malattia mortale" [...], che il conflitto è parte integrante del cuore di Dio stesso, che Dio è il più grande ribelle contro di sé, che egli stesso deve farsi ateo e bestemmiare. Il paradosso non è che le opposizioni finite coincidano nell'infinità dell'Assoluto, ma che l'Assoluto stesso debba assumere in sé il dolore della differenza».33

In quello che Milbank propone, invece, Žižek riscontra l'idea di una Totalità cattolica, pervasa dall'amore verso Dio e tra le sue creature, una sorta di gerarchia organica, amorevolmente orientata, in cui le creature sono perché ritornino al Creatore per mezzo della gratitudine verso il suo dono senza residuo e assolutamente gratuito. Quello che, per Žižek, va perso qui è proprio il carattere lacerato e lacerante della profondità divina e del suo atto più inaudito, con conseguenze fondamentali per il nodo teologico della dicotomia Trinità immanente/economica. Ammettere che Dio sia già trinitario, in sé e al di là della relazione con la sua creazione, significherebbe fare di Cristo un personaggio del tutto secondario: egli non sarebbe stato, cioè, Dio stesso, ma una sorta di copia -- platonica -- di un originale rimasto presso «l'immanenza della Trinità-in-sé». Per Žižek, dunque, «è la Trinità economica che è la verità, il vero luogo, del cristianesimo, e la Trinità immanente non è altro che la sua "reificazione" in un processo indipendente; più precisamente, non c'è alcun divario tra la Trinità "immanente" e la Trinità "economica": ciò che stava accadendo nella realtà terrena della Palestina, duemila anni fa, era un processo nel cuore stesso di Dio stesso; non c'era (e non c'è) nessuna realtà più alta a riportarlo indietro.»34

Žižek ribadisce, quindi, il parallelo che già aveva proposto altrove. Ammesso che le modalità del Reale siano tre, allora e «se, come sostiene Lacan, gli Dei sono parte del Reale, anche la Trinità cristiana deve essere letta attraverso le lenti di questa Trinità del Reale: Dio, il Padre, è il "Reale reale" della Cosa primordiale violenta; Dio, il Figlio, è il "Reale immaginario" del puro Schein, il "quasi nulla" che risplende il sublime attraverso il suo misero corpo; lo Spirito Santo è il "Reale simbolico" della comunità dei credenti.»35 Esso è la comunità che si ritrova e ricorda la dolorosa vicenda di Cristo/Dio morto, una comunità totalmente desostanzializzata oramai, un "collettivo di credenti" pubblico. Lo Spirito Santo, infine liberato dalla presenza di un Dio privato che è morto sulla Croce, può assumere le sue autentiche caratteristiche: un Dio pubblico che si muove, tramite i "credenti" che lo compongono, in uno spazio pubblico per definizione ateo. Dunque, il movimento è quello di una triplice Aufhebung: «1) la persona singolare di Cristo viene sovra-ricondotta nella propria identità risorta, in quanto Spirito (Amore) della comunità dei credenti; 2) il miracolo empirico viene sovra-ricondotto nel "vero" miracolo più alto ([...]; il vero miracolo non è il Cristo morto che va in giro, ma l'amore nel collettivo dei credenti); 3) il cristianesimo stesso viene sovra-ricondotta nell'organizzazione politica.»36 Essendo l'ateismo inscritto nel nucleo originario e più fondamentale del cristianesimo stesso, i membri di una siffatta organizzazione, pubblica e politica, atea, dovrebbero alfine accettare la logica interna del cristianesimo: sulla Croce è Cristo/Dio a morire, Cristo è un mediatore evanescente che vive solo nel ricordo dei membri del collettivo dei credenti. Per essere radicalmente cristiani, fedeli al messaggio più sconvolgente ma più genuino del cristianesimo, coloro che ipocritamente si dichiarano tanto credenti quanto non credenti dovrebbero, dunque, farsi autenticamente atei, cessare di affidarsi al grande Altro, «accettare che il grande Altro non esiste, e agire di conseguenza.»37

4. Uno sguardo sull'abisso: l'uomo

Accennando brevemente alle ricadute antropologiche e politiche delle disamine di Milbank e Žižek, si notava, in precedenza, come esse non paiano aprire prospettive particolarmente auspicabili. Si tratta, in entrambi, di riproporre un modello gerarchico: in Milbank qualcosa che assomiglia, troppo, ad una struttura teocraticamente orientata, in Žižek, il riferimento diretto è ad una dittatura socialista (che non rinnega affatto caratteri propri dello stalinismo).

Non solo, ma dal punto di vista della possibilità di un dialogo tanto interconfessionale, quanto interreligioso, le posizioni dei due autori sembrano creare non pochi problemi. In un'ottica che pare seguire la linea girardiana (anche se declinata diversamente e criticamente) il cristianesimo è posto da entrambi alla sommità di uno sviluppo non solo storico. In Žižek, esso chiude il processo dialettico della coppia sacro/religioso e determina lo sfociare dello stesso nella dimensione ateistica che gli apparterrebbe in nuce. In Milbank, che sembrerebbe auspicare una sorta di salto a ritroso verso una chiesa pre-riformata, di nuovo unita, il cristianesimo, in quanto religione fondata sull'amore, dovrebbe presentarsi come una sorta di guida non solo per il mondo occidentale ma anche per un ambito ben più ampio. In particolare, rispetto alle questioni drammatiche sollevate da parte del mondo islamico, Milbank nota come i problemi dell'Islam "politico" abbiano a che fare con il «crollo, tristemente prematuro, degli imperi coloniali occidentali (come ripercussione delle guerre europee) ed il conseguente fallimento dei progetti di sviluppo nazionale del Terzo Mondo».38 La frase è certo mitigata dall'altro elemento con cui l'Islam politico ha a che fare, ossia «uno sfruttamento neo-coloniale, puramente economico, dei paesi più poveri», tuttavia, rimane il fatto che l'Islam politico si proponga come «un nuovo veicolo internazionale, ma non-coloniale, di identità per il Terzo Mondo» perpetuando una narrazione «eccessivamente semplicistica del passato imperiale» e promuovendo «uno spirito di reazione risentito, piuttosto che autosufficiente e creativo, rispetto alle devastazioni del capitalismo occidentale.»

Milbank riconosce, cioè, l'esistenza di un Islam solo politico, mentre non esisterebbe (se non come irrilevante minoranza) un Islam più strettamente religioso, mistico, slegato ed autonomo rispetto ad una lettura semplicisticamente letterale del testo sacro: «L'Islam non possiede alcuna "chiesa". Ci sono semplicemente i luoghi sacri, i pellegrinaggi verso di essi [...] e le assemblee dei singoli credenti che pregano tutti in una volta, ma non presentano una liturgia né impegnano in un mistero divino come fanno i cristiani cattolici.» Le minoranze riconoscibili come portatrici di un pensiero mistico islamico, capace di evidenziare, piuttosto, il significato "esoterico" della Scrittura, vanno, dunque, aiutate. «Ciò che l'Occidente deve fare [...] è favorire lo sviluppo di quelle forme più mistiche dell'Islam, che lo spingano verso una modalità di organizzazione religiosa che non sia direttamente di natura politica, o necessariamente legale. In altre parole, ciò che è necessario per l'Islam è il fatto di evolvere verso una modalità organizzativa ecclesiale o "church-like".» Dunque, l'evoluzione dell'Islam deve avvenire attraverso il modello proprio del cristianesimo: esso dovrebbe acquisire una forma istituzionalizzata,  liturgica, sacerdotale, solo indirettamente politica, neoplatonica. È evidente che, in tale modo, l'Islam rischierebbe di perdere i propri caratteri peculiari per inseguire un modello diverso. Sembrerebbe questo l'unico modo per cessare di essere altro e poter quindi essere incluso, assimilato: la perdita delle differenze caratterizzanti come scotto perché i musulmani non siano più l'altro terrorifico, senza volto, "loro" ma divengano "noi". Le perplessità che sorgono da tali affermazioni non sono poche: innanzitutto, vale la pena ricordare, anche solo di sfuggita, quali e quante problematiche possano emergere, per esempio da una prospettiva mimetica, all'interno del rapporto tra discepolo e modello. Inoltre, rispetto all'affermazione di Milbank circa l'importanza delle differenze, quale spazio rimane per esse in tale schema? Si può davvero parlare di un qualcosa che rimane come differenza armonica o non si dovrà, piuttosto, riconoscere in questo progetto l'aspirazione ad una differenza non differenziale? Cosa ne è, nello specifico, della logica del paradosso? O essa vale solo a livello trinitario e solo in certi ambiti culturali e religiosi? L'armonia capace di mantenere le specifiche differenze a livello trinitario, l'armonia che si trasfonde in un'armonia umana resa possibile dall'apertura dell'uomo ad un Dio incommensurabile, al suo dono totale e gratuito cui partecipiamo e cui, continuamente, dovremmo rendere grazie, vale solo in un'ottica cristiana? «Ayaan sembra ritenere che sarebbe meglio se tutti i musulmani si convertissero al cristianesimo. Eppure, da teologo cristiano, vorrei dire che, anche quando si convertano, hanno bisogno di trovare il proprio sentiero islamico verso Cristo.»39 Di nuovo, Milbank sembra sfumare il proprio discorso ma, a ben vedere, per quanto si parli di via islamica, essa conduce comunque a Cristo: il rischio di leggere in queste affermazioni l'idea che l'Islam, per essere migliore, esso in qualche modo essere sottomesso a forme culturali euro-cattoliche rimane consistente.40

La condilectio di cui parla Milbank, quello specifico tipo di amore capace di superare la dicotomia Agàpe/Eros, sembrerebbe così dover sottostare a dei paradigmi precisi, essere possibile solo entro determinati orizzonti di riferimento o, al limite, poter essere proposta (ma, proposta o imposta?) come modello universale cui conformarsi con tutte le incognite accennate sopra.

Al contrario, Žižek continua a mantenere, con la propria scelta ateistica (fatte salve le derive autoritarie e financo meccanicistiche cui tende), la dimensione conflittuale ben presente: se il dissidio è parte integrante di Dio, del grande Altro come alienazione di sé necessaria all'uomo per formarsi la propria soggettività, evidentemente questo stesso dissidio non potrà che essere proprio ed originario dell'uomo, il quale rimarrà sempre preso nel vortice delle sue proprie problematiche umane, troppo umane. La ritrovata fiducia, le prospettive di libertà, la sottintesa possibilità di assurgere all'ideale dell'oltreuomo che l'emancipazione ateistica dal grande Altro aprirebbero non sembrano, nondimeno, produrre un paradiso su questa terra, né permettere un'armonia basata su un amore condiviso.

Si pensi alle ricadute etiche del discorso žižekiano. L'etica materialista, l'etica senza morale cui fa riferimento Žižek: contro una moralità sentimentale, egli dichiara un'etica fredda e crudele, in cui si fa ciò che si deve non per bontà, ma perché "ciò necessità di essere fatto", senza sentimentalismi. «Questo è quello che mi piacerebbe essere: un mostro etico privo di empatia, che fa quello che deve essere fatto con una strana coincidenza di cieca spontaneità e distanza riflessiva, che aiuta gli altri evitandone la disgustosa prossimità. Con gente come questa, il mondo sarebbe un luogo piacevole in cui il sentimentalismo sarebbe sostituito da una passione fredda e crudele.»41 Il panorama che Žižek propone ha, ad un primo sguardo, tinte ben più fosche, si tratta di una visione assai più spietata e fredda del Reale: non c'è nessuna speranza in nessun possibile aiuto, in nessuna possibile salvezza da parte di alcuno.42

In realtà, sembra di trovarsi di fronte a due tipi di violenza: quella più apertamente (quasi sfacciatamente) dichiarata da Žižek e quella più sfumata, ma sotterraneamente agente, di Milbank. In effetti, Žižek ammette che vi sia una violenza sistemica, precondizione e radice originaria delle nostre strutture politiche e socio-economiche, una violenza che noi continuamente perpetriamo e sottoponiamo ad un continuo processo mistificatorio. Marchiare la violenza coma malvagia sarebbe solo un modo di nascondere il fatto fondamentale della violenza all'opera nella nostra civiltà: «è profondamente sintomatico che le nostre società occidentali, che mostrano una tale sensibilità verso diverse forme di molestie, siano al tempo stesso in grado di mobilitare una moltitudine di meccanismi destinati a renderci insensibili alle forme più brutali di violenza -- spesso, paradossalmente, proprio nella forma della solidarietà umanitaria con le vittime.»43

La violenza sta nel linguaggio stesso che è il medium della sua esplosione,44 ma la sua causa ultima si riscontra nella paura del "Vicino": la caduta dei muri, infatti, rendono l'altro insopportabilmente vicino, ci incute a causa della caduta dei muri che lo rendono eccessivamente prossimo a noi.45 Affermazione, questa che fa dell'amore stesso un sentimento di natura traumatica cui la violenza è intrinsecamente essenziale: «Ciò che resiste all'universalità è la dimensione propriamente inumana del vicino. È per questo motivo che trovarsi nella posizione della persona amata è così violento, traumatico: essere amato mi fa sentire immediatamente il divario tra ciò che sono come un essere determinato e la X insondabile che provoca in me l'amore.»46

Esiste, al di là del gioco perverso tra una violenza soggettiva che non fa altro che alimentare, mentre dichiara di contrastarla, la violenza sistemica, una dimensione emancipativa della violenza. Sulla scorta di una rilettura di Walter Benjamin, Žižek riconosce tale capacità nella violenza divina opposta alla violenza mitica. «È la violenza mitica che richiede il sacrificio e detiene il potere sulla nuda vita; mentre la violenza divina è non sacrificale ed espiatoria.»47 La differenza fondamentale tra le due tipologie di violenza è che l'una, quella mitica, è uno strumento per stabilire la Legge, l'ordine sociale, mentre l'altra, quella divina, necessaria alla rivoluzione, non fonda e non sostiene la Legge, ma la interrompe violentemente e incomprensibilmente. Essa è tanto più difficile da distinguere dal momento che non si dà alcun grande Altro garante di un corretto riconoscimento da parte dell'uomo, così egli rimane nell'insicurezza, nel rischio e nella responsabilità solitaria di tale riconoscimento. Tanto più complessa, perché «la violenza divina è il lavoro d'amore proprio del soggetto»,48 il quale non ha, però, nessun criterio per riconoscere tale amore commisto di odio. Perché, per Žižek, ciò che elimina il pericolo che l'amore sia solo sentimentalismo mistificante è proprio il suo legame con la violenza e, quindi, con l'odio: «il dominio della violenza pura, [...] è il dominio del puro amore» perché, del resto, «l'amore senza crudeltà è impotente; la crudeltà senza amore è cieca.»49

Si potrebbe forse dire che, in Žižek, permane l'idea secondo cui esiste un sacro che fonda la comunità attraverso lo scatenamento ed il successivo processo di divinizzazione della violenza nella ipostatizzazione del capro espiatorio, così come c'è una peculiarità nel messaggio cristiano capace di emancipare dal sacro: Dio, anche per Žižek, è il segno, il sigillo ma in nessun modo lo strumento del sacro. Ovviamente, in Žižek, Dio è anche il grande Altro, da sempre morto, che dobbiamo risolutamente e definitivamente abbandonare.

Il progetto più generale di Milbank sembra quello di una riattualizzazione della lettura teologica della storia propria di Agostino nel De Civitate Dei.50 Tale lettura dovrebbe permettere non solo di non ritenere la violenza necessaria, ma anche di immaginare uno stato di pace totale, di mostrare una possibile via di azione (l'unica, quella cristiana) in un mondo violento. Il riferimento di cui si ha bisogno è quello di una priorità ontologica della pace che la rende più fondamentale del conflitto. Più fondamentale anche di un'enfasi circa la virtù,51 dal momento che la virtù presuppone la giustizia ed una autentica giustizia genera una pace autentica: questa stretta connessione tra virtù e giustizia necessita che la pace abbia la priorità e le sostenga entrambe. Tale ontologia della pace non è per Milbank utopica, piuttosto essa è già da sempre data, pur dovendo ancora essere compiutamente realizzata. In effetti, neanche in Cristo la pace è stata totalmente realizzata, bensì essa è data proletticamente, perché la sua salvezza perfetta dalla distruzione assoluta della morte, il suo rifiuto della perdita di ogni differenza, sono ciò che possono solo, per quanto essenzialmente, parlarci per la prima volta della pace perfetta.

Fergus Kerr52 nota come Milbank Milbank riconosca il ruolo fondamentale di Girard sotto due aspetti essenziali: il recupero della agostiniana ontologia della pace ed il riferimento a considerazioni cristologiche, come un distacco critico rispetto all'etica della virtù. L'influenza che Girard sembra avere anche nei confronti di Milbank non si interrompe, però, alla centralità del discorso cristologico. C'è un fondo girardiano che continua a risuonare circa la violenza, il desiderio ed altre tematiche proprie di Milbank anche se con l'andare del tempo il teologo anglicano si è fatto sempre più critico nei confronti di Girard. Quest'ultimo sarebbe, infatti, uno di quei teorici post-moderni accusati categoricamente da Milbank di proporre una «filosofia nichilista» che promuove una «ontologia della violenza».53 La disapprovazione di Milbank si esplica circa tre tematiche fondamentali in Girard. La natura del desiderio, così come egli la delinea, sarebbe del tutto arbitraria; per tale motivo il valore dell'oggetto desiderato sarebbe generato solo dalla competizione che l'oggetto stesso provoca. All'interno della teoria mimetica non si può, dunque, concepire un desiderio volto verso un oggetto a motivo della sua desiderabilità oggettiva54 (tale base oggettiva è, in Milbank, fornita da Dio, in quel ritorno di gratitudine per il dono assoluto che abbiamo ricevuto). Ciò è in parte corretto, ma va ricordato come il problema maggiore all'interno di questa dinamica sia rappresentato dalla presenza del modello: è questo il vero oggetto cui il discepolo tende, l'oggetto particolare che si tenta di afferrare è, infatti, solo la cifra di quella pienezza d'essere di cui il discepolo si sente privo e che, invece, ritiene dimorare nel modello. Inoltre, almeno nelle prime opere di Girard pare potersi riscontrare la possibilità di un desiderio autentico, al di là della dinamica mimetico-triangolare.

Secondariamente, la connessione inestricabile che Girard ammette tra desiderio e rivalità fa della violenza una necessità endemica nella vita umana.

Infine, Milbank mette in essere una critica serrata della cristologia girardiana che si sviluppa attraverso due appunti sostanziali. Cristo rivela il segreto del meccanismo del capro espiatorio ed offre il proprio esempio di rinuncia: egli rifiuta di essere implicato nella rivalità, nella violenza. Cristo sarebbe, dunque, solo la rivelazione di questo rifiuto. Girard non esplicherebbe abbastanza chiaramente in quale "forma" si concretizzerebbe la pratica non violenta di Cristo; egli non sarebbe, cioè, stato in grado di prendere in considerazione una pratica alternativa, ma sarebbe rimasto impantanato solo nella negatività del rifiuto.55

Inoltre, e forse in modo più determinante, il nodo centrale riguarda l'accento da porre sulla Chiesa o su Cristo. Per Milbank, Cristo da solo, non basta. Egli non sarebbe sufficiente senza il contemporaneo accento sulla sua inseparabile relazione con la Chiesa: Cristo è parte indissolubile della esperienza della Chiesa. Nei Vangeli la figura cristica sarebbe presentata, secondo Milbank, come un esempio di umanità perfetta e di relazione filiale. La ripetizione di tale relazione filiale è possibile solo all'interno della Chiesa, la cui metanarrativa ci permette non solo di comprendere la pace ontologica ma ci mostra anche come la pace sia reale attraverso la prassi sociale cristiana. Per questo motivo, non solo Cristo, ma anche la Chiesa deve essere mantenuti in una posizione centrale all'interno di una metanarrazione cristiana. La questione ruoterebbe, insomma, intorno alla maggiore rilevanza che, in Girard, Cristo avrebbe rispetto alla Chiesa istituzionalizzata, a motivo della quale Milbank sarebbe portato a prendere le distanze dall'autore francese.56

Tuttavia, presentando Cristo come colui che rompe definitivamente con la violenza, Milbank sembra recuperare Girard con l'argomento della «finalità» di Cristo. «Infine, nel Nuovo Testamento, ogni violenza, ed ogni sacralizzazione della violenza, è totalmente rifuggita.»57

Sembra quasi una parafrasi dell'affermazione girardiana per cui la Bibbia gradualmente espone e rigetta il sacro. E', però, nei Vangeli che tale demistificazione giunge all'apice: la passione di Cristo intorno a cui ruotano è l'evento fondamentale. Egli è la prima ed unica vittima innocente, incontaminata da qualsiasi violenza e da ogni dinamica violenta: egli non ne è toccato, altrimenti non potrebbe denunciarla, ma tale meccanismo investe l'umanità nel suo complesso. Tale sarebbe, per Girard, la prova che Cristo non è un uomo, ma il figlio di Dio. Il suo non è neppure un sacrificio o, al limite, è un sacrificio volontario. In ogni caso, Cristo smaschera la verità del sacrificio, ne inceppa il meccanismo ed offre all'umanità una possibilità di uscita dalla violenza e di riappacificazione. Tuttavia (e sta, forse qui, l'ostacolo insormontabile per Milbank), l'umanità, piuttosto che accettare la potenza salvifica della verità rivelata da Cristo, ha scelto altrimenti. Non solo l'umanità ha rigettato e dimenticato questo evento capitale, più radicalmente è la stessa Chiesa, il cristianesimo storico, ad aver velato con una lettura sacrificale la verità dirompente del messaggio cristico. Il cristianesimo «assai presto ha ripreso antichi riflessi sacrificali» e «non è stato all'altezza del suo messaggio, di ciò che esso arrecava di radicalmente nuovo: vale a dire una conoscenza definitiva dei meccanismi della fondazione violenta, dell'ordine che è proprio del sacro.»58

Copyright © 2011 Alice Gonzi

Alice Gonzi. «Vie della teologia contemporanea: il dibattito tra Slavoj Žižek e John Milbank». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**62 B].

Note

  1. John D. Caputo, recensione a The Monstrosity of Christ: Paradox or Dialectic?, disponibile su http://ndpr.nd.edu/review.cfm?id=17605. Testo

  2. S. Žižek, The Ticklish Subject, Verso, London 2000, p. 323. Testo

  3. Tale idea riecheggia evidentemente lo svolgimento hegeliano per cui la logica trinitaria corrisponde a determinati momenti storici secolari. Testo

  4. S. Žižek, J. Milbank, The monstrosity of Christ. Paradox or Dialectics?, MIT Press, Cambridge (Massachussets) 2009, trad. it., La mostruosità di Cristo. Paradosso o dialettica?, Transeuropa, Massa 2010, p. 238. Il contributo di Meister Eckhart, nella interpretazione žižekiana (ribattuta da Milbank), sarebbe stato, sinteticamente, quello di descrivere un Dio che può essere scoperto solo in uno spazio vuoto. Egli è "la sola Sostanza", affermazione che annulla il dualismo Dio-creatura; tuttavia, Eckhart non è stato capace di raggiungere quella nozione di "pura differenza" cui perverrà, invece, Böhme. Tutto ciò serve a Žižek per affermare che Eckhart non appartiene completamente alla ortodossia del pensiero cattolico, ma, sulla scorta di Rainer Schürmann, ad un filone eccessivamente, per Žižek, "buddhista". Dunque, Eckhart parlerebbe di un Grund della divinità che si troverebbe al di là delle persone trinitarie, di un nulla originario che dovrebbe essere "superato". Contro tutto questo sta l'interpretazione di Milbank che sposta l'attenzione sulla priorità, nel pensiero eckhartiano, del concetto di nascita: il Dio cristiano è appunto il Dio che dà alla luce, che fa nascere. Testo

  5. Ivi, p. 238. Testo

  6. Ivi, p.60. Corsivo di Žižek. Testo

  7. Ivi, p. 62. Corsivo di Žižek. Testo

  8. In contrasto con la dialettica, il metassologico sottolinea la mediazione, lasciando il metaxu aperto e sottolinea altresì l'interazione tra identità e differenza. All'interno di un discorso metassologico il metaxu è considerato come il sovradeterminato; non si tenta di definirlo forzatamente né di costringerlo, con un'operazione violenta, verso una progressione teleologicamente orientata. William Desmond, Being and The Between, State University of New York Press, New York 1995, Ethics and The Between, State University of New York Press, New York 2001, God and The Between, Wiley-Blackwell, 2008. Testo

  9. Ivi, p. 208. Testo

  10. Ivi, pp. 208-209. Testo

  11. Ivi, p. 213. Testo

  12. Ivi, p. 215. Testo

  13. Ivi, p. 217. Testo

  14. Ivi, pp. 217-218. Testo

  15. S. Žižek, J. Milbank, La mostruosità di Cristo. Paradosso o dialettica?, op. cit., Testo

  16. Cfr. P. Coda, Il logos e il nulla. Trinità religioni mistica, Città Nuova, Roma 2004, pp. 205, 325, passim. Testo

  17. Ivi, p. 247-248. Testo

  18. Ivi, p. 185. Testo

  19. Ivi, p. 249. Testo

  20. Ibidem. Testo

  21. Ivi, p. 250. Testo

  22. Riccardo di San Vittore, La Trinità, Città Nuova Editrice, Roma 1990, p. 145. Testo

  23. S. Žižek, J. Milbank, La mostruosità di Cristo. Paradosso o dialettica?, op. cit., p. 185. Cfr., J. Splett, Freiheits-Erfahrung. Vergegenwärtigungen christlicher Anthropo-theologie, Frankfurt am Main 1986, p. 341: «Al posto di una dialettica tra differenza e identità, che barcolla tra alienazione e solitudine, qui c'è spazio per la pluralità viva in una dinamica di reciproca liberazione». Testo

  24. Ivi, p. 184. Testo

  25. Ivi, p. 251. Testo

  26. "Dove Dio la pronuncia [la parola] essa è Dio, ma quaggiù essa è una creatura"; Meister Eckhart, Sermone 30, in I Sermoni, op. cit., p. 275. Testo

  27. Ivi, p. 256. "Dio dice sempre una sola cosa. Il suo dire è uno solo. In questo suo unico dire Egli dice suo Figlio e insieme lo Spirito Santo e tutte le creature, e tuttavia vi è un unico dire in Dio".Meister Eckhart, I Sermoni, op. cit., p. 275. Testo

  28. Ivi, pp. 256-257. Testo

  29. Ivi, p. 257. Testo

  30. Ivi, 256. Testo

  31. Ivi, p. 17. Testo

  32. Ibidem. Testo

  33. Ivi, p. 337. Testo

  34. Ivi, p. 338. Corsivo di Žižek. Testo

  35. S. Žižek, On belief, Routledge, London 2001, pp. 82-83. Testo

  36. S. Žižek., J. Milbank, La mostruosità di Cristo, op. cit., pp. 295-396. Testo

  37. Ivi, p. 409. Testo

  38. Questa e le citazioni seguenti sono tratte da J. Milbank, "Christianity, the Enlightenment and Islam", ABC Religion and Ethics, 24 agosto 2010. Website: http://www.abc.net.au/religion/articles/2010/08/24/2991778.htm?topic1=home&topic2= Data di consultazione: 4 aprile 2011. Testo

  39. L'articolo di Milbank è una riflessione su quello di Ayaan Hirsi Ali, "Seeking God, but finding Allah", apparso sullo stesso sito: ABC Religion and Ethics. Testo

  40. In effetti, Milbank e gli autori che fanno parte del circolo della Radical Ortodoxy tendono a dividere il mondo in due sfere ben distinte: i metafisici di ispirazione tomista ed i nichilisti. Testo

  41. S. Žižek., J. Milbank, La mostruosità di Cristo, op. cit., p. 415. Testo

  42. Tale realismo deriva a Žižek dalla nozione lacaniana di Reale, dall'idea dell'uomo come ente costituito da un trauma, da una frattura che si cela nelle sue profondità, dalla consapevolezza dell'«impossibilità di una jouissance profonda e appagante» e della «sua sostituzione con la ricerca, infinita e inutile, proprio di ciò che non possiamo avere». J.D. Caputo, op. cit. Testo

  43. S. Žižek, Violence: six sideways reflections, Profile Books, London 2009, p. 174. Testo

  44. Contro l'idea che il linguaggio sia uno strumento meramente comunicativo e conciliante: «e se fosse proprio perché parlano che gli uomini superano gli animali in violenza?». Ivi, p.52. Testo

  45. Sembrano qui, ma non solo qui, evidenti gli echi girardiani. Questo altro che è vicino, è talmente prossimo da non desiderare solo ciò che noi desideriamo, ma anche da poter afferrare l'oggetto del nostro desiderio, sottraendocelo ed innescando, così, la caduta delle differenze e la "mimesi di appropriazione", che scatena la "mimesi di rivalità"?. Testo

  46. Ivi, p. 48. La fratellanza universale propugnata dal cristianesimo nasconde, per Žižek, una trama assai minacciosa: se chi non accetta tale fratellanza si autoesclude dalla comunità umana, allora essa è incompatibile con la nozione di universalità. Testo

  47. Ivi, p. 168. Testo

  48. Ivi, p. 172. Testo

  49. Ivi, p. 173. Testo

  50. J. Milbank, Theology and Social Theory: Beyond Secular Reason, Blackwell Publishers, Oxford 1993, p. 391. Testo

  51. Ivi, p. 363. Più in generale, si veda il capitolo XI di questa opera. Testo

  52. F. Kerr, "Rescuing Girard's Argument?", Modern Theology 8/4 (Ottobre, 1992), pp. 385-399. Testo

  53. J. Milbank, Theology and Social Theory, op. cit., p. 278. Testo

  54. Ivi, p. 397. Testo

  55. Ivi, pp. 394-398. Testo

  56. R. Williams, "Saving Time: Thoughts on Practice, Patience and Vision," New Blackfriars 73 (Giugno1992), p. 321. Testo

  57. J. Milbank, Theology and Social Theory, op. cit., p. 396. Testo

  58. R. Girard, Achever Clausewitz, Carnets Nord, Paris 2007. Testo

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