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Sulla conoscenza di Dio in Tommaso d'Aquino.
Praeambula fidei, critica del fideismo e dell'agnosticismo teoretico neopositivistico

di Umberto Galeazzi (20-21 marzo 2009)

L'esperienza di Dio è inevitabilmente mediata dal suo emergere alla coscienza e all'intelligenza, cioè da un discorso su Dio, da una certa conoscenza di Lui. È un discorso che nasce dall'apertura dell'intelligenza al limite delle possibilità umane, eppure peculiare dell'uomo, che si realizza proprio trascendendosi. L'itinerario della mente e del cuore verso Dio è un cammino decisivo, ma su un crinale rischioso, perché possiamo ascendere a Lui, partendo dalle meraviglie della creazione, oppure ricadere nella prigionia dell'immanenza soggettiva, scambiando il Dio vivente con un idolo foggiato dalle nostre escogitazioni, o dai nostri meschini interessi, un idolo che possiamo comprendere, afferrare, dominare. Si corre, così, il rischio del fanatismo, che apre la via alle peggiori aberrazioni. L'alternativa a questa chiusura antropocentrica è la conoscenza veritativa, pur nei limiti della condizione umana, che ci fa riconoscere, a partire dall'esperienza, una normatività che ci trascende, che non dipende dal nostro arbitrio soggettivo e che continuamente lo ridimensiona e lo rettifica. Quell'idolo, infatti, non è Dio, che è il Bene increato, infinito, trascendente, non riducibile alla nostra misura.

Qui intendo far vedere che seguendo l'Aquinate è possibile sia individuare le aporie del fideismo (considero quello di K. Barth) e dell'agnosticismo neopositivistico, sia superarle criticamente. Queste posizioni, pur diverse, convergono nel sottovalutare la conoscenza umana e, qualora fossero assunte come precomprensioni dalla teologia cristiana, si rivelerebbero incompatibili con i contenuti della fede, deformandoli e corrompendoli. Il problema più generale è il seguente: è possibile fare teologia, o esegesi, senza assumere, più o meno acriticamente, dei presupposti filosofici? Si richiede un criterio ermeneutico che superi l'arbitrio esegetico, per poter ascoltare la Parola di Dio, non solo le parole umane.

1. Razionalità dei praeambula e aporie della scissione tra ragione e fede

Innanzitutto conviene cercare di intendere il senso dei praeambula nella logica della ricerca tommasiana. Si tratta di verità che sono come delle premesse, dei requisiti preliminari -- accessibili a chiunque usi correttamente la ragione, superando gli ostacoli che di fatto si possono incontrare -- rispetto all'adesione ai contenuti peculiari della fede cristiana: «l'esistenza di Dio ed altre verità che riguardo a Dio si possono conoscere, come dice S. Paolo (Rm., I, 19 ss.) con la ragione naturale, non sono articoli di fede, ma premesse (praeambula) agli articoli di fede: infatti la fede presuppone la conoscenza naturale come la grazia presuppone la natura, e come la perfezione presuppone il perfettibile. Però nulla impedisce che una verità, la quale di per sé è oggetto di dimostrazione e di scienza, sia accettata come oggetto di fede da chi non arriva a capirne la dimostrazione» (S. th., I, q. 2, a. 2, ad 1) .1 La fede presuppone la conoscenza naturale; ciò vuol a dire che la fede è solo di un soggetto, che per natura è dotato di ragione ed è capace, almeno nel senso che non gli è precluso costitutivamente, di arrivare a conoscere verità anche così elevate.2

Comunque si deve sottolineare che per Tommaso si tratta di premesse necessarie all'atto di fede, almeno nel senso che sono implicate necessariamente dalla fede, tanto è vero che sono tra le verità da credersi per coloro che non sono in grado, per vari motivi che non derivano dalla peculiare natura intellettiva dell'uomo, di arrivare ad esse per la via dell'indagine razionale: «certe verità che possono essere dimostrate si annoverano tra le verità da credersi, non perché per tutti esse sono oggetto di fede, ma perché sono prerequisite alle verità di fede, e bisogna che siano ritenute vere almeno per fede da coloro che non ne hanno la dimostrazione» (S. th., II-II, q. 1, a. 5, ad 3). Perciò nelle professioni della fede cristiana, o «Simboli della fede», in primo luogo troviamo, come fondamentali, gli «articoli» che riguardano Dio come padre onnipotente e come creatore dell'universo e dell'uomo.

Infatti, come si potrebbe credere che Dio si è incarnato in Gesù Cristo, che Gesù è il Figlio di Dio, che ha assunto la natura umana, vero Dio e vero uomo, che è morto e risorto per la nostra salvezza, se non si ritiene che Dio c'è, che è creatore dell'uomo e quindi trascende l'uomo, senza alcuna possibilità di confusione tra l'uomo e l'Assoluto? Riconoscere Dio creatore significa riconoscere anche l'ineliminabile creaturalità e finitezza dell'uomo, che non si può scambiare con l'Assoluto, né escogitare che è in via di assolutizzazione, potendosi salvare con le sue sole forze, perché egli è bisognoso della salvezza che gli venga donata da Colui che ha il potere di portarla a compimento, rispettando la sua libertà, operosità e creatività, da Colui che sa di che cosa l'uomo ha bisogno per la piena realizzazione di sé, perché è l'Autore del progetto che lo costituisce. La fede cristiana implica necessariamente la metafisica della creazione, senza cui non sarebbe la fede cristiana: ciò è evidente nello stesso credo professato nei secoli e si potrebbe far vedere analiticamente, considerando i vari articoli, che senza quella metafisica sarebbero radicalmente travisati, o addirittura convertiti nel loro opposto, come avviene, per esempio, nella lettura atea del cristianesimo, che Bloch escogita.3

Se, per esempio, si assolutizza l'essere umano, come fa Feuerbach, che gli attribuisce «... la soprannaturalità, l'immortalità, l'autonomia e la non limitazione...»,4 essendo per lui del tutto ovvio che «... l'uomo non è solo la misura di tutte le cose, ma il contenuto, l'origine ed il fine del valore...»,5 evidentemente non c'è posto per un Assoluto diverso da lui, ma allora non c'è posto nemmeno per la fede cristiana. In realtà quella pretesa assolutizzazione è confutata dall'esperienza dell'uomo concreto, caratterizzato da aspetti inequivocabili della finitezza, che emergono anche in una pagina efficace di Heidegger interprete di Kant;6 tanto è vero che lo stesso Feuerbach non può disconoscerli e, negli sviluppi del suo pensiero, si affida alla speranza, alla fede in una futura assolutizzazione della specie umana. Speranza e fede, in verità, non giustificate razionalmente di fronte alle dure smentite della storia. Si veda, per esempio, quella del XX° secolo.

Fa parte dell'indagine razionale -- propria della filosofia -- sui praeambula rilevare criticamente, considerandone le notevoli e istruttive implicanze, le aporie di queste forme di negazione della metafisica della creazione, che, di conseguenza, ne risulta corroborata. Né, d'altra parte, queste negazioni possono essere considerate irrilevanti o essere semplicemente ignorate da parte del credente, la cui coscienza si potrebbe trovare scissa a causa della contraddizione tra le convinzioni considerate frutto della ragione, e magari accolte più o meno acriticamente, e quelle che gli vengono dalla fede, perché questa scissione, oltre che dilacerante per la coscienza, è contraria alla natura della fede cristiana. Questa è tale per cui «è proprio del credente il pensare -- o cogitare -- approvando» (S. th., II-II, q. 2, a. 1). E questo cogitare «indica una considerazione dell'intelletto accompagnata da una ricerca, o discussione, prima di giungere alla perfetta intellezione mediante la certezza dell'evidenza», per cui «la cogitazione è propriamente un moto dell'atto di deliberare, non ancora illuminato dalla piena visione della verità» (ibid.). La fede, dunque, implica una deliberazione e quindi una discussione, che non pretende di dimostrare i contenuti della fede stessa, ma che valuta «ciò che può indurre l'uomo a credere» (S. th., II-II, q. 2, a. 1, ad 1).

Queste ragioni a sostegno della credibilità della fede non rendono evidenti, nella condizione terrena dell'uomo, i contenuti della fede stessa, ma «tolgono gli ostacoli alla fede, mostrando che non è impossibile quanto essa propone» (S. th., II-II, q. 2, a. 10, ad 2). La fede è un'adesione ferma dell'intelletto, in virtù di una decisione della volontà, a dei contenuti non evidenti, ma non è un salto nel buio, non è una scelta arbitraria e irrazionale, «poiché l'intelletto del credente viene convinto ad accettare le cose che non vede dall'autorità di Dio» (S. th., II-II, q. 4, a. 1), che le rivela. Mi fido di chi so che merita fiducia: «Scio... cui credidi» (II Tim. 1, 12), come dice giustamente S. Paolo. È certamente conforme ad un uso corretto della ragione che l'uomo, il quale riconosce la propria finitezza, si fidi di Dio, scoperto, dall'indagine filosofica o dalla considerazione critica pensante della persona comune, nel suo amore creatore e donativo e nella sua infinita sapienza. Non è incompatibile con la mia razionalità il fidarmi di Dio che mi rivela delle verità salvifiche, proprio in quanto Dio non è per me sconosciuto, ma ne ho una certa conoscenza indipendentemente dalla fede. La ragione umana, scoprendo sia la propria finitezza che l'Infinito trascendente, è costitutivamente in attesa dell'autorivelazione di Dio nella storia e, senza contraddire se stessa, può fidarsi di Lui, se ne riconosce, per quanto può, la rivelazione.

Come si vede, queste premesse razionali su Dio e sulla condizione umana creano le condizioni, dal punto di vista dell'accettazione umana di quel dono di Dio, che è la fede, affinché lo stesso atto di fede non sia cieco, arbitrario, irrazionale e, quindi non contraddica la stessa natura umana e la sua dignità.

Queste conquiste dell'umana ricerca sono premesse razionali alla fede (praeambula fidei), ma i teologi non hanno motivo di preoccuparsi, perché non sono fondamenti della fede -- con essi non si intende dedurre, riducendoli antropocentricamente, i contenuti della fede dai principi della ragione umana -- perché la fede è fondata su quanto gratuitamente Dio ci rivela.

In modo rigoroso l'indagine filosofica mostra che la nostra conoscenza è finita, limitata, non è la coscienza assoluta o infinita, perché non è la conoscenza di tutti i contenuti che appartengono alla totalità. Infatti, le stesse conquiste dell'umana ricerca, in ogni campo, testimoniano che essa si incrementa, progredisce dissipando alcune zone d'ombra o di problematicità; ma chi progredisce nella conoscenza evidentemente non sa tutto. C'è una disequazione radicale e ineliminabile tra la nostra coscienza finita e la coscienza infinita, che già Aristotele aveva scoperto, nella sua indagine razionale, e così aveva parlato di Dio come Pensiero di pensiero. Come rileva Severino in una pagina che appartiene alla fase precedente alla svolta neoparmenidea del suo pensiero, essere nel problema, come accade alla nostra coscienza finita, vuol dire «consapevolezza che a un asserto compete la possibilità di presentarsi come vero o come falso in un momento ulteriore rispetto all'attualità dell'originario; possibilità che la verità o la falsità convengano o all'asserto in parola o al suo contraddittorio. Nel problema si è cioè costretti a conferire egual valore ad asserti tra loro contraddittori, ossia ad asserti che non hanno lo stesso valore. E in ciò appunto consiste la contraddittorietà di ogni situazione problematica. In altri termini, in un problema autentico, degli asserti contraddittori non si sa quale sia quello vero e quello falso. Ma, necessariamente, uno dei due è quello vero, l'altro quello falso. Accade pertanto che, nel problema, il vero sia assunto come ciò che ha la possibilità di esser falso, e il falso come ciò che ha la possibilità di essere vero»7

Ma se noi siamo nel problema e, quindi, nella contraddizione, anche rispetto a verità che sono decisive per le scelte più importanti della nostra vita, innanzitutto bisogna riconoscere che, giacché in non poche situazioni non possiamo non scegliere, allora per lo più non possiamo non vivere nella fede nel senso di agire in base a delle certezze che non hanno l'evidenza veritativa. E questo riguarda tutti, anche il relativista, lo scettico e l'agnostico. Vivendo si fanno delle scelte, ponendo il valore e il disvalore e così queste ultime posizioni si rivelano invivibili nell'esistenza concreta e svaniscono. Perciò, se fede si intende nel senso lato appena indicato, dobbiamo riconoscere che «l'atteggiamento fideistico è ... l'atteggiamento «normale» dell'uomo; mentre l'atteggiamento veritativo ... è l'eccezione (sia dal punto di vista intersoggettivo, sia da punto di vista della mia coscienza)».8

Da ciò conviene realisticamente considerare un corollario notevole nell'odierno contesto culturale. Se ben si intende la condizione umana di finitezza, anche in campo conoscitivo, si hanno gli elementi per valutare criticamente un certo laicismo, che, pretendendo di essere il solo rischiarato dai lumi della ragione, assume un'aria di superiorità rispetto al credente, giudicando la fede «superata» e frutto di oscurantismo. In realtà, anche quando questo laicismo si basa sullo scientismo -- che presume di poter erigere la scienza ad unico tipo di sapere valido -, non riesce a nascondere che i progressi, cioè le stesse conquiste del sapere umano, testimoniano che l'uomo non sa tutto e che grande è l'ambito del non conosciuto, non riesce a nascondere che nessun esperimento scientifico, con il sapere che ne deriva, potrà mai dirci verso quali fini orientare la stessa ricerca e per quali obiettivi utilizzarne i risultati. La scienza sperimentale, in quanto tale, è carente di conoscenze etiche, le quali, pur decisive per l'uomo, e anche per l'uomo che fa scienza, esulano dall'ambito della sua ricerca. Sicché lo stesso laicista scientista in tante sue scelte non può non vivere nella fede (nel senso sopra indicato), a causa della finitezza del conoscere umano e, quindi, per questo aspetto, non può addurre alcun fondato motivo di superiorità, perché non si trova nella condizione di chi conosce rispetto ad altri che ignorano. Si tratterà, poi, di vedere e di valutare se, per es. le scelte sono ragionevoli o irragionevoli perché in contraddizione con le acquisizioni del sapere in campo etico, antropologico e metafisico (o ontologico). Anche per Tommaso la conoscenza è superiore alla fede: se avessimo piena conoscenza non ci sarebbe posto per la fede, tanto è vero che nella visione beatifica della vita futura, in cui l'umana conoscenza si realizzerà pienamente (senza le ombre e le oscurità dell'ignoranza, in virtù della visione di Dio nella sua essenza, cioè dell'Essere infinito che non lascia fuori di sé alcuna positività e perfezione), non ci sarà più la fede (cfr. S. th., I, q. 93, a. 8, ad 2): «Al sopraggiungere di ciò che è perfetto viene eliminato quanto di imperfetto ad esso si oppone: così la fede, che riguarda le realtà che non si vedono, al sopraggiungere della visione finisce» (S. th., I, q. 58, a. 7, ad 3). Anche per Tommaso conoscere è meglio che avere fede, ma nello stato della vita presente chi realisticamente -- senza immaginare un uomo inesistente -- può rivendicare il possesso di una conoscenza non manchevole, che non lascia spazio alla fede? Come si vede la pretesa dello scientismo laicistico si rivela infondata e svanisce.

Ma ciò non legittima qualsiasi atteggiamento fideistico, anche il più irrazionale, assurdo e disumano, di cui purtroppo non mancano esempi anche oggi, perché è legittimo dal punto di vista razionale solo aver fede in un contenuto non in sé contraddittorio e che non sia in contraddizione con le acquisizioni veritative a cui è pervenuta la ricerca.

Dunque, anche per la corretta indagine filosofica e veritativa sono di importanza decisiva quelle premesse razionali alla fede, che stiamo considerando. Ora, tra le diverse fedi, la fede cristiana è in piena coerenza con quelle premesse e, inoltre, promette all'uomo la liberazione dalla contraddizione, propria della condizione finita, in virtù della visio beatifica di Dio, fine ultimo dell'umana esistenza.

Proprio la ricerca razionale, in quanto veramente tale e cioè aperta al riconoscimento della verità, prendendo atto della propria condizione di problematicità e della piena manifestazione veritativa, a cui rinvia ed aspira, è disponibile all'ascolto di ciò che la trascende, come dice giustamente Pascal: «La ragione non si sottometterebbe mai, se non giudicasse che si danno casi in cui deve sottomettersi. È dunque giusto che essa si sottometta, quando giudica di doversi sottomettere».9 La «sottomissione», quindi, operata con discernimento, non è in contraddizione con l'esercizio della ragione, ma nasce proprio da un corretto uso di essa, perché «l'ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è un'infinità di cose che la sorpassano».10 La nostra condizione di problematicità ci fa rendere conto che c'è un'infinità di realtà che non conosciamo, che trascendono la nostra coscienza attuale.

È proprio questa la condizione della coscienza finita, che, come fa vedere la ricerca tommasiana, a partire dall'esperienza della realtà mondana, arriva a conoscere Dio, che è «lo stesso Essere per sé sussistente (Ipsum esse per se subsistens) per cui bisogna che contenga l'intera perfezione dell'essere» (S. th., I, q. 4, a. 2), che non è manchevole, non lascia fuori di sé alcuna positività: «siccome l'essere divino non è ricevuto in un soggetto, ma Dio stesso è il suo proprio essere sussistente, come si è sopra dimostrato, resta provato chiaramente che Dio è infinito e perfetto» (S. th., I, q. 7, a. 1). Egli è il «Principio di tutto l'essere», che è al di sopra di ogni specie, di ogni genere e di ogni definizione (cfr. S. th., I, q. 3, a. 5), cioè di ogni categoria umana e che, quindi, non può essere (de) limitato da nulla, essendo l'Infinito in senso proprio, per essentiam e non semplicemente secundum quid (Cfr. S. th., I, q. 7, a. 1 e a. 2). Perciò, in senso stretto e proprio, Dio non può essere compreso se «comprensione» è intesa nel senso che «qualcosa è racchiuso nel comprendente. In tal senso in nessun modo Dio viene compreso né dall'intelletto, né da qualsiasi altra realtà, perché, essendo infinito, da nessun finito può essere racchiuso, in modo che l'essere finito lo contenga proprio come infinitamente Egli è» (S. th., I, q. 12, a. 7, ad 1).

Dio è, dunque, al di sopra di ogni esistente, che riceve l'essere, perché Egli è l'essere; è al di sopra di ogni comprensione, ma «da ciò non segue che in nessun modo possa essere conosciuto, ma che supera ogni conoscenza: il che equivale a dire non può essere compreso, delimitato» (S. th., I, q. 12, a. 1, ad 3). Ma c'è un senso in cui «può esservi una proporzione della creatura nei confronti di Dio, in quanto essa sta a Lui come l'effetto rispetto alla causa e come la potenza rispetto all'atto. E in base a ciò l'intelletto creato può essere proporzionato a conoscere Dio» (S. th., I, q. 12, a. 1, ad 4). Infatti, «che Dio è, poiché non è immediatamente noto per noi, è dimostrabile per mezzo degli effetti a noi noti» (S. th., I, q. 2, a. 2). Dio è l'Essere per essenza, tutte le altre realtà sono per partecipazione (cfr. S. th., I, q. 4, a. 3, ad 3). Perciò noi possiamo conoscere Dio a partire dalle creature, che «sono effetti di Dio che non adeguano la potenza della loro causa»; Egli, infatti, «è la prima causa di tutto, che supera ogni realtà da Lui causata» (S. th., I, q. 12, a. 12). Sicché si conosce Dio a partire dagli effetti, ma la «somiglianza della creatura nei confronti di Dio» non è «per una comunanza nella forma secondo la stessa natura specifica o generica» (S. th., I, q. 4, a. 3, ad 3), ma per «una certa analogia», perché le realtà che sono create da Dio, somigliano a Lui in quanto sono enti, in quanto «l'essere è comune a tutte le realtà» (S. th., I, q. 4, a. 3)

Ma qui bisogna precisare che, contrariamente a quanto afferma Kant,11 non è Dio ad immagine delle nostre idee di perfezione, ma la creatura ha una certa somiglianza con Dio, in quanto, partecipando dell'esse, ne manifesta la potenza creatrice. «Benché si concede che la creatura in certo modo sia simile a Dio, tuttavia in nessun modo si può ammettere che Dio sia simile alla creatura; perché, come dice Dionigi (De div. nom., c. 9) nelle realtà che sono di un unico ordine si riscontra una reciproca similitudine, ma non nella causa e nel causato: diciamo infatti che l'immagine è simile all'uomo e non l'inverso. E similmente si può dire in un certo modo che la creatura è simile a Dio, non tuttavia che Dio è simile alla creatura» (S. th., I, q. 4, a. 3, ad 4). È importante considerare che Dio non è della stessa natura della creatura, come l'uomo che costruisce una casa non è certo della stessa natura della casa.

Questa essenziale differenza ontologica giustifica la distinzione, pienamente legittima sul piano razionale, tra conoscere Dio da parte della creatura razionale, cioè dell'uomo, e comprenderLo. Non c'è contraddizione tra il conoscere Dio e l'affermare che questo non può significare il comprenderLo, perché Egli trascende ogni nostra comprensione. La ragione umana, proprio conoscendo, a partire dal creato, Dio in alcune sue caratteristiche non secondarie, si rende conto che questa conoscenza non può essere esaustiva, non può essere un comprendere, un conoscere alla perfezione la divina essenza (cfr. S. th., I, q. 12, a. 7). Perché, attraverso l'itinerario speculativo percorso da Tommaso,12 la ragione arriva a capire che «la divina essenza è qualche cosa d'illimitato che contiene in sé in modo sovraeminente tutto ciò che può essere significato o inteso da un intelletto creato» (S. th., I, q. 12, a. 2). Ora, non è contraddittorio13 rendersi conto di questo, cioè che la verità nella sua totalità ci trascende; essa supera, come abbiamo visto, la condizione di finitezza della nostra coscienza attuale, per cui bisogna riconoscere la disequazione ineliminabile tra la nostra coscienza finita e quella infinita, onde noi uomini abbiamo una conoscenza finita dell'infinito. Non c'è contraddizione perché Tommaso non dice che Dio è conoscibile e, insieme, non conoscibile, oppure che Dio è compreso e, insieme, non compreso (asserti effettivamente contraddittori e da cui non si ricava alcuna informazione), ma che Dio è conosciuto, però non esaustivamente. Tra l'altro la nostra esperienza continuamente ci mostra che moltissime realtà mondane le conosciamo parzialmente, ma non certo esaustivamente. Tanto è vero che la conoscenza si incrementa.

Questa nostra conoscenza di Dio, che non è comprensione, non è, tuttavia, una mera conoscenza negativa, come vedremo, perché attraverso la metafisica della creazione, lo conosciamo positivamente come l'Ipsum esse per se subsistens e con alcuni altri nomi, che si possono riferire a Lui in modo proprio.

Tommaso non si contraddice14 anche perché non sostiene che la nostra conoscenza è bloccata al sensibile, come qualcuno vorrebbe fargli dire.15 Basterebbe un'attenta considerazione del testo già citato (S. th., I, q. 12, a. 12) per trovarvi un'evidente confutazione di questa interpretazione, che vuole vedere in esso solo l'affermazione dei limiti della ragione, quando, invece, dice chiaramente che il nostro sapere inizia dalla conoscenza sensibile, ma arriva a conoscere Dio. Se si vuole tener conto della natura della nostra ragione, non si può trascurare che essa è apertura all'universale come Tommaso chiarisce coerentemente nelle sue opere e nello sviluppo del suo pensiero, il quale -- se si vuol tener conto anche della letteratura critica, che ne documenta l'originalità -- non può essere inteso come una semplice riproposizione di tesi aristoteliche.

Infatti, precisa l'Aquinate: «mediante l'intelletto ci è connaturale conoscere nature [o essenze] le quali, veramente, non hanno l'essere che nella materia individuale; tuttavia non sono conosciute da noi in quanto esistenti nella materia, ma in quanto ne sono astratte dall'intelletto che le considera. Cosicché noi possiamo conoscere intellettualmente tali cose con una conoscenza universale: il che supera la capacità del senso» (S. th., I, q. 12, a. 4). Qui emerge come per intendere la gnoseologia bisogna coglierne gli stretti rapporti con l'antropologia, in cui i frutti originali della ricerca tommasiana scaturiscono dal dialogo critico non solo con Aristotele, ma anche con Agostino, Avicenna, Averroè, Bonaventura, ecc. .16 In quanto la nostra potenza intellettiva è facoltà di un'anima che non solo è forma del corpo, ma è forma sussistente, essa emerge rispetto alle condizioni della corporeità, non essendo un atto o una funzione di un organo corporeo. Perciò è capace dell'universale e dell'infinito: «Il fatto stesso che la capacità dell'intelletto si estende in qualche modo all'infinito deriva da questo, che l'intelletto è una forma non immersa nella materia, ma o totalmente separata, come sono le nature angeliche; o per lo meno è una facoltà intellettiva, che non è un atto di un organo corporeo, come nel caso dell'anima intellettiva congiunta al corpo» (S. th., I, q. 7, a. 2, ad 2). E questo è il caso dell'uomo, del quale Tommaso può dire, in piena coerenza con quanto abbiamo fin qui considerato: «Solo la creatura razionale è capace di Dio, perché essa sola può conoscerlo e amarlo esplicitamente» (QDV, q. 22, a. 2, ad 5; cfr. S. th., III, q. 6, a. 2).

Ora, però, conviene considerare più direttamente il fideismo, che nega i praeambula fidei, proprio in quanto ritiene che la ragione non possa arrivare alla verità, senza far ricorso alla fede.

Sul piano della prassi e delle scelte esistenziali ne consegue che esso implica una sorta di decisionismo basato sull'arbitrio soggettivo. Ora, questo decisionismo fideistico, proprio in quanto voluto intenzionalmente come privo di ragioni, rischia di ridurre la fede a un salto nel buio, sottomettendosi a qualsiasi idolo e negando le condizioni in base alle quali può dirsi un atto razionale e, quindi, umano. Non si deve trascurare che questo atteggiamento implica una tendenza a ridurre antropomorficamente, a misura d'uomo, o delle sue presunte esigenze, l'oggetto della fede, perché è antropocentrica la scelta, priva di qualsiasi base teoretica, che in realtà fonda il valore da accettare in quanto è essa, che lo costituisce come valore, ma, in tal modo, lo subordina al potere arbitrario del soggetto.

In simbiosi con l'agnosticismo teoretico la forma fideistica dell'accoglimento del kerigma induce a deformare lo stesso contenuto della fede. Infatti, parlando dal punto di vista dell'accettazione umana del contenuto di fede, bisogna dire che se quel contenuto è accolto in base ad un «vedere» che è bene, ragionevole e comunque non assurdo credere (valutazione che evidentemente è fatta in base alla visione della realtà che la ragione ha autonomamente acquisito), e cioè in base ad un'adesione alla realtà, in cui è implicita la disponibilità a riconoscere la dipendenza creaturale nell'adorazione del mistero che tutti ci trascende, allora è salvaguardata la possibilità di un'esperienza e, quindi, di una interpretazione autenticamente religiosa del kerigma. Se invece quell'accettazione è fatta in base ad un'opzione totalmente soggettiva (senza alcun riferimento teoretico alla realtà), o addirittura irrazionalistica, come qualcuno dice, allora evidentemente la scelta è fatta in base a emozioni, impulsi, sentimenti, interessi del soggetto, in funzione dei quali è visto inevitabilmente il contenuto della fede. Si tratta di una posizione strumentalizzante in cui il soggetto si fa centro di tutto e tutto pretende di subordinare a sé, al proprio accecamento egocentrico, falsificando il vero contenuto religioso del kerigma. Non si realizza ciò, infatti, quando si pretende di considerare Dio in funzione delle esigenze, soggettivamente intese, dell'uomo? Facciamo qualche esempio tratto dalla storia della filosofia.

Ci sono delle frasi di Wittgenstein che, prese a sé, non sono prive di ambiguità: «Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio... Pregare è pensare al senso della vita... . Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso»17 . Cosa vuol dire il filosofo austriaco? Che Dio proprio in quanto è riconosciuto come Dio, dà senso alla nostra vita, oppure che si riduce ad essere un nostro ideale, funzionale a dare un senso alla nostra esistenza? Forse un chiarimento si può avere se si tiene conto del sostanziale agnosticismo di Wittgenstein, che è il presupposto logico, funzionale all'interpretazione del fatto religioso in termini di presunto interesse soggettivo. Presunto, perché è assurdo pretendere di sapere che cosa interessa, che cosa è utile, senza sapere che cosa è vero e, quindi, bene. «Se qualcuno mi propone una teoria -- afferma Wittgenstein -, direi: «no, no questo non mi interessa». Anche se la teoria fosse vera, non mi interesserebbe -- non sarebbe ciò che io cerco».18

Da ciò l'interpretazione strumentalistica della religione: «l'essenza della religione evidentemente può non avere a che fare con il fatto che si parli, o piuttosto: se si parla è questo stesso una componente dell'atto religioso e non una teoria. E quindi non importa se le parole sono vere o false o insensate».19

Evidentemente l'agnosticismo teoretico, che qui è rifiuto esplicito della verità, è alla base di una scelta, più o meno arbitraria, che è analoga a quella del fideismo antimetafisico e in cui non c'è posto per il riconoscimento di Dio come Dio. Ma senza questo riconoscimento si perde la specificità irriducibile dell'esperienza religiosa che così viene ricondotta ad altri momenti dell'esperienza umana, come la superstizione, l'interesse utilitario, l'estetica, ecc.

Quell'agnosticismo, dunque, che voleva essere rifiuto della metafisica, in realtà prende una ben precisa posizione metafisica, risolvendosi in un radicale antropocentrismo. Questo esito è conseguito in modo scorretto, perché da un lato si sostiene di non sapere e di non poter dire niente di significante sulla realtà al di fuori del sapere delle scienze naturali, e dall'altro, invece, si pone, almeno implicitamente, l'uomo come l'assoluto. Di questo intreccio molto stretto tra il rifiuto della metafisica e l'antropolatria si era reso ben conto Feuerbach, la cui lettura potrebbe essere istruttiva per certi fideisti antimetafisici. Nella prima pagina dei Principi della filosofia dell'avvenire (1843), dopo aver detto che il compito dell'età moderna fu la dissoluzione della teologia nell'antropologia, Feuerbach aggiunge che questa «umanizzazione» si realizzò con il protestantesimo ed è per noi interessante (pur senza prendere qui posizione sulla validità o meno di questa interpretazione del protestantesimo) vedere perché: «Il protestantesimo non si preoccupa più, come fa invece il cattolicesimo, di ciò che Dio è in se stesso, ma di ciò che Dio è per gli uomini; non ha quindi più, come il cattolicesimo, una tendenza speculativa o contemplativa; non è più teologia -- è essenzialmente solo cristologia, cioè antropologia religiosa».20

Evidentemente la negazione della dimensione speculativa e contemplativa della fede comporta il rifiuto del suo contenuto veritativo,21 da cui consegue il piegare, il distorcere e deformare il kerigma in funzione di presunti interessi soggettivi e intersoggettivi. E ciò, osserva giustamente Feuerbach, è già antropocentrismo, che, portato alle sue estreme conseguenze, diventa antropolatria.

Ma, se non si può trascurare la dimensione veritativa e, quindi, metafisica del kerigma senza rinnegarlo, devo riconoscere che posso accogliere in modo pienamente umano la fede in quanto sono convinto di una visione della realtà che non sia in contraddizione, ma contenga i momenti essenziali della metafisica implicita nella fede, almeno per quegli aspetti che non sono inconoscibili dalla ragione umana. A chi, poi, volesse porre, rifacendosi ad una famosa e spesso male intesa espressione di Pascal, una alterità irriducibile tra il Dio dei filosofi (purché correttamente inteso) e il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, bisogna far notare che in realtà si tratta di diversi livelli di manifestazione all'uomo dello stesso Dio. Se, infatti, si volesse tener ferma l'alterità irriducibile si arriverebbe a sostenere un'evidente assurdità, e cioè che il Dio che si manifesta nella creazione non sarebbe lo stesso Dio che si rivela nella redenzione.

Inoltre, il fideismo, che tematizza il rifiuto della metafisica, reintroduce poi, senza giustificazione, una certa visione metafisica nell'ermeneutica del dato rivelato, con non lievi stravolgimenti del kerigma. Come avviene a Barth, il quale dice di rifiutare la metafisica, ma poi nega l'analogia entis in nome di una implicita metafisica dualistica. Questa precomprensione metafisica gioca un ruolo determinante nell'interpretazione barthiana dei testi biblici, fino ad essere responsabile di non poche «forzature» di essi. Un esempio emergente (e pertinente al nostro tema) di ciò può essere la «lettura» di un passo (I, 19-22) dell'Epistola ai Romani, in cui Paolo sostiene la conoscibilità di Dio a partire dalle cose create e Barth, invece, gli fa dire precisamente l'opposto.22

In quanto il fideismo insiste su una scelta senza alcuna motivazione razionale assume una posizione molto vicina alla teoria sartriana della scelta radicale. In quanto questa è una scelta senza ragioni,23 non implica affatto il riconoscimento -- che, anzi, esplicitamente rifiuta -- di valori (ciò significherebbe agire in base a delle giustificazioni razionali, che conducono a riconoscere ciò che è valido), ma, al contrario, pretende che la scelta in quanto tale crei i valori, o che il soggetto con la sua scelta crei i valori. In tal modo qualsiasi aberrazione, in quanto frutto di una scelta, sarebbe un valore, con la pretesa che tutto sia lecito. Per le difficoltà intrinseche alla posizione di Sartre e per una conseguente valutazione critica non posso, nei limiti di questo intervento, che rinviare a quanto ho scritto altrove,24 qui però interessa coglierne la lezione teoretica: la scelta senza ragioni implica il predominio dell'arbitrio del soggetto, che non riconosce alcun limite al suo intento disponente. In tal modo anche il fideismo è prigioniero della ragione soggettiva e strumentale, indagata dai Francofortesi nell'ambito della dialettica dell'illuminismo, che «... si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini; che conosce in quanto è in grado di manipolarli».25 Onde, in questa prospettiva, «la ragione ... è l'agente chimico che assorbe la sostanza specifica delle cose e la dissolve nella pura autonomia della ragione stessa».26

In tal modo la scelta radicale, o il fideismo immotivato, deciderebbe del valore e del senso di ciò che si sceglie. Ora, questo atteggiamento disponente del soggetto non è certo il più adatto per accogliere il kerigma, ma piuttosto per falsificarlo.

Ora, però, è opportuno tornare a Barth, che, pur avendo l'intenzione di fare un discorso altamente teologico, basato esclusivamente sulla rivelazione e purificato da ogni contaminazione mondana, per non aver considerato adeguatamente la reale condizione umana (che solo aporeticamente si può ritenere totalmente corrotta e priva delle sue peculiari potenzialità), arriva, sul nostro tema, a una posizione significativamente convergente con la filosofia molto mondana, chiusa ad ogni prospettiva trascendente, dello scientismo neopositivista. Conviene valutare queste prospettive convergenti, in modo da vedere se dal confronto con esse la ricerca filosofica tommasiana, fin qui proposta, ne risulti falsificata o corroborata.

2. La critica neopositivistica del discorso teologico e la crisi del principio di verificazione

È stato scritto che il «carattere peculiare dell'ateismo contemporaneo è di essere un ateismo semantico»27 ed in effetti nel nostro tempo si è arrivati a chiedersi se ha senso o no parlare di Dio ed a rispondere negativamente, almeno da parte dei neopositivisti. Ecco perché ogni discorso teologico non può rinunciare a fare i conti con l'obiezione neopositivista, che nasce dal così detto principio di verificazione e, se riguarda in primo luogo la teologia naturale o filosofica, frutto, cioè delle sole capacità naturali della ragione umana, tuttavia non risparmia nemmeno la teologia che nasce dalla Rivelazione e si sforza di comprenderla. A qualcuno può sembrare che quest'ultimo tipo di discorso teologico non sia toccato dall'obiezione di cui stiamo parlando, ma vedremo che non è così, esaminando il pensiero di Karl Barth.

Il principio di verificazione nega significanza ad asserti e parole che non abbiano riferimento a ciò che è empiricamente dato. Vediamo la formulazione che ne dà Carnap nella prima fase del suo pensiero: «Una proposizione vuol dire solo ciò che in essa è verificabile. Pertanto, una proposizione, ammesso che voglia dire qualcosa, può significare solo dei fatti empirici. Una cosa per principio posta al di là dell'esperibile non potrebbe essere né detta, né pensata, né indagata».28 Ciò evidentemente si basa, tra l'altro, sul presupposto che l'unico tipo di sapere valido sia quello che si realizza nelle scienze fisico-matematiche, al cui modo di verificare gli asserti e di accertare la significanza di un termine, si deve commisurare ogni discorso che pretenda di avere portata conoscitiva. Da questo riduttivismo scientistico deriva la pretesa di denunciare «... l'insensatezza di ogni conoscenza che presuma di cogliere qualcosa di trascendente l'esperienza».29 Così la parola 'Dio', in quanto con essa si intende designare qualcosa di extraempirico, sarebbe priva di significato. Non ci possiamo soffermare a lungo sull'esame delle insanabili aporie (per cui si è giunti a successive liberalizzazioni del linguaggio, eliminando ogni pretesa riduttivistica ed escludente), cui va incontro questo criterio neoempiristico di significato e sulle importanti conseguenze che dalla sua crisi bisogna trarre;30 conviene, però, non tralasciare alcuni punti essenziali.

In primo luogo, pur nascendo da pretese scientistiche, il principio di verificazione porta, come dice Popper, ad escludere «... dal dominio di ciò che ha significato tutte le teorie scientifiche (o 'leggi di natura'): esse infatti sono riducibili a resoconti osservativi non più delle cosiddette pseudoproposizioni metafisiche».31 Infatti «... tutte le teorie fisiche affermano molto più di quanto possiamo controllare».32

Questa prima difficoltà è certamente un inconveniente molto sgradevole per il neopositivista, ma non è così radicale come l'aporia che segue. Il principio di verificazione è esso stesso inverificabile -- giacché non si può certo verificare che 'solo le proposizioni che denotano fatti empirici sono significanti'- e quindi, proprio in base a quanto afferma, lo si deve ritenere insignificante.

Inoltre, affinché abbia senso la proposizione che nega la significanza di 'qualcosa di trascendente l'esperienza', bisogna che l'espressione 'qualcosa di trascendente l'esperienza'non sia priva di senso, altrimenti è priva di senso tutta la frase. Insomma il significato è un limite semantico, che però non può essere posto senza che, con ciò, esso venga oltrepassato e che sia presente e significante l'ulteriorità. La significanza dell'ulteriorità rispetto al dato empirico non si può negare, perché anche nel tentativo di fare ciò, le si conferisce significato, altrimenti la stessa negazione sarebbe senza senso.

Con ciò non si pretende di aver provato l'esistenza di realtà extraempiriche, ma solo di aver mostrato come non si possa restringere il significato all'empirico, né identificare l'esperibile con il conoscibile. Il pensiero umano trascende il dato e non bisogna confondere, come dice giustamente il Quine,33 significato con denotazione, né ritenere che un termine per essere significante debba essere necessariamente il nome di qualcosa che stia al di là di esso. Ma se non si può restringere la significanza e quindi la conoscibilità a ciò che è dato nell'esperienza, allora non si può escludere la possibilità dell'affermazione metempirica, perché tra l'empirico e il metempirico (tra cui c'è anche il significato, che abbiamo visto essere una realtà -- non è infatti nulla -, che non sempre, né necessariamente si riduce all'empirico) non c'è quell'abisso incolmabile che si pretende di scavare, quando vengono identificati rispettivamente con ciò che è conoscibile e con ciò che è inconoscibile. Infatti la realtà metempirica, nella misura in cui si riesce a provarne l'esistenza, non è totalmente diversa dalla realtà empirica, perché l'una e l'altra per quanto diverse, pur sempre sono. Sulla base di questo minimo di comune e di simile è possibile per il conoscere umano attingere sensatamente l'ulteriorità, anche se esso indubbiamente inizia dalle cose sensibili e ad esse si rivolge di consueto.

Secondo S. Tommaso "... demostrando Deum esse per effectum, accipere possumus pro medio quid significet hoc nomen Deus» (S. th., I, q. 2, a. 2, ad 2). Il significato della parola Dio emerge a partire dalla conoscenza delle cose sensibili, cioè da asserti determinati e controllabili empiricamente, anche se ciò non ci dà una conoscenza esaustiva dell'essenza divina. Ma qui importa sottolineare che questa conoscenza di Dio trascendente è possibile solo in quanto si scorge una certa somiglianza tra gli enti d'esperienza e Dio, non perché appartengono alla stessa specie o allo stesso genere, ma «... secundum aliqualem analogiam, sicut ipsum esse est cummune omnibus. Et hoc modo illa quae sunt a Deo, assimilantur ei in quantum sunt entia, ut primo ut universali principio totius esse» (S. th., I, q. 4, a. 3) Ogni realtà che è, proprio in virtù del fatto che è, ha una certa somiglianza con Dio, primo principio di tutto l'essere. Solo in quanto si scopre e si sostiene una certa analogia tra creatura e Creatore, si può dire coerentemente e sensatamente qualcosa di Dio, almeno da parte dell'intelletto umano che inizia, nel conoscere, dall'esperienza sensibile.

Si è certamente fuori strada se con ciò si crede che le nostre parole riescono ad esprimere pienamente l'Infinito insondabile ed inesauribile, o facendone un ente tra gli enti, o riducendolo a enfasi del mondo ed in ogni caso pretendendo di inquadrarLo, di imprigionarLo entro le nostre vedute finite ed i nostri limitati schemi categoriali. Un dio pienamente comprensibile e prevedibile dall'intelletto finito dell'uomo, non sarebbe Dio, perché non sarebbe l'infinito, ma solo un ente finito intramondano.

3. Il fideismo di K. Barth e la convergenza con i neopositivisti

Ma per evitare queste presunzioni, certamente non imputabili al discorso tomistico, non si può arrivare, come fa Barth, a parlare di Dio come "Totalmente Altro"34 rispetto ad ogni realtà mondana e ad ogni possibilità di conoscenza da parte dell'uomo. Se infatti si trattasse, come dice ancora Barth, di "... un Dio, che è del tutto diverso, del quale l'uomo, come uomo, non saprà e non avrà mai nulla... ",35 non si vede come potrebbe avere senso non solo il discorso teologico, ma anche una semplice affermazione di Lui.

Ha ragione Schlick nel dire, posto che si accetti la identificazione che egli sottintende -- e già sopra contestata -- tra verificabile empiricamente e conoscibile, che «chi crede che si diano significati non verificabili [...] deve comunque ammettere che, riguardo ad essi, non gli resta che un solo atteggiamento: il totale silenzio».36 Di ciò che si reputa inconoscibile non si può parlare senza autocontraddirsi, come accade a Kant quando afferma la cosa in sé.37 In effetti di fronte ad una posizione come quella di Barth il neopositivista gli può giustamente dire: tu parli di una realtà totalmente altra ed inconoscibile, ma allora io non capisco di che cosa parli, né che senso abbia il tuo discorso. Se invece di tacere si scrivono dei volumi di teologia, come ha fatto Barth, non si può sostenere la totale alterità ed inconoscibilità di Dio. Il «comprendere che non si può comprendere»,38 di cui parla Kierkegaard, è pur sempre una certa conoscenza; la conoscenza negativa implica necessariamente una certa nozione positiva. Se si afferma l'"infinita differenza qualitativamente" di Dio rispetto al mondo, cioè che Dio è altro dal mondo, non è il mondo, ciò implica che se ne sa qualcosa positivamente. Come rileva acutamente S. Tommaso, se «l'intelletto umano non conoscesse affermativamente qualcosa di Dio, non potrebbe negare qualcosa di Lui».39

L'obiezione non è marginale, né la si può ritenere frutto di scarsa comprensione del pensiero del teologo di Basilea, se lo stesso Barth ha ritenuto di doverla prendere in seria considerazione impegnandosi a darle una risposta con il sostenere che l'inconoscibilità di Dio non è affermata in base ad una conoscenza razionale, ma in base alla fede, come, secondo la sua interpretazione, avrebbe sostenuto S. Anselmo: «Come conosciamo l'incomprensibilità di Dio? Come possiamo sostenere che tutte le idee di Dio formulate dagli uomini sono inadeguate? Secondo Anselmo, certamente, come tutto ciò che noi sappiamo della natura di Dio, per la fede e nella fede ...».40

Solo la Rivelazione, accolta nella fede, secondo Barth, ci fa conoscere Dio, rendendo possibile il discorso teologico. Ciò che non può affatto raggiungere con le sue forze, l'uomo lo può accogliere come dono gratuito di Dio. Secondo Barth «... il dualismo disperato della intenzionalità teologica...» dovrebbe essere superato, come dice il Mancini, da «una intenzionalità cherigmatica in cui il movimento di Dio esegue quello che dal punto di vista umano è disperato e impossibile».41 Ma anche questa soluzione si rivela aporetica se viene introdotta pur continuando a sostenere, come fa Barth, la tesi della totale inconoscibilità naturale di Dio da parte dell'uomo. Infatti anche nella Dogmatica Barth riafferma che «... non si può affatto parlare di conformità tra la nostra parola, che designa sempre qualcosa di creato, e l'essere di Dio che è designato».42

È certamente accettabile, specialmente dal punto di vista tomistico, il dire che tutte le nostre idee sono "inadeguate" e che le nostre parole non sono conformi nei confronti della realtà di Dio e se Barth sostenesse solo questo non correrebbe il rischio di lasciare nell'insignificanza e nella contraddittorietà tutto il suo discorso teologico. Il fatto è che pretende anche che le nostre parole designino sempre e soltanto qualcosa di creato, per cui Dio sarebbe totalmente inconoscibile e non nominabile nel nostro linguaggio. L'idea che ci facciamo di Dio, dice ancora Barth nella Dogmatica, è un tentativo con cui "... si può raggiungere tutto tranne la realtà di questo essere oltremondano".43

Per motivi e preoccupazioni diverse Barth arriva alle stesse conclusioni dei neopositivisti44: il pensiero ed il discorso umano possono riguardare solo la realtà mondana, data nell'esperienza sensibile. Ma se fosse veramente così non si vede nemmeno come l'uomo possa capire la Rivelazione quando questa gli parla di Dio. Se fosse vero che il pensiero umano è costitutivamente limitato al finito, nemmeno la Rivelazione -- che si attua attraverso l'esistenza storica e la realtà umana del Cristo ed è consegnata a parole umane -- potrebbe fargli capire qualcosa dell'Infinito, a meno che non produca ed implichi un cambiamento della stessa nostra natura, ma questo forse nemmeno Barth lo vuole sostenere.

Dal suo punto di vista, quindi, non vedo che cosa si possa rispondere e come si possa superare l'ateismo semantico, che emerge dalla critica di Carnap, il quale afferma: «Ciò che per noi è incerto, può diventare più certo con l'aiuto di un altro; ma ciò che per noi è inconcepibile, senza senso, non può diventare affatto sensato con l'aiuto di un altro, per quanto egli ne possa sapere».45 Anche in questo caso Barth non ignora l'aporia, se si chiede: «Come va allora che il parlare umano diventa significante e capace di testimoniare. . .?» E risponde affidandosi alla speranza nella «possibilità che Dio stesso parli, dove si è parlato di lui».46 Ma si tratta di una speranza non molto fondata, giacché non si capisce come, nel discorso barthiano, si possa riconoscere questo parlare divino, distinguendolo dalle parole umane, attraverso le quali, pur sempre si dovrebbe realizzare ciò che d'altra parte è dichiarato impossibile e cioè la conoscenza del Dio vivente da parte dell'uomo.

Ma queste aporie, che nascono dal dualismo gnoseologico presupposto, ingiustificato ed autocontraddittorio, nonché dalla stessa natura del discorso, così arduo da consentirsi solo di balbettare, non ci devono far dimenticare, né impedire di condividere la fondamentale esigenza barthiana, che è quella di rifiutare radicalmente ogni pretesa del pensiero umano, filosofico o teologico, di ridurre il Dio vivente e infinito, a misura d'uomo, ad ente intramondano: «Chi è Dio stesso? Attenzione a non ricadere in una risposta che spiegherebbe che cosa noi riteniamo debba essere Dio e come Dio debba essere per soddisfare a tutti i postulati ed a tutte le idee relative al concetto di divinità!»47

4. Dio come essere infinito e il costitutivo trascendere della ragione umana secondo l'Aquinate

Questa fondamentale istanza barthiana non viene misconosciuta dal pensiero di Tommaso, che però non incorre nelle aporie suddette e riesce a superare le obiezioni di carattere semantico al discorso metafisico. Fin dalle prime questioni della Summa Tommaso rifiuta ogni tentativo di rinchiudere Dio entro le categorie umane ed ogni pretesa di comprensione esaustiva attraverso la definizione: «Deus non est in genere sicut species... neque est definitio ipsius; neque demostratio nisi per effectum...» (S. th., I, q. 3, a. 5). Non è possibile la dimostrazione in senso proprio, che rende manifesto pienamente l'oggetto dimostrato; è possibile solo un conoscere a partire dagli effetti, perché Dio è "Principium totius esse" (Ibid.) e perciò è al di là di ogni genere e di ogni definizione. Ma ciò non può significare la totale inconoscibilità di Dio, perché anche il parlare di inconoscibilità implica una qualche nozione di Lui.

Certo, di fronte a Dio la ragione umana è in una situazione unica, perché in genere conoscere, aver presente un significato vuol dire delimitare, sapendo discernere (come dice Kant48 parlando di «determinazione completa», quando affronta il tema cruciale dell'«ideale trascendentale») tutti quei predicati che a quel significato convengono e tutti quelli che non gli convengono. Ma in questo caso si trova di fronte al semantema assoluto -- che include ogni perfezione in grado eminente e anche gli opposti, senza che ne sia menomata la semplicità e, quindi, l'unità (S. th., I, q. 4 a. 2 e ad 1) -, a proposito del quale non si può parlare di delimitazione, ma, al contrario, della negazione di ogni limite. Si tratta di quell'unico significato, che, come tale appunto, è un limite semantico, ma che è significante proprio come l'illimitato. Di qui l'impossibilità, per l'intelletto umano di una vera comprensione, che però non è nemmeno totale ignoranza. Perciò si dice che Dio non ha nome e che è al di sopra di ogni denominazione, perché la sua essenza è al di sopra di ciò che di Lui conosciamo e significhiamo con le parole (S. th., I, q. 13 a. 1, ad 1). In questo caso la distinzione tra la realtà infinita di Dio "secundum se" e "quoad nos" (S. th., I, q. 86 a. 2) non è scorretta ed autocontraddittoria come l'affermazione kantiana della cosa in sé, perché questa è la presupposizione immediata di ciò che comunque si vuol tenter fermo come totalmente inconoscibile, mentre quella nasce dalla scoperta della essenziale disequazione tra l'intelletto finito e l'Oggetto infinito, che si manifesta sì come indelimitabile, ma non per questo assolutamente inconoscibile.

Comunque per Tommaso non abbiamo solo una nozione vuota e formale di Dio come infinito; possiamo, infatti, attribuire dei nomi a Dio, tenendo però presente che, poiché sono desunti dalle creature, risentono, in quanto si riferiscono ad esse, della finitezza che è loro propria. Perciò non si possono mai riferire univocamente alle creature e a Dio, ma non si può parlare nemmeno di pura e semplice equivocità, secondo le posizioni convergenti di Barth e dei neopositivisti, perché allora si andrebbe incontro alle aporie sopra esposte. Per S. Tommaso si deve parlare di analogia, perché le perfezioni e l'esse delle creature e le perfezioni e l'esse del Creatore non sono né identici, né totalmente diversi, perché in Dio "... preexistunt excellenter omnes rerum perfectiones" (S. th., I, q. 13 a. 5). Ora, l'analogia implica la nozione metafisica di partecipazione, ma nei limiti di questo studio, non ci possiamo soffermare su tale questione, pure essenziale, né sull'altro importante problema del valore delle prove dell'esistenza di Dio, poiché intendiamo semplicemente far vedere come nel pensiero di S. Tommaso la parola di Dio acquista significato ed esprime una conoscenza autentica per l'intelletto finito dell'uomo.

Ma, per tornare all'analogia metafisica, essa «va detta intrinseca... in quanto -- come dice il Fabro -- la perfezione creata, in questa sua derivazione totale, mantiene una 'certa' qual somiglianza con la perfezione fontale divina».49 Com'è possibile per il nostro intelletto finito cogliere le stesse perfezioni divine? I nomi che noi usiamo possono designarle? Scrive ancora il Fabro «... se in un primo momento noi comprendiamo le perfezioni divine secondo il modo in cui esse si presentano nelle creature, in un secondo tempo noi le possiamo elevare a prospettare la stessa perfezione pura e ci rendiamo conto che il modo proprio che alle medesime compete è quello che esse hanno in Dio al quale le creature si avvicinano secondo gradi di 'imitazione'più o meno perfetti».50 L'intelletto umano apprende le perfezioni nel modo con cui sono e si manifestano nelle creature e così le esprime attraverso dei nomi (S. th., I, q. 13 a. 3) e, tuttavia, è capace -- questo è il punto essenziale -- di distinguere tra il significato proprio della perfezione ed il modo limitato e imperfetto con cui si presenta nella creatura. Si tratta delle cosiddette perfezioni pure: "Quaedam vero nomina significant ipsas perfectiones absolute, absque hoc quod aliquis modus participandi claudatur in eorum significatione, ut ens, bonum, vivens, et huismodi: et talia proprie dicuntur de Deo" (S. th., q. 13 a. 3 ad 1). Queste perfezioni non limitate convengono più propriamente a Dio che alle creature ed in primo luogo si dicono di Lui.

Ciò è possibile in quanto la ragione umana non resta rinchiusa in significati limitati; nel momento stesso in cui coglie il limite lo supera, dischiudendo l'orizzonte della pienezza. In proposito è importante sottolineare la significativa riscoperta, di questa capacità di trascendenza della ragione umana, che recentemente hanno fatto sia i filosofi della Scuola di Francoforte che il neomarxista E. Bloch, in diretta polemica con le miopi preclusioni positivistiche. Tommaso ha ben presente questa costitutiva apertura dell'orizzonte dell'intero, propria della ragione umana, che perciò non intenziona solo significati limitati. A proposito della bontà per es., dice: "... si removeamus omnes rationes particulationis ab ipsa bonitate, remanebit in intellectu bonitas integra et plena quae est bonitas divina quae videtur in bonitate creata sicut exemplar in exemplato".51 Noi abbiamo rappresentazione solo di ciò che conosciamo con i sensi, ma, tuttavia, superando ogni limite delle perfezioni create, cogliamo dei nomi che «significano, sì, la sostanza divina e si attribuiscono all'essenza di Dio, ma che lo rappresentano in modo insufficiente» (S. th., I, q. 13 a. 2.). Da quanto fin qui detto dovrebbe essere chiaro perché, come dice giustamente Tommaso, il nome «Qui est, Colui che è», è quello massimamente proprio di Dio (S. th., I, q. 13 a. 11.). Perché i nomi, quanto meno sono limitati, tanto più si dicono propriamente di Dio che è lo stesso Infinito. L'esse o actus essendi, pur essendo conosciuto da noi in primo luogo a partire dalle cose sensibili, tuttavia non è di per sé limitato ad un particolare modo di essere e perciò significa il meno inadeguatamente possibile, l'infinito mare dell'essere: "... hoc nomen Qui est nullum modum essendi determinat [...] et ideo nominat ipsum pelagus substantiae infinitum" (Ibidem) .52

Copyright © 2009 Umberto Galeazzi

Umberto Galeazzi. «Sulla conoscenza di Dio in Tommaso d'Aquino. Praeambula fidei, critica del fideismo e dell'agnosticismo teoretico neopositivistico». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [83 KB].

Note

  1. In questa, come nelle successive citazioni, la sigla S. th. indica la Summa theologiae di Tommaso D'Aquino, testo latino dell'ed. leonina con trad. it. a fronte a cura dei Domenicani italiani, Edizioni Studio Domenicano, 35 voll., Bologna 1985. La sigla QDV indica: Le questioni disputate, voll. I, II, III, La verità, trad. it. a cura di R. Coggi e V. Benetollo, con testo latino a fronte dell'edizione leonina, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992-1993. Testo

  2. È notevole il fatto che W. Pannenberg, da teologo appartenente alla Riforma, andando controcorrente rispetto a gran parte della teologia protestante del Novecento, abbia rivalutato il ruolo della ragione nell'ambito della fede e della teologia cristiane. E ciò non solo negli scritti più recenti [Teologia e filosofia. Il loro rapporto alla luce della storia comune (Göttingen 1996), trad. it. a cura di G. Sansonetti, Queriniana, Brescia 2004²; Fine della metafisica? in AA. VV., La teologia filosofica oggi, Humanitas, maggio-giugno 2004], ma anche in opere precedenti come: Questioni fondamentali di teologia sistematica (Göttingen 1967), trad. it. di D. Pezzetta, Queriniana, Brescia 1975; Epistemologia e teologia (Frankfurt 1973). A. Marchesi dedica un ampio studio alle due opere più recenti di Pannenberg appena citate, giudicando «encomiabile la presentazione del rapporto filosofia-teologia» (Teoresi e storia nel divenire del pensiero filosofico, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, p. 149), che in esse si può trovare. Scrive, per esempio, Pannenberg: «Senza una conoscenza approfondita della filosofia non si può né intendere la dottrina cristiana come si è configurata storicamente né giungere a un giudizio personale meditato sulla sua pretesa di verità nel presente» (Teologia e filosofia..., cit., p. 7). Testo

  3. Cfr. E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo (Frankfurt a. Main 1968), trad. it. di F. Coppellotti, Milano 1972². Testo

  4. L. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, trad. it. Milano 1960, p. 236. Come spiegare, nella prospettiva di Feuerbach, che l'uomo, questo preteso assoluto, si sia ingannato lungo tutta la sua storia vivendo l'esperienza religiosa del timor Domini, che, come sottolinea Vico, è initium sapientiae, non solo della «sapienza volgare» dei popoli, ma anche della «sapienza riposta» dei filosofi? Questa aporia dovrebbe rendere un po' più cauto S. Landucci, che riconduce le argomentazioni razionali, in base alle quali molti filosofi, anche moderni, arrivano a riconoscere Dio, all'«artificialismo», considerato come «un residuo del pensiero primitivo» e «un tratto distintivo della mentalità infantile» (I filosofi e Dio, Laterza, Roma-Bari 2005, p. V). Dopo gli esiti disastrosi prodotti nel XX secolo dalla «mentalità adulta», radice delle ideologie miranti a realizzare l'umanesimo prometeico, sembra ragionevole, e anche razionale, nutrire qualche dubbio sulla superiorità di quella mentalità e sulla sua pretesa di squalificare come «infantile» ogni pensiero che non si conforma ad essa. Il secolo XX, diceva Augusto Del Noce (di cui si veda almeno Il problema dell'ateismo, Il Mulino, Bologna 1964, IV edizione, ivi 1990) è un secolo filosofico, perché in esso ci sono stati dei tentativi, di non poco rilievo e gravità, di realizzare dei progetti filosofici, con dei costi umani molto elevati. L'umana ricerca senza paraocchi deve sapere imparare da certi risultati. Testo

  5. Ibid., p. 126. Testo

  6. Per Kant ogni interesse della ragione si concentra nelle celeberrime tre domande: «1º Che cosa posso sapere? 2º Che cosa devo fare? 3º Che cosa posso sperare?» (I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riv. da V. Mathieu, Univ. Laterza , Bari 1966, p. 612). Heidegger, commentando Kant, sottolinea che quelle domande, proprio nel loro porsi, rivelano la radicale finitezza dell'uomo: «Nelle tre domande suddette si compendia il più intimo interesse della ragione umana. Sono in questione un potere, un dovere e un diritto della ragione umana. Allorché un potere è in questione e richiede la delimitazione delle proprie possibilità, vuol dire che è già in uno stato di impotenza. Un essere onnipotente non ha bisogno di chiedersi: che cosa posso? ossia: che cosa non posso? Non solo non ha bisogno di porsi questo interrogativo, ma non può in alcun caso porselo, per la sua stessa natura. Questo suo non-potere non è però una deficienza o "negazione". Chi invece chiede: che cosa posso? rivela con ciò una finitezza... Allorché un dovere è in questione, l'essere che si pone l'interrogativo oscilla fra un "sì" e un "no", è incalzato da ciò che non deve. Un essere profondamente interessato ad un dovere sa di trovarsi nello stato di chi "non ha ancora adempiuto", per cui deve chiedersi che cosa debba in generale. Questo "non ancora" di un adempimento, a sua volta indeterminato, è l'indice del fatto che un essere, il quale annette il suo più intimo interesse a un dovere, è, nel suo fondo, finito. Allorché un diritto è in questione, entra in gioco qualcosa che il richiedente può vedersi concedere o vietare. Ci si domanda che cosa si abbia diritto e che cosa non si abbia diritto di attendersi. Ma ogni attesa denuncia una privazione. E se tale indigenza trova incremento nell'interesse più intimo della ragione umana, quest'ultima dà prova di essere una ragione essenzialmente finita» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, trad. it. di M. E. Reina, Silva, Milano 1962, pp. 283-284. Corsivo mio). Testo

  7. E. Severino, Studi di filosofia della prassi, Vita e Pensiero, Milano 1962, p. 68. Testo

  8. Ibid., p. 66. Testo

  9. B. Pascal, Pensieri, opuscoli e lettere, trad. it. di A. Bausola e R. Tapella, con introd. di A. Bausola, Rusconi, Milano 1978, n. 270 (numerazione Brunschvicg). Significativo è anche quanto dice TH. W. Adorno in proposito: «L'unico vincolo legittimo che la filosofia potrebbe sopportare sarebbe quello che la subordinasse alla verità, e il dispiegamento di questo vincolo, di questo impegno nei confronti della verità, costituisce l'intero contenuto della filosofia» (Terminologia filosofica, trad. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, vol. 1°, p.123. Testo

  10. B. Pascal, Op. cit., n. 267. Testo

  11. Kant scrive: «Donde traiamo [...] il concetto di Dio come sommo bene? Unicamente dall'idea della perfezione morale, che la ragione disegna a priori, e che connette indissolubilmente con il concetto di volontà libera» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten in Kant, Gesammelte Schriften, hrsg. Preussischen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1902-1966, vol. IV, trad. it. a cura di V. Mathieu in Id., Fondazione della metafisica dei costumi e Critica della ragion pratica, Rusconi, Milano 1982, p. 99). Testo

  12. Si veda una sintesi efficace di questo itinerario in S. th., I, q. 12, a. 12: «La nostra conoscenza naturale trae origine dal senso: e quindi si estende fin dove può essere condotta come per mano dalle cose sensibili. Ora, mediante le cose sensibili il nostro intelletto non può giungere fino al punto di vedere l'essenza divina: perché le creature sensibili sono effetti di Dio che non adeguano la potenza della loro causa. Perciò mediante la cognizione delle cose sensibili non si può conoscere tutta la potenza di Dio e, di conseguenza, neppure la sua essenza. Ma siccome esse sono effetti dipendenti dalla loro causa, per mezzo di esse possiamo essere condotti a conoscere di Dio se esista; a conoscere altresì quello che a lui conviene necessariamente come a causa prima di tutte le cose, che supera tutti i suoi effetti. Quindi noi conosciamo di Dio la sua relazione con le creature, che cioè è la causa di tutte; e la differenza esistente tra esse e lui, che cioè egli non è [formalmente] niente di quanto è causato da lui; e che tali cose vanno escluse da lui non già perché egli sia mancante di qualche cosa, ma perché tutte le supera». Testo

  13. Come, invece, sostiene W. Pannenberg, pensando di interpretare e criticare Tommaso: «L'elevamento della natura della ragione mediante il concetto di sovrannatura, che, a sua volta, viene pensato dalla ragione ma il cui contenuto le viene sottratto, appare in sé contraddittorio» (Teologia e filosofia... cit., p.22). La contraddizione, invero, non sussiste, perché, come abbiamo visto e come vedremo nelle pagine che seguono, ugualmente da tenere presenti per intendere quanto stiamo sostenendo, Tommaso non sottrae alla ragione la realtà trascendente -- rispetto alla realtà creata -- di Dio, dopo averla affermata, anzi egli ritiene che possiamo averne una conoscenza positiva, non meramente negativa; ciò, però, non significa che possiamo conoscere l'essenza divina. Ma Pannenberg non può intendere questa precisa prospettiva teoretica, perché sembra identificare, dimenticando i testi tommasiani, conoscenza positiva con conoscenza «nella sua essenza» (ibid., p. 20). Questo inconveniente ed altri simili capitano perché, magari si considera, fraintendendola, solo qualche frase, avulsa dal contesto speculativo che solo le dà senso, proponendo in tal modo una critica un po' troppo frettolosa e sbrigativa che pensa di poter liquidare in meno di tre pagine un pensatore come Tommaso, che è un classico della filosofia e che ci ha lasciato più di 40 volumi. In realtà, così, la ricerca teologica si priva del contributo speculativo dell'Aquinate, presentando una carenza esiziale anche per una prospettiva che voglia dare risposta ai problemi contemporanei. Ma, se questo accade ad uno dei migliori teologi, come Pannenberg, che dire degli altri? Sembrano appropriate le parole della Fides et ratio: «Con la giusta preoccupazione di rendere il discorso teologico attuale e assimilabile per il contemporaneo, ci si avvale solo degli asserti e del gergo filosofico più recenti, trascurando le istanze critiche che, alla luce della tradizione, si dovrebbero eventualmente sollevare. Questa forma di modernismo, per il fatto di scambiare l'attualità per la verità, si rivela incapace di soddisfare le esigenze di verità a cui la teologia è chiamata a dare risposta» (Giovanni Paolo II, Fides et ratio. Lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione, Roma 1998, n. 87). Testo

  14. A. Bausola, dialogando criticamente con Pannenberg, di cui riconosce i meriti per quanto riguarda la sua rivendicazione della «essenzialità della filosofia per la comprensione della fede» (Studi sui rapporti tra filosofia e teologia, in «Rivista di filosofia neoscolastica», luglio-settembre 1999, p. 416), fa vedere lucidamente che «San Tommaso non si avvolge [...] in una prospettiva contraddittoria (come ritiene Pannenberg)» (ibid. p. 423). Testo

  15. Ancora Pannenberg scrive: «In Tommaso d'Aquino [...] l'accettazione della teoria della conoscenza aristotelica formava la base della sua rappresentazione della limitatezza della ragione umana a causa della sua natura stessa: solo sulla base di una teoria della conoscenza che limita la ragione all'elaborazione dei dati sensibili, emerge che la conoscenza di Dio supera per principio i limiti insiti nella natura della ragione» (Filosofia e teologia..., cit., p. 21). Testo

  16. Per una sintesi magistrale di questi temi contestualizzati storicamente e senza trascurare l'originalità speculativa tommasiana si veda: S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Laterza, Roma-Bari 1986³, in particolare pp. 82-108. Dove, tra l'altro, si sottolinea che: «Le facoltà di un soggetto, e quindi anche dell'uomo, sono espressione di ciò che definisce la sua essenza, ossia della sua forma sostanziale. Ora l'anima umana, che è forma del corpo, ha molte facoltà che operano solo nel corpo, mediante organi corporei , ma poiché non si esaurisce nel suo attuare la materia e costituire un corpo (non est forma in materia corporali immersa vel ab ea totaliter comprehensa, Summa, I, q. 76, art. 1, ad 4) può avere una facoltà, l'intelletto, con la quale opera indipendentemente dal corpo [...] L'uomo conosce per concetti universali, e questa è la caratteristica dell'intelletto, quella caratteristica che dimostra la superiorità dell'anima umana, il suo non essere totalmente coinvolta nel corpo» (p. 97 e p. 98). Testo

  17. L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, trad. it. di A. G. Conte, insieme al Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1974³, pp. 173-174. Testo

  18. L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica e la credenza religiosa, trad. it. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1976², p. 26. Corsivo dell'A. Testo

  19. Ibid., p. 27. Testo

  20. L. Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, trad. it. in Id., La filosofia dell'avvenire, a cura di C. Cesa, Laterza, Bari 1975, p. 93. Testo

  21. Merita di essere segnalato il libro di R. Di Ceglie, Religione e verità. Un'analisi filosofica tra cristianesimo e altre religioni, Esselibri, Napoli 2005, in cui l'Autore fa vedere «la crucialità che la questione della verità riveste» per la «comprensione» della fede cristiana e della religione in generale (p. 32), articolando efficacemente l'indagine sul tema proposto. Testo

  22. Cfr. K. Barth, Der Römerbrief, Bern 1819, II ed. riveduta, München 1922, trad. it. di quest'ultima ed., L'epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 21-24. Testo

  23. Scrive C. Taylor, proprio in riferimento a Sartre, che la scelta radicale «non si fonda su alcuna ragione. Infatti, nella misura in cui la scelta si fonda su ragioni, queste sono semplicemente assunte come valide e non sono a loro volta scelte. Se i nostri 'valori' devono essere compresi come scelti, allora devono basarsi in definitiva su una scelta radicale, nel senso inteso sopra» (What is Human Agency?, in T. Mischel (ed.), The Self, Blackwell, Oxford 1977, pp. 103-105, trad. it. di P. Costa, Che cos'è l'agire umano?, in Id., Etica e umanità, a cura di P. Costa, Vita e Pensiero Università, Milano 2004, p. 66). In questo saggio c'è una critica convincente della scelta radicale di Sartre. Testo

  24. Cfr. U. Galeazzi, Identità umana e libertà. Narrazioni rivali nella storia della filosofia, Milella, Lecce 2002, di cui si veda in particolare il cap. 10, intitolato: Libertà assoluta e rifiuto di ogni imperativo in J.P. Sartre. Testo

  25. M. Horkheimer -- TH. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Amsterdam 1947, trad. it. di L. Vinci, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 24. Per un'adeguata giustificazione dell'interpretazione -- qui accennata -- dei Francofortesi, attraverso un'indagine specifica sul loro pensiero, devo rinviare al mio libro: U. Galeazzi, La teoria critica della Scuola di Francoforte, Edizioni Scientifiche Italiane, Nopoli 2000. Testo

  26. Ibid., pp. 98-99. Testo

  27. P. Prini, Il ruolo della religione nell'età tecnologica, in «Ethica» XII (1973) n. 3, p. 162. Testo

  28. R. Carnap, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, in «Erkenntnis», 1932, II, pp. 219-241, trad. it. in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, Utet, Torino, 1969, p. 525. Testo

  29. Ibid., p. 526. Testo

  30. In proposito ritengo ancora valido quanto ho scritto nel saggio: U. Galeazzi, Riflessioni sulla crisi del principio di verificazione, in AA. VV., Atti del XXIV Congresso Nazionale di Filosofia, Società Filosofica Italiana, Roma 1974. Non sembra tener conto delle innegabili ragioni teoretiche, che generano la crisi del principio di verificazione, chi mostra di condividere la posizione di B. Russell, il quale considera «privo di senso» il discorso teologico (cfr. S. Landucci, op. cit., p. VI). Testo

  31. K.R. Popper, Conjectures and Refutations, London 1969, trad. it. di G. Pancaldi, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, p. 445. Testo

  32. Ibid., p. 453. Testo

  33. W.V.O. Quine, From a Logical Point of View, Cambridge, USA, II ed., 1961, trad. it. di E. Mistretta, Il problema del significato, Ubaldini, Roma, 1966, p. 10. Testo

  34. K. Barth, Der Römerbrief, cit., p. 12. Testo

  35. Ibid., p. 4. Testo

  36. M. Schlick, Positivismus und Realismus, in «Erkenntnis», 1932-33, III, pp. 1-31, trad. it. in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, cit., p. 282. Testo

  37. Per la contraddizione nell'affermazione della «cosa in sé» kantiana devo rinviare al mio citato libro La teoria critica della Scuola di Francoforte e precisamente al capitolo intitolato: Kant e Husserl nei primi lavori filosofici di Adorno. Testo

  38. S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, a cura di C. Fabro, vol. II, Bologna 1962, p. 25. Testo

  39. S. Tommaso d'Aquino, Quaestiones disputatae de potentia, q. VII, a. 5, in S. Thomae Aquinatis Opera omnia, curante R. Busa, Stuttgart-Bad Cannstatt 1980, vol. III. Testo

  40. K. Barth, Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes, Munchen 1931, trad. it. di V. Vinay in Id., Filosofia e Rivelazione, Milano 1965, p. 117. Testo

  41. I. Mancini, Filosofia della religione, Abete, Roma 1968, pp. 109-110. Testo

  42. K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik, I, I, München 1932, VI ed. Zürich 1952, trad. it. in Id., Antologia, a cura di E. Riverso, Milano 1964, p. 147. Testo

  43. Die Kirchliche..., cit., vol. III/3, Zürich 1948, trad. it. in K. Barth, Dogmatica ecclesiale, Antologia a cura di H. Hollwitzer, trad. it. di P. Pioppi, Bologna 1968, p. 25. Testo

  44. Le motivazioni e gli interessi sono certamente molto diversi in Barth e nei positivisti, ma si potrebbe far vedere che la radice teoretica non è molto dissimile, giacché l'uno e gli altri sono debitori nei confronti del pensiero kantiano, con il dualismo tra fenomeno e cosa in sé, che conduce all'impossibilità della metafisica. Barth che vuole eliminare ogni ricerca umana su Dio, per far posto alla Sua autorivelazione, non è esente dalla metafisica giacché nega l'analogia entis, in nome di una metafisica dualistica. Come rileva il Mancini (op. cit., p. 115, nota): «...è grande la responsabilità aporetica del dualismo metafisico, che nell'ordine genetico, si deve dire la prima e decisiva radice del barthismo». Poiché, come la stesso autore scrive in altra sede, «Tra le fonti barthiane, tutte di natura dualistica, vanno certamente annoverati anche "i metafisici" Platone e Kant» (I. Mancini, Il pensiero teologico di Barth nel suo sviluppo, introduzione a: K. Barth, Dogmatica ecclesiale, cit. p. XLIV). Testo

  45. R. Carnap, op. cit., p. 521. Testo

  46. K. Barth, Das Wort Gottes und die Theologie, München 1924, p. 214. Testo

  47. K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik, II/I trad. it. in Id., Dogmatica ecclesiale, cit. p. 28. Testo

  48. Cfr. Critica della ragion pura, cit., pp. 454-461. Testo

  49. C. Fabro, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d'Aquino, ed. francese Paris-Louvain 1960; ed. it. Torino 1960, p. 523. Testo

  50. Ibid. Testo

  51. Tommaso D'Aquino, In I Sent., 19, q. V a. 2, in Id., Opera omnia, cit., vol. I. Testo

  52. È difficile sopravvalutare l'importanza di questa ricerca sui nomi divini nell'ambito dell'intera prospettiva speculativa tommasiana e specificamente per il nostro tema. Pertanto questa indagine di Tommaso sui nomi divini corrobora sia l'interpretazione proposta in questo saggio, sia la critica all'interpretazione di Pannenberg. Testo

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