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Karl Barth e la riscoperta teologica della Trinità

di Andrea Aguti (Roma, 26-28 maggio 2011)

Fra i teologi evangelici del Novecento Karl Barth è colui che maggiormente ha operato una rivalutazione della dottrina della Trinità. Ne è prova soltanto il fatto che nella Kirchliche Dogmatik (1932 ss.) quest'ultima occupa l'intero secondo capitolo dei Prolegomena e dunque una posizione di assoluto e decisivo rilievo per la trattazione degli argomenti successivi.

Anche considerato l'argomento, articolerò questo intervento in tre parti: dapprima esporrò alcuni motivi che hanno spinto Barth, nel corso degli anni Venti del secolo scorso, a riscoprire la centralità della dottrina della Trinità per la teologia cristiana; quindi richiamerò alcune caratteristiche essenziali della dottrina della Trinità, da lui sviluppata proprio nei Prolegomena alla Kirchliche Dogmatik, che mi sembrano interessanti dal punto di vista da cui muovo, che non è quello del teologo, ma quello del filosofo della religione. Infine, mi soffermerò in conclusione su alcune questioni critiche che concernono nel suo complesso la dottrina barthiana della Trinità.

1. «L'insopprimibile soggettività di Dio»

Com'è noto, a partire dal 1922, con la chiamata alla facoltà di teologia di Göttingen, Barth si trovò nella condizione difficile di preparare un corso di dogmatica.1 La difficoltà di tale situazione, da lui rammentata con accenti talvolta drammatici nelle lettere all'amico E. Thurneysen, dipendeva molto semplicemente dal fatto che Barth era impreparato per un simile compito. Egli non aveva avuto, infatti, una formazione accademica in senso proprio, aveva svolto per molti anni il ruolo di pastore e soltanto grazie al successo della seconda edizione del Römerbrief (1922) e all'avvio del movimento della cosiddetta teologia dialettica, era approdato in accademia. Se si aggiunge che lo stile del Römerbrief, come Barth stesso notò, era più quello del profeta che del professore e che a Göttingen si trovò di fronte a personalità come E. Peterson e E. Hirsch che quanto a vastità di conoscenze ed erudizione gli erano infinitamente superiori,2 si può capire la difficoltà in cui egli venne a trovarsi. A. von Harnack, del resto, nel famoso carteggio con Barth nel 1923, aveva più volte messo l'accento sulla mancanza di scientificità della teologia della parola barthiana, sollevando addirittura l'accusa di voler trasformare «la cattedra teologica in un pulpito».3 Barth aveva respinto tale accusa, ma egli si trovava ora, seduto appunto su una cattedra universitaria, davanti all'enorme difficoltà di trasformare le negazioni del Römerbrief in altrettante affermazioni teologiche e dunque al compito di smentire con i fatti e non con le intenzioni l'accusa di von Harnack.

Il genio teologico di Barth si dimostrò, però, più forte delle difficoltà. Anzi, proprio gli anni passati a Göttingen furono quelli che gettarono le basi per l'elaborazione della monumentale Kirchliche Dogmatik; in essi, infatti, Barth non lavorò soltanto per acquisire quelle conoscenze storico-sistematiche di cui egli era carente, ma per sviluppare l'intuizione centrale del Römerbrief in un linguaggio teologico e non profetico o giornalistico. Furono appunto gli anni in cui Barth si accorse che la teologia poteva effettivamente essere, a certe condizioni, una «scienza» e anzi che proprio il suo carattere di scientificità costituiva il miglior antidoto contro quel processo di soggettivizzazione del sapere teologico che egli vedeva all'opera nella teologia protestante moderna.

Nel 1924, proprio nel periodo di elaborazione del corso di dogmatica, Barth scriveva all'amico Thurneysen di comprendere il problema della Trinità come quello «dell'insopprimibile soggettività di Dio nella sua rivelazione».4 Si tratta di una formulazione efficace che spiega in nuce il motivo fondamentale della centralità che la dottrina trinitaria assumerà in seguito nella Kirchliche Dogmatik. Qui all'esordio del § 8, trattando della posizione della dottrina della Trinità nella dogmatica, Barth afferma che la rivelazione testimoniata dalla Scrittura deve essere compresa nella sua assoluta singolarità, il che significa «a partire dal suo soggetto, da Dio», aggiungendo che, se così si fa, allora si deve comprendere che «questo suo soggetto, Dio, il rivelante, è identico con il suo fare nella rivelazione e anche con il suo effetto».5 La dottrina della Trinità risponde dunque alla triplice domanda: chi è Dio nella sua rivelazione, che cosa fa in essa, e quale effetto opera in essa. Più precisamente, per Barth la dottrina della Trinità esplica la testimonianza scritturistica per la quale Dio nella sua rivelazione rimane identico a se stesso. Questa idea è formulata efficacemente da Barth mediante l'affermazione che la rivelazione è una «ripetizione (Wiederholung) di Dio».6 A quest'idea si coniuga però l'altra, altrettanto basilare a livello scritturistico, che in questa ripetizione Dio è anche diverso o non-identico. Identità e diversità di Dio nella sua rivelazione sono appunto i due elementi attestati dalla Scrittura a partire dai quali Barth vede prender forma la dottrina della Trinità.

Che tale dottrina debba occupare il primo posto nella dogmatica è per Barth ovvio nel 1932. Se si vuole acquisire una conoscenza teologica su chi è il Dio cristiano, e questo è innanzitutto il ruolo della dogmatica, è evidente, secondo Barth, che occorre prendere la mosse dalla rivelazione di Dio e dunque dalla Trinità, non da una dottrina generale circa l'esistenza, la natura e le proprietà di Dio. Che nella storia della teologia (con le eccezioni menzionate da Barth di Pietro Lombardo e Bonaventura) si sia di solito percorsa la strada inversa è un fatto che non deve preoccupare, ma anzi rappresenta un ulteriore buon motivo per ricollocare la dottrina della Trinità nel posto che le spetta.

Prima di vedere quali conseguenze Barth tragga da questo assunto, è utile considerare i motivi che lo hanno portato a ritenere come ovvia una simile posizione. Per fare questo, però, dobbiamo considerare sinteticamente alcuni aspetti dello sviluppo della riflessione di Barth nel corso degli anni Venti.

Abitualmente si caratterizza la tesi fondamentale espressa da Barth nel Römerbrief come «teocentrica»; in effetti, qui Barth identificava il nocciolo dell'annuncio cristiano nella assoluta sovranità di Dio, una sovranità che non viene meno nell'atto della sua rivelazione e che per questo relativizza fino al limite della sua abolizione il movimento autonomo con cui l'uomo si eleva a Dio e che Barth chiama, comprensivamente, religione. L'antitesi tra fede e religione che costituisce uno degli aspetti di maggiore evidenza del commento barthiano, è in realtà l'antitesi tra il movimento autonomo di Dio che si rende manifesto nel mondo (segnatamente nella resurrezione dei morti di Cristo) senza perdere la propria natura di atto divino, e quindi risultando indisponibile all'uomo, e quello altrettanto autonomo dell'uomo che dalla bassura della proprio esperienza mondana aspira ad elevarsi al totalmente Altro. Poiché, secondo Barth, l'uomo non è capax infiniti, la religione risulta un fenomeno inautentico e passibile di critica proprio da un punto di vista teologico.

Questa tesi si presenta tuttavia combinata nel Römerbrief all'altra che vede proprio nella negazione della religione, assunta come il vertice della possibilità umane, il mezzo con cui l'uomo può effettivamente indirizzarsi verso Dio. Si tratta appunto di una dialettica in cui dalla negazione dell'uomo scaturisce l'affermazione di Dio, esattamente come, in senso inverso, dall'affermazione di Dio (cioè da Dio come soggetto dell'affermazione) scaturisce la negazione dell'uomo. Questa seconda tesi è quella che ha permesso ad alcuni critici di vedere presente nel Römerbrief una forma di esistenzialismo teologico che trova la sua fonte in Kierkegaard.7 Effettivamente questa tesi accomunava Barth agli altri esponenti della cosiddetta teologia dialettica, da Bultmann a Gogarten, da Brunner a Tillich i quali, in vario modo, anche nella loro riflessione successiva hanno mantenuto viva l'istanza di un'antropologia teologica che figuri come condizione di possibilità o come polo dialetticamente relato alla rivelazione divina.8 La riflessione di Barth negli anni Venti può essere vista come un processo di liberazione da questa seconda tesi e dunque, come egli ha del resto sempre affermato retrospettivamente, come un percorso teso a far valere in modo cristallino la prima tesi richiamata, quella calvinistica della assoluta sovranità di Dio. Nella seconda tesi si avvertiva infatti il peso della tradizione teologica da cui Barth intendeva prendere risolutamente le distanze, e cioè quella del protestantesimo moderno a partire da Schleiermacher in poi, ma che trova certamente un aggancio significativo anche in Lutero, per il quale Dio nella sua rivelazione è necessariamente correlato alla soggettività umana o ad un elemento di quest'ultima, si chiami esso «fede» o «sentimento» o «a priori religioso». Questo percorso, com'è noto, sembrò terminato a Barth soltanto intorno al 1930, e il libro su Anselmo del 1931 ne ha costituito per lui stesso la prova tangibile. Ma, in realtà, segni di questo approdo sono sparsi in po'tutti gli scritti di Barth dal 1924 in poi.

Ora, uno degli aspetti più significativi per quanto riguarda il nostro tema è che, proprio perché il protestantesimo moderno non offriva alcun aggancio per elaborare teologicamente la posizione ritenuta da Barth significativa, e anzi era da vedere come l'ostacolo maggiore da rimuovere, era evidente la necessità, dal punto di vista storico, di risalire più indietro per trovare spunti produttivi. I Riformatori, certamente, rimasero gli interlocutori principali, ma sulla scorta della manualistica dell'ortodossia vetero-protestante, e della mediazione critica spesso sottovalutata dagli studiosi di E. Peterson,9 Barth venne a contatto con la teologia medioevale e antica, riscoprendo dunque le fonti originarie del pensiero teologico cristiano. È in questo contesto che si colloca anche la riscoperta della dottrina della Trinità, una riscoperta che assieme ad altri elementi dottrinali che Barth richiama nel Vorwort ai Prolegomena della Kirchliche Dogmatik (come la nascita virginale di Gesù Cristo) doveva meritargli nell'ambiente a lui circostante la qualifica di «cripto-cattolico».10 L'attribuzione di una tale qualifica era del resto comprensibile. Indubbiamente la dottrina della Trinità figurava ancora all'inizio del Novecento come uno dei dogmi centrali nelle chiese protestanti, ma il suo processo di marginalizzazione teologica risaliva almeno all'epoca illuministica ed era conseguente al processo di deprivazione cognitiva e di riduzione in senso morale del messaggio cristiano che la moderna filosofia della religione aveva messo in atto. Kant, com'è noto, ne aveva sancito l'insignificanza pratica, anche se nella Religione nei limiti della semplice ragione (1794) non aveva rinunciato ad una sua interpretazione razionalistica come esemplificazione della triplice funzione di Dio come legislatore, governatore e giudice.11 La «semplificazione» del Vangelo proposta poi da A. von Harnack nell'Essenza del cristianesimo (1900) passava per una liberazione del kérygma cristiano dalle sovrastrutture della filosofia greca che vi erano addensate sopra nei primi secoli della chiesa cristiana e, proprio in questa prospettiva, la dottrina della Trinità appariva come uno dei teologumeni maggiormente debitori della ellenizzazione del cristianesimo. In generale essa, alla teologia protestante di inizio Novecento, segnata dallo storicismo e affascinata dall'ideale di un «cristianesimo adogmatico», faceva l'impressione di «mito» o di un enigmatico residuo della superstizione antico-medioevale. Un'impressione condivisa, peraltro, anche da alcuni dei compagni di cammino di Barth all'interno del movimento della teologia dialettica.

Considerato il contesto non favorevole, la riscoperta barthiana di questa dottrina assume un valore ancora più grande, perché sottolinea la sua libertà da pregiudizi teologici, il coraggio di sostenere una posizione cognitivamente «dissonante» rispetto al suo ambiente teologico, la consapevolezza della necessità di dare alla teologia protestante una dimensione autenticamente evangelica recuperando elementi della tradizione teologica cristiana meglio riflettuti e valorizzati dalla teologia cattolica. Il modo con cui Barth realizzò questa operazione era tuttavia funzionale allo scopo che abbiamo richiamato in precedenza, e cioè quello di garantire l'assoluta sovranità di Dio nella sua rivelazione storica. Nella lettera a Thurneysen citata poc'anzi Barth parla appunto di «insopprimibile soggettività», ovvero del fatto che la soggettività di Dio nella sua rivelazione storica non viene meno, ma è confermata. Naturalmente lo è in una forma diversa da quella eterna di Dio, per quanto internamente corrispondente a quest'ultima. Come per gli apologisti cristiani, anche per Barth la dottrina della Trinità costituisce innanzitutto una soluzione, se così si può dire, al problema del rapporto tra Dio e il mondo e più precisamente come superamento della falsa alternativa tra l'assoluta trascendenza di Dio al mondo e la sua assoluta immanenza. In questa alternativa Barth era ancora visibilmente preso nel Römerbrief, dove, come molti critici hanno osservato, il dualismo ontologico che qui egli sosteneva di principio era passibile di rovesciarsi nel suo contrario, in quello che E. Przywara chiamava il «teopanismo». La dottrina della Trinità gli forniva dunque lo strumento concettuale per superare quest'alternativa, proprio perché essa, come abbiamo già accennato, coglie, secondo Barth, una dialettica tra identità e diversità nella realtà divina e tra nascondimento e velamento nella sua manifestazione storica. Sul fatto che questa operazione ermeneutica sia del tutto riuscita a Barth si può ovviamente discutere, ma prima di farlo dobbiamo considerare alcune caratteristiche di essa.

Una di esse è che Barth non valorizzò soltanto il dogma trinitario antico, ma guardò anche alla modernità. Qui, come abbiamo detto, all'interno della teologia protestante il quadro si presentava piuttosto sconsolante, però con una notevole eccezione, quella di Hegel, il quale, com'è noto, è stato uno dei pochi nell'ambito della riflessione filosofica moderna segnata dal protestantesimo a valorizzare la dottrina della Trinità e anzi a integrarla nel suo sistema filosofico.12 L'intuizione di una possibile proficuità della filosofia hegeliana era del resto di vecchia data. In uno scritto della tardissima maturità Barth ricorda come, durante gli anni Dieci, l'amico E. Thurneysen, aveva proposto di intraprendere lo studio di Hegel, anche se poi, egli ricorda, «non se ne fece nulla».13 Nel volgere di alcuni anni l'intuizione fu però ripresa, se è vero che nella Christliche Dogmatik im Entwurf (1927), il primo abbozzo di dogmatica che rappresenta già un primo punto di approdo della riflessione barthiana degli anni Venti, Barth mostra considerazione non tanto per Hegel quanto per la teologia speculativa che da lui ha preso le mosse e in particolare per il teologo hegeliano Ph. K. Marheineke e la sua opera Die Grundlehren der christlichen Dogmatik als Wissenschaft (1827). Trattando del rapporto tra parola di Dio e fede, egli in un passo si riferisce proprio a quest'opera scrivendo che «si tratta che lo spirito obbedisca e si rimetta allo Spirito divino che si mostra come soggetto», e aggiungendo poi, con una citazione diretta, che «la parola di Dio è appunto 'la posizione di Dio nella ragione'».14 Come si vede, torna l'idea della soggettività divina che con la sua parola si rende presente all'uomo e nell'uomo, un'idea che è appunto hegeliana nella misura in cui Dio è pensato non come sostanza astrattamente separata dall'uomo, ma come Spirito che si manifesta allo spirito umano. Il merito hegeliano è a questo riguardo innegabile per Barth: «Non si può certo negare che gli hegeliani, pur in tutta l'ambiguità che circonda anche loro su questo punto, proprio qui abbiano visto decisamente meglio di Schleiermacher e dei suoi. Noi conosciamo la parola di Dio non mediante noi stessi e in noi stessi, ma noi la conosciamo mediante Dio e in Dio».15

In un ulteriore passo riconosce ad un altro teologo in cui l'influenza di Hegel è forte, I. A. Dorner, e alla sua opera System der Christlichen Glaubenslehre (1879), il merito di aver riconosciuto che la «comprensione e la cura del concetto trinitario di Dio», che la teologia protestante moderna non ha avuto, avrebbero preservato all'intraprendere la «via che dal pietismo e dal razionalismo porta a Schleiermacher», la quale non priva la fede soltanto delle opere «ma anche del [suo] oggetto».16 Proprio la dottrina trinitaria sarebbe sotto questo profilo la migliore garanzia del principio protestante del «sola fide», poiché lega la fede alla rivelazione e fa di essa non «un secondo elemento (Zweites) accanto a Dio», «bensì un secondo elemento in Dio stesso».17 Il capitolo che Barth dedica a Hegel nella Storia della teologia protestante nel XIX secolo, a cui egli iniziò a lavorare nei primi anni Trenta, conferma del resto questa prospettiva. Pur mettendo in rilievo tutta l'ambiguità della sua interpretazione del cristianesimo, Barth rende onore alla filosofia hegeliana vedendo in essa, paradossalmente, il punto di partenza metodologico corretto per la teologia, cioè per una teologia che sappia oltrepassare il «cartesianesimo teologico» e quindi l'abisso scavato tra la realtà di Dio e la coscienza che l'uomo ha di essa, o l'identificazione tra la realtà di Dio e la coscienza dell'uomo su cui fa leva la critica della religione feuerbachiana. A questa valorizzazione di Hegel, certamente prudente e non scevra da obiezioni di fondo,18 si collega del resto, sempre nella Storia della teologia protestante nel XIX secolo, la critica di Barth al suo antagonista principale, ovvero Schleiermacher. Nel capitolo a lui dedicato, l'obiezione fondamentale avanzata da Barth riguarda la questione cristologica e si esprime nell'opzione irrisolta, ma ugualmente catastrofica, fra una rinuncia alla divinità di Cristo o una sua relativizzazione a motivo della necessaria correlazione al sentimento religioso. In ogni caso, secondo Barth, non si può affermare che in Schleiermacher «si dia un significato eterno di Cristo», e quindi «una assolutezza del cristianesimo [...].19

Comunque la si considerasse, dal punto di vista dogmatico la resa dei conti con il neo-protestantesimo conduceva dunque inevitabilmente verso una riflessione sulla dottrina trinitaria e questa è appunto quello che Barth fa nei Prolegomena alla Kirchliche Dogmatik.

2. Radice e senso della dottrina trinitaria

Menzionati sinteticamente i motivi che hanno portato Barth nel corso degli Venti a riscoprire la dottrina della Trinità, vediamo altrettanto brevemente quale forma assume questa riscoperta nella Kirchliche Dogmatik. Il punto di partenza di Barth è dato da da quella che lui chiama «la radice della dottrina trinitaria». Essa si trova nell'identità tra la rivelazione di Dio, la sua parola, e Dio stesso. Questa identità immediata di Dio con se stesso dice appunto dell'assoluta sovranità di Dio nella sua rivelazione e del fatto che la sua sovranità è sinonimo di libertà o come dice Barth di «autonomia ontica e noetica».20 In sostanza, Dio viene incontro all'uomo come Signore e cioè in modo assolutamente libero da ogni condizione, tanto che l'accettazione della rivelazione di Dio non trova altro fondamento che nella rivelazione stessa. Barth non esita in questo contesto a riprendere formule che aveva usato anche nel nel Römerbrief, affermando, con riferimento all'episodio della Pentecoste, che «la rivelazione cade verticalmente dal cielo»,21 e dunque coglie l'uomo nella contingenza di essere storico senza essere deducibile a partire da un dato non-storico.

Ebbene, la dottrina trinitaria che la chiesa ha elaborato è la testimonianza o il «documento», come dice Barth, della sua conoscenza di Dio come Signore che essa trova nella testimonianza biblica. Essa è dunque un'interpretazione della natura del Dio cristiano, che non si limita a ripetere ciò che trova nella Scrittura, ma si serve di altri concetti al fine di «tradurre» e «fare l'esegesi» di quel contenuto. Come Barth afferma, «che essa lavori con certi filosofumeni provenienti dall'antichità pagana, lo sanno [anche] i bambini»;22 ciò nondimeno non è questo un buon motivo per dichiarare il suo carattere non-biblico e su questa base la sua illegittimità in ambito teologico. Al contrario, il dogma della Trinità, come altri dogmi centrali del cristianesimo che sono «prefigurati» nella Scrittura ma che non si trovano formalmente espressi in essa, è da intendere come «una necessaria e appropriata analisi della rivelazione» e come una «adeguata interpretazione della Bibbia».23 La dottrina trinitaria ha quindi come unico fondamento possibile la rivelazione di Dio, pur essendo al tempo stesso il legittimo strumento interpretativo della rivelazione.

Ma in che modo avviene ciò? All'inizio del nostro saggio menzionavamo il fatto che Barth nella rivelazione distingue il soggetto, il predicato e l'oggetto, ovvero colui che si rivela, l'atto della rivelazione e l'essere rivelato o ancora meglio, visto che questa terminologia non è del tutto chiara, distingue un soggetto che agisce, il contenuto dell'azione e l'effetto di quest'ultima. Il secondo momento è quello centrale, in quanto esplica il concetto di stesso di rivelazione: quest'ultima, infatti, è un auto-svelamento (Selbstenthüllung) di Dio che si produce mediante un modo d'essere (Seinsweise) che lo rende visibile all'uomo e che è diverso da quello di Dio in sé, inaccessibile per l'uomo, eppure che è ancora una volta Dio. Tale modo d'essere, ovvero la forma assunta da Dio nella rivelazione, non costituisce una terza grandezza tra Dio e l'uomo e nemmeno una realtà subordinata a Dio, ma appunto Dio stesso. La sovranità di Dio si dimostra dunque nella sua libertà di distinguersi da se stesso, divenendo diverso da sé, senza però cessare di essere Dio. Nella terminologia tradizionale, Dio Padre si rivela come il Figlio. Questa rivelazione è però sempre anche un mistero, proprio a motivo del fatto che Dio Padre è «il libero fondamento e la libera forza della sua divinità nel Figlio».24 La rivelazione di Dio non è quindi una manifestazione nel senso dell'esaurimento del mistero divino, bensì è la sua conferma. La dialettica di svelamento e di velamento che ha luogo nella rivelazione di Dio non si risolve così, osserva Barth,25 come avviene in Hegel, mediante il suo superamento in una terza grandezza, bensì rimane un elemento costitutivo di essa: «Poiché vi è un velamento di Dio, può esservi uno svelamento, e soltanto nella misura in cui vi è velamento e svelamento, può esservi un'auto-comunicazione di Dio».26

Questa osservazione diviene particolarmente significativa se ora ci chiediamo, con Barth, a che cosa miri la rivelazione di Dio e dunque qual sia l'effetto che essa produce. Per mezzo della rivelazione Dio vuole farsi conoscere all'uomo e instaurare una relazione con lui. Questa intenzione è appunto realizzata da Dio in quanto Spirito, cioè nell'auto-dischiusura di Dio all'uomo in cui egli si presenta a quest'ultimo nella sua unità di Padre e di Figlio. È quindi grazie allo Spirito che si realizza un «effettivo incontro»27 tra Dio e l'uomo, ma ancora una volta in questo atto non si ha una commistione tra l'elemento divino e quello umano, bensì l'attestazione dell'assoluta sovranità divina. È per questo motivo che Barth rifiuta, pur con qualche titubanza, una plausibilità alla dottrina agostiniana dei vestigia trinitatis, cogliendo in essa un esempio di quel tentativo per lui tipico della teologia cattolica, ma anche del neoprotestantesimo, di risalire da una realtà creaturale a Dio e dunque come caso concreto di una Denkform generale indicata, qui come in altri contesti, con il concetto di analogia entis. Un tale concezione metterebbe a rischio, secondo Barth, la radice unitaria della dottrina trinitaria, che, come si è detto, può trovarsi unicamente nella rivelazione, per affiancare ad essa una diversa radice che affonda sul terreno della natura, della storia, della religione, e soprattutto, secondo una linea che si dipana da Agostino fino all'idealismo di Schelling e Hegel, delle facoltà spirituali umane.28

Detto ciò veniamo ad ulteriori elementi della dottrina barthiana della Trinità. Uno particolarmente importante riguarda l'uso del termine «persona» per indicare l'articolazione immanente ed economica dell'essenza divina. Barth usa il termine «personalità» (Persönlichkeit) per indicare l'unica essenza divina, preferendolo appunto a quelli antichi di deitas o di essentia divina a motivo dell'impressione che questi ultimi suscitano di concepire Dio come un Es, come un qualcosa anziché come un qualcuno. Si tratta di un termine, nota Barth, che «è il prodotto della lotta contro il naturalismo e il panteismo moderni».29 Ma tale termine, se può essere impiegato per definire l'essenza divina, non lo può essere per indicare le forme d'essere divine, poiché esso indica una soggettività autocosciente e quindi distruggerebbe l'unità di Dio che è un corollario della sua sovranità. I tentativi in questo senso di teologi moderni come A. Günther e R. Grützmacher lo dimostrano secondo Barth a sufficienza. Proprio per evitare il rischio di confondere il termine «personalità» con quello di «persona», secondo Barth, è utile preferire all'ultimo quello di «modo d'essere» (Seinsweise). Nonostante l'uso consolidato nella tradizione teologica del termine «persona», infatti, le perplessità a suo riguardo non sono mai venute meno, e come Barth ricorda, già Agostino le ha espresse con chiarezza legittimandone l'uso soltanto per la mancanza di qualcosa di meglio (De trin. V 9, VII 4). La ripresa di questo termine da parte della teologia medioevale, di Tommaso d'Aquino in particolare, non avrebbe poi contribuito a chiarire i dubbi sul fatto che il suo uso non introduca nell'unità divina una pluralità di sostanze o una ripartizione dell'unica sostanza divina e anzi è semmai da apprezzare la distanza che Tommaso ha sottolineato tra il significato che il termine persona assume nel suo uso generico e quello riferito a Dio (S. th. q. 29, art. 4).

Qual è il vantaggio di questa variazione terminologica? Esso riporta alla luce il senso di termini usati dalla chiesa antica, come quello di ipostasi, che nota Barth, significa subsistentia e non substantia, cioè significa «modo d'esistere di un ente»,30 ma anche di definizioni come quella di Tommaso che parla delle persone divine come «res subsistentes in natura divina» (S. th. q. 30, art. 1), di Calvino che definisce la persona come «subsistentia in Dei essentia» (Instit. I, 13, 6) o ancora di teologi cattolici moderni come M. Scheeben o Bartmann che parlano delle persone divine come diverse forme di possesso della sostanza divina. Il vantaggio è dunque quello di esprimere in modo più chiaro l'inseparabilità delle persone divine dalla natura divina e dunque la sua unità. Il rischio relativo dell'accentuazione dell'unità divina a discapito della sua diversità è evitabile, secondo Barth, aggiungendo al termine Seinsweise l'aggettivo eigentümliche, proprio, peculiare, a rinforzo appunto della differenza interna all'unità. Tenuto conto di questo, la differenza dei tre modi d'essere divini è dunque comprensibile a partire dalle relazioni originarie o genetiche che caratterizzano l'unità divina. Intendere le «persone» divine come «modi d'essere» e quindi come relazioni originarie dell'unità divina permette di rendere meglio ragione della reciproca inerenza di esse, per come è formulata dalla dottrina della pericoresi, che Barth approva incondizionatamente.

Giunti a questo punto, per chiarire la natura delle relazioni intra-divine, anche Barth sente il bisogno di usare delle immagini: così, come Padre Dio è il donatore, come Figlio colui che riceve e donatore a sua volta, come Spirito colui che riceve in forma pura, o ancora è Inizio, Centro e Fine, oppure il parlante, la parola e il senso. Ma queste immagini sono ben lungi dall'illustrare il mistero dell'unità divina che è trina sicché, come egli affretta a dire, questi tentativi non sono altro che espressioni di quella «premura razionale per il mistero»31 in cui consiste la teologia e che ha come scopo proprio quello di rendere visibile e comprendere il mistero come mistero. Tale mistero si radica ancora una volta nel fatto che per quanto Dio manifesti nella sua rivelazione la propria essenza e dunque non sia possibile contrapporre astrattamente ad un Dio per noi un Dio in sé, tuttavia egli rimane libero nella sua rivelazione: «Dio si dà all'uomo interamente nella sua rivelazione. Ma non come se potesse essere catturato dall'uomo. Egli, agendo, dandosi, rimane libero».32

Qual è dunque conclusivamente, per Barth, il senso della dottrina trinitaria? Come abbiamo visto, essa risponde alla domanda sul soggetto della rivelazione, ovvero alla domanda su chi sia il Dio che si rivela all'uomo. Ma a questa domanda la dottrina trinitaria risponde soltanto a partire dalla rivelazione stessa di Dio, sicché essa, come afferma Barth, «è un cerchio chiuso in sé».33 La conseguenza è che non esiste una frattura tra la Trinità immanente e quella economica, poiché «la rivelazione ha un contenuto eterno e una validità eterna».34 Qual è la sua funzione? Quella di respingere concezioni come il subordinazionismo da una parte e il modalismo dall'altra, cioè l'idea di una disparità di grado e valore tra i modi d'essere divini e quella di una estraneità dell'economia divina a Dio stesso, che periodicamente emergono nella storia della teologia e della chiesa, e in positivo di affermare che il Dio che si rivela all'uomo, che con lui si riconcilia e che lo redime, è lo stesso Dio che lo ha creato.

3. Questioni critiche aperte

Per non smarrirmi nella serie di complesse questioni critiche che attengono al tema trattato mi limito a sfiorarne soltanto due e, almeno per quanto riguarda la prima, seguo la via tracciata in alcuni scritti da W. Pannenberg.35 La prima questione riguarda il debito barthiano nei confronti della concezione hegeliana della Trinità. Secondo Pannenberg questo debito è evidente e deve essere giudicato secondo una duplice prospettiva: da una parte esso è inevitabile nella misura in cui, dopo la marginalizzazione subita agli inizi dell'epoca moderna, è soltanto con Hegel che giunge a piena espressione la riscoperta della Trinità a partire dal concetto di Spirito che ha le sue prime avvisaglie in Lessing. È quest'ultimo infatti che ha suggerito, peraltro riprendendo temi agostiniani, che Dio deve avere «la più completa rappresentazione di se stesso»,36 ma poiché questa rappresentazione deve essere perfetta come è perfetto Dio, allora essa non può che esistere realmente. Questa rappresentazione è appunto il Figlio, che è tutt'uno con il Padre. Il modello trinitario hegeliano, che sviluppa compiutamente questa intuizione, e la sua ricezione teologica, costituivano dunque per Barth un termine di confronto ineludibile. D'altra parte, se si segue questo modello trinitario, cioè quello dell'auto-differenziazione dello Spirito divino nella coscienza di sé, l'esito è che «si tende a superare [...] la Trinità delle persone nell'idea di un unico Dio personale».37 Derivando le distinzioni trinitarie dal concetto di Dio unico si rischia di arrivare, in altri termini, al sabellianesimo, e dunque ad un monoteismo indifferenziato, poiché le differenziazioni di Dio non presentano una loro reale soggettività. Questa accusa tocca sicuramente Hegel, ma tocca anche Barth? Secondo Pannenberg sì. Per quanto Barth appoggi l'idea di un'auto-differenziazione di Dio a dati biblici e la legga attraverso il concetto di rivelazione di Dio in Gesù Cristo, il modello concettuale di riferimento rimarrebbe quello hegeliano. Per questo, la presa di distanza di Barth dal modello di fondazione della Trinità che da Agostino, passando per Anselmo, conduce appunto a Hegel sarebbe soltanto verbale. Nella sostanza «anche Barth faceva di fatto ricorso a questa forma di pensiero».38 La scelta di tradurre il termine «persona» con «modo d'essere» confermerebbe poi questa tesi in modo lampante.

Questa critica suppone, com'è evidente, una diversa motivazione della dottrina trinitaria, che fa leva sul «modo in cui Padre, Figlio e Spirito si manifestano e si rapportano fra loro nell'avvenimento rivelativo».39 Pannenberg, in sostanza, concepisce l'unità di Dio non come il punto di partenza della differenziazione trinitaria, ma come il risultato o il punto di arrivo dei tre modi di essere. Per questo essi dovrebbero essere intesi come «attuazioni vitali di centri autonomi di attività».40 Per discutere a fondo la pertinenza dell'obiezione a Barth dovrei dunque discutere la validità del diverso modello proposto, il che esula dalle mie possibilità. Molto banalmente mi limito a dire che se il modello trinitario barthiano è a rischio di modalismo, quello proposto da Pannenberg potrebbe esserlo di triteismo. A ciò si aggiunge il fatto che la raffigurazione, da lui proposta, dell'unità divina come un campo di forze dinamico esprimentesi nelle persone divine non è del tutto persuasiva e manifesta anch'essa una precisa precomprensione che è quella della fisica moderna.41 Certo è che Barth ha preso nettamente le distanze dal modalismo, vedendo un esso proprio l'introduzione di un concetto indifferenziato di Dio, rispetto al quale le persone della Trinità sono semplici «forme apparenti (Erscheinungsformen) »,42 e di una separazione tra l'essere immanente di Dio e quello economico che rende Dio fondamentalmente estraneo alla sua rivelazione storica.43 Si tratta della conseguenza a cui Barth, come abbiamo visto, maggiormente si oppone e che anzi imputa a Schleiermacher e ai suoi seguaci.44 Se questa presa di distanza sia però sufficiente a respingere il rilievo critico di Pannenberg non sono in grado di dirlo. A me sembra che Barth s'inserisca a pieno titolo all'interno del modello trinitario elaborato dalla teologia latina (Agostino e Tommaso, in particolare) e che condivida con quest'ultimo certamente il rischio di un'accentuazione dell'unità divina a scapito della diversità delle persone. Si può prendere legittimamente le distanze da un simile modello, ma, come abbiamo detto, se lo si fa, occorre stare attenti a non incorrere nel rischio opposto. L'utilizzo poi di una terminologia hegeliana da parte di Barth non deve essere criticamente sopravvalutato, tenuto conto del fatto che egli ha sempre manifestato un atteggiamento «strumentale» nei confronti della filosofia, guardandosi bene dall'aderire di principio a questa o quella impostazione filosofica.45

La seconda questione critica a cui vorrei semplicemente accennare, perché anche questa assai complessa, riguarda il significato antropologico della dottrina trinitaria elaborata da Barth. Come si è visto, essa, nelle intenzioni di Barth, ha il fine di confermare teologicamente il tema biblico della sovranità di Dio nella sua rivelazione storica e di tagliare alla radice qualsiasi tentativo di porre una condizione di possibilità antropologica per la rivelazione stessa. La dottrina della Trinità conferma, in altri termini, l'assunto «teocentrico» della teologia barthiana. La portata di questo assunto la si misura nella concezione dello Spirito come «realtà soggettiva della rivelazione».46 Con questa espressione Barth intende il fatto che non esiste un'astratta libertà dell'uomo di fronte alla rivelazione, che rappresenterebbe il fondamento della sua accettazione. Esiste piuttosto l'effetto che lo Spirito esercita sull'uomo e lo porta alla fede e all'obbedienza, cioè all'interiorizzazione e all'appropriazione della parola di Dio. In questo processo l'uomo non gioca il ruolo di un «autonomo antagonista»47 di Dio, ma si scopre figlio di Dio. Esso non apporta dunque qualcosa di diverso dalla rivelazione di Dio, cioè dalla sua oggettivazione storica in Cristo, ma semplicemente svela che tale evento include in sé un aspetto soggettivo. È appunto il Dio «in sé» che si rivela come Dio «per noi». Questa dinamica comporta, tuttavia, per Barth non soltanto l'impossibilità da parte dell'uomo ad aprirsi alla rivelazione senza entrare nel raggio d'azione della medesima (l'effusione dello Spirito), ma anche la sostanziale negazione della libertà umana. Il principio del «sola fide» appare così letto alla luce di una concezione deterministica dell'azione dello Spirito in cui quest'ultimo prende il posto della soggettività umana.

Qui indubbiamente «l'insopprimibile soggettività di Dio» occupa tutta la scena, trasformando il «teocentrismo» in un assolutismo teologico o in un trionfalismo della grazia. Lo Spirito, infatti, non rappresenta soltanto, come la teologia cattolica riconosce,48 l'inizio della fede, ma determina interamente la sua attuazione antropologica. Barth si è reso conto che questa posizione era problematica e ha cercato di riguadagnare la libertà dell'uomo negata a livello spirituale in ambito etico, concependo l'uomo come il «facitore (Täter) della parola»,49 cioè come colui che nell'autonomia della sua azione nel mondo conferma il suo essere «uomo nuovo» sotto l'azione dello Spirito. Ma questo dà luogo ad una rigida ripartizione nel credente tra una natura umana che sta interamente sotto l'eteronomia divina, e un'azione umana che invece è concepibile in linea di principio nella sua autonomia. Le formule che Barth usa per coordinare questi due momenti non sono convincenti, poiché non si vede come sia possibile che «nell'autodeterminazione (Selbstbestimmung) senza la quale l'uomo non sarebbe tale [...] », questi diventi «oggetto della predeterminazione (Vorherbestimmung) divina».50 In realtà, proprio nella sua concezione trinitaria che agostinianamente pensa lo Spirito come la comunione tra Padre e Figlio, Barth disponeva della risorsa concettuale per evitare questo esito problematico che finisce, del tutto in controtendenza con ciò che egli si proponeva mediante l'elaborazione di una dottrina trinitaria, per reintrodurre una forma di dualismo teologico.

Copyright © 2011 Andrea Aguti

Andrea Aguti. «Karl Barth e la riscoperta teologica della Trinità». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**56 B].

Note

  1. Il corso è stato pubblicato in K. Barth, «Unterricht in der christlichen Religion». Ersten Band: Prolegomena, hrsg. von H. Reiffen, Theologischer Verlag, Zürich 1985. Testo

  2. Soprattutto il rapporto con Peterson è degno di nota, perché Barth comprese che da quest'ultimo poteva imparare molto. Peterson del resto, in una lettera del 1922 a Th. Haecker, confessava di preoccuparsi di mostrare a Barth dove questi fosse cieco, aggiungendo però, a precoce indicazione degli sviluppi successivi di questo rapporto, che la cosa era «molto dura» (cfr. E. Peterson, Theologie und Theologen. Briefwechsel mit Karl Barth u. a. Reflexionen und Erinnerungen, hrsg. von B. Nichtweiß, Echter, Würzburg 2009, p. 189). Testo

  3. Cfr. J. Moltmann (hrsg.), Anfänge der dialektischen Theologie, Chr. Kaiser Verlag, München 1962; tr. it. Le origini della teologia dialettica, a cura di M. C. Laurenzi, Queriniana, Brescia 1976, p. 384. Testo

  4. K. Barth-E. Thurneysen, Briefwechsel. Bd. 2: 1921-1930, hrsg. von E. Thurneysen, Theologischer Verlag, Zürich 1974, p. 254. Testo

  5. Cfr. K. Barth, Die kirchliche Dogmatik I/1, Studienausgabe, Theologischer Verlag, Zürich 1987, pp. 311-312 (da ora in poi KD). Testo

  6. Ibi, p. 315 Testo

  7. È la tesi, per esempio, in Italia di L. Pareyson. Per illuminare il rapporto di Barth con Kierkegaard, al di là degli scarsi riferimenti che sono contenuti nelle sue opere, sono decisivi i due brevissimi e occasionali scritti, entrambi del 1963, che Barth stesso ha dedicato al filosofo danese: Dank und Reverenz e Kierkegaard und die Theologen, di cui chi scrive ha curato una tr. it. in «Humanitas», 54 (1999), pp. 980-985 e «Humanitas», 62 (2007), pp. 768-771. Sulla questione, più in generale, mi permetto di rimandare a A. Aguti, Teologia e dialettica. L'interpretazione barthiana di Kierkegaard, in «Notabene. Rivista di studi kierkegaadiani», 5 (2006), pp. 231-242. Testo

  8. Si tratta di un motivo di polemica destinato a protrarsi nel tempo. P. Tillich, in conclusione della sua Teologia sistematica, ha rimproverato ancora una volta a Barth proprio la decisione di porre la dottrina della Trinità all'inizio della sua dogmatica e non alla fine, come aveva fatto Schleiermacher, con ciò recidendo il legame tra coscienza cristiana, intesa come momento ricettivo di fronte alla rivelazione, e riflessione teologica: «È stato un errore di Karl Barth iniziare i Prolegomena della sua dogmatica con quelli che sono, per così dire i Postlegomena, cioè con la dottrina della Trinità. Si potrebbe dire che nel suo sistema questa dottrina cade dal cielo, dal cielo di un'autorità biblica ed ecclesiastica non mediata» (P. Tillich, Systematic Theology, University of Chicago Press, Chicago 1963; tr. it. Teologia sistematica, vol. III, a cura di R. Bertalot, Claudiana, Torino 2003, p. 303). Testo

  9. I primi contatti di Barth con la teologia medioevale vennero proprio dalle lezioni di Peterson su Tommaso d'Aquino, tenute a Gottinga nel semestre invernale 1923/1924, e alle quali Barth partecipò come uditore. Da notare che una parte di queste lezioni era dedicata proprio alla dottrina della Trinità e che Peterson sottolineava fortemente il carattere urtante di questa dottrina per la teologia protestante moderna perché inserita, com'è in Tommaso, all'interno di una concezione intellettualistica della rivelazione, intesa come «comunicazione di un sapere soprannaturale» che va a rompere «l'incantesimo dell'immanenza». Cfr. E. Peterson, Theologie und Theologen. Texte, hrsg. von B. Nichtweiß, Echter, Würzburg 2009, p. 125. Testo

  10. Cfr. KD I/1, p. IX. Testo

  11. Cfr. I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di M. M. Olivetti, Laterza, Bari-Roma 1985, pp. 154 ss. Testo

  12. A questo riguardo è almeno da consultare J. Splett, Die Trinitätslehre G. W. F. Hegels, Alber, Freiburg 19843; tr. it. La dottrina della Trinità in Hegel, Queriniana, Brescia 1993. Testo

  13. K. Barth, Nachwort a H. Bolli (hrsg.), Schleiermacher-Auswahl, Siebenstern Taschenbuch, Hamburg 1968, pp. 290-312; tr. it. in appendice a K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, a cura di G. Bof, Paoline, Cinisello Balsamo, Milano (MI), p. 244. Testo

  14. K. Barth, Christliche Dogmatik im Entwurf (1927), hrsg. von G. Sauter, Theologischer Verlag, Zürich 1982, p. 136. Testo

  15. Ibi, pp. 137-138. Testo

  16. Ibi, p. 267. Testo

  17. Ibidem. Testo

  18. Per una considerazione più estesa di questo punto mi permetto di rimandare a A. Aguti, Karl Barth e l'Aufklärung, in «Hermeneutica», n. s. (2010), pp. 93-117. Testo

  19. Cfr. K. Barth, Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert, Theologischer Verlag, Zürich 1946 (ristampa immutata della terza edizione in due voll. Siebenstern Taschenbuch Verlag, Hamburg 1975); tr. it. La teologia protestante nel XIX secolo, vol. II, a cura di I. Mancini, Jaca Book, Milano 1979, p. 49. Testo

  20. KDI/1, p. 323. Testo

  21. Ibi, p. 348. Testo

  22. Ibi, p. 352. Testo

  23. Ibi, p. 326-327. Testo

  24. Ibi, p. 342. Testo

  25. Cfr. ibi, p. 349. Testo

  26. Ibi, p. 383. Testo

  27. Ibi, p. 350. Testo

  28. Il rifiuto di Barth non è incondizionato, perché egli lascia aperta la possibilità che questa dottrina agostiniana e la sua ripresa nella scolastica, ma anche in Lutero, costituisca una interpretazione nel mondo creaturale della Trinità (cfr. ibi, pp. 359-360), sicché essa non sarebbe espressione di un processo ascensivo che va dalla creatura al Creatore, come tale passibile, secondo Barth, di attentato alla sovranità divina, ma come espressione di un processo discensivo dal Creatore alla creatura. L'autentico problema dei vestigia trinitatis non è dato dal fatto di usare termini diversi da quelli biblici, bensì dal capire se essi dicano la medesima cosa di questi ultimi. In generale tale problema rimanda a quello dell'analogia e su di esso Barth si è diffuso nel tomo sulla conoscenza di Dio (cfr. KD II/1, pp. 1-287), dove egli ha legittimato un linguaggio analogico su Dio che si fonda appunto sulla rivelazione di Dio, intesa in questa sede come una sorta di appropriazione da parte di Dio del linguaggio umano che abilita quest'ultimo alla sua funzione teologica. Testo

  29. KD I/1, p. 370. Testo

  30. Ibi, p. 379. Testo

  31. Ibi, p. 388. Testo

  32. Ibi, p. 391. Testo

  33. Ibi, p. 400. Testo

  34. Ibi, p. 435. Testo

  35. Soprattutto in Die Subjektivität Gottes und die Trinitätslehre. Ein Beitrag zur Beziehung zwischen Karl Barth und der Philosophie Hegels, in W. Pannenberg, Grundfragen systematischer Theologie 2. Gesammelte Aufsätze, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1980, pp. 96-111. Le tesi qui espresse sono ripetute in altri contributi citati di seguito. Anche J. Moltmann ha sollevato critiche simili nei confronti di Barth, ma, mi sembra, con minore persuasività rispetto a Pannenberg. Testo

  36. G. E. Lessing, L'educazione del genere umano, § 73, in Idem, Opere filosofiche, a cura di G. Ghia, UTET, Torino 2006, p. 533. Testo

  37. W. Pannenberg, Systematische Theologie, Band I, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1988; tr. it. Teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1990, p. 332. Testo

  38. W. Pannenberg, Problemgeschichte der neueren evangelischen Theologie in Deutschland, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1997; tr. it. Storia e problemi della teologia evangelica contemporanea in Germania, a cura di G. Sansonetti, Queriniana, Brescia 2000, p. 327. In ambito cattolico B. Forte (Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p. 77.), sulla scia di W. Kasper, ha sostenuto questa tesi, che è stata ripresa anche da G. Greshake, Der dreieine Gott. Eine trinitarische Theologie, Herder, Freiburg i. B. 1997; tr. it. Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000, p. 164. Testo

  39. W. Pannenberg, Teologia sistematica, cit. , p. 337. Testo

  40. Ibi, p. 360. Testo

  41. Cfr. ibi, p. 431. Anche l'affermazione che le persone trinitarie devono intendersi «come concrezioni della realtà divina della Spirito» lascia perplessi. Ancora di più, perché sembra addirittura reintrodurre inconsapevolmente una forma di modalismo, quella per la quale «le Persone [...] hanno la loro esistenza non ciascuna per se stessa, ma nel riferimento estatico ad un campo di divinità che le sovrasta e che in ciascuna di essa e nelle loro relazioni vicendevoli si manifesta» (Ibi, p. 482). Testo

  42. KD I/1, p. 372. Testo

  43. Cfr. ibi, p. 402. In un altro passo Barth scrive che «l'essenza divina non sarebbe l'essenza divina, se in essa ci fosse superiorità e inferiorità o anche diverse quantità di divinità» (cfr. ibi, p. 414). Testo

  44. Come rilevano bene alcuni critici. Cfr., per esempio, A. Torrance, The Trinity, in J. Webster (ed.), The Cambridge Companion to Karl Barth, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 81. Testo

  45. «Io stesso ho un certo debole per Hegel e ogni tanto amo 'hegeleggiare' un po'. Come cristiani abbiamo la libertà di farlo... Qui io parteggio per l'eclettismo». Così Barth in un colloquio con alcuni parroci e laici del Palatinato nel 1953, riportato in E. Busch, Karl Barths Lebenslauf. Nach seinen Briefen und autobiographischen Texten, Kaiser, München 19762; tr. it. Karl Barth. Biografia, Queriniana, Brescia 1977, p. 348. Per una trattazione estesa del problema mi permetto di rimandare all'introduzione alla traduzione italiana dello scritto di Barth Philosophie und Theologie, in Philosophie und christliche Existenz, Festschrift für Heinrich Barth, Helbing und Lichtenhahn, Basel-Stuttgart 1960, pp. 93-102; tr. it. Filosofia e teologia, a cura di A. Aguti, Morcelliana, Brescia 2010. Testo

  46. Cfr. KD I/2, p. 222. Testo

  47. Ibi, p. 256. Testo

  48. Cfr. D. Hercsik, Der Glaube. Eine katholische Theologie des Glaubensaktes, Echter, Würzburg 2006, in particolare pp. 259 ss. dove si distingue la fede come «dono di Dio» (virtus fidei) e la fede come «atto dell'uomo» (actus credendi), sottolineando la libertà e la ragionevolezza dell'atto di fede. Testo

  49. Cfr. KD I/2, p. 397. Testo

  50. Ibi, p. 400. Non convince neanche il tentativo di qualche interprete (per esempio C. Gunton, Barth, the Trinity, and Human Freedom, in «Theology Today», 43 (1986), pp. 316-330, in particolare p. 325) di evitare la conseguenza del determinismo distinguendo tra l'essere determinati e l'essere costretti dallo Spirito. Il problema è che, non riconoscendo nell'uomo alcuna potentia oboedientialis, Barth concepisce la determinazione da parte dello Spirito come totale, assimilandola di fatto, nonostante gli espedienti retorici per dissimularla, ad una costrizione. Testo

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