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Sommari degli interventi

Carla Canullo, Università di Macerata, La forma della testimonianza. La spiritualità della santità secondo Hans Urs von Balthasar
La testimonianza è un tema ampiamente indagato in filosofia, soprattutto nell'ermeneutica filosofica. Emmanuel Levinas, Paul Ricœur, prima ancora Jean Nabert hanno posto da diversi punti di vista a tema tale motivo, insieme a quello del testimone. Il primo e il secondo autore, noti, hanno legato il tema rispettivamente alla rivelazione dell'infinito e dell'assoluto, o meglio, alla possibilità di una filosofia dell'assoluto non hegeliana. Nabert, forse meno noto ma non per questo meno degno di attenzione, ha pensato la testimonianza come modo rivelativo proprio della criteriologia di un divino che il testimone riconosce nella storia portandone in sé, nell'io puro, le tracce. «Possiamo discernere l'assoluto solo grazie all'assoluto che è in noi», scrive Nabert, e: «Ritroviamo sempre la stessa questione: fondare l'assolutezza dell'affermazione prima, lontana tanto dalla soggettività come tale che dalla trascendenza, senza farla dipendere dall'irruzione di un assoluto trascendente» (Jean Nabert, Le désir de Dieu, 1966, p. 276). L'assoluto che è in noi è il criterio per discernere ogni altro assoluto. Ciò non vuol dire che vi si identifichi: si tratta solo di ciò che ne permette il riconoscimento, conducendo la filosofia ai confini con la teologia. Qual è, tuttavia, la specificità della testimonianza indagata dal punto di vista della filosofia e da quello della teologia? Quale esperienza di Dio e del divino viene elaborata dall'una e dall'altra? Dopo una prima introduzione delle questioni poste dal punto di vista filosofico (introduttive alla questione teologica), la domanda sarà rivolta al teologo Hans Urs von Balthasar, facendolo a partire dal significato di testimonianza posto nel primo volume dell'opera Gloria e, dunque, della forma (in particolare il senso in cui questa invita a dire la testimonianza nell'ultima parte del volume, ossia La testimonianza della forma [cfr. Hans Urs von Balthasar, La percezione della forma, Gloria, vol. I, ed. it. Milano 1985, pp. 567-635)]. Inoltre, la testimonianza, in filosofia, ha permesso di elaborare una «nuova» idea di «soggetto», pensato come testimone della verità e non come l'inconcussum quid che la pone. Qual è la figura del testimone che la «forma della testimonianza» di von Balthasar ci permette di elaborare, insieme all'esperienza di Dio? Della spiritualità della santità si cercherà, allora, di elaborare questo: il santo (saranno prese in esame soprattutto la spiritualità di San Giovanni della Croce e di Teresa di Lisieux), e non soltanto il martire, come testimone che prende forma nell'esperienza di Dio, testimoniando al contempo di Dio in quella particolare «forma» che è la sua spiritualità. [Preprint]
Mauro Cinquetti, Università di Parma, «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42, 5). Dio e il male: con (e oltre) Ricœur dalla teodicea alla «ragione integrale»
Secondo Ricœur il male non è un problema che «sta di fronte» e va risolto, bensì una «sfida» che interpella e coinvolge. Non si tratta dunque di trovare soluzioni, ma di tentare delle risposte. La rilettura di alcuni passaggi del libro biblico di Giobbe consente di entrare in questa dinamica e di pervenire a uno stadio di pensiero in cui di fronte alla tragedia diventa possibile ancora filosofare, superando le categorie metafisiche della teodicea (gli «amici di Giobbe») e arrivando a un pensiero caratterizzato dal decentramento del Cogito narcisista, dall'identità narrativa di un sé ferito che acconsente al proprio limite, dal ruolo della creatività come risorsa per aprire nuove possibilità di pensiero. Giobbe passa così da una conoscenza «per sentito dire» al «vedere Dio». È all'interno di queste prospettiva che si colloca la fede tragica, gratuita che vive dell'inverificabile. La religione metafisica deve cedere il passo a una fede che supera la visione etica/retributiva del male, abbraccia il consenso attivo di Cristo, perviene a una saggezza radicata nella figura simbolica del servo sofferente che offre la vita prima che gli sia tolta. Cercando così di rispondere alla sfida del male e di Dio l'orizzonte si apre in termini più ampi e coinvolge lo statuto della razionalità. Poiché Dio non è solo un'idea, ma interpella la vita, si tratta di mettere in campo un «pensare altrimenti» che metta in sinergia pensare, agire e sentire, superi le rigidità del pensiero positivistico e formale, per approdare a una razionalità aperta e integrale che non si riduca al piano puramente teoretico-speculativo, ma abbracci in tensione dialettica la globalità dell'umano. Qui il rifiuto kantiano della teodicea si coniuga con l'apertura oltre il «pensiero euclideo» avanzata da Dostoevskij e con l'«ermeneutica del mito» di Pareyson lettore di Schelling. Lo scandalo del male di fronte a Dio può diventare così non l'invito a pensare meno (o a pensare ad altro), ma «una provocazione a pensare di più, addirittura a pensare altrimenti». [Preprint]
Sandro Gorgone, Università di Messina, Le fenomenologia della religione in Bernhard Welte
Se vi è una tesi di Bernhard Welte (1906-1983) che più di altre possiede per noi oggi, che viviamo il tempo del cosiddetto «ritorno delle religioni», una dirompente attualità, è quella, sostenuta con vigore e perseveranza già a partire dal secondo dopoguerra contro le ideologie dominanti, per cui il «problema della religione» non può essere confinato nella sfera privata e psicologica e messo al bando dall'ambito della razionalità e della condivisione del senso. Il fenomeno religioso, con le sue molteplici dimensioni culturali, sociali e politiche, costituisce, invece, un fenomeno fondamentale dell'esistenza umana, a cui ogni riflessione, che voglia cogliere essenzialmente l'essere al mondo dell'uomo ed il suo essere con gli altri, deve necessariamente fare riferimento. Come filosofo della religione Welte ha esercitato e continua ad esercitare un'influenza rilevante nella riflessione sui limiti del sapere teologico e sui rapporti tra la fede cristiana e le scienze moderne. Il compito principale che egli si propose, fu, infatti, proprio quello di trasmettere e tradurre il sapere tramandato e il nucleo della fede cristiana all'interno dell'orizzonte culturale ed espressivo della post-modernità. Il contributo proposto intende analizzare il ruolo svolto dalla fenomenologia della religione di Welte nel processo di rinnovamento e di trasformazione di alcuni paradigmi fondamentali del pensiero teologico contemporaneo. Al pari di Karl Rahner, Hans Urs von Balthasar e i teologi francesi della cosiddetta Nouvelle Theologie, Welte, infatti, si impegnò, soprattutto sulla scorta delle sollecitazioni del pensiero di Heidegger e della sua sfida di superamento della metafisica, a recuperare i contenuti originari della fede neo-testamentaria, convinto che il compito della teologia contemporanea fosse quello di superare l'impostazione metafisico-tomista della teologia moderna, attraverso un ritorno alle origini non ancora metafisiche del Cristianesimo, mediante la riformulazione di una cristologia libera dalle ipoteche del processo di ellenizzazione avvenuto già con i Padri della Chiesa ed i primi concili. Si trattava di un rinnovamento che, attraverso la riscoperta delle fonti bibliche e dei grandi testimoni della chiesa primitiva, intendeva superare la crisi provocata dall'antimodernismo e ricercava un sereno confronto con la modernità necessario per accedere al mondo vitale dell'uomo contemporaneo. Tale rinnovamento di cui Welte e la sua generazione sentirono l'inderogabile esigenza, rimane tutt'oggi un compito decisivo per la teologia chiamata a confrontarsi con tempi in cui al venir meno di saldi punti di riferimento culturale e spirituale si contrappone da un lato un ingenuo ed acritico ritorno alla tradizione spesso violentemente contrapposto alla decadenza del presente in modo puramente moralistico, e dall'altro un rassegnato abbandonarsi alla desacralizzazione del nostro mondo secolarizzato con l'obiettivo minimalista di esercitare forme di 'credenza' moralmente efficaci e comunitariamente utili basate sull'indebolimento e la proliferazione ermeneutica delle categorie metafisiche tradizionali. Se è vero, infatti, che nel mondo della post-modernità in cui viviamo, il fenomeno religioso, smentendo le previsioni delle ideologie moderniste, assume un ruolo sociale, culturale e politico sempre più rilevante, generando anche virulenti scontri sociali e culturali, è vero anche che l'esperienza del trascendente, del divino e del sacro non basta a dare senso ed orientare unitariamente l'esistenza. E ciò, secondo Welte, che in questo segue la diagnosi epocale di Heidegger, deriva dall'appropriazione dei contenuti essenziali della fede da parte della metafisica occidentale: attraverso il primato metodologico e teoretico del soggetto moderno, Dio viene progressivamente ridotto ad un postulato etico e conoscitivo di cui il pensiero moderno più maturo può definitivamente fare a meno. Il compito, su cui si concentra Welte, è, dunque, quello di pensare Dio al di fuori dell'onto-teologia occidentale, come Dio autenticamente divino. E ciò sarà possibile attraverso una rinnovata esperienza esistenziale del ritrarsi del divino nel nostro tempo (da qui il confronto 'teologico' con il nichilismo di Nietzsche e Heidegger) e della connessa esaltazione del religioso anche nelle sue manifestazioni inautentiche e patologiche che stanno alla base degli attuali rischi di fondamentalismo e di scontro interculturale ed interreligioso. Attraverso un'analisi delle opere di Welte e dei suoi rapporti con la filosofia e la teologia a lui contemporanea, il contributo si propone, infine, di delineare le categorie ermeneutiche di una possibile esperienza del sacro e del divino nell'epoca del dominio della tecnica e della secolarizzazione. [Preprint]
Daniele Bertini, Università di Parma, La natura della fede in Gv 4
Il quarto capitolo del Vangelo secondo Giovanni è centrato attorno a due episodi di conversione alla fede. Il mio scopo è mostrare come l'intenzione del redattore fosse quella di caratterizzare il modo d'essere dell'esistenza come un essere per la fede; ossia sostenere la tesi che esistere significhi necessariamente mettere radicalmente in questione la propria esperienza, così da acquisire un insieme di credenze normative relative alla stessa. La prima parte della relazione affronta la struttura del capitolo, la divisione delle pericopi della Samaritana e del Funzionario regio, la dottrina generale giovannea sulla fede. La seconda si confronta con l'intepretazione esistenzialista della dottrina giovannea sulla fede, implicita nella formulazione della tesi rahneriana secondo la quale l'esistenza è un fatto di ordine soteriologico, per mostrarne l'incongruenza e rivendicare così la necessità di una interpretazione di Gv 4 che si fondi su una diversa concezione dell'esperienza umana. [Preprint]
Paolo Trianni, Università di Roma Tor Vergata, Esperienza di Dio e dialogo interreligioso
La ricerca antropologica e quella fenomenologica hanno prodotto, specialmente nella prima metà del Novecento, diverse teorie filosofiche dell'esperienza religiosa. L'antropologia trascendentale di Karl Rahner, per esempio, e la fenomenologia di Rudolf Otto, hanno evidenziato, in termini diversi, la possibilità e l'universalità dell'esperienza di Dio. Per la teologia, tuttavia, tale riflessione si è rivelata una sfida problematica, nella misura in cui l'esperienza di Dio teorizzata in tali conclusioni è apparsa immediata ed atematica e quindi troppo svalutante la sua mediazione storica e cultuale. Se la riflessione teologica, da questo punto di vista, ha il compito di rivendicare la propria mediazione e la specificità della sua tematizzazione dell'esperienza di Dio, essa deve al contempo non lasciar cadere uno dei risultati fondamentali ottenuti da tale speculazione filosofica: il fatto, cioè, che l'esperienza religiosa sia universalmente comunicabile. Di fatto tale esito è stato raccolto dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, che, anche per far fronte alle difficoltà che incontrano gli scambi religiosi di tipo tradizionale, spesso contrassegnati da un rigido razionalismo dogmatico e aprioristico, ha iniziato a promuovere con insistenza proprio il dialogo dell'esperienza religiosa. Questa particolare forma di dialogo, per la sua specifica natura, è stata affidata ai monaci, ed ha determinato la nascita di uno speciale istituto ecclesiale: il DIM, il Dialogo Interreligioso Monastico. La spiritualità monastica, infatti, è tipicamente contrassegnata da una esperienza di Dio teoretico-contemplativa che, essendo trasversale, aiuta la comprensione reciproca anche tra religioni metafisicamente molto lontane fra loro. Al tempo stesso, però, l'azione del DIM, nella misura in cui si fa carico del dialogo interreligioso muovendo da questa specifica angolatura prospettica, necessita ancora di una riflessione adeguata capace di legittimare e fondare teoricamente in modo definitivo la sua attività. Già Tomas Merton, per esempio, tra i primi protagonisti e promotori di questa nuova istituzione, sottolineava lo speciale contributo che la vita contemplativa potrebbe portare al dialogo, notando, però, come questo importantissimo aspetto del dialogo sia anche uno dei meno dibattuti L'attività promossa dal DIM, infatti, deve confrontarsi con un tipo di esperienza religiosa del tutto particolare: quella mistico-contemplativa, la quale, se è trasversale è anche teologicamente problematica. Nell'intervento, attraverso appunto l'analisi di tale forma esperienziale, si cercherà di fare una riflessione che possa contribuire a meglio comprendere quali possano essere le linee guida teologico-filosofiche di questo nuovo modo di intendere ed accostare il dialogo interreligioso. [Preprint]
Raniero Fontana, Istituto «Albert Decourtray di studi ebraici» di Gerusalemme, L'universalismo noachide
Il contributo proporrà alla discussione l'universalismo noachide e l'esperienza di Dio sottesa, mettendo a confronto alcune figure bibliche (Noè, Giobbe, Abramo) lette midrashicamente, cioè attraverso l'interpretazione rabbinica, e in questo modo impostare teologicamente il rapporto tra Israele e le genti. [Preprint]
Umberto Galeazzi, Università di Chieti, Sulla conoscenza di Dio in Tommaso d'Aquino
L'esperienza di Dio è inevitabilmente mediata dal suo emergere alla coscienza e all'intelligenza, cioè da un discorso su Dio, da una certa conoscenza di Lui. È un discorso che nasce dall'apertura dell'intelligenza al limite delle possibilità umane, eppure peculiare dell'uomo, che si realizza proprio trascendendosi. L'itinerario della mente e del cuore verso Dio è un cammino decisivo, ma su un crinale rischioso, perché possiamo ascendere a Lui, partendo dalle meraviglie della creazione, oppure ricadere nella prigionia dell'immanenza soggettiva, scambiando il Dio vivente con un idolo foggiato dalle nostre escogitazioni, o dai nostri meschini interessi, un idolo che possiamo comprendere, afferrare, dominare. Si corre, così, il rischio del fanatismo, che apre la via alle peggiori aberrazioni. L'alternativa a questa chiusura antropocentrica è la conoscenza veritativa, pur nei limiti della condizione umana, che ci fa riconoscere, a partire dall'esperienza, una normatività che ci trascende, che non dipende dal nostro arbitrio soggettivo e che continuamente lo ridimensiona e lo rettifica. Quell'idolo, infatti, non è Dio, che è il Bene increato, infinito, trascendente, non riducibile alla nostra misura. Qui intendo far vedere che seguendo l'Aquinate è possibile sia individuare le aporie del fideismo (considero quello di K. Barth) e dell'agnosticismo neopositivistico, sia superarle criticamente. Queste posizioni, pur diverse, convergono nel sottovalutare la conoscenza umana e, qualora fossero assunte come precomprensioni dalla teologia cristiana, si rivelerebbero incompatibili con i contenuti della fede, deformandoli e corrompendoli. Il problema più generale è il seguente: è possibile fare teologia, o esegesi, senza assumere, più o meno acriticamente, dei presupposti filosofici? Si richiede un criterio ermeneutico che superi l'arbitrio esegetico, per poter ascoltare la Parola di Dio, non solo le parole umane. [Preprint]
Marialucrezia Leone, Università di Lecce, Uno scienziato alla guida della società: il maestro di teologia in Enrico di Gand
In un importante articolo sull'insegnamento della disciplina teologica nella Summa enrichiana, M. Schmaus sottolineava come «Kein Theologe des 13. Jahrhunderts hat so ausführlich wie Heinrich von Gent [...] das Problem der Theologie behandelt» , con la stessa considerazione. Maestro presso l'Università di Parigi dal 1267 sino al 1293, prima alla Facoltà delle Arti e poi, a partire dal 1276, in quella di Teologia, Enrico di Gand riserva infatti un'attenzione singolare all'insegnamento che lo vede protagonista in prima persona. In particolare, tra i testi concernenti la disciplina teologica, soprattutto numerosi sono quelli che riguardano il magister theologiae e la sua deontologia. Nei Quodlibeta del maestro fiammingo si possono contare almeno sei questioni incentrate specificatamente sulla figura del teologo, mentre all'interno della sua Summa ben otto articoli sono dedicati all'argomento. Fortemente consapevole dell'incarico a cui egli stesso è chiamato, in questi testi l'intento di Enrico é quello di delineare la superiorità del magistero di teologia rispetto a qualsiasi altro. Soprattutto, insieme alla rivendicazione dello statuto scientifico della teologia, l'elemento che Enrico si prefigge é quello di assegnare la qualifica di scienziati a tutti coloro che praticano la disciplina teologica. Come accade per ogni scienziato, i teologi hanno infatti a che fare con una materia di studio dai fondamenti naturali. A questo si aggiunge che, per di più, rispetto alla maggior parte degli altri scienziati, poiché i magistri theologiae esercitano la loro opera pure per mezzo dell'illuminazione e della grazia divine, essi saranno in grado di raggiungere una conoscenza superiore, inaccessibile agli altri studiosi. Al contrario infatti del lume della gloria (possibile solo nell'altra vita) e del lume della fede (infuso nell'animo a ciascun uomo al momento del battesimo e comune ad ogni credente), il teologo, secondo Enrico, possiede anche un clarior lumen supplementare, che gli permette di accostarsi in misura maggiore alla verità. Intento com'è a difendere il ruolo di scienziato del teologo, Enrico, sulla scia di altri suoi colleghi appartenenti alle fila dei secolari (ad esempio di Gerardo di Abbeville) sembra così minimizzare, se non addirittura negare, in polemica con gli Ordini mendicanti, il contributo pastorale e sociale dell'insegnamento teologico. Chiamato infatti nella q. 35 del Quodlibet I (composta pure nel 1276) a rispondere alla domanda se sia meglio per un magister theologiae continuare negli studi, pur essendo già sufficientemente istruito, con la speranza di progredire nella conoscenza, piuttosto che occuparsi della salvezza delle anime, Enrico sostiene esplicitamente che, se tutti sono interpellati a lavorare per la salvezza delle anime secondo le proprie possibilità, la modalità migliore per operare questa salvezza risulta essere l'attività della ricerca e dello studio; soltanto quest'ultima dovrebbe contraddistinguere chi insegna la teologia. In realtà, un'attenta analisi dei testi enrichiani (soprattutto delle questioni quodlibetali non incentrate direttamente sul magister theologiae, ma riguardanti l'etica sociale, politica e quella che con un linguaggio moderno possiamo definire «economica») rivela invece che Enrico é l'unico tra i maestri del suo tempo a considerare il teologo come lo scienziato per eccellenza che, proprio grazie all'uso dei suoi strumenti naturali e sovrannaturali, può contribuire attivamente ad edificare l'intera società, non soltanto ecclesiastica, ma anche civile in cui vive. Soprattutto, l'operare del magister theologiae è attento ed orientato a salvaguardare la legge di natura, in cui le regole etiche per il maestro fiammingo trovano il loro fondamento. In tal modo, il teologo, secondo Enrico, diviene l'autorità pubblica per eccellenza, non solo perché interprete del messaggio evangelico, ma perché l'unico in grado di proporre delle regole morali laiche, anteriori a quelle connesse alla fede, valide sempre e per chiunque.
Giovanni Salmeri, Università di Roma Tor Vergata, Nessuna luce. Fede, teologia e contemplazione in Giovanni Duns Scoto
Un elemento che distingue chiaramente la riflessione teorica di Scoto da quella di altri grandi maestri del Medioevo è lo sviluppo di una chiara coscienza della differenza tra la «doctrina» e la «teologia», la prima trasmessa integralmente nella Scrittura e facente appello alla fede, la seconda consistente in una rielaborazione metafisica dei contenuti della fede. Alla posizione di questa differenza, che si affianca all'ulteriore distinzione rispetto alla contemplazione nella gloria, è parallela la riflessione sulle capacità dell'intelletto umano e sulle rielaborazioni del tema agostiniano del «lumen» necessario alla conoscenza. L'epistemologia teologica di Scoto non si trova dunque, come spesso si è ritenuto, nel solo «Prologo» dell'Ordinatio, ma può essere colta solo ripercorrendo l'opera nella sua globalità: è così che si disegna il quadro dialettico di una grande fiducia nella ragione umana, della costatazione della sua storicità e provvisorietà, dell'abbandono ad una grazia mai oggettivabile. [Preprint]
Vito Mancuso, Università Vita-salute San Raffaele, La teologia al di fuori delle facoltà teologiche
Alcune riflessioni sulla teologia al di fuori di una facoltà teologica a partire dalla mia esperienza di 5 anni di insegnamento teologico nella Facoltà di Filosofia dell'Università Vita Salute San Raffaele di Milano: in ordine al rapporto con gli studenti, con i colleghi, con la materia in sé.
Marco Vannini, Che senso ha la teologia?
Il termine «teologia» l'ha coniato Platone, contrapponendolo a mitologia, ma proprio Platone non ha fatto teologia, nel senso di una dottrina sul divino, persuaso com'era che «Dio non si mescola agli umani», per cui di Dio krè dokèin, dobbiamo credere, -- e dire -- solo che è buono, e che da lui vengono solo beni. Dunque una teologia minima, per non dire inesistente, e solo come postulato del nostro pensare. Le teologie filosofiche, come la Scolastica, sono costruzioni elevatissime, ma senza fondamento, perché le loro basi teoriche (ad esempio il concetto di essere) non superano una critica razionale, come quella degli scettici antichi, o quella di Nagarjuna. Le teologie fondate sui libri cosiddetti sacri sono costruzioni retoriche, più o meno belle, ma senza alcuna verità. «Immaginazioni che riempiono vuoti», direbbe la Weil. Anzi, come insegna Eckhart, in quanto pretendono di conoscere il divino, vere e proprie bestemmie. Cosa è allora tutto il parlare di Dio da parte dei santi, dei grandi spirituali? Puro non-senso? Niente affatto. È una descrizione dell'anima, una fenomenologia dello spirito e, sotto questo profilo, anche un parlare di Dio. Il vero problema è, dunque, quello di capire sotto quale profilo. [Preprint]
Silvano Zucal, Università di Trento, Perché un filosofo dovrebbe interessarsi di teologia?
A partire dalla mia esperienza di ricerca proverò a rispondere alle seguenti domande: perché un filosofo dovrebbe interessarsi anche di teologia? Quale fenomeno filosofico è arricchito da una considerazione teologica? In che misura lo studio dell'esperienza religiosa chiarifica la questione teoretica della filosofia, oppure la pone a oggetto d'indagine? [Preprint]
Claudio Cerroni, Università di Roma Tor Vergata, La teologia di Abelardo come metalinguaggio
Nel XII secolo l'uso del termine «teologia» è abbastanza inusuale. Prima di Abelardo il termine era utilizzato per indicare principalmente la speculazione filosofico-razionale dei pagani riguardo Dio. In riferimento ai testi biblici si preferiva parlare di «sacra dottrina», facendo allusione all'aspetto kerygmatico delle letture sacre. Abelardo legittima la ripresa del significato pagano del termine theologia tramite l'analisi razionale (tipica dei filosofi pagani) dei testi sacri. Si sarebbe tentati di etichettare Abelardo come razionalista, ma si deve prendere in considerazione che il Maestro Palatino riserva l'analisi razionale all'enunciato, salvaguardando il contenuto della fede. La distinzione tra enunciato e contenuto è il risultato della sua visione concettualista degli universali, una visione che sviluppò durante gli studi di logica in contrapposizione della più diffusa visione realista. Il paradosso è che con Abelardo, attuandosi quella profonda frattura tra ordo rerum ed ordo verborum iniziata da Roscellino di Compiègne, non vengono esaltate le facoltà umane in vista della conoscenza di Dio, bensì vengono limitate all'analisi logico-razionale della grammatica dell'enunciato. [Preprint]
Giovanni Cogliandro, Università di Roma Tre, «¡Oh noche amable más que el alborada!». Un tentativo filosofico di approccio alla mistica unitiva di Giovanni della Croce
«¡Oh noche que me guiaste!, / ¡oh noche amable más que el alborada!, / ¡oh noche que juntaste / amado con amada, / amada en el amado transformada!» (Noche oscura vv. 21-25). Nell'excessus mentis che caratterizza lo stadio supremo del cammino unitivo dell'anima, uno degli effetti che con più dovizia di particolari vengono descritti dal Dottore mistico è la fusione di intelletto e volontà: «accade che qualche volta questa mistica e amorosa teologia, oltre che infiammare la volontà, ferisca anche, illuminandola, l'altra potenza, quella dell'intelletto [...]. Questo incendio di amore insieme con l'unione delle due potenze, intelletto e volontà, che avviene in questo momento, è per l'anima sorgente di grandi ricchezze e diletto» Giovanni della Croce, Notte oscura, in Opere, OCD, Roma 1991, p 438. Edith Stein come è noto elaborò una prima e ispirata elaborazione filosofica della mistica carmelitana ispirandosi alla fenomenologia nella sua Scientia Crucis. È un compito aperto e importante tentare un approccio per quanto possibile filosofico-sistematico al fenomeno della fusione delle potenze a partire dal metodo della dottrina trascendentale (sulla scorta dell'elaborazione che ne hanno fatto Ivaldo e Lauth). Si tenterà di affrontare la questione a partire dalle considerazioni dei teologi della mistica delle tre maggiori scuole del novecento, gesuiti, domenicani e carmelitani. In specie ci si concentrerà su coloro che più si sono dedicati al tema della circuminsiessione o inabitazione trinitaria (Bernard, Borriello, Garrigou-Lagrange, Royo Marin). [Preprint]
Silvio Spiri, Università di Roma Tor Vergata, Metafisica e teologia nel pensiero di Antonio Rosmini
La relazione toccherà i seguenti punti: 1. Sintesismo ontologico e dottrina della SS. Trinità; 2. Metafisica e teologia della creazione; 3. La dialettica trascendentale integrante e la dimostrazione dell'esistenza di Dio: da Sant'Anselmo a Rosmini; 4. La Rivelazione del Verbo e l'assenso della fede: Rosmini e Newman; 5. La visione filosofico-teologica della storia: Vico, Rosmini e Manzoni. [Preprint]
Paola Mancinelli, Sacramentalità, simbolo, storicità nel pensiero di Schillebeeckx
La nostra opzione di dedicare questo saggio a Schillebeeckx nasce dal presupposto che la ricerca teologica ha una via via crescente urgenza di fare i conti con la storicità, nella quale viene ancor oggi attualizzata la Verità della sua Tradizione, e dunque necessita di un fecondo dialogo con l'antropologia filosofica poiché in essa si esprime l'idea dell'homo symbolicus, e quella della necessaria interpretazione dei segni ontologicamente pregnanti che traguardano all'essere come mistero. Uno di questi è proprio la corporeità come segno di tale commercium con il mistero che ci fa creaturalità salvata in virtù dell'Incarnazione. Da un lato Rivelazione e storicità, dall'altro cristologia e sacramentalità consentono di riflettere sulla dimensione antropologica della teologia, e quindi su quei loci antropologici (quali la persona, la relazione, l'impegno etico) in cui la verità della salvezza si traduce efficacemente in forme nuove, coinvolgendo naturalmente la dimensione sacramentaria come performatività compiuta del kerygma. Tre dimensioni sembrano importanti: quella del segno, quella della simbolicità e quella del linguaggio. Quanto al segno, non si tratta semplicemente di una sorta di semiotica per cui il segno porta un significato traslato, in modo tale da risultare in un processo dialettico e dinamico, che renda quasi necessaria una transignificazione. Il segno è forma della stessa res, proprio come la Parola della Rivelazione viene contrassegnata in greco con la locuzione ta remata (parola e cosa insieme). La res qui implicata è la grazia santificante in quanto attualizzazione ecclesiale del Mistero di Cristo sulla base di cui si dà il rinnovamento della vita. Il segno non solo significat ma efficit, per questo motivo è forma compiuta di grazia. Il carattere simbolico del sacramento sta, invece, ad attestare il valore dell'atto umano nel tessuto ecclesiale in quanto la Chiesa si presenta come Corpo di Cristo. In una communicatio idiomatum il simbolismo sacramentale riassume la stessa missione della Chiesa storica che realizza la salvezza in virtù dello stesso Verbum efficax Dei che, risuonato una volta per tutte nel kerygma viene reso presente storicamente nell'epiclesi. Dunque, se l'Eucaristia fa la Chiesa, così come la Chiesa fa l'Eucaristia, ciò è possibile per il fatto che la prima ed autentica dimensione sacramentale del Regno presente si dà in Cristo, nella sua natura teandrica, riconoscibile però nell'agire teandrico di Lui, dato che ogni atto è semeion. Quanto all'ultimo aspetto, l'elaborazione sacramentale di Edward Schillebeeckx rappresenta un notevole sviluppo della dottrina di Tommaso, così che non può escludere l'aspetto verbale e la dimensione performativa che la parola implica. Così, il segno è presenza e visibilità terrestre della grazia in quanto, in qualche modo signum loquens. Osiamo parlare di segno loquente in quanto traduzione di quel primo, ineludibile appello rivolto all'uomo come istante decisivo della sua salvezza e quindi memoriale di quell'apax legomenon che manifesta Cristo come Incontro con Dio. La suggestiva elaborazione della teologia sacramentaria del teologo olandese recupera, in tal modo, la centralità dell'evento kerygmatico così come quella di una fondazione ecclesiale nella Croce, da cui scaturisce la stessa sua capacità soteriologico-sacramentale. A nostro avviso, tale prospettiva ermeneutica sembra ridurre di molto le distanze dalla riflessione teologica ricorrente nelle altre Chiese cristiane, essendo molto prossima a quella luterano-calvinista. Quindi ci chiediamo, sperando nella fecondità della stessa problematizzazione, se la speculazione schillebeeckxiana non abbia una ricaduta ecumenica e non debba spingere necessariamente ad una possibile elaborazione interconfessionale. La cosa risulta tanto più pregnante nella prospettiva di un dinamismo della storia del Dogma, dato che offrirebbe lo spunto per un ripensamento della Traditio vivente, dato che è lo stesso eterno kerygma a risuonare nella Chiesa rap-presentante dell'opera di Dio in Cristo. Ci sembra che si sottolinei, così, la possibilità di considerare la dimensione sacramentale nei termini di un incontro di salvezza attualizzantesi nell'oggi del memoriale liturgico, per cui Cristo è conosciuto kata pneuma, e per cui si rinnova in qualche modo l'evento di Emmaus, vero evento dell'Ecclesia viatorum che cammina a fianco al Suo Signore nella certezza escatologica e, prima ancora, kairologica del Suo venire. [Preprint]
Corneliu Simuţ, Emanuel University of Oradea, The Role of Secularization in Remaking Christian Theology. An Analysis of Edward Schillebeeckx
This work is concerned with Edward Schillebeeckx's reasons for the re-interpretation of traditional Christian theology in order for it to be comprehended by modern people. Schillebeeckx is convinced that Christian theology in its traditional format is no longer useful in explaining the realities of the world to the people living today. This is why he defends the idea of a general re-assessment of the entire Christian theology by leaving aside the traditional formulae as well as the traditional way of approaching Christian theology in general. He suggests that we promote a different perspective on Christianity in such a way that it should be relevant to the men and women of today's society. In short, if society and its evaluation of the world has changed, then Christian theology should change as well if it still wants to be useful in today's society. Society has become secularized, so Christian theology should undergo a similar process of secularization in order to find proper answers to the secularized minds of contemporary people. [Preprint]
Donatella Pagliacci, Università di Macerata, L'amore per Dio fra fragilità e speranza. L'esperienza di Dio in Simone Weil
«Dio mi ha dato l'essere e insieme la possibilità di restituirgli qualcosa cessando di essere» (Quaderni, III, p. 34). «La purezza cristallina» di una delle intelligenze più illuminate e limpide del '900 risplende nelle pagine vibranti e appassionate degli scritti che Simone Weil dedica all'amore di Dio. La necessità di riaffermare senza posa la dignità della persona umana ispira tutta la ricerca di Simone, che diviene sempre più profonda e raffinata, man mano che affronta e chiarisce tanto la dimensione ontologica del malheur, quanto le cause della libertà e dell'oppressione sociale. Malheur esprime la condizione insuperabile, irriducibile dell'essere umano, che investe, irrimediabilmente e senza spiegazione, l'umanità in quanto tale. Non parla solo il linguaggio della colpa o della condanna e prima ancora di essere un concetto, malheur è nel lessico weiliano, come è stato sottolineato, l'«esperienza dell'infelicità che è presente nel mondo come una realtà dolorosa inevitabile, di cui non si riesce a dare una spiegazione». Il nostro intervento vorrebbe cercare dunque di penetrare proprio dentro l'intima passione che la Weil mostra per l'umanità ferita, che la spinge a consumarsi fino a sprofondare nell'abisso del fragile, dove scopre il riverbero del mistero più recondito dell'amore di Dio, che è la sostanza stessa della mutilazione e dell'amarezza degli esseri umani. Accanto alla consapevolezza dell'ineliminabile sofferenza che pervade l'esistenza umana, la Weil prende, infatti, coscienza della permanenza di un desiderio che spinge a ristabilire un'armonia tra superiore e inferiore, ovvero tra un Essere che si abbassa per sollevare chi non è più in grado nemmeno di gridare il proprio dolore e un essere marchiato nella carne e nell'anima dalla sventura, che prova a volgere lo sguardo verso quel mondo superiore «dove non succede niente, perché succede sempre la stessa cosa». Diviene dunque essenziale chiarire la natura e il senso di questo legame sempre possibile e sempre difficilmente reale tra l'io e l'alterità trascendente e tra l'io e gli altri esseri con i quali l'io stesso condivide il proprio destino di fragilità e di morte. Vuoto e attesa, distanza e soglia, libertà e obbedienza, sono soltanto alcuni dei termini chiave del vocabolario weiliano con il quale proveremo a confrontarci, un vocabolario che rivela un pensiero profondissimo e paradossale in cui l'incontro con Dio è sempre cercato, temuto e, forse, in ultima analisi, persino evitato. [Preprint]
Gaetano Lettieri, Università di Roma La Sapienza, L'attualità dei Padri della Chiesa per il pensiero contemporaneo
Lo studio delle principali figure e tradizioni teologiche dell'età patristica consente di comprendere come la progressiva affermazione di un'identità cristiana sia fenomeno storico complesso, animato da una pluralità di prospettive divergenti (si pensi, ad esempio, alle decisive alternative tra gnosi dualistiche e protocattolicesimo o tra origenismo ed agostinismo), che rappresentano diversi assetti di equilibrio e predominanza nella mediazione dialettica tra semitico kerygma carismatico-escatologico e cultura ellenistica, ontologicamente ed archeologicamente fondata. Queste tensioni rappresentano pertanto una chiave privilegiata non soltanto per interpretare l'intera tradizione filosofica moderna e contemporanea (che sempre toglie, ritratta, nega e riprende la sua matrice teologica patristica e medievale), ma anche per continuare a riconoscere la radicale attualità della storica rivelazione cristiana come appello e sfida alla razionalità umana, chiamata a proseguire l'interminabile autodecostruzione che è la stessa storia del cristianesimo, interrogandosi ancora sulla libertà e sul dono, sulla fondazione ontoteologica e sull'evento, sul nichilismo e sulla democrazia, sull'escatologica morte di Dio e sull'irrinunciabile attesa messianica
Ilaria Ramelli, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Origene filosofo cristiano: il Περι Αρχων e i suoi oppositori
La preziosa identità di Origene quale filosofo cristiano -- il che include anche il suo essere teologo, in quanto nella filosofia patristica non si dà la distinzione moderna tra filosofia e teologia - trovò la sua massima espressione nel suo capolavoro Περι Αρχων, ove egli emulò da cristiano modelli filosofici greci, da cui trasse ispirazione per la struttura e il titolo. Tale sua identità di filosofo cristiano fu oggetto, da subito, di aspre polemiche, delle quali Origene stesso era consapevole e dalle quali cercò di difendersi, come poi fecero anche i suoi apologisti ed estimatori: Panfilo, Eusebio, Atanasio, Socrate etc. Queste polemiche provenivano essenzialmente da due fronti, opposti ma aventi in comune l'idea che essere un «filosofo cristiano» fosse una contraddizione in termini: 1) quello interno dei cristiani che rifiutavano la filosofia greca e secondo i quali un cristiano non avrebbe mai potuto essere un filosofo, e 2) quello esterno di filosofi pagani (specialmente Neoplatonici) quali Porfirio, secondo cui un filosofo non avrebbe potuto essere cristiano. Porfirio infatti, che aveva conosciuto Origene da giovane e lo stimava come filosofo, si rammaricava che, a suo dire, fosse diventato cristiano -- asserto che Eusebio si adoperò a confutare. Questo duplice attacco è esattamente parallelo al duplice attacco che dovette subire l'allegoresi cristiana della Bibbia, di cui Origene, profondamente ispirato da Filone, fu il massimo teorizzatore e applicatore. Esso proveniva similmente da due fronti opposti, che tuttavia condividevano la convinzione che un'interpretazione allegorica della Bibbia fosse inaccettabile: 1) il fronte interno dei Cristiani che rifiutavano un'esegesi allegorico-spirituale della Bibbia nel timore -- infondato nel caso di Origene -- che questa vanificasse il piano letterale e storico, e 2) il fronte esterno degli allegoristi pagani (anche qui, specialmente medio- e neoplatonici), secondo cui la Bibbia, opera barbara giudaica, non poteva essere oggetto di esegesi allegorica poiché non conteneva verità filosofiche e spirituali da portare alla luce mediante questo metodo ermeneutico, che a loro avviso poteva essere applicato soltanto ai miti greci, e in modo tale da vanificare completamente il piano storico-letterale (per Sallustio, i miti narrano fatti mai accaduti storicamente, ma sono «allegorie di verità eterne»). Queste polemiche abbiano continuato a pesare a lungo nella valutazione di Origene e della filosofia cristiana, a partire dalla penosa «controversia origeniana», e si siano protratte fino ad oggi. [Preprint]
Marta Cristiani, Università di Roma Tor Vergata, «Fides quaerens». Razionalità scettica e dono della fede nel pensiero di Agostino d'Ippona
Partendo dall'analisi delle citazioni agostiniane (soprattutto dal De genesi ad litteram) contenute nella famosa lettera di Galilei a Cristina di Lorena, vorrei sottolineare fino a che punto il tema della ricerca, del valore profondamente etico dell'interrogarsi, sia presente nel pensiero agostiniano e fino a che punto il dialogo con la parola agostiniana sia un dialogo aperto.

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