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Recensione a Jean-Paul Lieggi, La cetra di Cristo. Le motivazioni teologiche della poesia di Gregorio di Nazianzo

di M. Benedetta Zorzi (15 febbraio 2011)

Jean-Paul Lieggi, La cetra di Cristo. Le motivazioni teologiche della poesia di Gregorio di Nazianzo, Herder 2010.

Frutto della ricerca di dottorato conseguito al Pontificio Istituto Orientale, il volume è uno studio sulla poesia di Gregorio Nazianzeno che per J. P. Lieggi ha una specifica funzione teologica ponendosi «a servizio dell'Ineffabile» che è Dio. Sono questi due temi, poesia e l'ineffabilità di Dio, che l'autore nell'introduzione (p. 1) dichiara esplicitamente di voler indagare.

La monografia si propone di «delineare la visione d'insieme della poesia di Gregorio, ricercando le motivazioni estetiche e teologiche che spinsero il Teologo a comporre versi» (p. 9) per arrivare a «formulare poi un giudizio complessivo in merito alla sua produzione di versi» (p. 11).

Apre il volume una prefazione (pp. VII-X) di I. Gargano che sottolinea come «la capillare ricerca di J. P. Lieggi ha potuto reimpostare l'intera problematica relativa alla distinzione fra essenza ed esistenza di Dio in Gregorio, ma soprattutto il suo modo di concepire l'apofatismo cristiano», il lettore si riserverà di concordare o meno con il giudizio del direttore della tesi sul fatto che «l'autore ha apportato arricchimenti ... che non potranno più essere misconosciuti dalla riflessione teologica cristiana contemporanea» (p. IX). Indubbiamente Gargano ha ragione quando scrive che «le novità vere e proprie dello studio sono le analisi presenti nel capitolo quarto» (p. IX) in cui si analizzano in dettaglio sette carmi gregoriani.

Dall'introduzione (pp. 1-15) dell'autore si può anche già evincere il metodo di lavoro: Lieggi appare un preciso e puntiglioso analizzatore, alle prese con una quantità di materiale, anche poetico, molto vasto e di non facile gestione. Come accade anche nell'Introduzione, l'autore spesso anticipa materiale che verrà ripreso successivamente in varie occasioni (si confrontino per esempio i sottoparagrafi che compaiono nel primo paragrafo sulla poesia di Gregorio: 1. La classificazione dei carmi; 2. Sulla valutazione della poesia di Gregorio; 3. Scopo ed articolazione della ricerca; con temi che ritroviamo sia nel primo che nel secondo capitolo. Anche il secondo paragrafo sulla forma teologica dell'apofatismo dà la stessa impressione).

Il primo capitolo (I giudizi sulla poetica di Gregorio. Status quaestionis, pp. 17-84) va considerato in unità con il secondo. Vi si fa lo stato dell'arte dei giudizi dati dai commentatori circa le intenzioni artistiche che avrebbero guidato Gregorio nel far uso della poesia. Lieggi si misura con una quantità di commenti critici ingente (I. 1: Rassegna dei giudizi a partire dal carme II,1,39), sintetizzando e criticando uno ad uno con pazienza: Rudasso, Musurillo; Del Ton; Costanza; McGuckin; Moreschini; Quacquarelli; Demoen; Beatrice; Azkoul; Milovanovic-Barham; Gilbert. La ricerca qui si fa minuziosa ed è preziosa, se non che a tratti risulta un po' faticosa per il lettore, in particolare quando lo studioso si addentra nella «classificazione dei giudizi» (I. 2: Per una classificazione dei giudizi). Dopo aver offerto infatti la rassegna (pp. 17-50) dei commenti sul Carme II,1,39 -- considerato dalla critica come una sorta di magna charta circa le «motivazioni che hanno portato il Cappadoce a comporre versi» (p. 17) -- Lieggi tenta di gestire il materiale articolando la pluralità di interpretazioni secondo quattro prospettive (pp. 51-65): didattica, romantica (un aggettivo con cui si intende «quella poetica che individua nell'ispirazione dei versi la caratteristica essenziale della poesia autentica, cioè di quella poesia che riesce a comunicare l'interiorità del poeta», p. 55) filologico-retorica e retorico-formale. Non si tratta però solo di una classificazione dei giudizi precedenti; emergono qui infatti nomi di ulteriori commentatori a cui si dedicano sottoparagrafi specifici (Cataudella, Pellegrino, Rapisarda; altri nomi di passaggio compaiono all'interno delle altre classificazioni). Nella terza parte di questo capitolo, allorché Lieggi si accinge alla «I. 3: Valutazione del letture individuate» (pp. 65-84), si torna di nuovo alla classificazione proposta, presentando in ordine inverso «I nodi critici di ciascuna lettura» (I. 3. 1.). Ci vuole particolare pazienza per seguire il filo rosso che sostiene l'attento scrutinio dell'autore nell'individuare quale pista soddisfacente il collegamento tra poesia e ineffabilità di Dio, che lo porta a sostenere che la via d'accesso per comprendere la poesia di Gregorio sarebbe quella teologica (I. 3. 2: Considerazioni circa la lettura del carme II, 1, 39; I. 3. 3: Verso una nuova prospettiva: la lettura teologica). Infatti «non si può guardare alla sua [di Gregorio ndr] poesia se non a partire dalla sua teologia» (p. 84). Alla fine del capitolo si riprendono e si criticano ancora una volta alcuni commenti già segnalati: questo ostacola forse un po' la nettezza del percorso verso le conclusioni del tutto convincenti a cui si desidera arrivare.

Nel secondo capitolo (pp. 85-158) lo studioso torna ancora una volta ad esaminare il piccolo brano del Carme II, 1, 39 -- che però aveva già anticipato nel capitolo precedente (a p. 78-80) -- stavolta prescindendo da altri commenti, e offrendone il contesto, il testo e la struttura (II. 1). In un secondo e più dettagliato passo (II. 2: Intenti dell'attività poetica di Gregorio [pp. 33-57]) lo studioso ripercorre da vicino le quattro motivazioni teologiche di Gregorio circa la sua poesia. Vengono quindi passati in rassegna il seguenti temi: il porre limiti alla mancanza di misura -- che comporta una disamina dell'uso dei diversi metri poetici (esametro, distico elegiaco, trimetro giambico, le motivazioni della scelta della metrica accentuativa), del concetto di moderazione -- correlato al tema del silenzio; la valenza pedagogica della poesia (piacevolezza e mnemotecniche) e d'altra parte la relazione della poesia di Gregorio alla poesia ereticale (come la difesa del valore letterario della poesia cristiana in polemica con Giuliano l'Apostata); si passa infine alla decodifica della poesia come «come canto del cigno», cioè conforto nella malattia. Chiude la dettagliata disamina una «valutazione globale del carme» (II. 3) che Lieggi suddivide esaminando la natura polemica, l'interlocutore, i contenuti della polemica, per tornare poi ancora sull'intento didattico della poesia, prosegue indagando l'orientamento della poesia al bene e alla comunione con Dio, il fondamento sulla Scrittura, la possibilità di discorsi incontestabili. «Infatti Gregorio si serve del «metro» per parlare dell'Ineffabile proprio perché il metro è la forma espressiva che gli consente di porre un freno, una «misura» alla propria lingua e alla propria vita nel cammino della virtù, come rivela del resto lo stretto legame che il Teologo stabilisce tra la poesia e il silenzio; inoltre il metro è strumento diadattico validissimo, «medicina» antieretica e «addolcimento» per l'amarezza dei precetti; la poesia è quindi è occasione per gareggiare con i pagani nella ricercatezza formale dell'arte, senza mai perdere di vista la tensione alla vera bellezza che è Cristo; infine è dono di cui godere nelle fatiche e nelle sofferenze, bisognose di sollievo» (p. 258).

Ne emerge un ragguardevole sforzo dell'autore «di rendersi familiare con l'ars poetica antica e in particolare con la metrica classica greca» (p. VII) che richiede un non minore sforzo al lettore.

Il terzo capitolo (Le intenzioni teologiche di Gregorio. La teoria dell'inconoscibilità e dell'ineffabilità di Dio, pp. 159-209) è, a livello teologico, indubbiamente il più interessante: vengono infatti correlati i temi gregoriani della conoscibilità e della dicibilità di Dio sullo sfondo dei risultati di Origene e alla luce della polemica eunomiana. Le opere che si prendono in considerazione sono la Filocalia e i Cinque discorsi teologici (III. 1). Sono poi messi in confronto il pensiero del Nazianzeno con quello di Origene (III. 2.), prima sulla possibilità di conoscere Dio (III. 2. 1.) esponendo in primo luogo il pensiero del Nazianzeno in secondo luogo quello di Origene sull'impossibilità e sulla possibilità di conoscere Dio. Qui Lieggi si affida sostanzialmente ai testi, che spesso giustappone senza troppi ulteriori commenti. Si passa poi a vagliare le problematiche circa la possibilità (prima di Gregorio, poi di Origene) e l'impossibilità (prima di Origene e poi di Gregorio) di parlare di Dio. «Per una più profonda comprensione del pensiero di Gregorio» (III. 3), si cerca l'influsso origeniano su Gregorio (3. 1.), si esclude la presunta contrapposizione tra i due, sostenuta invece da alcuni commentatori (3. 2) e poi si dedica un capitolo (3. 3.) alla apparente contraddizione nel pensiero di Gregorio circa la possibilità o meno di conoscere Dio e di parlarne. Qui si affronta l'interessante questione che riguarda la distinzione tra essenza e esistenza di Dio (3. 1. 1.), che secondo alcuni fonderebbe la possibilità di armonizzare la contraddizione di Gregorio. Si viene a trattare quindi dell'apofatismo in Gregorio. Lo studioso cerca delle «vie per giungere ad una soluzione» (3. 3. 2.) dell'apparente contraddizione di Gregorio indagando le «radici culturali e filosofiche del pensiero di Origene e Gregorio» (di fatto si tratta solo di un riferimento critico a Ermete Trismegisto) e il «vocabolario gnoseologico di Gregorio» (un capitoletto di contenuto piuttosto ovvio, dove è un peccato che non si sia colto né argomentato il riferimento al desiderio in funzione apofatica). In un paio di felici pagine (pp. 204-206), Lieggi sostiene la sua soluzione (3. 3. 3.) dapprima distinguendo tra comprensione e conoscenza di Dio, poi individuando una corretta visione dell'apofatismo, che non sminuisca la dignità della ragione umana («... l'apofatismo non è e non vuole essere assenza di parola, ma apertura al linguaggio dell'Ineffabile», p. 258). Nella grazia incarnata viene infatti focalizzato il fondamento della possibilità della parola umana e di un più corretto concetto di apofatismo cristiano. Il «paradosso del mistero» (3. 3. 3. 3) sarebbe la chiave di accesso per una retta comprensione del «richiamo congiunto della possibilità e dell'impossibilità di conoscere Dio» (p. 208). In questo capitolo Lieggi torna a ribadire concetti che avevano fatto capolino già in precedenza, dove erano stati espressi con maggiore convinzione.

Peccato non trovare praticamente alcun cenno a Plotino, né circa l'essenza/esistenza dell'Uno, né circa la sua ineffabilità (un veloce sguardo all'indice degli autori lo conferma). Il confronto avrebbe certamente contribuito a meglio comprendere le direttrici del pensiero di Gregorio.

Il quarto capitolo (I logoi al servizio del Logos. La poesia come linguaggio dell'Ineffabile) si divide in due parti: la prima propone la poesia di Gregorio come «paradosso della dicibilità dell'ineffabile» (IV. 1), la seconda presenta alcuni carmi gregoriani («sette perle», p. 211) di cui l'autore offre testo greco, traduzione, analisi e commento alla luce della sua chiave interpretativa teologica (i logoi sono a servizio del Logos). Si tratta dei carmi I, 1, 1,; 1, 1, 28; 1, 1, 35; II, 1, 5; II, 1, 34a; II, 1, 38; I, 1, 29. Da questo capitolo appare chiaramente come Gregorio si proponga con la sua poesia di «servire Dio con le parole» (p. 212); i poeti sono per lui teologi, i quali devono essere soprattutto i grandi amici di Dio (p. 215). È Gregorio quindi «la cetra di Cristo» (pp. 260-261), che canta inni, al modo dei poeti suoi predecessori greci pagani, ma per «proclamare la divinità del Logos sotto le forme visibili del Cristo uomo» (p. 215). È quindi indispensabile per il teologo avere un legame vitale con la Parola (p. 216).

Termina lo studio una bella conclusione in cui si raccolgono i principali esiti della ricerca e in cui si può finalmente avere un colpo d'occhio concentrato sulle direttrici del lavoro: la poesia è «fatica divina» (p. 252), che come una piccola «zattera» permette alla teologia di attraversare l'oceano della conoscenza di Dio, a lui e con lui parlando. La cetra deve essere accordata, nell'armonia delle passioni interiori e al suono della grazia dello Spirito (1. 1.), affinché possa essere suonata, dimostrandosi così al servizio della comunità nell'introdurre alla preghiera e perché gli altri vi si accordino (1. 2). La poesia è quindi per Gregorio «strumento grazie al quale raggiungere la meta della navigazione della sua vita: la comunione con Dio e il servizio del Logos nella donazione ai fratelli» (p. 256). Secondo Lieggi non si possono quindi distinguere nettamente i carmi in teologici da quelli storici: in quanto storici essi sono teologici e dogmatici. Lieggi indica una concezione «più autentica dell'apofatismo non come assenza di parola ma come «apertura al linguaggio dell'ineffabile» (p. 158). Gregorio è «teologo poeta» (3. 1) perché ha scritto poesie, perché ne ha teorizzato il significato e l'utilizzo, perché fu consapevole del valore teologico della poesia, ma egli fu anche «poeta teologo» colui «con la sua poesia e in forza di essa e in essa vive la propria missione di teologo» (p. 260).

Nella vasta bibliografia (263-283), gli studi sono selezionati soprattutto in riferimento al tema trattato, quindi in particolare riguardano la retorica, la poesia oltre che il tema dell'ineffabilità. Stupisce trovare nell'indice dei nomi (pp. 293-299) che molti autori ricorrano solo in bibliografia. Se quindi, come si deduce, la bibliografia non costituisce l'elenco di quella citata, ma di quella consultata o consultabile, si segnala l'assenza di M. Zupi, Incanto e incantesimo del dire. Logica e/o mistica nella filosofia del linguaggio di Platone (Cratilo e Sofista) e Gregorio di Nissa (Contro Eunomio) , (Studia Anselmiana 143. Philosophica 6), Roma 2007, che avrebbe potuto fornire sostegno per gli accenni a p. 212 circa il concetto del linguaggio nel Cratilo di Platone.

Ambivalente risulta la tipografia dei termini greci, ora traslitterati, più spesso presenti in caratteri greci (cfr. pp. 214 e a.).

La ricerca di Lieggi è ardua, uno sforzo reso ancora più arduo dalla mancanza di una edizione critica di tutti i versi del Cappadoce (p. 9).

Il tema, come rilevato da Gargano nella Prefazione, presenta anche a parere di chi scrive grande interesse per la teologia di oggi e non solo, come vuole Gargano, in riferimento alla rinascita neo-palamita o nel dialogo tra ortodossi e cattolici, anche se questo è indubbio. Il tema del dire l'indicibile, come sviluppato dai padri della chiesa, se non apporta forse grandissime novità ai cultori di teologia patristica, presenta -- è vero -- arricchimenti «che non possono essere misconosciuti dalla riflessione teologica cristiana contemporanea» (p. IX). Si tratta di un'attualità per la stessa teologia cattolica alla quale questo tema ricorda che «ogni linguaggio che abbia la pretesa di essere teologico e quindi parlare di Dio e soprattutto parlare a Dio dovrebbe essere sempre contraddistinto da tali note costitutive che ne determinano in qualche modo lo stile» (p. 258). Esso inoltre dà un criterio per una giusta valutazione critica di ciò che oggi troppo facilmente viene relegato a «relativismo». Il bandire infatti ogni prospettiva teologica che assuma una tonalità di ricerca e quindi anche di ipotesi o di esito temporaneo, sembra allo stesso tempo dare la stura ad affermazioni di tono fondamentalista, quando non sconfessa un punto essenziale dello stesso concetto di Rivelazione cristiana (Gv 1, 14). Laddove infatti si affermi un relativismo assoluto -- cioè l'ipotesi di non esistenza di una verità assoluta -- nessuna ipotesi risulterebbe più sostenibile, neppure quella stessa che sconfessa esserci una verità, e non sarebbe possibile più nessun linguaggio, né una comunicazione minima tra le persone (che di fatto invece avviene). Ma, detto questo, si deve invece riconoscere che non si può negare la relatività di ogni parola umana che tenta di dire la Verità assoluta che Dio è, e dunque la parola umana anche teologica resta sempre fortunatamente al di là della «comprensione» totale di Dio da parte di un intelletto creato (cfr. la negazione di Gregorio della conoscenza di Dio perfino agli angeli! O l'adagio di Tommaso secondo il quale possiamo conoscere Dio totus sed non totaliter). Di qui l'importanza rilevata da Lieggi sul carattere imprescindibile dell'incarnazione del Logos come possibilità per l'uomo di comprendere e parlare di Dio (cfr. pp. 175-177; 183-193 206-207): «Il Logos incarnato, Gesù Cristo è la conoscenza di Dio. In lui infatti, Dio si auto-limita e ci offre quindi la possibilità di conoscerlo, di com-prenderlo. Ma Gesù Cristo è la conoscenza di Dio in senso ancora più pieno: infatti, se la conoscenza di Dio è l'unione dell'uomo con Dio, è solo nella persona del Logos incarnato che si è realizzata in modo perfetto l'unione della natura umana e della natura divina» (p. 207). Di qui anche l'invincibilità di una prospettiva teologica storica, che consideri cioè la teologia nel suo sviluppo verso la verità tutta intera alla quale lo Spirito non smette di condurci (Gv 16, 13); di qui deriva del resto anche la valorizzazione (!) di ogni esito temporaneo, perché come dice Gregorio -- e Lieggi mette in luce -- Dio è come l'aria che nessuno ha mai respirato nella sua totalità (cfr. Or. 30, 17; p. 189; 204): ciascuno di noi ne può solo respirare un pezzetto, ma quel pezzetto è aria vera: sebbene piccola e imperfetta, la conoscenza di Dio è possibile (p. 177). Questo dà alla comprensione teologica umana nonché al momento spirituale correlato (perché la dicibilità è possibile solo qualora si giunga all'incontro con Dio e all'unione con lui, p. 187) una struttura epektetica, per dirla con l'altro Gregorio (ma si vedano le pp. 177 e 204 sulla progressività della rivelazione divina legata alla nostra crescita, sostenuta dal Nazianzeno).

Questa è la lezione urgente che la teologia odierna deve raccogliere dai Cappadoci, pena l'irrilevanza e l'«inaudibilità» per la cultura di oggi che ha oramai fatto proprio il modulo storico.

Nello stesso tentativo di dare una sintesi fedele alla struttura di questa monografia, si sarà forse notato quella che è stata certamente la sensazione di chi ha letto e potrebbe essere anche quella di chi leggerà il volume: l'eccesso di precisione e di analisi va spesso a scapito delle sintesi e delle conclusioni pur importanti, conclusioni che rimangono spesso -- nel coacervo delle analisi -- troppo sullo sfondo e che infatti l'autore stesso ha bisogno di volta in volta di riprendere e recuperare. Ne risente spesso l'andatura del pensiero che si fa a volte troppo lento e analitico, a volte, per eccesso di zelo, puntuale fino alla ripetizione. Il materiale infatti sfugge ogni tanto alla griglia non troppo severa della struttura della ricerca. Ne deriva una linea desultoria del percorso, con corsi e ricorsi su temi che si sarebbe preferito trovare raggruppati e delineati con una retta più determinata verso il punto di arrivo, che risulta del resto ampiamente condivisibile.

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