Salta il menù

Invia | Commenta

Recensione a Massimiliano Zupi, Incanto e incantesimo del dire

di M. Benedetta Zorzi (15 luglio 2008)

Massimiliano Zupi, Incanto e incantesimo del dire. Logica e/o mistica nella filosofia del linguaggio di Platone (Cratilo e Sofista) e Gregorio di Nissa (Contro Eunomio), (Studia Anselmiana 143. Philosophica 6), Roma 2007; 800 pp., € 80,00.

1. Presentazione

Come il titolo suggerisce in modo ammiccante, il volume di M. Zupi intende presentare una chiave interpretativa sulle teorie del linguaggio (in particolare il rapporto tra dicibilità e ineffabilità dell'essere) in Platone e Gregorio di Nissa, aprendosi a più generali conclusioni su tematiche teoretiche e mistiche senza lasciare intentati alcuni sbocchi su L. Wittgenstein.

Risultato di "otto anni di lavoro" (7), esso giustappone e incastra due studi monografici distinti, maturati in percorsi scientifici autonomi (Laurea in Filosofia all'Unversità La Sapienza con M. Simonetti e G. Lettieri; Dottorato in Filosofia e Mistica al Pontificio Ateneo S. Anselmo con A. Grillo e E. Salmann). Preceduto da una lunga introduzione e da una conclusione, il libro si presenta quindi suddiviso in tre grandi parti, in ciascuna delle quali le due monografie coabitano parallele trattando di volta in volta uno stesso argomento teoretico.

Le più di 160 pagine iniziali fanno dell'Introduzione una sorta di studio a sé stante: vi troviamo una premessa metodologica con la quale si offre al lettore la chiave d'accesso delle analisi che seguiranno; uno status quaestionis su Platone, che si snoda prima tra le teorie del non-scritto platonico e poi più specificatamente nel Cratilo; infine uno status quaestionis sul Contro Eunomio di Gregorio di Nissa.

1.1. Incantesimo del dire

La prima parte (167-290) intitolata Incantesimo del Dire si suddivide -- struttura che resta identica in ogni parte -- in due capitoli paralleli dedicati rispettivamente al Cratilo e al Contro Eunomio con una conclusione riassuntiva.

Nel primo capitolo (167-216) viene offerta dapprima una disamina delle varie ipotesi circa lo specifico oggetto di studio del Cratilo, focalizzato da Zupi sul tema della natura e dell'origine del linguaggio in dimensione gnoseologica. Dopo una contestualizzazione storico-filosofica della teoria platonica, si passa all'esposizione della posizione del convenzionalismo "debole e ingenuo" (181) di Ermogene (179-187) del Cratilo platonico per il quale i nomi sarebbero una mera creazione umana, data per convenzione: infine viene esposta la posizione del naturalismo di Cratilo (189-213) "portavoce dell'antica cultura sacrale orfico-pitagorica" (216) per cui i nomi, "rivelazione cristallizzata della verità delle cose" (196), indicherebbero univocamente l'essenza delle cose. L'intento della lunga rassegna etimologica posta da Platone nel testo sarebbe quindi quella di "smascherare il fondamento ontologico sotteso al naturalismo" (207). Tale fondamento è che "l'essere sia afferrabile e comprensibile nella sua identità: la pretesa del linguaggio di dire univocamente la realtà corrisponde infatti alla pretesa ontologica di comprendere l'essere nella sua identità" (209).

Con un salto un po' disorientante di sette secoli il secondo capitolo (219-283) di questa prima parte si sposta sul mondo del cappadoce. Viene presentata così, secondo una struttura che intenzionalmente resta simile a quella del primo capitolo, la teoria di Eunomio (preceduta anche questa da una ricognizione fin troppo dettagliata del contesto storico-dottrinale della controversia che ha opposto Gregorio di Nissa ad Eunomio) 1 considerata parallela a quella di Cratilo: una teoria naturalistica del linguaggio (i nomi dicono l'ousia) che denuncia tuttavia una aspirazione dell'intelletto ad una comprensione univoca dell'essere, la quale però sfocia in un pensiero tutto sommato equivoco.

Chiude il tutto un breve e utile sommario alla prima parte (285-288) in cui le teorie con cui Platone e Gregorio si sono misurati vengono riassunte in stretto parallelismo. Si comprende qui di quale incantesimo si parli nel titolo: "l'incantesimo di cui è vittima il linguaggio, l'inganno metafisico, è che il linguaggio stesso possa essere strumento di incantesimo, strumento per possedere la realtà, per comprendere le cose nella loro identità, manifestazione univoca dell'essere, deposito, logico o sacrale che sia, della verità" (288).

1.2. Disincantamento del dire

Nella seconda parte (289-386), Disincantamento del dire , continua la struttura formale della prima parte: in due capitoli viene esposta la confutazione della teoria precedente prima nel Cratilo poi nel Contro Eunomio sulla base della dimostrazione dell'irriducibile equivocità dell'essere.

Esistono nomi errati? Nel primo capitolo (289-309) si cerca di rispondere a questa domanda evidenzindo la confutazione dal parte di Platone dell'ontologia ideologica sottesa al naturalismo di Cratilo. Il paradosso dei "due Cratili" mostra che se il nome per essere giusto dovesse essere identico alla cosa stessa avremmo allora un inutile doppione (297). Il nome invece per dire l'identità dell'oggetto deve essere differente dall'oggetto stesso. Ciò dimostra la natura fondamentalmente euristica dei nomi, che cercano di coprire l'intervallo esistente tra nome e cosa.

Il disincantamento del dire deriva quindi dal fatto che l'essere "è pensabile e dicibile soltanto nella sua differenza, equivocamente" e il linguaggio "anziché deposito statico della verità, risulta essere ricerca critica in atto, che ri-vela l'identità dell'essere solo in quanto differente" (310).

Nel secondo capitolo (311-377) di questa seconda parte si torna in contesto cristiano: viene così affrontata la teoria dei nomi di Gregorio di Nissa con la concezione della natura epinoetica del linguaggio umano (il nome è un "pensiero" [nous] "intorno a" [epi] qualcosa) caratterizzato dal diastema - tipico concetto gregoriano - e cioè "l'intervallo che separa il pensiero dal nome, il nome dall'oggetto e i parlanti tra di loro, intervallo mai colmabile pienamente" (336). I nomi, insomma, secondo Gregorio di Nissa, dicono le cose "non direttamente ma attraverso la mediazione del pensiero umano" (342). Essi "rappresentano i tentativi attraverso i quali l'intelletto umano si avvicina all'oggetto da conoscere ... " (343), in un processo conoscitivo di infinita approssimazione che non blocca la ricerca, ma motiva l'intelletto ad andare sempre oltre (natura euristica del linguaggio). L'ousia divina infatti è indicibile e incomprensibile per vari motivi: sia quello a) della natura epinoetica del linguaggio e della conoscenza umana; sia b) dell'infinità di Dio; c) "sia a causa di un limite ontologico, a causa cioè dell'essere come limite" (361).

Un po' dispersivo risulta il percorso che di qui si diparte per inoltrarsi sui legami tra la concezione del linguaggio di Gregorio di Nissa con quelle di Plotino ed Origene (363-376). Chiude bene però questa seconda parte un consueto efficace riepilogo (383-386).

Se l'incantesimo del dire insomma è la pretesa di una comprensione univoca dell'essere, l'essere stesso nella sua equivocità opera il disincantamento del linguaggio (cfr. 384).

1.3. Incanto del dire

La terza parte (387-701), Incanto del dire, si struttura ancora in due parti parallele dedicate ai due grandi pensatori: vi troviamo una lettura in chiave mistagogica e mistica della filosofia e del linguaggio.

È proprio questa mistagogia che in Platone (391-509) giustifica la posizione socratica di un convenzionalismo eticamente e ontologicamente fondato (i nomi sono sia per convenzione -- ma non in senso individualistico alla Ermogene -- che per natura -- ma non in senso ideologico alla Cratilo-; per natura qui si intende la natura-sociale (398) dell'essere umano che nel campo del linguaggio diventa il rapporto tra i parlanti). Zupi avanza l'ipotesi di intendere il rinvio "alle cose stesse" di cui parla Socrate come il rinvio ad andare al di là del linguaggio, cioè alla verità metadiscorsiva insita nel linguaggio stesso. Zupi intende così demistificare la stessa interpretazione demistificante del linguaggio, per riscoprirne la funzione mistagogica. La concezione mistica del linguaggio sarebbe quella che, a suo dire, i nomi oltre a dire l'essenza delle cose e riflettere una concezione del mondo, sono anche traccia di una verità non prodotta dall'uomo, meta-discorsiva che è origine e fine del linguaggio stesso (cfr. 418-419).

In Platone il Cratilo è quindi solo l'inizio di una riflessione sul linguaggio che sarà portata avanti dal Sofista dal punto di vista ontologico (421-484).

Il trapasso dalla logica alla mistica in Gregorio (513-696), è reso possibile dall'incarnazione di Cristo: "la carne di Cristo infatti è quell'inter che costituisce la soglia, il luogo di trapasso tra Dio e uomo, in essa soltanto l'essere divino ri-velandosi quale viscerale inter-esse per l'uomo, e viceversa l'essere umano quale viscerale inter-esse per Dio: nella carne trafitta del crocifisso si compie infatti la trasgressione dei propri limiti da parte della natura divina al fine di farsi una con quella umana, così come attraverso la compunzione, la trafittura del cuore conseguente alla contemplazione delle ferite del trafitto, la trasgressione dei limiti della natura divina si fa carne nella carne di ogni uomo, che a sua volta desidera allora diventare anch'egli carne trafitta al fine di poter così trasgredire i limiti della propria natura e unirsi al proprio Dio. La carne di Cristo è quella soglia, quel limite in cui il logos si fa carne e la carne logos, la separazione unione e l'unione generazione, al parole silenzio e il silenzio preghiera: quel limite e quella soglia in cui si realizza quel fertile cortocircuito di logica e/o mistica in cui consiste il mistero del dire, come pure del vivere e del pensare" (696). L'approdo a questo esito avviene dopo lunghe disamine sulla dottrina trinitaria e cristologica di Gregorio.

L'incanto del dire deriva da quell'ulteriorità (mistica) che è istanza genuina contenuta nel linguaggio dalla quale lo stesso linguaggio è chiamato a ricomporre una unità con le cose: "la naturalità del linguaggio è confutata per essere riaffermata come naturalità perduta, presente in qunto assente: come naturalità mistica appunto" (499). La stessa aporeticità del linguaggio costiutuisce lo "strumento del processo conoscitivo e della produzione di senso" del linguaggio stesso (708). C'è dunque una verità originariamente perduta nel linguaggio (indicibile), che resta tuttavia il costante anelito unitivo del linguaggio stesso (dire l'indicibile) anelito tramite cui si attua la produzione incessante di senso del logo e la sua approssimazione vera ma mai esausta alla verità. E' questo il suo perenne incanto.

Conclude il lavoro una Conclusione (703-723) fatta di varie conclusioni, non tutte di pari rigore scientifico: una più pregevole e sistematica conclusione sul percorso fatto; una tesa verso l'ipotesi di una ricerca dello stesso genere su L. Wittgenstein; una "fenomenologica" sull'apprendimento del linguaggio e infine una conclusione "lirica" come appunti di una meditazione spirituale su Gv 1, 1.

In appendice (725-746) si può trovare un utile sommario ragionato del Contro Eunomio.

2. Rilievi critici

La chiave di lettura scelta da Zupi presenta indubbiamente una sua forza che ricade immediatamente su attuali questioni teoretiche (l'equivocità del pensiero dell'origine, il pensiero dell'identità tramite la differenza) e teologiche ("denunciare l'aporeticità di ogni sforzo di comprensione puramente logica di Dio", 701). L'insieme del volume tuttavia si presenta ancora troppo nella forma della tesi di laurea: interminabili ripetizioni di uno stesso concetto, mancanza di sinteticità; excursus che si allontanano troppo dallo scopo specifico della ricerca e che dovrebbero limitarsi a costituire il background culturale dell'autore. Si arriva così facilmente a queste 800 pagine che richiedono al lettore una pazienza spesso vacillante soprattuto allorché questi è messo a confronto con una modalità di presentazione supponente e autocentrata.2

La riproposizione della polarità logos-mistica nella sua tensione irrisolta, si presenta certamente come una fruttuosa chiave di lettura, ma certo non può essere l'unica (come pretenderebbe l'autore) ,3 tanto meno l'unica per determinare le differenze tra platonismo e cristianesimo, cristianesimo e neoplatonismo (forse sarebbe meglio specificare tra platonismo plotiniano e neoplatonismo gregoriano)4 tanto meno tra ortodossia ed eresia (283).

Il rischio insito in un approccio secondo il quale, giustificati dalla "figura dello spirito" (che sembrerebbe un linguaggio debitore a E. Salmann), si potrebbe arrivare a comparare un ritratto paleocristiano con un dipinto di Chagall sulla base del fatto che usano entrambi dei colori, viene frenato da un solido approccio esegetico e storico-critico che l'autore deve alla scuola di un grande maestro come M. Simonetti (di cui risente positivamente soprattutto la parte dedicata a Gregorio). Il pregio di Zupi sta infatti nell'aver utilizzato in modo sapiente le intuizioni e aperture che possono derivare da un accostamento "fenomenologico" di due grandi pensatori così lontani e diversi tra loro: trattarli come "figure di uno stesso spirito", senza lasciarsi tuttavia prendere troppo dal fascino e dall'ebbrezza che la creatività senza limiti di tali accostamenti permette. Tale metodo arriva però in Zupi a mostrare le sue secche quando cerca per esempio in Levinas, che pure riconosce come un autore che non si ritiene affine a Platone, la giustificazione di ciò che dice Platone5 (54-58).

Il lunghissimo e forse non necessario6 status quaestionis su Platone (145 pagine), si presenta tutt'altro che come un tradizionale status quaestionis (che tuttavia l'autore mostra di saper fare in altre parti del suo libro, come per esempio nella seppur sintetica ma rigorosa ricognizione su Gregorio, 147-162) ,7 oscillando tra una polemica contro G. Reale, una introduzione alla sua proprie interpretazioni che si lascia andare troppo presto a commentari analitici (del Simposio per esempio, cfr. 37-40, dove tra l'altro in un ardito accostamento tra Socrate e Francesco d'Assisi o Siddharta, 39, l'autore manca di segnalare riferimenti più diretti e testuali tra la figura di Socrate e quella di S. Antonio fatta da Atanasio, modello poi per l'agiografia stessa di S. Francesco), pagine dal tono omiletico sull'inizio del Vangelo di Gv (35-36 e da 719-723, dalle quali emerge la domanda se sia questo il modo in cui i frutti della propria lectio divina debbano entrare nello studio accademico) nonché vere e proprie brucianti esortazioni dal tono estatico-profetico (76) .8

Il metodo di lettura dei testi che l'autore dichiara essere una lectio divina forse lascia un po'perplessa una monaca benedettina. Se infatti è indubbio che il metodo della lectio divina come lettura attenta e meditata della lettera del testo biblico, porta (o dovrebbe) ad una profondità di lettura della realtà, nel senso di un intus-legentia, applicare una lettura adorante ad un testo di Platone potrebbe dare adito a più che una obiezione. Di fatto comunque l'autore non disdegna di affrontare il testo con una lettura complementare a anche a livello strutturalista.

La grande capacità espositiva dell'autore rende spesso le pagine molto ripetitive, nello zelo di voler sviscerare un concetto, egli esprime la stessa cosa da tutti i possibili punti di vista e formulazioni linguistiche. Come detto, il testo non è certo un concentrato di essenzialità di pensiero (vi si ritrovano ossessionanti ripetizioni, giustificate dall'autore come un procedimento "a spirale", 8). Ad un lettore non sprovveduto tali pagine rischiano di sembrare ripetizioni quasi ossessive. Va riconosciuta invece l'utilità delle sintesi magistrali, per chiarezza e brevità, che l'autore propone ad ogni fine sezione.

Un ulteriore merito della ricerca sta certamente in questa chiave di lettura che aiuta l'autore a cogliere certi nuclei importanti del pensiero dei due grandi filosofi e che egli propone come contenuto e volto precipuo dello spirito della filosofia: la relazione tra mistagogia ed esperienza diretta della verità, ovvero tra logos (linguaggio) e mistica, in una tensione che avvicina incessantemente i due poli, lasciandoli in una tensione irrisolta generatrice di ulteriore linguaggio, vita, pensiero.9 Zupi tenta il pensiero della differenza, in modo efficace e convincente, inserisce il paradosso come struttura portante della filosofia, come dinamica e fulcro. L'accento posto sulla passività della esperienza filosofica (pathos), sul suo carattere fortemente relazionale ed erotico, l'inserzione della (inter)dipendenza al centro dell'esperienza filosofica sono tematiche inedite per chi le pensava ancora esclusivo privilegio di certi anglosassoni.10 I giovani pensatori come Zupi mostrano però che finalmente certe tematiche sono ormai entrate a pieno diritto nella teoretica e vanno trattate come temi non secondari della ricerca accademica. Si leggano le belle pagine in cui Zupi si misura con la differenza tra la mistica plotiniana e quella di Gregorio, e dove non rigetta di mettere a tema del pensiero la genesis, la trafittura, la carne, la sessualità (692-696). Se una critica gli va fatta deriva proprio da qui: dal dispiacere di non vedere assunto il contenuto tematizzato nel metodo.

Non intendo riferirmi solo al fatto che il taglio di Zupi è "squisitamente teoretico", come ci tiene a ripetere l'autore in modo quasi martellante, perché non mancano le analisi di ricostruzioni storiche che costringono l'autore a cogliere le distanze e le differenze.

Il punto su cui vorrei portare l'attenzione è il modo in cui spesso Zupi propone (o impone) la sua posizione interpretativa. Egli si sforza ad ogni passo di dimostrare la sua indipendenza,11 la sua originalità ("quel che finora non è stato mai fatto", 132; 133; 136; 216 etc...), in status quaestionum in cui egli avanza scartando tutti coloro che incontra sul suo cammino ("incapaci di stare all'altezza del pensiero di Platone", 108; 130; 134, 170-171) .12

Zupi ci dice che se un pensiero non inscatola tutta la realtà non è di per sé un pensiero debole, tuttavia propone la sua chiave di lettura come unica per capire la vita, il pensiero. Egli propone contenutisticamente l'aporeticità come dinamica della creazione e di ricerca della verità, ma non sopporta possibili aporeticità nel pensiero di Platone (che rende criterio per scartare le opinioni altrui) come se Platone sarebbe indebolito se non risultasse ein Systematiker. Zupi riflette sull'interdipendenza ma poi è attento a non dichiarare di essere "contaminato" dal pensiero altrui.13 Perfino là dove deve ammettere contatti e contaminazioni con ipotesi di altri autori si sforza di restringere il campo di tale dipendenza parlando al massimo di "affinità elettive"14 (come nel paragrafo dedicato a Guardini, un pensatore che sembrerebbe quasi "riabilitato" dal confronto con il pensiero dello studioso italiano). Leggiamo che la storicità è importante per un pensatore cristiano 15 così vorremmo quasi chiederci come si sia formata l'interpretazione e la chiave di lettura in Zupi. Sembrerebbe già prima dei suoi otto anni di ricerca (7 ma allora 65?).

Sarebbe importante per un interprete che mette a tema la traditio (cfr. 32-33) dimostrare di muoversi a partire dai debiti contratti lungo il suo percorso formativo ("mistagogico", direbbe il nostro autore). Alla fine si ha quasi il dubbio che egli non abbia sperimentato quella "mistagogia" che a suo parere è la conditio sine qua non di una vera esperienza filosofica e mistica.

Si vorrebbe quasi ipotizzare che Zupi non si sia ancora affrancato dal "vizio" originario della filosofia occidentale, che ha creduto di dover pensare l'essere come separato, come Uno, procedendo perciò a separare il pensiero dal corpo, a pensare l"essere per la morte". Pensare l'origine significa, come ricorda Zupi bene e in vari luoghi (p. es. 692-696), pensare la differenza come polarità, come relazionalità (mistagogia?), pensare la nascita, la generazione, la carnalità, la gestazione. "La pretesa di dire le cose nella loro identità" è una trappola (385) appunto un incantesimo. Se si sa -- come Zupi ben sa -- ma non si è disposti a riconoscere che non si dà immediatezza della Verità senza mistagogia, senza tradizione, senza quei fasci di relazione erotiche che ci hanno suscitato e accompagnato alla "soglia" (Penia), allora il pensiero della differenza ha ancora un po' di strada da fare per entrare nell'Accademia.

Zupi interpreta la polarità logos-mistica come la "sola" in grado di spiegare lo spirito della filosofia, e quindi ovviamente Platone e Gregorio, o le differenze tra cristianesimo e platonismo e perfino tra ortodossia ed eresia (283). (Ci si chiede quale declinazione avrebbe assunto tale interpretazione rispetto al platonismo di Filone Alessandrino che identifica le Idee con il Dio personale biblico ma non trinitario). Relegare la differenza tra platonismo e cristianesimo e tra ortodossia ed eresia ad un problema teoretico, misconosce ancora una volta l'importanza della storicità, come se non vi fossero differenze tra platonici e platonici e tra cristiani e cristiani (che dire delle varie forme di platonismi non cristiani, cristianesimi platonici, platonismi cristiani? Filone Alessandrino, Giustino, Ignazio[!] Clemente Alessandrino, Mario Vittorino; e che ne è della famosa "crisi dell'etica neoplatonica" che dopo Plotino inciderà così tanto sulla fiducia dei neoplatonici di raggiungere l'estasi?), o come se le scelte politiche non fossero anche intervenute - e prepotentemente - a creare la demarcazione tra ortodossia ed eresia.

Ad una lettura un po' più scaltra ci si accorge che in questo campo egli spesso è contraddittorio: pur accusando cioè altri autori di creare etichette, torna a trattare "platonismo" e "cristianesimo" come realtà monolitiche, distinte, chiare e delimitate (cfr. 267; 271). Probabilmente certi passaggi vanno ascritti a fasi non ancora mature di questa ricerca che, come detto, copre otto anni di lavoro.

Quando viene teoreticamente posta la limitatezza del logos, di cui tuttavia si riconosce l'ineludibile necessità nel pensare, perchè Zupi -- che pur in questa sua esposizione ricorda e conosce l'uso dei concetti-immagini16 che costantemente Plotino e Gregorio fanno (o se vogliamo la ripresa forte della funzione del mito in Platone)17 -- non le riconosce come luogo possibile di una ulteriore dialettica con la mistica (oltre a non evidenziare su questo punto le dipendenze di Gregorio da Plotino)? Non è forse che l'immagine che Plotino usa per descrivere l'unione mistica, quella dell'unione erotica eterosessuale (VI,9,4,18-19), pone in Plotino il simbolo e l'immaginazione, come funzioni dell'intuizione recettiva, ad una dignità pari a quella del pensiero e del concetto? Quanto Zupi, che pur conosce l'importanza delle immagini nel pensiero di questi filosofi (cfr. 352; 365), ri-conosce tali funzioni come luoghi per pensare la mistica e la filosofia? Anche per questo risulta restrittiva la sua dichiarazione che la polarità logos(logica)-mistica sarebbe l'unica capace di spiegare la filosofia o addirittura ogni autentica esperienza umana di verità (del vivere, del dire e del pensare, 696). Se vogliamo lasciar stare la matematica, perché facilmente rientra nel binomio, che resta dell'arte e dell'esperienza carnale amorosa? Non era meglio limitarsi ad indentificare il polo del binomio, logos, semplicemente come il linguaggio e non anche come pensiero, logica etc.?18

Per quanto riguarda l'altro polo del versante del binomio: cosa è la mistica di cui Zupi parla? Essa non sembra mai spiegata ma sempre e solo introdotta e presupposta senza tuttavia che si possa spiegare da sé. Quale è il concetto da cui Zupi parte, che dà per presupposto, con cui ragiona e al quale si riferisce? Quale (e quante possibili) interpetazione dell'idea di mistica in Platone e a quali Zupi si riferisce? Per quanto riguarda l'unione mistica in Plotino, c'è chi è arrivato a distinguere almeno quattro linee interpretative (cfr. J.M. Rist, Plotino. La via verso la realtà, Genova 1995 [Cambridge 1967], 278-300). A quale di queste Zupi aderisce? E si può così indistintamente arrivare poi a identificare la mistica di Platone con quella di Gregorio di Nissa, dal momento che è perfino scontato che le Idee di Platone abbiano caratteristiche diverse dal Dio personale biblico di Gregorio? Non sarebbe stato meglio limitarsi modestamente ma più correttamente a parlare all'interno di questa ricerca dell'"ineffabilità" piuttosto che pretendere di dare risposte definitive su cosa sia la "mistica"?

La domanda che si pone quindi è: non sarà che questa metodologia nasca anche da un pensiero della differenza che pur entrando come tema e contenuto non è ancora riuscito ad essere assimilato come procedimento perchè forse non può che entrarvi (inevitabilmente) a partire da una maggiore coscienza di quella differenza sessuale (mettere a tema la parzialità del pensiero maschile e di tutta la filosofia occidentale) che davvero rende incarnata la parzialità radicale del nostro essere, pensare e del nostro dire ("il dire vive della differenza", scrive bene Zupi a 383)?

L'ombra del pensiero dell'identità torna nel metodo di affrontare i due grandi pensatori con una griglia di lettura unica (quando poi vi si aggiunge Wittgenstein, 287, la cosa diventa ancora più preoccupante). Davvero le differenze, le sfumature tra un autore e l'altro alla fine non sono importanti? Certo, la schematizzazione aiuta la comprensione, ma non rischia di diventare un impoverimento di approccio? Non rischia di essere un vizio di prospettiva proprio laddove crede di essere una visione neutra oggettiva? Qui l'emulazione di Hegel davvero non ha aiutato l'autore (145; 122). La bella chiave di lettura ha il suo rovescio nel risultare spesso anacronistica e soprattutto torna a riproporre un dannato pensiero unico. La "logica del paradosso" non tradisce ancora la paura delle aporie nel pensiero? Se una funzione filosofica dell'ironia doveva essere ricordata a 96 era proprio quella della sua capacità di spostamento della gerarchia dei valori e di distruzione degli assoluti: per questo però Platone condannerebbe gli ironici ad una doppia morte (Leggi X, 908c-e) e Hegel non diversamente.19

Prima di terminare si dica ancora che convincente risulta l'ipotesi di lettura del Sofista in continuità col Cratilo, sia nel senso di un approfondimento complementare (contro quelle due facce della stessa medaglia rappresentate dal realismo e nominalismo linguistico, ovvero dall'ontologia ideologica e dal relativismo ontologico), sia per continuità tematica (concezione anti-ideologica del linguaggio), sia per linea di sviluppo argomentativo: entrambi i dialoghi vogliono smascherare l'inganno che vi sia una identità senza differenza e una differenza senza identità (come invece ritengono Cratilo e il sofista).

Gli esiti dello studio forse dovrebbero (e questa è una esortazione fatta all'autore con la parrhesia di una sororità che lega chi scrive all'autore da lunghi anni) essere sintetizzati in una pubblicazione più agile, perché meritano davvero di essere resi accessibili (anche per prezzo) ad un vasto pubblico.

Alla editrice Studia Anselmiana: dovrebbe riuscire a venire a patti con gli indici dei volumi della sua collana (i numeri delle pagine non risultano purtroppo riprodotti fedelmente).

I vostri commenti

Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!

Potete leggere la dettagliata risposta dell'autore alla recensione.

Note

  1. La disamina storica risulta troppo dettagliata ai fini della ricerca, mentre nella ricostruzione del contesto dottrinale il materiale che affonda nelle questioni trinitarie e che chiama in causa in modo dettagliato Plotino e Origene in un indigesto confronto tra neoplatonismo e cristianesimo, considerate le tante ripetizioni, appare una digressione che richiede troppo al lettore. Testo

  2. Continui confronti con l'intelligenza di altri autori (invece che limitarsi ad esporre cosa dicono); Gregorio sarebbe più intelligente di Eunomio (277); innumerevoli punti esclamativi che indicano lo stupore di una scoperta che potrebbe non essere tale per chi legge; un continuo ribadire l'unicità di ciò che si sta dicendo etc... Testo

  3. Cfr. 77; 86; 105-106; 150; 156; 349; 381; 701 et al. Del resto tale polarità non può nemmeno sbrigativamente essere identificata come il rapporto tra fede e ragione, cfr. 106, che a parere dell'autore se non impostata come fa lui resterebbe solo "vaga e inconcludente", 160. Testo

  4. La cui linea di demarcazione, come ben detto in 696-7, è data dalla "carne trafitta di Cristo". Testo

  5. "Levinas non poteva immaginare [...] che le sue parole potessero essere utilizzate per riproporre il senso della filosofia platonica... si potrebbe credere che Levinas stia spiegando il senso dell'istituzione dell'Accademia platonica", 58. Testo

  6. In modo particolare l'autore si sofferma ad una destrutturazione radicale delle ipotesi interpretative di G. Reale che per quanto si possano rendere necessarie in Italia, a causa dell'operazione editoriale-diffusiva del filosofo, tuttavia non sono prese molto in considerazione dagli studi su Platone europei, tanto meno angloamericani. Testo

  7. Anche se resta un po' datata, cfr. 108, n. 196 come confessa l'autore. Testo

  8. "E' tempo di ripensare una scienza dell'essere, che riconsideri l'essere nei suoi quattro attributi trascendentali... è tempo di ripensare criticamente l'essere, di rifondare una metafisica ... è tempo di riscrivere le Critiche...", 76. Concordiamo con l'autore quando afferma a pagina 84 che un titolo più appropriato per questa lunga introduzione sarebbe stato "il paradosso di scritto e/o non scritto in Platone" Testo

  9. Forse troppo spesso l'autore si lascia sedurre dall'Aufhebung hegeliana, cfr. 122; 145; 178 et al. Testo

  10. L'ambiguità dell'orientamento sessuale di certi studiosi (si pensi alle intuizioni di D.M. Halperin, K.J. Dover, A.W. Price o K.L. Gaça e tanta letteratura circa la reinterpretazione dell'eros platonico a partire dalla prospettiva di M. Foucault) ha forse costituito una base necessaria per ripensare alcuni temi legati alla sessualità; doveva forse così essere permesso il passaggio alla teoretica di temi normalmente relegati a trattazioni ritenute marginali o femministe e che forse solo tramite "identità mutanti" come quelle di questi esperti potevano trapassare nel pensiero occidentale (pensiero dell'identità) in modo da essere presi in seria considerazione. Testo

  11. "Nessuna dipendenza positiva, ma solamente una grande affinità elettiva", 65. A pagina 60, quando ricorda la suggestiva (ma giustamente rilevata "errata") etimologia di ex-per-iri, nemmeno un riferimento alle belle pagine di A. Fabris proprio nel volume di Studia Anselmiana Filosofia e mistica 1997. Testo

  12. Ma anche Eunomio "non è all'altezza" dell'irriducibile equivocità dell'origine, 347. Il massimo di questo atteggiamento si raggiunge nel titolo di pagina 141: Gli studi speculativo-continentali e il loro confronto con la linea interpretativa qui seguita. Testo

  13. Curioso diventa a pagina 131 dove l'interpretazione di T.A. Szlezák sarebbe vicina a quella da lui presentata perché "a differenza di tutte le altre" ... o a pagina 134 dove si dichiara che la prospettiva assunta è assolutamente inedita salvo poi restringere poco più avanti: "Unica eccezione a onor del vero ...", e altri casi simili sono diffusi ovunque (in particolare condensati in 132-135).Testo

  14. Si veda la posizione rispetto a R. Guardini (65-79, ma in particolare 65) o a G. Salmeri (che si limita ad accompagnare in parallelo, cfr. 50-52, in una nota lunga tre pagine). Testo

  15. "La filosofia del Nisseno è filosofia essenzialmente cristiana in quanto fondata sul mistero dell'incarnazione in quanto cioè l'oltre diventa presenza, la metafisica etica, l'ontologia storia, l'oggetto soggetto", 161. Testo

  16. Cfr. 365 cerchio, sole, goccia; e poi le immagini in Plotino, 662. Ottima la ricognizione delle immagini per spiegare il nous in 662, n.8. Testo

  17. Ma cita come molto innovativo il datato e superato studio di G. Krueger (Ragione e passione è del 1939). Testo

  18. Non a caso Plotino riconosce invece tre vie (filosofica, estetica ed erotica) che conducono alla mistica. Testo

  19. Estetica. Il concetto del bello artistico: "Coloro che non sanno tener fermo ad un loro fine saldo e importante, ma vi rinunciano e lo fanno in sé distruggere", Milano 1963, 92; cfr. M. Forcina, Ironia e saperi femminili. Relazioni nella differenza, Angeli, 1998, 29. Circa l'interpretazione della funzione dell'ironia socratica, è un peccato che Zupi non si sia misurato con il classico studio di G. Vlastos, Socrates. Ironist and Moral Philosopher, Cambridge 1991, e anche i più recenti approfondimenti sulla complex irony in T.C. Brickhouse - N.D. Smith, The Philosophy of Socrates, Boulder CO 2000. Testo