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Una teologia per l'India: Jules Monchanin

di Paolo Trianni (9 maggio 2010)

1. Una figura missionaria atipica

Jules Monchanin incarna una figura missionaria atipica: il missionario teologo. La testimonianza cristiana che egli svolse in India, infatti, coincide nei suoi tratti essenziali con un confronto filosofico con il pensiero indiano. La sua, sotto questo aspetto, fu dunque una missione inconsueta, anche perché la gran parte delle opere missionarie precedenti alla sua -- con poche rare eccezioni, tra tutte quella di Roberto de Nobili al quale egli si ispirò attraverso l'esempio di Brahmabandhav Upâdhyâya -- non erano caratterizzate né da un vero impegno teologico né da un reale rispetto verso l'altra cultura religiosa.1 Egli invece introdusse il concetto di una necessaria teologia dello scambio e di una indispensabile fecondazione reciproca, a motivo della quale era essenziale non solo portare Cristo all'India, ma anche l'induismo nella spiritualità cristiana.2

Il compito a cui egli si era sentito chiamare nella festa di San Benedetto del 1950 quando, insieme al compagno Le Saux, aveva fondato l'âshram della Trinità, era infatti quello di preparare l'avvento di un «Cristo indiano».3 Non c'è alcun dubbio, quindi, che sin dal 1939, anno del suo arrivo in India, Monchanin abbia rappresentato un vero pioniere del dialogo interreligioso monastico, né possiamo dubitare che anche la sua testimonianza sia da annoverare tra quelle che hanno ispirato il Concilio Ecumenico Vaticano II, ed in particolare alcune sue affermazioni sul rapporto tra la Chiesa e le religioni non cristiane.4 La natura della missione da lui avviata, da questo punto di vista, proprio perché di un ventennio precedente tale evento, era quanto di più complesso ed innovativo si potesse intraprendere sul piano missionario e teologico. Era infatti dai tempi dei primi sette concili che hanno sistemato il simbolo cristiano, che una teologia -- ma presto ne sarebbero seguite altre -- non sollevava in maniera tanto esplicita l'esigenza di trovare altri linguaggi e nuove formulazioni al mistero trinitario.5 Formulazioni che, sganciate dalla civiltà mediterranea, potessero adattarsi a nuovi contesti culturali, come quello, appunto, della millenaria religiosità indiana.6 Non era domanda da poco, infatti, domandarsi in quegli anni se fosse possibile ripensare Efeso e Calcedonia. Ed è proprio in vista di tale ripensamento che le sue riflessioni si concentrano su un ritorno al pensiero greco, con una particolare attenzione alla patristica neoplatonica. La sua teologia riprende in questo modo le categorie filosofiche utilizzate dai Padri greci nella loro costituzione del dogma cristologico e trinitario, come quella di Relazione, Essenza o Persona, per rivestirle di una potenzialità espressiva, e quindi dialogica, nuova. Nell'intraprendere questa impresa teologica, tuttavia, Monchanin non fu certo abbagliato dall'illusione di una «sintesi» rapida ed immediata tra induismo e cristianesimo. Egli non credeva affatto alle architetture filosofiche e teologiche perfette, e proprio per questo motivo, mirava, molto più realisticamente, ad individuare dei semplici luoghi d'incontro che permettessero una «griffe», cioè un aggancio tra le due tradizioni, capace di portare alla luce comuni ricchezze rimaste latenti.

Il ritmo filosofico della missione di Monchanin, da questo punto di vista, corrisponde all'Ursprung di Jaspers,7 o anche all'aufheben hegeliano, cioè del distruggere e conservare l'antico trasfigurandolo.8 L'atteggiamento di fondo che egli intrattenne verso le sue due religioni d'adozione, segue, appunto, questa linea teologica di scavo verso l'essenziale, al fine di reinterpretare i principi fondamentali dell'una alla luce di quelli dell'altra. Una teologia del dialogo interreligioso veramente tale, infatti, per definizione non può essere orientata alla distruzione, bensì ad un'ermeneutica capace di generare una sintesi nuova della globalità della fede: dogmi, riti, spiritualità. Tuttavia tali sforzi interpretativi, specialmente quelli applicati alle religioni indiane, non hanno mancato, anche di recente, di suscitare forti perplessità, concretizzate in taluni documenti del Magistero particolarmente critici.9 Ciò che sorprende, al di là del fatto che su di essi proprio i sostenitori del Dialogo Interreligioso Monastico, per primi e con maggiore forza, abbiano fatto delle osservazioni e degli approfondimenti, è che tali preoccupazioni dottrinali non abbiano in nessuna occasione coinvolto gli scritti di Monchanin.

Non sono mai state messe in discussione la sua fede e la sua ortodossia, per il quale il Cristo è «nella sua unica Persona, Dio assoluto e uomo assoluto, Mediatore tra il Creatore e la creazione, Unificatore del mondo in Dio».10 Anzi, almeno da un certo punto di vista, l'apertura di Monchanin all'India potrebbe persino sorprendere, per quanto la sua visione del cristianesimo sembra essere fede in un sistema compiuto che non manca di nulla. Egli, di contro al relativismo del Vedânta shankariano -- della cui bellezza metafisica era comunque affascinato e che pure aveva eletto a controparte filosofica -- rimase fatalmente cristiano e logicamente sacramentale.11 Da questo punto di vista la teologia delle religioni di Monchanin è stata associata alle teologie del compimento, tuttavia non è assente dal suo pensiero anche un radicale apofatismo che trasborda non solo l'esclusivismo e il pluralismo, ma persino lo stesso inclusivismo.12

In ogni caso il suo pensiero teologico rimane un modello di misura e rigore. Anzi, non vi è dubbio che se c'è un approccio teologico capace di evitare ambiguità ed equivoci, questo è, senza timore di smentita, quello incarnato dal sacerdote lionese. L'equilibrio e la profondità dei suoi interventi rappresentano sicuramente un esempio su come debba essere affrontata la difficile missione di far dialogare le metafisiche dell'induismo e quella cristiana senza nulla concedere a generalizzazioni, superficialità o deduzioni affrettate. Questo non significa, tuttavia, che la sua opera teologica sia riuscita in quell'incontro che si proponeva. Anzi, all'opposto, è stato sottolineato che proprio la grande cultura di Monchanin lo rendeva incapace di organizzare quella sintesi sistematica che richiede sempre dei compromessi intellettuali.13 Il pensiero teologico del francese, da questo punto di vista, assomiglia piuttosto ad un caleidoscopio di aperture, intuizioni, approfondimenti, che richiedono ancora oggi di essere legati fra di loro. È altrettanto vero, però, come è stato sottolineato, che Monchanin «non ha avuto il tempo di finire il suo lavoro» 14

A quel tempo, del resto, come già abbiamo detto, non era facile abbozzare un simile progetto teologico. Poco dopo l'enciclica Pascendi, che nel 1907 aveva condannato il modernismo e soprattutto negli stessi anni dell'Humani Generis (1950), che coinvolgeva anche l'amico Henri de Lubac, il tempo non era certo maturo per azzardare nuove sintesi teologiche. Anche perché la sfida teologica che Monchanin si trovava di fronte nel suo impegno missionario in India, era la sfida più radicale che possa essere lanciata alla metafisica cristiana: la non dualità. Il suo tentativo di rileggere in chiave trinitaria l'induismo, da questo punto di vista, non poteva evitare un doppio ordine di difficoltà: quello filosofico, dovuto alla necessità di conciliare monismo e teismo, e quello teologico connesso al tipico relativismo indiano che fa convivere Nomi divini differenti e formule dottrinali diverse.15

Cosciente della problematicità di queste difficoltà, Monchanin non coltivò mai l'illusione di poter risolvere in maniera definitiva gli scogli dogmatici e le irriducibilità teologiche che separano Oriente ed Occidente. Il monaco benedettino, molto semplicemente, ha sempre considerato la propria esperienza come la pedina iniziale di un cammino teologico lungo e difficile, ma anche inevitabile e necessario. Ripeteva, a questo proposito, che la sintesi tra cristianesimo e pensiero greco aveva richiesto quattro secoli di storia, protraendosi lungo tutto l'arco del Medio Evo, e che la sintesi tra cristianesimo e pensiero dell'Asia non avrebbe richiesto un tempo inferiore. È indubbio, da questo punto vista, che alla costituzione di tale sintesi egli abbia dato oltre alla spinta iniziale anche un indirizzo cruciale. Il suo pensiero teologico non manca, a tal fine, di indicare il metodo programmatico per costruire tale armonizzazione: «La Chiesa, nei primi venti secoli della sua storia si è foggiata -- nella sua struttura esteriore -- sulla civiltà occidentale: oggi invece l'esigenza di adottare come rivestimento della Chiesa quello di altre civiltà, implica qualche rinuncia, un ritorno alle origini, una dissociazione dell'essenziale dall'accidentale, e soprattutto una interiorizzazione tramite una intensa vita contemplativa, un primato della mistica sulla liturgia, sulla teologia, sulla filosofia religiosa e sulle istituzioni».16

La grandezza di questo sogno teologico, tuttavia, stona, come si diceva, con i concreti risultati storici ottenuti. Al momento della sua morte la missione a cui aveva consacrato la vita poteva certamente leggersi come un fallimento. Però, di contro a questo apparente -- ed iniziale -- insuccesso, deve invece essere sottolineato l'enorme peso della sua eredità teologica. Evidente è stata l'influenza sul compagno Le Saux, il cui pensiero teologico deve considerarsi una conseguenza diretta di quello del lionese.17 Ma altrettanto palese è il ruolo giocato dal suo pensiero nella genesi dell'opera di Raimon Panikkar, le cui idee teologiche poggiano spesso su intuizioni già riscontrabili, almeno in forma larvale, nei suoi scritti.

2. Metafisiche a confronto in cerca di una sintesi

2.1. Gregorio di Nissa

Tra Filone e Plotino, sulla scia di Origene, precursore dello Pseudo Dionigi, direttamente coinvolto con le principali eresie che hanno segnato la storia del dogma cristiano,18 Gregorio di Nissa appariva a Monchanin la figura teologica ideale da mettere a confronto con l'induismo. «La teologia dei Padri greci [...], specialmente quella di Gregorio di Nissa, mi è così congeniale che parrebbe quasi uscita dalla mia mente. Questa è la sola forma (con alcune riserve sui dettagli) in cui io posso pensare il cristianesimo. Non riesco a convincermi che la forma indiana del pensiero cristiano (per lo meno quella di cui ho potuto iniziare l'elaborazione) debba essere sostanzialmente diversa da questa: piuttosto [sono convinto che si debba] riscoprirla per una via totalmente diversa e portarne alla luce il rigore e la perfezione».19

Alla luce di quanto egli stesso confessa, il pensiero teologico del vescovo di Nissa può dunque essere letto come una sorta di piattaforma intellettuale, una specie di supporto basilare da cui procedono tutte le ulteriori rielaborazioni teologiche di Monchanin. La sua riscoperta del nisseno, inoltre, non solo venne condivisa anche dal compagno Le Saux, ma venne da entrambi trasmessa al loro diretto successore B. Griffiths.20

In Gregorio di Nissa, non a caso il più neoplatonico dei padri greci, erano presenti concetti plotiniani le cui affinità con la filosofia indiana ha oggi alle spalle una lunga tradizione di studi. Nelle Enneadi troviamo infatti non poche nozioni, come quella di «riconoscimento» della presenza divina, di «unificazione», è persino l'idea di una «conversione amorosa al di sopra del sapere», che possono certamente essere assunte come base legittima per un confronto con le idee filosofiche dell'India.

È appunto questo legame tra Gregorio e Plotino -- o meglio lo sforzo del nisseno di rileggerlo in senso cristiano -- che spiega tutta la significatività che la teologia del cappadoce riveste per Monchanin. In particolare, infatti, la riflessione antropologica di Gregorio, essendo una reazione biblica alle teorie cosmologiche greche, rappresentava di per sé una testimonianza teologica utile ad affrontare gli sviluppi panteistici del pensiero religioso indiano.

Senza abbracciare il panteismo e senza ripudiare il dualismo greco -- che diverse eresie nella sua epoca esasperavano -- Gregorio afferma che nulla, di quanto esiste, è privato della partecipazione alla natura superiore. Egli, da questo punto di vista, raccoglie la visione platonica della natura come un unico essere vivente (cfr. Timeo 30b-c; 69c) e la dottrina stoica dell'anima mundi per affermare un'onnipresenza divina attenta però a non perdere la differenza «fra chi è fatto ad immagine e il suo modello».21 Il discorso antropologico di Gregorio di Nissa, infatti, si inserisce in una cosmologia ed una ontologia che nasce e si lega imprescindibilmente al concetto biblico di immagine, senza smarrire, perciò, l'implicito teismo della dottrina creazionista. Il nisseno, proprio attraverso un'estensione di questa categoria dall'accento panteistico, giunge ad affermare, in uno slancio mistico, che l'immagine avvolge l'intero creato: «Chi sarà così piccino di spirito da non arrivare a credere, considerando l'universo, che la divinità è in tutto, penetra e abbraccia tutto e risiede in tutto?».22

Funzionale a questa prospettiva dell'immagine era comunque la sua dottrina dello Spirito (nous). Anche prescindendo dalla considerazione che Gregorio di Nissa nella sua lotta contro gli pneumatomachi è il grande sistematore della divinità dello Spirito Santo, deve essere sottolineato, infatti, come egli lo consideri l'essenziale punto di partenza della surnature, attraverso il quale l'uomo può accedere al piano del mondo intelligibile.23 Il fratello di Basilio, tuttavia, non afferma con questo una riduzione della soprannatura alla natura. Egli, infatti, considera la grazia come un elemento divino che viene semplicemente passato alla natura, senza della quale l'uomo non può in nessun caso accedere alla sfera superiore, e quindi divinizzarsi.

È grazie a questa dottrina dello Spirito, che si lega ovviamente a Cristo dal quale procede, che possiamo rintracciare già in Gregorio di Nissa le premesse di quel pancristismo che, come vedremo, rappresenta la nota caratteristica della teologia di Monchanin e la chiave del suo dialogo con l'India. Il Nisseno, infatti, afferma che Cristo «è colui che stringe e congiunge a sé l'universo riunendo mediante la sua persona le diverse nature degli esseri in una sola concordia e in un'unica armonia [...] tutta la creazione guarda a Lui, gravita intorno a Lui, e grazie a Lui resta in sé compatta».24 Per Gregorio, infatti, Cristo è la causa efficiente della creazione, attraverso la cui opera redentiva l'universo trova la propria unità. La dinamica del mistero eucaristico emerge così, nella sua teologia sacramentale, come la forma inevitabile in cui trova realizzazione siffatta unione e assimilazione a Cristo, e le riflessioni eucaristiche del nisseno sembrano essere un'eredità diretta di quella del padre cappadoce. 25 Vedremo meglio, anzi, l'importanza che tale funzione sacramentale ed unificatrice dello Spirito andrà ad assumere nel «dinamismo cristologico» del lionese, e attraverso di essa il ruolo centralissimo che la pneumatologia rivestirà nel suo pancristismo evolutivo.

Le riflessioni di Gregorio su questi temi, devono comunque essere considerate un'anticipazione di tutta la successiva spiritualità bizantina e di quella sofiologia che segnerà l'antropologica cristologica di Monchanin. Già il nisseno, infatti, aveva spiegato che lo Spirito Santo non potrebbe compiere la divinizzazione dell'anima se non fosse egli stesso Dio. Sotto questo aspetto, infatti, l'«iconocità» della teologia di Gregorio -- cioè la centralità riconosciuta alla tensione verso l'«immagine» -- diceva già quella «direzionalità» verso Cristo che sarà poi sviluppata per un verso da Teilhard de Chardin e per un altro dai mistici russi. Tale dinamica divinizzante, in ogni caso, è chiaramente da leggersi, nel nisseno così come in Monchanin, nei termini di una partecipazione (cfr. 2 Pietro 1, 4) che nulla concede al panteismo.

L'uomo per Gregorio è dunque una sintesi di natura e grazia divinizzante; in una prospettiva antropologica ben diversa da quelle dottrine che lo ritraggono come sola natura, oppure come in sé stesso divino. Ciò che nella sua prospettiva teologica sembra caratterizzare l'umana natura è proprio, da questo punto di vista, la necessità e l'esteriorità di tale grazia, ma questo in un quadro in cui essa è misteriosamente connessa al suo essere più intimo. La sua antropologia è dunque in primo luogo una "dinamica" che, dopo il peccato di Adamo, assume la forma di un ritrovamento da parte dell'individuo della sua natura originale, aggettivo che nel vescovo di Nissa contraddistingue l'uomo reale, cioè quello creato secondo l'immagine.26 Tale antropologia ha dunque il merito di essere estranea sia a quel dualismo che allontana troppo la creatura dal suo Creatore, sia a quella non-dualità che ne afferma la coincidenza.

Temi nissenici riscontrabili in J. Monchanin

Preso atto del debito che lo stesso Monchanin riconosce avere verso la teologia di Gregorio di Nissa, sorprende che negli scritti del lionese non sia, in fondo, particolarmente presente od esplicita la figura del cappadoce.

Il pensiero religioso del nisseno, tuttavia, è, come si diceva, una sorta di premessa interna del suo teologare, e non pochi temi nissenici sono riconoscibili tra le righe della sua opera teologica. Sebbene, infatti, egli non abbia mai presentato un parallelismo diretto, per esempio, tra Gregorio di Nissa e Shankara, è vero, altresì, che egli ha utilizzato il suo neoplatonismo come un presupposto implicito della propria teologia, come una sorta di Weltanschauung, e come uno strumento concettuale di fondo.

Il discorso antropologico

Tra i luoghi teologici nissenici maggiormente presenti in Monchanin, sia pure in quella forma implicita di cui si diceva, spicca, come abbiamo detto, l'antropologia. La sua riflessione sulla natura umana, centrata sul concetto biblico di immagine, riconosceva, infatti, preliminarmente, un'affinità fondamentale tra la creatura umana e il Creatore, e quindi anche la sua sostanziale origine divina, quantunque sconfessata dalla condizione esistenziale dell'uomo. Tale antropologia presentava l'essere umano come una natura di confine, capace di essere divinizzata proprio perché nella sua essenza umana conteneva già un elemento divino.27 L'individuo, perciò, in Gregorio di Nissa, è per eccellenza l'ente in mezzo a due dimensioni opposte, in movimento perpetuo dal non-essere all'Essere, il cui spazio ontologico è la linea stessa che distingue dualismo e non dualità. L'uomo, alla luce di questa impostazione teologica, non è identico alla divinità, come in Shankara, né una sua modalità, come in Râmânuja: è un diverso che tende all'identico, un creato che ha però l'ansia dell'increato, in una tensione eterna, che non avrà fine nemmeno nell'esistenza escatologica. Il concetto di epèktasi si può quindi considerare la risposta cristiana di Gregorio di Nissa a talune derive panteistiche del pensiero greco (è il caso dello stoicismo, mentre sembra essere un errore storico-ermeneutico considerare panteistico anche il neoplatonismo), questo stesso concetto, però, sebbene non ci siano affermazioni definitive per sostenerlo, può essere visto come la risposta di Monchanin alla «blasfemia» vedânta che afferma l'uguaglianza ontologica dell'uomo con Dio. Gregorio di Nissa, infatti, non parla mai di «fusione» nel divino, ma, semmai, di doppia creazione e di pienezza della «somiglianza».28 Sono dunque questi i motivi per i quali l'abate Monchanin sembra eleggere l'antropologia di Gregorio di Nissa. Essa, infatti, pare essere l'unica visione dell'uomo capace di esprimere, pur essendo integralmente cristiana, una sorta di mediazione rispetto all'equivalenza sostenuta nel vedânta tra sé umano e Sé divino.

La chiave per interpretare il modalismo di Râmânuja

Possiamo considerare l'antropologia di Gregorio di Nissa l'escamotage che ha permesso a Monchanin di criticare talune forme religiose indù, palesandone l'inconciliabilità con la dottrina cristiana. È attraverso la teologia del nisseno, per esempio, che Monchanin riesce ad evitare la facile tentazione del monismo differenziato di Râmânuja. Come vedremo meglio, infatti, la risoluta condanna gregoriana di ogni anomeismo (dissomiglianza tra il Padre e il Figlio), servirà sia a Monchanin che al compagno Le Saux, per interpretare meglio le differenze tra il kevalâdvaita di Shankara e il Vshistâdvaita di Râmânuja.29 Su questa linea è sempre Gregorio di Nissa che, con la sua pneumatologia, consente a Monchanin di non restare affascinato da quello shaktismo che troverà, per esempio, in Aurobindo e nel tantrismo. Proprio grazie e attraverso le meditazioni nisseniche, infatti, il lionese sarà in grado discernere l'azione dello Spirito dalla sua origine ontologica.

La riflessione sul tempo

Assioma di tale visione dell'uomo -- e della pneumatologia che dà ad esso la sua pienezza -- è che la natura divina è immutabile, mentre quella umana deve la sua esistenza al cambiamento. Tale proposizione, tuttavia, ha come corollario che la categoria della divinizzazione tanto cara a Monchanin sia di necessità legata al movimento e al divenire, ed è proprio sotto questa angolatura prospettica che il lionese svilupperà, come approfondiremo meglio in seguito, una riflessione filosofica sul tempo nella quale la dimensione cosmologica e quella ontologica sono strettamente congiunte. Deve essere segnalato, da questo punto di vista, che il suo approfondimento del tema è stato probabilmente influenzato dalla amicizia con J. Daniélou, che proprio a Gregorio di Nissa e al rapporto tra Essere e tempo aveva dedicato alcuni dei suoi lavori più significativi.30 È questa, se vogliamo, un'ulteriore conferma di quanto la patrologia greca superi di gran lunga tutti gli altri influssi teologici di Monchanin.

Il monarchianismo

Un altro elemento di sintonia tra il lionese e il nisseno da segnalare, è che in lui egli ritrovava l'aspirazione henologica della mistica indiana. La teologia del nisseno, infatti, attraverso la sua assunzione dell'insegnamento origeniano dell'apocatastasi, dimostra che anche la dottrina cristiana conosce delle metafisiche che contemplano un ritorno all'unità primordiale dell'Uno. Al di là della legittimità biblica di tale dottrina, questa teoria era la testimonianza di un impegno filosofico interno al cristianesimo che va nella stessa direzione di quello indiano. Legata a questa prospettiva, deve appunto annoverarsi in Monchanin un'altra presenza teologica del nisseno altamente significativa: il monarchianismo. Nel pensiero religioso di Gregorio, infatti, è riscontrabile una certa «monarchia» del Padre -- raccolta poi dalla spiritualità bizantina -- che ben si legava al pensiero teologico suo e del compagno Le Saux, dove il Padre è sempre la sorgente e il fine della deificazione.31

L'escatologia

Considerata in questa chiave realizzativa, la cosmologia di Gregorio possedeva dunque, in sé stessa, una connotazione escatologica. L'intero universo, infatti, nel suo disegno teologico, è legato a Cristo e alla deificazione dell'uomo. Solo ed esclusivamente in Lui, infatti, è ritenuta possibile una nuova creazione, e quel principio di riunificazione che poi Monchanin troverà espresso, con un linguaggio teologico innovativo, anche in Teilhard de Chardin.

La visione cosmologica

Se Monchanin, come vedremo, dal gesuita francese recupererà quella realtà del mondo che il Vedânta misconosceva, è proprio perché egli aveva già assunto la solida dottrina della creazione di Gregorio di Nissa. Il linguaggio cosmologico del cappadoce, da questo punto di vista, non è tanto quello platonico ed origeniano che distingue tra sensibile ed intelligibile, quanto la distinzione tra creato ed increato. In questo modo la sua teologia prendeva le distanze dalla terminologia filosofica, e faceva propria una categoria biblica che, anche per Monchanin, sembra essere irrinunciabile. Il concetto di creazione, infatti, non dice né il realismo panteista né l'illusorietà shankariana ma, come spiegheremo meglio quando illustreremo direttamente la cosmologia del lionese, una sorta di «essere» comune che sta tra l'uno e l'altro. In altri termini, proprio attraverso il creazionismo, il nisseno salvaguardava il reale senza scendere nel panteismo e senza adeguarsi alle dottrine neoplatoniche della processione e dell'emanazione. Attraverso la sua rilettura della natura, egli tutelava quella continuità tra sensibile ed intelligibile in assenza della quale ci sarebbe, nel cosmo, un'irrecuperabile spaccatura ontologica. La realtà non illusoria del sensibile, infatti, viene spiegata da Gregorio, come già abbiamo visto, attraverso la sua partecipazione alla natura superiore. In questo modo i due mondi non sono più separati, proprio perché, attraverso Cristo, finito ed infinito si incontrano, pur non perdendo ciascuno la propria natura specifica.

La dottrina della conoscenza

Al di là del fatto che tale processo di divinizzazione possa essere letto in termini gnoseologici come una presa di coscienza da parte dell'uomo della propria natura superiore, ed in questo la teologia del nisseno si avvicinerebbe non poco a quella di Shankara, la teoria della conoscenza di Gregorio di Nissa era ammirata da Monchanin per la sua capacità di bilanciare apofatismo e razionalità. Il lionese, pur essendo spiritualmente vicino alla teologia negativa, rifiutava, infatti, l'irragionevolezza di quell'«al di là del pensiero» a cui erano ricorsi non pochi filosofi sia indiani che occidentali. Gregorio di Nissa, anche da questo punto di vista, poteva essere un riferimento privilegiato per il monaco francese. Egli, infatti, contro Eunomio, che estremizzava le possibilità conoscitive dell'umano, avevo affermato che soltanto nella contemplazione mistica si poteva conoscere Dio, e comunque non nella forma di una conoscenza comprensiva, che sarebbe mancata anche ai beati nella gloria. La ragione, per Gregorio, ha dei limiti proprio perché è una realtà creata. Monchanin, quindi, attraverso lui, affronta direttamente il relativismo dei vari insegnamenti filosofici, tratteggiando il confine che distingue due piani di realtà che risultano ontologicamente diversi, ma non per questo contrapponibili. Questa dottrina, tuttavia, era da lui conosciuta anche nel pensiero indiano dove è denominata avirodhavâda. Tale dottrina, riscontrabile alle origini stesse del Vedânta, in Gaudapâda, sarà una prerogativa presente in maniera costante sia in lui che, in misura forse maggiore, nel compagno Le Saux. Per entrambi, infatti, il reale è il piano del nome e della forma, e come tale è sottomesso ad una dimensione che lo trascende.

La spiritualità

Questa impostazione teologica che distingue nettamente due piani di realtà e di verità, è quindi comune al vedânta come alla mistica neoplatonica. Essa, infatti, era un'eredità diretta di quella spiritualità apofatica che, per raggiungere il fondo essenziale dell'anima, ritiene indispensabile negare tutte le conoscenze e le impressioni accidentali e mutevoli della coscienza. Questa prassi ascetica ha dunque dei tratti sostanzialmente simili in Oriente come in Occidente, come Monchanin dimostrerà con estrema chiarezza nel suo raffronto tra yoga ed esicasmo. Del resto non deve essere dimenticato che un autore come Balthasar riconosceva provenire dall'india il metodo di contemplazione plotiniano. In ogni caso, ciò che la coscienza sembra raggiungere nel misticismo indiano tradizionale, è quello che nel linguaggio spirituale di Gregorio di Nissa coincide con la parrhesia, intesa come libertà di coscienza pura, serena, rivolta spontaneamente verso Dio e al di là del bene e del male.32

Anche questa prospettiva, quindi, va ad aggiungersi ai numerosi elementi che facevano individuare a Monchanin, proprio nel pensiero teologico di Gregorio di Nissa, il modello prototipo di quella forma indiana del pensiero cristiano che lui cercava di formulare.

2.2. Giovanni di Ruysbroeck

L'importanza di Giovanni di Ruusbroec (Ruysbroeck) nell'opera di Monchanin non deve essere misurata dal numero di pagine che egli ha dedicato alla sua teologia. In un certo senso è sul piano qualitativo che essa è fondamentale: e per due ordini di ragioni. La prima è che il fiammingo rappresenta senza dubbio il vertice storico di quella tradizione mistica di stampo neoplatonico che individuava essere la sola forma di cristianesimo adatta a dialogare con l'India.33 Mistica che, corretta dopo la condanna di Eckhart, si prestava ad una più facile utilizzazione teologica. La seconda ragione è che Monchanin ha assunto il senso filosofico stesso della sua testimonianza teologica, quello cioè di coniugare la radicalità apofatica con la Trinità. Ciò che lo colpisce «è la perfetta sintesi tra un apofatismo spinto all'estremo e una profondissima visione trinitaria. Nel punto più alto dell'esperienza dell'unione indifferenziata, resta però sempre la distinzione tra l'essenza di Dio e l'essenza dell'anima, fondata com'è proprio sulla distinzione trinitaria».34 Per Monchanin, infatti, il fiammingo è in primo luogo colui il quale ha perfezionato la teologia sovreminente di Dionigi in una teologia della sovraessenza dell'anima, rimanendo adeguatamente trinitario.35 Questa sua lettura di tale mistica, del resto, non ha niente di inconsueto ed è anzi unanimemente riconosciuta. Monchanin, in ogni caso, spiega il fiammingo nei termini di uno sviluppo e di una rettifica di tutti i renani: «Taulero, Suso e soprattutto Ruysbroeck, pur conservando la distinzione eckhartiana tra Dio immanente e deità trascendente, e pur continuando anche ad applicare a questa deità l'appellativo di "Niente sovraessenziale", rettificano la teologia di Eckhart. Persino nell'appercezione dello stato mistico finale, l'unione senza intermediario e senza differenza, Ruysbroeck resta pienamente trinitario».36 Attraverso la sua mediazione teologica, quindi, possiamo dire, come sottolinea anche M. Giani, che «Nella mistica negativa di Ruysbroeck e di San Giovanni della Croce,37 Jules Monchanin aveva individuato la via possibile verso un punto d'incontro tra Cristianesimo e pensiero vedântico».38

Il ritmo platonizzante degli scritti del fiammingo, infatti, non intacca l'essenzialità trinitaria e cristologica della sua mistica. Il suo capolavoro, Le nozze spirituali, lascia intendere, già dal testo, come il carattere fondamentale della sua spiritualità sia nuziale, e quindi dualistico, sebbene in un quadro di slancio unitivo dall'accento molto marcato. In generale, il fiammingo, è l'autore di una sorta di purificazione apofatica del metodo in tre momenti, attraverso i quali dai sensi, come nel Regno degli amanti, si giunge alla via soprannaturale; o come ne Le nozze spirituali dove, dalla via attiva si giunge alla via contemplativa. Da questo punto di vista, il triplice modello con il quale Monchanin spiega l'apofatismo: logico, ontologico ed esistenziale, potrebbe esserne stato influenzato. Del resto questa purificazione progressiva della via spirituale, coincide con il ritmo stesso delle scritture indiane, che dal ritualismo vedico arrivano alla contemplazione pura delle Upanishad. Tale sviluppo nella sensibilità spirituale indù può essere considerato un fatto oggettivo, anche se, in verità, lo stesso Monchanin giudicava troppo generiche questo tipo di interpretazioni. In ogni caso, sebbene Gerson e Bousset accusarono persino il fiammingo di panteismo, il suo grande merito teologico è stato è quello di aver accolto e purificato la posterità di Eckhart, precisando meglio, in questo modo, una dimensione teologica e spirituale soggetta, secondo il lionese, a fin troppi luoghi comuni.39 Quel fondo di ambiguità dottrinale che rimane nei suoi scritti, infatti, è stato attribuito all'inevitabile spuntatura a cui va soggetta la capacità del linguaggio nella descrizione degli stati mistici.

Comunque, al di là delle arditezze o improprietà di certe sue espressione, il fine ultimo in Ruysbroeck non è mai un'indefinita dissolvenza di tipo panteistico, bensì l'abisso mistico della vita trinitaria. Il coinvolgimento in essa rimane «dono», ed è sempre «partecipazione», nel Verbo e nell'ispirazione dello Spirito. La pietra scintillante o, molto più significativamente L'Anello, cerca di spiegare la natura ontologica di questo momento mistico finale, nel quale, l'anima rinata con Cristo e in Cristo, raggiunge l'unità essenziale col Padre. Tale spiritualità, se vogliamo, è il culmine massimo di una sorta di advaita dal tono radicale, che rimane però pienamente cristiana. Da questo punto di vista, la teologia di Ruysbroeck non poteva non essere un riferimento ed una vera e propria bussola dello sposalizio metafisico tra India ed Occidente filosofico cercato da Monchanin. Oltretutto, proprio a motivo di questo inserimento nella Trinità attraverso la comunione (eucaristica) con Cristo, Ruysbroeck ha forse confermato al lionese quella sensibilità sacramentale che egli aveva già appreso da Gregorio di Nissa.

Tali motivi, diversamente da una certa tradizione inaugurata da Otto, dimostrano implicitamente in quali termini il lionese ritenesse Ruysbroeck, e non Eckhart, come la figura maggiormente adatta ad un confronto teologico con l'India. Il parallelismo proposto dallo studioso tedesco tra Shankara ed il renano, infatti, per quanto celebre, è in un certo senso inutile. Esso mette a confronto due metafisiche che, quando se ne dimostrasse l'effettiva somiglianza -- e proprio a motivo di essa -- se ne renderebbe esplicita anche la comune irriducibilità con la cosmologia cristiana e con la sua dottrina trinitaria.

Come vedremo meglio, infatti, un confronto con l'induismo shankariano richiede, oltre all'ovvio coinvolgimento della dottrina trinitaria, anche un'indispensabile riflessione sulla natura del mondo. Shankara, infatti, sebbene siano molte e diverse le interpretazioni del suo pensiero, sembra abolire non solo la figura del Mediatore, ma anche la mediazione della creazione. Da questo punto di vista se la teologia di Monchanin assume da Ruysbroeck una rilettura della mistica apofatica in chiave trinitaria, prenderà da Teilhard de Chardin e dalla sofiologia russa quella necessaria dimensione cosmologica senza la quale non può darsi vera teologia cristiana. In ogni caso, nel suo sforzo teologico, proprio grazie all'India, dà un volto ed una sintesi nuova sia alla mistica di Teilhard che a quello di Ruysbroeck e dei russi del Novecento. Se il suo pensiero teologico si richiama a questi autori, infatti, è altrettanto vero che esso nasce e si esprime con una originalità tale che sarebbe estrema ingiustizia affermare una dipendenza troppo stretta delle sue idee dai loro percorsi teologici.

2.3. L'evoluzionismo in Teilhard de Chardin ed Aurobindo: due sforzi concettuali per evitare il monismo

È sul piano cosmologico che si gioca una singolare convergenza tra Theilhard de Chardin ed Aurobindo. Ciò che è significativo sottolineare, tuttavia, è che la loro corrispondenza ha la ventura di collocarsi al crocevia, o meglio ad un punto di svolta delle autonome conclusioni teologiche di Monchanin. In questo senso, i due autori, pur non ponendosi direttamente come fonti ispiratrici del suo pensiero teologico, ne sono stati in qualche misura una sorta di conferma ed una corroborazione. Una teologia dell'incontro con l'India, qual è quella di Monchanin, aveva infatti di fronte due imperativi: recuperare la realtà del mondo (rispetto all'illusorietà shankariana) e ridare a Cristo quell'unicità e quella centralità che le dottrine indiane sembrano incapaci di riconoscergli. Sotto questo aspetto le riflessioni dei due autori menzionati devono essere considerate un valido sostegno a questa sua operazione teologica di fondo. Fondamentale, in particolare, risulta essere il contributo del gesuita francese anche se, come nota J. G. Weber, la comparazione di Henri de Lubac tra Monchanin e Teilhard «non deve oscurare l'originalità del suo proprio pensiero»,40 altrettanto importante, tuttavia, risulta essere anche l'opera di Aurobindo, sebbene egli avesse una coscienza autonoma di quel tantrismo e di quella filosofia sâmkhya da lui elaborata.

Compito di questo studio, in ogni caso, non è il riassumere le filosofie di Teilhard e di Aurobindo, le cui convergenze e dissonanze sono magistralmente sintetizzate dallo stesso Monchanin.41 Nostro obiettivo è cercare di capire in quale misura e con quale incisività le teorie evoluzionistiche di questi due autori, che si sono parimenti confrontati con la non-dualità, dialoghi ed ispiri la sua teologia.

Aurobindo: l'evoluzione spirituale dal punto di vista indiano

La dichiarata riluttanza di Monchanin verso tutti i concordismi,42 non riesce a celare completamente un certo apprezzamento per la figura spirituale di Aurobindo. Di lui, quantomeno, il monaco francese poteva capire a fondo e condividere la direzione ultima dello sforzo filosofico: teso a conciliare non dualità e fede teistica. Se da un lato, infatti, riteneva più autentico lo spessore mistico di Râmana Mahârsi -- proprio perché meno influenzato da combinazioni filosofiche diverse -, dall'altro sembra apprezzare il suo impegno concettuale per una sintesi. Gran parte della celebrità del maestro di Pondichéry, da questo punto di vista, si deve appunto alla «riuscita intellettuale» di questa sua armonizzazione.

Aurobindo riformatore del monismo differenziato

Il pensiero di Aurobindo è riuscito a combinare elementi filosofici diversi rifacendosi alla figura di Râmânuja, e recuperando le idee di fondo del Vshistâdvaita.43 Monchanin, proprio per questo motivo, lo aveva definito un riformatore del monismo differenziato. Tale soluzione, tuttavia, da un'ottica cristiana qual era quella del lionese, era vista come una tentazione fin troppo facile. La filosofia di Aurobindo, infatti, se da un lato recuperava la realtà del mondo e l'alterità personale di Dio negate nel Kevalâdvaitavâda di Shankara, dall'altro per riuscire in tale intento cadeva in una sorta di modalismo applicato all'uomo. Sotto questo aspetto anche il compagno Le Saux colse nel suo pensiero l'antico eco dalla più classica delle eresie cristiane.44

In ogni caso, al di là dell'impostazione filosofica di fondo, era la stessa esperienza religiosa di Aurobindo ad essere teistica, come dimostra la sua seconda visione mistica. Sotto questo aspetto, anzi, la spiritualità di Aurobindo va in una sorta di direzione opposta rispetto a quella della mistica indiana tradizionale, avendo egli fatto prima l'esperienza dell'Assoluto senza determinazioni e dopo quella della divinità personale. 45

Le influenze della metafisica aurobindiana

Questa particolarità intrinseca della sua vita mistica, va ad aggiungersi ad una sovrapposizione di influenze e spiegazioni filosofiche e teologiche diverse che rendono il pensiero di Aurobindo difficilmente classificabile.

Monchanin stesso fa un elenco delle correnti filosofiche da lui riscontrate nel suo pensiero, riconoscendo, però, che Aurobindo conferisce ad esse una forma nuova. Egli individua il Vedismo, le Upanishad, il Sâmkhya, lo Yoga, il Tantrismo, lo Yogavâsistha e il Vedânta, influenze che vanno ad aggiungersi ad altre riconosciute più recentemente come Hegel, Whithead, Bergson, la Bhagavad-gîtâ, il Buddismo e lo stesso cristianesimo. Monchanin, in realtà aveva individuato come particolarmente significativa anche l'influenza di Plotino, ma Aurobindo, da lui interrogato attraverso una terza persona su questo ulteriore ascendente, diede una risposta negativa.46

In ogni caso proprio questa confluenza, questa ricapitolazione forzata di elementi diversi, lo allontanava istintivamente da lui.47 Il rigore intellettuale del lionese, infatti, lo rendeva riluttante verso qualunque sintesi svolta a livello di «comuni denominatori». Aurobindo, per Monchanin, non è la dimostrazione di come si possano mettere insieme le aporie concettuali che da sempre dividono le filosofie e le teologie di ogni tempo e latitudine. Semmai può solo dimostrare, una volta di più, quanto Oriente ed Occidente abbiano usato la logica di medesime analogie (l'essere e il nulla, l'immutabile e il divenire, la pienezza e la vacuità, l'Uno e il molteplice) per esprimere intenzioni religiose e forme primordiali di sacro profondamente diverse.

Alcuni aspetti sulla spiritualità aurobindiana

È tuttavia indubbio che la spiritualità di Aurobindo presenti concreti elementi di contatto con quella cristiana. Egli notava, infatti, che all'interno dell'universo religioso indiano essa è del tutto atipica. Il monaco francese, da questo punto di vista, non mancò di precisare che la spiritualità di Aurobindo si fonda su uno yoga integrale (pûrnayoga), nel quale il Bhakti e il Râja sono ordinati al karma yoga, cioè all'azione disinteressata insegnata nella Bhagavad- Gitâ. 48 Tale lettura della vita spirituale, quindi, si presta di per sé a dei collegamenti evidenti con l'etica cristiana. In essa, infatti, in un modo del tutto alieno rispetto alla generalità degli autori indiani, non è estraneo un interesse verso la storia. Monchanin, da questo punto di vista, dimostra di apprezzare particolarmente il fatto che «la sua esperienza di salvezza non gli appare come esclusiva, come riservata a lui solo».49 Il lionese, infatti, sottolinea che Aurobindo «Non vuole soltanto né soprattutto contemplare il mondo o anche il Divino, quanto trasformare il mondo con la contemplazione del Divino».50 In essa, per altro, Monchanin poteva forse scorgere un ennesimo eco della teologia di Gregorio di Nissa, il cui concetto di moltiplicazione del logos non è in fondo troppo distante da questa prospettiva.

Il lionese, tuttavia, non mancò di manifestare anche dei commenti critici verso questa sorta di visione beatifica aspettata già in questo mondo.

La dottrina della conoscenza in Aurobindo

Da un punto di vista logico, quelle di Aurobindo, secondo Monchanin, non possono essere considerate vere proprie «sintesi». Egli sottolinea, a questo riguardo, come il filosofo di Pondichéry, per esempio, non si preoccupi di esasperare opposizioni ed incompatibilità, proprio perché la sua «conciliazione degli opposti» è in realtà un rimando a quell'apofatismo radicale che vede nelle opposizioni delle realtà relative, che sussistono solo nel piano meramente intellettivo.51 In Aurobindo, quindi, il problema gnoseologico si sposta dal livello della ragione a quello dell'intuizione mistica. Non è un caso, a questo riguardo, che egli distingua due categorie assolutamente nuove: l'Overmind e la Supermind, concetti che Monchanin, se bene interpretiamo i collegamenti che propone con Bergson e il discepolo Le Roy, sembra più correggere che respingere. L'Overmind consiste in una mente superiore che è al di sopra di quella ordinaria, corrispondente alla facoltà dell'intuizione. La Supermind è invece una sovracoscienza che si trova al di sopra dell'intuizione stessa, a cui arriva chi ha raggiunto la coscienza del Sé. Tale crescita della consapevolezza si snoda attraverso un percorso evolutivo necessario, ed è per questo che Aurobindo attende l'avvento di una sovraumanità. Questa dimensione, come vedremo, è vagamente paragonabile alla cosmogenesi di Teilhard de Chardin, la quale, però, se ne distingue radicalmente perché pone al centro una Persona concreta, quella di Cristo, non tanto un indefinito progresso della coscienza.

Sono questi i contorni della molteplice sintesi aurobindiana, il quale, tra unicità e molteplicità, tra uguaglianza e diversità, tra monismo e infinita alterità dell'Assoluto, riconosce un fondo sostanziale identico in tutte le coscienze, che per lui sono comunque una moltiplicazione della Coscienza del Signore. Egli chiama questo fondo antarayamin: ed è proprio questa, in concreto, l'ultima risposta del suo monismo differenziato all'affermazione shankariana tesa a dimostrare l'assoluta uguaglianza tra âtman e Brahman.

Le critiche ad Aurobindo

L'atteggiamento di Monchanin di fronte a tale soluzione conciliativa, come si diceva, rimane piuttosto distante, sebbene il suo attento studio della sintesi aurobindiana dimostri implicitamente anche un certo rispetto. Ad essa, fondamentalmente, egli solleva solo tre critiche, anche se di importanza decisiva in un'ottica cristiana. La prima consiste nell'impossibilità logica, perché, come abbiamo detto, la «fuga apofatica» non è accettabile per Monchanin. La seconda riguarda il senso ultimo di tale impianto metafisico, che Aurobindo riconduce alla categoria di lîlâ, il gioco divino. La terza, connessa alla precedente, è la sua misconoscenza della croce, e quindi l'assenza di una lettura escatologica della storia come dramma legato al peccato che, proprio per questo, richiede una grazia espiativa. Monchanin, senza risolverle, denuncia la centralità sempre attuale di tali problematiche, che ancora oggi si pongono come questioni metafisiche irrisolte su cui è chiamato a pronunciarsi l'impegno teologico e missionario.

L'importanza del sâmkhya

Tra le influenze subite da Aurobindo, due devono essere evidenziate in maniera particolare: il Sâmkhya e il Tantrismo. Tradizioni filosofiche, queste, da tenere nella massima considerazione ai fini di una comprensione non tanto di Aurobindo, quanto dello stesso scenario cosmologico in cui Monchanin doveva adattare la sua fede cristiana. Se egli, per esempio, farà una critica a Teilhard de Chardin, sarà quella non aver chiarito fino in fondo il suo concetto di materia, rispetto alle posizioni molto più chiare, sebbene dibattute, che di essa ha il pensiero indiano. Aurobindo, in particolare, sviluppando un'interrelazione tra Sâmkhya e tantrismo, che in fondo era già nella tradizione filosofica indiana, maturò una visione innovativa della materia segnata dall'energetismo. Egli, cioè, vedeva in essa non una realtà statica, ma un'attività sempre rinnovantesi che riusciva a conciliare il dinamismo del primo darsana con la cornice evolutiva del secondo.

Il Sâmkhya, al di là dell'elaborazione aurobindiana, professava due errori fondamentali secondo il Kevalâdvaitavâda shankariano: il realismo e il dualismo. Questo darsana, infatti, che anche il Mahâbhârata (cfr. Xii. 304. 1-4) unisce allo yoga, ha, come assunto di base, la riconduzione dell'universo a due sostanze reali ed opposte, ugualmente eterne: la prakrti e il purusa.52 Comprendere il sâmkhya, da questo punto di vista, significa in fondo introdursi nell'essenza stessa della filosofia indiana, perché esso venne assunto dalla generalità delle scuole, le quali, però, nel farlo proprio, lo hanno stravolto. È questo un aspetto sottolineato anche da Monchanin, il quale prende in considerazione questo darsana soprattutto quando analizza il rapporto fra yoga ed esicasmo e quando, stimolato anche dalle filosofie dello stesso Aurobindo e di Teilhard de Chardin, presenterà una propria riflessione sulla creazione ed un proprio giudizio sulle loro concezioni evolutive e quindi sul tempo.

Il pensiero indiano, sotto questo aspetto, propone due modelli cosmologici: quello del Vivartavâda (dottrina dell'illusione, che si rifiuta di dotare l'Assoluto di attributi contraddittori) e quella del Parinâmavâda (dottrina della trasformazione reale in cui lo stesso Uno diviene molteplice).53 Il Sâmkhya risulta affine a quest'ultima prospettiva, ed è appunto in tale chiave che esso venne ripreso da Aurobindo.54 Essa, del resto, è l'unica ottica accettabile anche dal punto di vista della dottrina cristiana, di cui però è chiamata a correggerne gli eccessi panteistici, come di fatto ha cercato di fare Monchanin.

La rilettura tantrica del sâmkhya

Il filosofo di Pondichéry non avrebbe potuto sviluppare la propria cosmologia evolutiva senza questa tendenza dinamica interna al sâmkhya, che lui, però, in linea con quella influenza tantrica di cui si diceva, accentua è rilegge in senso circolare. Egli, infatti, a dimostrazione di quanto le idee originali del Sâmkhya possano essere alterate, lo rilegge attraverso i principi base delle metafisiche shivaite dell'India del Nord e del loro concetto di shakti.55

Monchanin, nell'articolo scritto sul pensiero di Aurobindo, non manca di commentare ed illustrare questa fondamentale influenza tantrica. Tale consapevolezza, al di là della verifica di quanto profondamente il lionese conoscesse le scuole shivaite del Kashmîr,56 è un luogo filosofico da non sottovalutare. Esso, infatti, potrebbe delineare i contorni di una nuova forma di dialogo teologico con l'India mediata proprio dalla metafisica di queste correnti, che sia lui sia il compagno Le Saux, però, non hanno fatto in tempo a sviluppare. In ogni caso, sul tantrismo il monaco lionese ha lasciato delle penetranti domande,57 ed ha sicuramente contributo a quella maggiore apertura che verso di esso avrà Abhishiktânanda, il quale, in maniera più esplicita, rileggerà l'azione dello Spirito in quella della shakti. Monchanin, invece, dimostra una maggiore prudenza verso gli inevitabili corollari che questa prospettiva eserciterebbe sulla spiritualità cristiana, essendo la premessa di un rapporto teologicamente inesplorato con Cristo, se non in alcune discussioni legate all'esicasmo. Ed anche perché, metafisicamente, tale prospettiva lascia irrisolvibile (o inaccettabile) la domanda che l'antropologia cristiana potrebbe sollevare al tantrismo: se, cioè, si riceva lo Spirito o si è lo Spirito, dal momento la kundalinî/Shakti viene considerata una realtà congenita all'uomo. Deve essere meglio precisato, infatti, cosa si intenda con questo parallelismo tra shakti e Spirito: se il nous greco, se le energie increate esterne all'essenza di Dio o se, addirittura, lo Spirito Santo in se stesso.

La concezione tantrica del tempo di Aurobindo e quella centrata sul divenire in Cristo di Monchanin

Dalla cosmologia di Aurobindo, Monchanin non assume tanto la dottrina della shakti in se stessa, quanto il concetto che essa, essendo un principio di coscienza, guida il divenire dell'universo. In altri termini il lionese, stimolato dalle riflessioni aurobindiane, sembra riconoscere la necessità essenziale di una riflessione cristiana sul tempo, e quindi sul divenire. Nelle sue considerazioni, cioè, la riflessione sul mondo e sulla sua realtà, non possono essere scisse dal loro divenire in Cristo. L'evoluzione, tuttavia, nell'ottica di Monchanin è molto diversa da quella dell'indiano, essa, infatti, non può essere l'effetto di una indeterminata e panteistica shakti, ma di Cristo stesso. Egli, in altri termini, condivide con Aurobindo una visione dinamica del mondo, nella quale, però, la sua interna tensione evolutiva coincide nel richiamo ontologico verso un vertice cristico, come sarà, appunto, per l'amico Teilhard de Chardin.

La letteratura âgamica e la sua concezione della shakti, in ogni caso, hanno forse ispirato non solo il maestro di Pondichéry, ma anche Monchanin. Egli, cioè, fatta salva quella irriducibilità legata al panteismo di cui si diceva, ha potuto rielaborarne la generalità della dottrina, che vede ad essa come ad un principio di coscienza ed una causalità evolutiva. Alcuni principi interni alla teologia di Gregorio di Nissa, del resto, o la sofiologia di Bulgakov da lui così profondamente meditata, non sono troppo distanti da questa prospettiva. Certamente, infatti, sebbene, il grande elaboratore dello shaktismo in termini cristiani sarà Le Saux, anche Monchanin sembra assegnare ai sacramenti e al rapporto vitale con Cristo quella funzione riunificatrice del cosmo che Aurobindo assegnava alla shakti.

Da questo punto di vista la sua concezione del tempo come divenire in Cristo, sembra essere una proposta di superamento dell'inconciliabile antitesi indiana tra parinâma e vivarta, di cui pare denunciarne l'aporia intrinseca: «O il divenire cosiddetto ontologico verrà introdotto nello stesso Assoluto, oppure, sottraendosi a questa possibilità, si vedrà rifiutare ogni consistenza ontologica».58 In un certo senso, da questo punto di vista, la sua visione del tempo è anche e soprattutto una reazione al presunto successo della sintesi aurobindiana. Come abbiamo detto, infatti, la grande popolarità filosofica di Aurobindo poggiava sul fatto che era riuscito a superare, proprio attraverso l'evoluzionismo e il monismo differenziato, l'antitesi tra advaita e teismo.

Monchanin, da questo punto di vista, sembra proporre, sempre attraverso l'evoluzionismo, una contro-sintesi, ma sul modello cristiano. Il suo non dissimile tentativo di conciliare l'Essere e il Divenire, la non-dualità e la propria fede in Dio, vengono infatti svolti sulla scia di aperture teologiche che aveva trovato, per esempio, in Gregorio di Nissa, in Teilhard de Chardin e in Bulgakov, riuscendo così a dare al tempo una direzione ed un senso non più panteistico, ma bensì cristologico.

L'opposizione alla prospettiva aurobindiana, del resto, si giocava proprio sul piano metafisico del fine ultimo. Aurobindo, infatti, aveva fatto propria una delle più sorprendenti idee filosofiche dell'India: quella del cosmo come gioco divino.59 La sua metafisica sembra adottare, da questo punto di vista, la giustificazione che di esso dava il Sâmkhya, per il quale l'universo viene ad esistere semplicemente affinché l'anima se ne riconosca estranea.

Aurobindo, in altri termini, nonostante i suoi sforzi, non riesce ad evitare un certo panteismo. Monchanin, invece, concepisce la dinamica evolutiva come un rapporto personale e personalizzante con Cristo, in quanto suprema Persona trinitaria, nella partecipazione alla quale è l'unica vera pienezza dell'uomo.

Teilhard de Chardin: l'evoluzione spirituale dal punto di vista cristiano

L'influenza di Teilhard de Chardin sull'opera teologica di Monchanin appare più significativa di quella di Aurobindo: in un certo senso proprio perché l'una gli consentiva di poter escludere l'altra. Le tematiche filosofiche, cioè, almeno alcune, sono in fondo le stesse, ma la prospettiva che le affronta non solo è radicalmente diversa, ma anche specificatamente cristiana. Se il benedettino, per portare un esempio, non rimase particolarmente coinvolto dalla prospettiva cosmologica tantrica, né in sé stessa, né nella rilettura aurobindiana, è perché egli aveva già trovato nel cristianesimo di Teilhard de Chardin quello che è in fondo il passaggio filosofico indispensabile ad una teologizzazione del vedânta: il recupero del mondo materiale. Il pensiero del gesuita, da questo punto di vista, aiuta non poco quello di Monchanin, che muoveva appunto dallo sforzo di superare le due più ostiche irriducibilità del vedânta: l'equivalenza âtman-brahman, e la professata inconsistenza ultima del reale. Ciò che più di ogni altra cosa, infatti, occupava la ricerca filosofica del monaco francese, era l'individuazione di un punto di convergenza con l'India che non sfociasse né nel panteismo tantrico né nello svilimento del «creato» shankariano, e in questa sua ricerca la visione teologica dello scienziato francese forniva degli argomenti che potevano certamente sostenerlo.60

Il gesuita, perciò, deve essere rapportato a Monchanin come un anello importante nella genesi della sua teologia, senza che con questo, però, se ne debba necessariamente vedere adombrata l'originalità. Come approfondiremo meglio, infatti, nel cuore stesso della teologia del lionese c'è una tematica evolutiva simile e in parte ispirata a quella dello scienziato francese con, però, rilevanti elementi di originalità, perché l'evoluzionismo venne da lui approcciato non tanto sul piano del progresso storico, quanto attraverso la sua filosofia della persona.

Aspetti essenziali della teologia di Teilhard

Approfondire Teilhard de Chardin -- che Monchanin, al di là degli scritti, aveva conosciuto personalmente -- è dunque importante sebbene complesso. Se non è agevole, a tal fine, riassumere la sua complessa opera teologica, è tuttavia possibile isolare quegli aspetti che in vario modo intersecano il pensiero del suo connazionale. Tra di essi, come si accennava, ne spiccano due: il recupero della materia e la centralità escatologica di Cristo. Inoltre, esattamente nel mezzo fra questi, quasi a saldarli, si colloca quel concetto di evoluzione che Monchanin, come abbiamo intravisto affrontando Aurobindo, sembra assumere come categoria mediana tra immanenza e trascendenza; come necessità logica indispensabile per spiegare la dinamica misteriosa e paradossale dell'Essere e del Divenire.

Il pensiero di Teilhard, da questo punto di vista, coincide essenzialmente con una comprensione del mondo teologicamente inedita. In tale visione, tuttavia, Monchanin poteva ritrovare elementi riconoscibili già in Gregorio di Nissa, concetti, cioè, simili a quelli teilhardiani, come quello di un frazionamento molteplice della funzione del logos e quello di una visione dinamica della natura. Aspetti, questi ultimi, che sono in fondo la premessa per quell'orientamento implicito del cosmo verso Cristo che sarà il tema fondante di Teilhard.

Il gesuita francese, tuttavia, ha il merito di aver sviluppato su basi scientifiche una nuova teoria del mondo materiale che, pur senza assolutizzarlo e conservando un atteggiamento di fondamentale realismo, restituisce ad esso una dignità sacrale: «"Soprannaturale" non può significare che "sommamente reale"».61 Tale prospettiva comportava un atteggiamento spirituale nuovo rispetto al creato, distinto sia dalla fuga escatologica che da un acritico assunzionismo: «Il Molteplice è di natura convergente. Per ridurlo, dunque, non bisogna sopprimerlo, ma prolungarlo al di là di se stesso».62 Il principio di fondo della spiritualità di Teilhard, da questo punto di vista, è che «la vera saggezza, la vera "filosofia", consiste nell'individuare l'ambiente divino, tanto mescolato alle cose e tuttavia così superiore ad esse; per poi emigrarvi».63

Questo atteggiamento teologico e spirituale si inscriveva, dunque, all'interno di una cornice evolutiva della quale, quella stessa, ne era in fondo la giustificazione. Teilhard de Chardin aveva infatti maturato una propria teoria dell'evoluzione per cui la geogenesi si prolungava nella noogenesi, la quale saliva poi irreversibilmente verso un Punto Omega. Tale linguaggio teilhardiano, al di là dei neologismi, stava appunto ad indicare la sua fede in una crescita dell'universo, che dal piano materiale passa a quello mentale e da questo a quello spirituale, contraddistinto precisamente dal Punto Omega, che ne rappresenta la consumazione e il compimento. La noosfera, in Teilhard, è appunto un sostantivo che indica in primo luogo un sinonimo di comunione e di crescita interscambiabile di coscienza. È in questo piano che, attraverso una legge di complessità-coscienza, matura la cosmogenesi fondata sull'amore. Il Punto Omega è, infatti, la fine della noogenesi la quale, coincidendo con il richiamo della suprema Coscienza Personale trascendente, ed essendo nel medesimo tempo il vertice potenziale e il cono evolutivo di "forze cristiche", non può che essere, per il paleontologo francese, il Cristo della parusia.

Questo estuario cristico è precisamente il punto di contatto e l'aspetto che esalta al massimo grado le affinità con il pensiero di Monchanin e la sua filosofia della persona. Come il benedettino francese, infatti, anche il gesuita era «contrario ai misticismi orientali che "dissolvono" la coscienza e conducono all'Indeterminato anziché ad una Persona divina».64

3. La cosmologia e l'inserzione trinitaria dell'uomo negli scritti dell'abate Monchanin

3.1. Eredità teilhardiana ed originalità dell'ontologizzazione in Cristo di Monchanin

Rispetto ai commentatori occidentali di Teilhard, Monchanin aveva certamente una chiave interpretativa in più. Egli, infatti, ne poteva analizzare la teologia anche dal punto di vista di quella filosofica sâmkhya e di quelle dottrine evolutive tantriche di cui abbiamo sommariamente richiamato i contenuti. Ad essa, però, deve aggiungersi un ulteriore approccio interpretativo di importanza centrale, dato, appunto, dalla sua formazione greca. Sotto questo aspetto, se la vicinanza di Monchanin con la cosmologia e la cristologia di Teilhard non deve leggersi come una dipendenza che oscura la sua originalità, lo si deve proprio al suo autonomo approfondimento della spiritualità bizantina e dalla sua assunzione del principio di divinizzazione già espresso dai primi padri greci.

Il mistero della storia come divenire cristocentrico del creato

Rispetto a Teilhard, infatti, è simile la conclusione cristocentrica della sua interpretazione del mondo, ma diverso il percorso che la deduce. Se il gesuita era giunto ad un «recupero» del creato attraverso una lettura dell'universo concepito come cosmogenesi, tanto reale da divenire cristogenesi, Monchanin, che pure sembra condividere questa teilhardiana onnipresenza di cristificazione, non vi giunge da una teoria filosofica nata dall'osservazione scientifica, bensì attraverso la dottrina teologica della divinizzazione della persona umana, le cui premesse già erano presenti, come abbiamo visto, in Gregorio di Nissa.

Non sono pochi, tuttavia, i principi comuni e le idee teologiche che condividono. Tra di esse, certamente, ne spiccano due: la riconosciuta centralità del passaggio sacramentale, essendo nell'eucaristia che si realizza la comunione con Cristo; ed una visione conclusiva del mondo concepito non più come luogo della materia grezza o della proiezione illusoria -- e nemmeno come spazio panteistico della divinità -- bensì come luogo necessario alla realizzazione divinizzante dell'uomo.

È Cristo, infatti, che per entrambi orienta il cosmo, anche se tale orientamento sembra avere in Teilhard una maggiore accentuazione sulla storia, ed un risvolto, invece, più direttamente esistenziale ed ontologico in Monchanin. Proprio la riflessione sul tempo, da questo punto di vista, permette di scoprire la differente impostazione teologica del benedettino francese rispetto a quella del gesuita. Il lionese, infatti, sembra attribuire al tempo e quindi alla storia, un rivestimento escatologico diverso, meno influenzato dalla scienza e dal progresso tecnico.65

I loro stessi modelli evolutivi, per quanto entrambi escatologici, sembrano essere distinti da questa loro differente sensibilità di fondo e da una disuguale dinamica: progressiva e lineare quella del paleontologo francese, maggiormente affascinata dalla ciclicità quella del benedettino. Una ciclicità, in ogni caso, di matrice più greca che tantrica o aurobindiana, riconducibile se non a quella di Plotino o Proclo, almeno a quegli adattamenti trinitari che nella storia teologica dell'Occidente sono stati fatti, da Eriugena e da altri, per richiamare tale prospettiva senza associarla al panteismo o all'ambiguità delle filosofie dell'emanazione e della processione.

Al centro di questa concezione del cosmo e del tempo, per Monchanin, c'è sempre Cristo, mediatore della creazione e suo restauratore. La sua incarnazione, e lo Spirito che da lui procede consentono, a suo avviso, una sorta di cerniera che permette alla teologia cristiana di distanziarsi sia dal materialismo che dal panteismo. La Sua incarnazione consente, cioè, l'inserimento e la partecipazione dell'uomo non ad una semplice filosofia trinitaria, ma alla vita trinitaria, e alla Trinità stessa.

Quella di Monchanin, da questo punto di vista, può dirsi, quindi, in senso pieno, fede in un Cristo cosmico. In lui egli riassume e ricapitola lo spazio: «la creazione non ha essere eccetto quello della sua relazione intemporale con Dio»,66 e il tempo: «Attraverso lui e in lui, l'eterno è ricevuto dentro il temporale».67 Anche in Monchanin, perciò, proprio come nel gesuita francese, la riflessione sulla creazione non può essere scissa da quella sulla storia, tuttavia l'angolatura prospettica con cui egli si accosta ad essa risulta abbastanza diversa. 68 Per lui, infatti, Cristo si trova al centro di un mistero ontologico prima che storico. La filosofia del lionese, sotto questo aspetto, lascia intendere, che l'antitesi tra divenire ed essere o, se si preferisce, quella tra ente ed Essere, trova uno spazio di decifrazione e di conciliazione ultima nella dinamica evolutiva in Cristo. Essa, però, viene da lui concepita diversamente da Teilhard, non tanto, cioè, come "forza" che stimola la noogenesi, ma in virtù della potenzialità ontologica della relazione che il fedele instaura con la Sua Persona, vero uomo e vero Dio. Rapporto capace di conciliare tutte le opposizioni e avvicinare quello che l'India, da sempre, chiama advaita.

Da questo punto di vista non solo a Teilhard o ai russi, ma anche a Monchanin, si deve attribuire la paternità della moderna «dinamizzazione teologica della cristologia». E tutto sommato, da questo punto di vista, le riflessioni del benedettino francese, essendo maggiormente radicate su dei principi scritturistici, possono anche essere lette come una possibile correzione alle critiche fatte a Teilhard di aver sviluppato una teoria molto teologica, ma poco biblica. La riflessione sul cosmo e sul creato da lui svolte, infatti, non procedono, come si diceva, dalla scienza, ma da una teologia filosofica. L'universo è così concepito da Monchanin come una kenosi di Dio, ma al tempo stesso, come una manifestazione del divino, in una dinamica nella quale esso si nasconde rivelandosi e si rivela nascondendosi.69 Questa prospettiva, sebbene, in fondo, non assente nei greci, è un concetto tipico di quella prospettiva di matrice tantrica che sarà particolarmente cara a Le Saux. Egli, da questo punto di vista, trasmise al compagno benedettino anche un'altra espressione di fondamentale importanza, da lui poi ripresa nei suoi diari, il fatto cioè che «il mondo non è illusione, ma è reale, della stessa realtà di Dio».70 È questa la chiave che permette alle teologie dei due compagni di affermare la consistenza relativa, o meglio relazionale, del mondo, superando e respingendo, in questo, l'inaccettabile dottrina, da un punto di vista cristiano, della mâyâ shankariana.

La creazione come realtà in Cristo: la via intermedia della teologia cristiana

Come si diceva, per Monchanin il mondo reale non è né il luogo dell'illusione né lo spazio panteistico della divinità, bensì quello della divinizzazione. Seguendo questa logica, il lionese deduce che «la creazione è così identificata con la deificazione e con il corpo mistico».71 Questa prospettiva trova una diretta spiegazione nelle convinzioni teologiche più radicali del lionese, nella cosmologia del quale «la creazione è definita dall'incarnazione della Parola e dalla missione dello Spirito».72 Si capisce in quali termini, dunque, i concetti cari a Monchanin di Partecipazione, di Relazione, e, come vedremo meglio, di Personificazione, siano la premessa e la condizione di una concezione Trinitaria dell'Universo che rappresenta, al contempo, una via intermedia tra dualismo e panteismo.

In altri termini la teologia di Monchanin riprende, in fondo, l'antica dottrina del logos, proponendo, in Cristo, una soluzione alla domanda filosofica che si è alzata ad Atene come sulle rive del Gange, circa il modo in cui l'Uno o l'Essere -- prescindendo dalla fusione puntualizzante di Aristotele -- si leghi al molteplice divenire del cosmo. Egli, nel riaffermare la dottrina di Cristo come Mediatore ed Unificatore del mondo, riprende, in fondo, una concezione evolutiva dell'uomo presente universalmente in teologia, anche a prescindere da Teilhard.73

La Storia, quindi, nella prospettiva di Monchanin, può leggersi come il cammino della creazione verso Cristo. Diversamente dal gesuita, però, il lionese non chiarisce mai fino in fondo se essa abbia un inequivocabile progresso in se stessa. Semplicemente, il benedettino, guarda al divenire storico del cosmo come allo spazio che permette all'uomo il riconoscimento della propria immagine in quella di Cristo, consentendo così la sua partecipazione alla vita trinitaria. Dal punto di vista di una spiegazione razionale, tuttavia, quello della creazione è, secondo Moncahnin, il più grande e il più incomprensibile dei misteri. In ogni caso il suo divenire nella storia egli lo legge come un percorso verso la realizzazione del Mistero di Cristo, non, però, nel senso indiano di realizzazione, il cui sfondo panteistico, a suo avviso, ha il difetto di dimenticare la trascendenza dell'assoluto.74 Questa tensione cristica dell'intero cosmo, in ultima analisi, egli la legge non in una logica di reale equivalenza tra Cristo e l'uomo, ma in quella di una comunione tra due Persone necessariamente distinte, nella misura in cui l'una è orientata all'altra nei termini di una relazione che non può essere reciproca.

In sintesi tra Monchanin e Teilhard de Chardin è più giusto parlare di convergenze che dipendenze; di affinità. Di esse, tra i primi, si accorse proprio Henri de Lubac, amico e stimatore di entrambi. Postulato, infatti, che la cristogenesi sia la categoria più importante della teologia teilhardiana così come il pancristismo lo è in quella di Monchanin, è inutile chiedersi quale delle due proceda dall'altra. Esso è un concetto intrinseco al cristianesimo, come tale era già conosciuto da Eckhart, che lo denominava generazione del Verbo, così come Panikkar lo chiamerà cristofania. Di tale prospettiva cristocentrica, altresì, quello che deve essere sottolineato è che essa rappresenta l'ultima risposta di Monchanin alle due più fondamentali provocazioni del vedânta: quella dell'identità sostanziale tra il sé individuale e il Sé universale e il suo radicale acomismo per cui solo l'Assoluto è. Tale conclusione è dunque la premessa per presentare la via cristiana come non riconducibile alle due grandi tesi proposte dalla filosofia indù: «Il cristianesimo trascende il dilemma: rifiutandolo: né parinâma-vâda, né vivarta-vâda».75 Al tempo stesso essa è l'occasione per presentare la dottrina cristiana come terza via, la quale ha una ricchezza ed un originalità specifica nel suo essere depositaria di un'ontologia che suppone un sat (essere) comune. Prospettiva che dimostra come non si possa eliminare uno dei due corni del dilemma, l'advaita, come scriverà Monchanin, deve morire per risorgere cristiana.76

3.2. La teologia della persona come superamento trinitario della non dualità

La teologia della persona di Jules Monchanin si pone come via intermedia tra monismo e dualismo. Essa, cioè, permette di correggere sia quel monismo che finisce col respingere ogni forma d'amore e devozione verso l'Ente supremo, sia quel dualismo che, guardando all'uomo da una prospettiva materialistica, finisce con lo svilire eccessivamente la sua dignità ontologica.

La Persona come Essere

Fulcro e cardine dell'intera opera di Monchanin, è la riconduzione del tema greco dell'Essere a quello teologico di Persona. La sua scoperta filosofica più determinante è infatti la constatazione che il «vero essere è persona».77 Questa sua considerazione nasceva dalla convinzione che se Dio, l'Essere supremo, è Persona, lo è anche l'uomo di cui la Rivelazione dice essere l'immagine.78

Alla luce di tale scoperta, e come suo sostegno, altre due certezze confortano l'intera fede teologica di Monchanin, due verità che stanno alla base di tale «personalismo» come suo stesso fondamento. La prima è che «la beatitudine non consiste soltanto in una visione o conoscenza diretta "facciale", dell'essenza divina, ma anche una partecipazione reale alle stesse relazioni trinitarie. [...] Il ritmo eterno di Dio diventerà, per partecipazione, il ritmo stesso dell'anima deificata. La seconda verità che ci viene rivelata è che questa partecipazione non sarà affatto un'identità di essenza: Dio resterà sempre il Trascendente, il Totalmente-Altro. Per quanto diretta sia la conoscenza e per quanto intima sia l'unione d'amore, la distinzione ontologica tra conoscente e conosciuto non verrà mai meno, ché diversamente si annullerebbe ogni conoscenza, come non verrà mai meno la distinzione ontologica tra amante ed amato».79

Monchanin, con il suo spirito teologico e filosofico greco, cercava di costruire sul piano ontologico l'incontro armonico tra Occidente cristiano e Oriente vedântico, essendo, quello dell'Essere, il tema fondante di entrambe le tradizioni filosofiche.80 Nella consapevolezza, però, che questa desiderata armonizzazione implicava necessariamente un ripensamento teologico radicale dell'Ontologia, considerando la disciplina, cioè, non più in se stessa, ma in un ottica relazionale e personalistica.81

L'originalità del pensiero cristiano rispetto a quello del vedânta -- ed in parte anche del neoplatonismo -- consiste appunto nella rivelazione che a questo Essere non corrisponde la semplicità dell'Uno, ma la Relazione. Ecco perché, attraverso una coerenza implicita di stampo sillogistico, per Monchanin fu chiaro che interrogare il mistero dell'Essere significava in ultima analisi investigare il mistero più profondo della Persona, e in esso quello di una Relazione che, al di là della Scrittura, emergeva come logicamente trinitaria: «Essenzialmente il misticismo cristiano è perciò partecipazione a Dio, cioè partecipazione alla vita trinitaria. Si tratta di una intuizione che va al di là dell'immagine e del concetto, di una esperienza diretta -- frutto non di operazione umana, ma dono di Dio -, di un contatto essenziale con ciò che Dio è in se stesso e per se stesso. [...] Analogamente l'esperienza mistica dell'Essere divino trino non è un appello a riconsiderare la nostra idea dell'esse? L'esistenza divina è un'esistenza personale. Dio non è né ciò, né egli, né io, ma piuttosto egli è io e io e io. La sua essenza stessa è identica alla sua relazione tripersonale. Ogni esse non è quindi un co-esse, ogni sat un samsat,82 ogni essere un essere insieme? Forse anche la nozione di persona deve essere riformulata. Poiché in Dio la persona è essenzialmente relazione, esse ad alterum un essere per e verso l'altro in quanto altro (e l'alterità di ogni Persona divina rispetto alle Altre è necessariamente infinita), sembra che l'essenza della personalità risieda nella relazione con le altre persone e principalmente con le Persone divine».83

La filosofia della Persona

Il personalismo di Monchanin si fonda, quindi, sul co-esse.84 In termini filosofici moderni potrebbe forse essere accostato a Levinas e alla sua concezione per cui "l'altro è condizione dell'io". Certamente, però, esso è una reazione all'essere per sé di Sartre, ed un superamento sia di Mounier che di Teilhard.

Soprattutto, però, questa sua visione dell'Essere come comunione, come Relazione necessaria, era un concetto diametralmente antitetico a quello vedântico fondato sulla semplicità dell'Assoluto, dell'«Uno solo con se stesso». Da questo punto di vista, al di là del impegno missionario, le proprie convinzioni ontologiche si andavano ad inscrivere all'interno di un dramma filosofico individuale.

L'affermazione trinitaria, infatti, traslata in un contesto indiano, sembra perdere ogni senso. Da questo punto di vista la tensione filosofica di Monchanin, ogni sforzo della sua specifica missione intellettuale, nasceva proprio dal fatto che egli, senza rinnegare Shankara, voleva comunque mediare il solipsimo monadico del vedânta con il tema cristiano della Relazione e della Partecipazione. Potremmo dire, parafrasando Heidegger, che, esattamente come avviene nel vedânta, anche la teologia di Monchanin si conclude con l'annullamento della differenza ontologica fra Essere ed ente, non però in una indistinzione di fondo, bensì in Cristo. Non, cioè, in virtù di un dissolvimento in Lui, che risulterebbe un equivalenza, ma in virtù proprio di una Relazione alla sua essenza che viene partecipata per grazia. Il pericolo teologico che Monchanin voleva evitare più di ogni altro era infatti la confusione panteistica, di cui era stata accusata non poca teologia cristiana, da Scoto Eriugena, alla scuola di Chartres, alla mistica renano-fiamminga.

Da questo punto di vista, proprio per distanziarsene, l'abate francese assunse la definizione di panteismo proposta da Auguste Valensin, per il quale esso coincide con una sorta di teologia dell'incarnazione estesa a tutti gli esseri, un'unione ipostatica di Dio con ogni creatura. Il lionese, nel citare la sua definizione, mette esplicitamente fuori la sua teologia da tale teandrismo: «Dal punto di vista sia della filosofia della persona che del pancristismo, l'unione ipostatica della Parola con ogni coscienza è realtà, ma non attraverso l'equivalenza delle coscienze tra loro stesse e con Dio».85 Basterebbe questa affermazione, centrata sull'unione che non è equivalenza, per sancire definitivamente non tanto l'ortodossia cattolica di Monchanin, quanto la sua «eterodossia indù».

Sotto questo aspetto, anzi, si capisce quanto la spiritualità di Monchanin sembri non aver bisogno dell'induismo, e come la sua teologia cristiano-indù sia in realtà pura teologia cristiana, o meglio, un cristianesimo integralmente tale sebbene presentato ed impostato alla luce della sfida vedântica. Basterebbe il suo pancristismo, teso ad evidenziare l'esistenza di un principio assoluto nella particolarità dell'individuo e della storia, per dimostrare la provenienza di tale concetto non tanto dall'ontologia indiana, quanto dalla più classica tradizione cristiana, dalla quale, per esempio, Balthasar ha tratto la sua non dissimile immagine teologica di «tutto nel frammento».

Si capisce, in ogni caso, come il concetto di Persona in Monchanin non abbia certamente il senso latino di maschera, concetto che lui riconduce, semmai, alla contingenza dell'io empirico. A suo avviso, infatti, «L'India non è stata tratta in errore quando ha intuito che l'io in quanto tale non ha consistenza in sé, che la sua genesi, la sua crescita, il suo termine, il suo movimento spirituale è dapprima evasione fuori dall'individualità empirica e finalmente di perdita trasfigurante in colui che è soltanto Essere, Pensiero, Gioia: Saccidânanda. Per l'uomo il divenire è una teopatia, una personalizzazione nel e in virtù del corpo del Risorto, un'inserzione trinitaria. Un tale cristocentrismo è il solo "uno nel molteplice" in grado di fissare millenarie oscillazioni riassorbendo il sincretismo nella plenitudine».86

La Persona alla luce di Cristo

Tale cristocentrismo era conosciuto dal lionese già in Bergson, prima ancora che in Teilhard, come esse ad.87 È Cristo, per Monchanin, l'orientamento fondamentale dell'uomo, la chiave del suo essere, la sua sostanza. Se l'uomo, infatti, è Persona lo è alla luce di Cristo, che proprio in Lui può e deve personalizzarsi. Swami Parama Arubi Anandam trasmise la sua visione cosmologica pancristica anche al compagno Le Saux che, in un certo senso, l'ha poi sviluppata in termini maggiormente indologici, arrivando a dire in uno slancio mistico: "Il Cristo per me sono io".88

La teologia di Monchanin, in ogni caso, dimostra di aver metabolizzato come poche altre hanno fatto la celebre formula di Ireneo: "Il Verbo divino si è fatto ciò che siamo affinché diventassimo ciò che Egli è". Nella sua metafisica, infatti, come abbiamo visto, il divenire dell'uomo ha un ritmo che si armonizza con l'Essere della Trinità attraverso l'incarnazione di Cristo. Nel pensiero del lionese tempo e spazio assumono così una connotazione ontologica ed henologica dal senso ulteriore e diverso rispetto a quello che davano loro le teologie di Aurobindo e Theilard de Chardin. La sua filosofia della persona, infatti, diventa logicamente cristologia attraverso un'autonoma riflessione sul tempo, senza, cioè, richiamare l'evoluzionismo «cristosferico» del gesuita, ma molto più tradizionalmente attraverso quella partecipazione al logos i cui confini ontologici erano già stati sistemati da Giustino.89

In definitiva questa prospettiva di Monchanin verrebbe riassunta, nel linguaggio teologico moderno, nei termini di una «cristologia evolutiva», così come è stata impostata da Karl Rahner, prendendo spunto non a caso da Teilhard, e forse anche dal lionese.

L'influenza tantrica

Questa prospettiva evolutiva, in ogni caso, si ispirava, come già in parte abbiamo visto, ad una concezione ontologica e trinitaria del tempo, presente sia nei greci che nel tantrismo indiano. È possibile, sotto questo aspetto, che il lionese abbia tratto ispirazione da entrambe queste tradizioni filosofiche.

Dal punto di vista del pensiero greco, Monchanin era probabilmente consapevole che già in Platone è possibile intravedere una eventuale soluzione all'inconciliabilità henologica tra Uno e molteplice o a quella ontologica tra Essere e non-essere, proprio attraverso la kinesis. Al di là degli sviluppi che tale dinamiche avranno nell'idealismo tedesco, infatti, Monchanin non poteva ignorare che già Plotino, e più chiaramente di lui il suo discepolo Proclo, avevano trovato un compromesso tra l'Unicità dell'Uno e quel Divenire che necessariamente ad esso si relaziona. Dal punto di vista indiano, invece, Monchanin conosceva già in Aurobindo quella prospettiva metafisica in virtù della quale «Essere e Divenire sono le due fasi dello stesso Assoluto».90 Anzi, come abbiamo visto, il benedettino francese ha dimostrato in termini espliciti quanto il maestro di Pondichéry abbia assunto tale prospettiva direttamente dai contenuti tantrici dello shivaismo kashmîro, ossia da quella tradizione filosofica a cui alcuni autorevoli studiosi dicono Monchanin essersi riferito nell'ultima parte della sua vita.91 Le correnti shivaite dell'India del nord, erano proprio caratterizzate dal «movimento evolutivo», e il grande risultato della loro sottile metafisica consisteva appunto nell'aver recuperato quella realtà del mondo, e in parte anche quella «teicità», che Shankara, invece, misconosceva.

In ogni caso né Monchanin né Le Saux, che più di lui venne influenzato da queste metafisiche, fecero in tempo ad approfondire tali filosofie e a connetterle con il cristianesimo. Esse, tuttavia, rimangono comunque una strada aperta al dialogo filosofico e teologico con l'India del tutto nuova, rispetto all'asse Eckhart-Shankara percorso fino ad oggi.

La sintesi di Monchanin tra la visione tantrica e quella di Teilhard

Il modello evolutivo tantrico non è riconducibile, a causa della sua circolarità fondamentale, a quello di Teilhard, che sembra piuttosto progressivo ed estensivo nel tempo, ma proprio per questo è più vicino a quello greco in cui abbiamo visto Monchanin riconoscersi. Anche in esso, tuttavia, come in quello del gesuita, c'è una sorta di punto omega che coincide però con il «Riconoscimento ed il Ritorno». La circolare cornice evolutiva di queste scuole va infatti verso il «riconoscimento» della propria essenza che, però, come è ovvio, chiamava Siva anziché Cristo. Da questo punto di vista si può parlare di un «panshivaismo» tantrico che ha dei contorni assai simili al pancristismo di Monchanin. Avvicinata da questa angolatura prospettica, la sua teologia sembra quasi un'occasione per tornare ad affrontare specificatamente il problema del Nome come primario, rispetto alle differenze metafisiche di fondo che, presentate appunto da questo punto di vista, vengono quasi ridimensionate.

Giova, in ogni caso, mettere a confronto la prospettiva escatologica tantrica e quella di Teilhard, per mettere in risalto l'originalità di quella di Monchanin. Egli non può sposare il tantrismo, che ignora Cristo e non è esente da implicazioni panteistiche, ma la sua concezione escatologica del tempo non è neppure riconducibile a quella di Teilhard. Quella di Monchanin, infatti, non è una visione estensiva del tempo, ma, semmai, accentrativa. È nella soppressione mistica di esso che l'uomo ricava, in Cristo, la sua pienezza realizzativa, non tanto -- senza escluderla però -- nella ottimistica speranza di una genesi cosmica della verità. Gli stessi modelli escatologici a cui sembrano riconducibili le due teologie paiono differenti, dispiegato spazialmente nel tempo in una logica incarnazionista e forse assunzionista -- fin quasi ad avvicinare i sostenitori della trascendenza della storia -- quello di Teilhard, dall'andamento introspettivo e maggiormente orientato ad un moderato escatologismo quello di Monchanin. In lui si può forse riconoscere l'idea balthasariana per cui l'uomo essendo in grazia può già introdurre nella storia l'azione trasformante di Dio, in una logica spirituale accostabile però all'escatologia esistenziale di R. Bultmann o a quella realizzata di C. H. Dodd, per cui l'uomo deve trovare in Cristo la propria pienezza, non attraverso la storia, ma al di là di essa.

La figura di Bulgakov

Nella teologia di Monchanin convergono quindi ad originale sintesi una visione rivista e corretta dell'evoluzionismo teilhardiano e la divinizzazione trinitaria tipica della spiritualità bizantina. Il pensiero greco, da questo punto di vista, è ambivalente: da un lato con le sue categorie sembra sostanzializzare l'incomunicabilità tra induismo e cristianesimo, dall'altro proprio i padri greci di matrice neoplatonica che, senza obliare la ragione hanno superato l'essere (razionalità) nell'Uno, sembravano fornire a Monchanin delle opportunità concrete per costruire un dialogo teologico con l'India.

Come già abbiamo visto la teologia greca, specialmente quella di Gregorio di Nissa, forniva delle possibilità logiche per superare quei vicoli cechi in cui sembra fatalmente scontrarsi ogni tentativo di avvicinamento cristiano alla metafisica vedânta. Il pensiero del nisseno sembra infatti suggerire diverse soluzioni per aggirare l'impasse dato dall'interpretazione rigida di taluni concetti teologici, come quelli di essenza e natura. Senza eliminare queste categorie, la teologia di Gregorio sembra quasi scavalcarle o ricomprenderle in altre figure concettuali, come quelle di relazione, di partecipazione e di immagine.92 L'abate Monchanin, inoltre, si richiama significativamente anche ad una delle idee teologiche più classiche e suggestive di Gregorio: la tensione infinita dell'uomo verso Dio. Dietro questa immagine c'è l'idea, appunto, che la problematica ontologica non si risolve, si può solo proiettare e moltiplicare all'infinito, al di là dei concetti logici di dualismo e non-dualismo. Essa, infatti, poggia sulla convinzione che essenza del finito, del non assoluto, è possedere solo parzialmente, dimensione, questa, che suppone logicamente una tensione verso la pienezza.

Questi aspetti sembrano dimostrare che la teologia del lionese non fa altro che accogliere e portare a maturazione alcune delle premesse contenute già nell'opera teologica di questo Padre della Chiesa. Monchanin può, dunque, considerarsi il continuatore di una tradizione che dal nisseno attraversa tutta la civiltà bizantina fino alla teologia ortodossa contemporanea. Egli stesso, infatti, ammette e confida le coordinate greche del suo disegno teologico.93 Ed è proprio in questa comune radice filosofica che possiamo rintracciare l'ultima e conclusiva influenza filosofica di Monchanin: Bulgakov.

Come per Teilhard, tuttavia, deve parlarsi di affinità più che di dipendenza, di una profonda analogia concettuale che faceva riconoscere al teologo russo di aver trovato in Monchanin un pensatore a lui congeniale.94 È possibile, da questo punto di vista, vedere alla teologia di Bulkagov come alla spinta risolutiva per superare sia il tantrismo di Aurobindo che l'evoluzionismo di Teilhard, riprendendo la più pura tradizione greca. Giustamente, quindi, taluni studiosi, non hanno mancato di sottolineare l'importanza di questo teologo.95 Di Bulgakov, egli citava il rimprovero rivolto alla teologia latina, e persino a gran parte di quella greca, di dare un primato ontologico all'ousia sull'ipostasi.96 Probabilmente Monchanin si riferiva al fatto che mettere l'accento sull'ousia comporta una divisione inevitabile tra l'uomo e la divinità, là dove, invece, all'opposto, accentuare la Persona significa riconoscere la possibilità della loro comunione.

Ancora più significativo, però, è il suo soffermarsi su una delle categorie più importanti della teologia di Bulgakov: la dottrina della sophia. Monchanin spiega che la sophia non è una «quarta persona», ma la diade logos-pneuma, la loro sinergia; manifestazione e rivelazione dell'ipostasi improcedente del Padre.97 Si comprende in questa chiave la coincidenza tra il suo pancristismo e la teologia del russo, ben più che con il Cristo omega di Teilhard. La dottrina della Sophia, inoltre, permette esplicitamente quella accentuazione della pneumatologia verso la quale tanto sensibile sarà il compagno Le Saux, che la rileggerà attraverso la shakti tantrica. Anzi da questo punto di vista Monchanin non manca di mettere in risalto che la sophia è l'analogia più vicina tra saktismo e cristianesimo. Egli, però, sottolinea anche la loro differenza fondamentale: data dal fatto che nei testi tantrici questa «energia» non è diversa dall'assoluto, mentre nella mistica bizantina si parla sempre di energie differenti dall'essenza divina.98 La teologia di Bulgakov, e degli altri esponenti della sofiologia russa, fornisce, in ogni caso, ulteriori strumenti per far dialogare l'India col cristianesimo.

Le conclusioni trinitarie

Monchanin, come del resto il suo compagno Le Saux, ha concluso la propria vita intellettuale con delle riflessioni sulla Trinità. È rappresentativa della globalità del suo percorso teologico, da questo punto di vista, la riflessione che egli scrive sulla Trinità nel settembre del 1957, presentandola alla luce della sua visione della Persona. La sua opera teologica, anche e soprattutto in virtù di quest'ultimo atto letterario, può giustamente essere definita un tentativo di pensare la Trinità a partire dal personalismo.99

Proprio la Relazione, infatti, come essenza dinamica della Persona, è stato il cuore della sua riflessione sull'uomo, sul creato e sulla Trinità. L'universo stesso in quanto incentrato sulla Persona (Trinità delle Persone divine, l'uomo come Persona, Cristo come sostanza personalizzante) è concepito come Relazione. Il suo personalismo, da questo punto di vista, traduce in termini concettuali questa semplice ma profonda intuizione mistica. Nella medesima prospettiva la sua riflessione filosofica sul divenire, traduce un'altrettanto semplice intuizione di come il tempo sia in realtà un movimento di unificazione universale verso la Persona suprema, quello stesso di cui già la teologia del corpo mistico di Mersh ne rappresentava la figura cristologica. 100

Se l'obiettivo di fondo della missione teologica di Monchanin, da questo punto di vista, era quello di preparare un adattamento cristiano del vedânta in una chiave di comprensione trinitaria, è indiscutibile che egli ha cercato di raggiungere questo obiettivo attraverso la filosofia della persona. La sua teologia, però, non sigla nessuna sintesi e non risolve certamente il problema del rapporto ontologico fra l'essere particolare e determinato e l'Essere assoluto. Essa, tuttavia, chiarifica il contesto della problematica, ne precisa la forma di dipendenza e ne illustra la relazione. Del resto Monchanin aveva incontrato anche delle interpretazione di Shankara che sembravano quasi ipotizzare il concetto cristiano di relazione, come quella di Kokileswar Shâstri Vidyâratna.101 Una tale lettura del kevalâdvaita, al di là della discutibilità di tale interpretazione, aprirebbe ampi margini di dialogo col cristianesimo. È ovvio, infatti, che se si postula un Dio personale e una reale consistenza del mondo, si deve anche ammettere una relazione tra Dio e l'uomo (il mondo) e tra l'uomo (il mondo) e Dio. Lo specifico cristiano, tuttavia, è che questa relazione, come si accennava, è letta come non reciproca: «le relazioni tra Dio e la creazione non sono reciproche: le creature sono relazionate a Dio; Dio non è relativo a loro. Questa irreciprocità è la creazione stessa (S. Th. I, 45, 3)».102

Nel concetto monchaniano di Relazione, quindi, non c'è spazio alcuno per l'equivalenza âtman-brahman, proprio perché quella cristiana non è un unione fine a stessa, ma un'unione d'amore. La relazione d'amore, infatti, rispetto al vedânta classico che è solo unità d'equivalenza senza relazione, salva sia la differenza che l'identità. Di fronte al kevala advaita l'ultima parola del cristianesimo sull'ontologia non è e non può essere la dissoluzione, ma la comunione.103 L'advaita, quindi, come diceva Monchanin, deve morire nel suo aspetto di solipsismo monadico per risorgere con Cristo simbolo d'amore. Egli, che definì se stesso il Figlio di Dio, incarna, infatti, il modello di una Relazione col Padre centrata sull'amore che, con lo Spirito, trova appunto la propria completezza trinitaria.

In altri termini la ricerca teologica di Monchanin mirava a spogliare la semplicità dell'Uno per rileggerlo in una dinamica di relazione che ha al centro l'amore. Egli, fedele all'unico vero dogma della Rivelazione cristiana, vuole in fondo testimoniare che Dio è amore proprio perché è Relazione: «Il "Dio è Amore" del vangelo di Giovanni appare come la definizione metafisica di Dio nella sua realtà intima».104

In conclusione, quindi, si può dire che il massimo contributo teologico di Monchanin è quello di aver cercato di dire l'Unità (non dell'Uno ma del Tre) senza dire la non-dualità, e nell'aver cercato di inserire l'uomo, e quindi il cosmo, nella Trinità senza con questo scivolare nel panteismo. Egli fu perciò il pioniere di una via teologica difficile e a tratti ambigua, eppure pienamente legittima, in quanto dottrina trinitaria ed imprescindibilmente fondata sul Cristo. Per Monchanin è esclusivamente in Lui, che quel molteplice di cui l'uomo è espressione torna ad essere Uno. Ed è solo nella «personalizzazione pancristica» che si realizza la premessa ed il pleroma di ogni cosa.

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Note

  1. In una tale ottica, tuttavia, sarebbe ingiusto celebrare esclusivamente la sola la figura missionaria di Monchanin e quella del compagno Le Saux, senza ricordare anche quella del vescovo di Tiruchirapalli Mgr. J. Mendonça. Questi, figura ecclesiale di straordinaria apertura, non solo permise la fondazione monastica, ma consentì anche di adottare la kâvi, ed altre, per l'epoca, straordinarie novità, come costruire una cappella in stile indù e il soggiorno presso degli ashram indiani. Testo

  2. Si consideri, a questo riguardo, la seguente affermazione: «E di certo l'espressione: cristianizzare l'induismo è impropria. Bisognerebbe dire: a contatto con l'induismo (yoga, tantra, vedânta eccettera) assumere una coscienza più profonda -- talvolta nuova -- di sé in quanto cristiani» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, Marietti, Genova 1992, p. 197). Quella di Monchanin, da questo punto di vista, è esattamente una teologia dello scambio (cfr. ib., p. 198), che oggi si chiamerebbe cristianesimo relazionale, nella linea di un rapporto con le altre religioni che il compianto professor Jacques Dupuis denominava "mediazioni complementari". Testo

  3. Ib., p. 131. Testo

  4. Il Concilio Ecumenico Vaticano II promulgò la Dichiarazione Nostra aetae, che rappresenta una tappa fondamentale nel dialogo interreligioso. Il documento ha infatti permesso il fiorire di una grande varietà di iniziative ed interventi. Sotto questo aspetto sarebbe sufficiente una sbrigativa lettura all'Enchiridion dei documenti della Chiesa in Asia, per prendere coscienza del grande cammino teologico che tale Dichiarazione ha innestato. Testo

  5. All'interno della teologia ecclesiale, specialmente dopo il Concilio, non poche voci si sono alzate per sollevare la necessità di abbandonare il linguaggio della metafisica classica di cui si è servita la Chiesa nei Concili dei primi tre secoli. La nuova tendenza teologica mirava "ad abbattere i bastioni", come scriveva Hans Urs von Balthasar, ed a superare, come invitava a fare Edward Cornelius Schillebeeckx, il linguaggio dell'unione ipostatica, per arrivare a descrivere la stessa verità usando il linguaggio dell'autotrascendenza teocentrica. Una simile ricerca per il rinnovamento delle espressioni teologiche, tuttavia, è presente anche in molti altri autori post conciliari. Testo

  6. R. Panikkar, sviluppando un interrogativo teologico su cui confessa di aver dibattuto con Monchanin, chiederà a Paolo VI se per essere cristiani bisogna essere spiritualmente semiti e intellettualmente greci (cfr. R. Panikkar in Jules Monchanin (1897-1957) as Seen from East and West. Acts of the Colloquium held in Lyon-Fleurie, France and in Shantivanam-Tannirpalli, India (April-July 1995), vol. II, Saccidananda Ashram/Ispck, Delhi 2001, p. 183). Testo

  7. «Filosofare significherà sempre ritornare con umiltà alla scaturigine originale, a quell'Ursprung descritta con tanta acutezza da Jaspers» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 260). Testo

  8. Cfr. ib., p. 173. Testo

  9. Si consideri, a questo proposito, la lettera firmata dal Cardinal Ratzinger nel 1989, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (Cdf), dal titolo: Su alcuni aspetti della meditazione cristiana, e la Dichiarazione Dominus Jesus del 2000. Testo

  10. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 113. Testo

  11. Per Monchanin, Cristo stesso è il sacramento ut per visibilia ad invisibilium rapiamur, e a motivo di Lui «La Chiesa, suo corpo, è -- dalla Pentecoste alla Parusia -- il posto dove lo spirituale diventa incarnato, dove lo storico diventa pourous verso l'eterno» (J.G. Weber (ed.), In Quest of the Absolute. The Life and Works of Jules Monchanin, A. R. Mowbray & Co Ltd, London 1977, p. 121). Testo

  12. Sono queste le denominazioni classiche che intendono definire il rapporto del cristianesimo con le altre fedi religiose. L'esclusivismo afferma che solo il cristianesimo è vero, mentre tutte le altre religioni non sono vere. I loro seguaci, di conseguenza, non possono, seconda questa prospettiva, trovare la salvezza. Questa tesi era sostenuta da K. Barth e viene oggi mantenuta nella teologia protestante e nei gruppi fondamentalisti. Il pluralismo sostiene, all'opposto, che tutte le religioni mondiali per principio possono essere vere. È la tesi sostenuta da J. Hick e P.F. Knitter, che non ha mancato di sollevare critiche e condanne da parte cattolica per il relativismo di fondo che questo atteggiamento di fondo sembra fomentare. Secondo la prospettiva inclusivista, invece, solo il cristianesimo è vero in senso stretto. Le altre religioni, tuttavia, partecipano a questa verità, e anche i loro seguaci possono conseguire la salvezza. È la tesi sostenuta da K. Rahner e dal Concilio Vaticano II. Ed è all'interno di questa prospettiva che Panikkar, definendo appunto quella del lionese una teologia del compimento, colloca Monchanin (cfr. R. Panikkar in Jules Monchanin (1897-1957) as Seen from East and West, cit., p. 187). Testo

  13. Sollecitato da una lettera ad esprimersi sull'argomento lo stesso Monchanin rispondeva: «No, la sintesi di cui lei mi parla e che l'India aspetta non è assolutamente compiuta, semmai appena abbozzata» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 197). Testo

  14. Cfr. R. Panikkar, The monastic project of Monchanin, in Jules Monchanin (1897-1957) as Seen from East and West, Vol. I, cit., p. 185. Testo

  15. Per Monchanin l'induismo era «un forma religiosa oscillante tra monoteismo e panteismo [...] e non riesce a trovare un proprio equilibrio neppure nelle sue tre forme cristallizzate: Shankara, bhakti, Râmânuja» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 133). Testo

  16. J. Monchanin, Théologie et spiritualité missionaires, Beauchesne, Paris, 1985, p. 77. Testo

  17. Dal momento che molto si è scritto sul rapporto tra i due, noi vorremmo aggiungere che non è il caso di rimarcare troppo le loro eventuali differenze. Lo stesso Monchanin riconosceva una sorta di affinità elettiva tra i due (cfr. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 172). La teologia del lionese, da questo punto di vista, è sicuramente la premessa di quella di Le Saux, anche se poi quindici anni di ulteriori studi indologici e teologici hanno fatalmente apportato elementi e prospettive nuove. Le Saux arriverà a sviluppare una pneumatologia più sensibile all'advaita, là dove, invece, Monchanin è rimasto centrato in un personalismo fondato sulla Relazione in cui la differenza ontologica è maggiormente salvaguardata. Abhishiktânanda, da questo punto di vista, è un passo logico, temporale e teologico ulteriore e successivo rispetto a quello di Monchanin, nella direzione di una radicalizzazione delle sue aperture, e in quella di un'assunzione meno condizionata delle conclusioni metafisiche del pensiero indiano. Testo

  18. La teologia di Gregorio di Nissa deve la propria costituzione, in un certo senso, allo stimolo delle più diverse eresie cristiane. Si possono ricordare l'anomeismo di Aezio che faceva risultare il Figlio dissimile dal Padre e il manicheismo, che con il suo radicale dualismo finiva con disprezzare eccessivamente il mondo materiale. Un peso importante ebbero pure le tesi di Marcione, che sconfessava il Dio dell'Antico Testamento; di Valentino, che con il suo gnosticismo influenzato dal medio platonismo parlava di eoni, di Basilide, che tendeva ad una totale liberazione dalla Legge e il modalismo di Sabellio (cfr. G. di Nissa, La Grande catechesi, (M. Naldini ed.) Città Nuova editrice, Roma 1990, p. 42). Testo

  19. H. De Lubac, Inages de l'Abbé Monchanin, Éditions Aubier-Montaigne, Paris pp. 107-108. Traduzione italiana in Paradossi e nuovi paradossi, Edizioni Paoline/Jaka Book, volume 4, Milano 1989, p. 176. Testo

  20. B. Griffith, Transformation in Christ in the Mystical Theology of Gregory of Nyssa, in «The american theosophist» 74 (1986) 156-160. Questo testo si ispira anche sulle meditazione che Le Saux aveva fatto su Gregorio di Nissa e il suo sviluppo dell'idea biblica dell'uomo creato ad immagine di Dio in: H. Le Saux, Tradizione indù e mistero trinitario, Emi, Bologna 1989, p. 197. Testo

  21. G. di Nissa, La Grande catechesi, cit., p. Xxi, 2. Si potrebbe aggiungere, a dimostrazione di quanto in Gregorio di Nissa sia assente ogni ombra di "confusione" ontologica, il fatto che egli rifiuti anche la dottrina origeniana della preesistenza dell'anima, a favore di una sua creazione nel tempo attraverso l'unione col corpo. Testo

  22. Ib., p. 103. Testo

  23. Cfr. J. Gaïth, La conception de la liberté chez Grégoire de Nysse, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1953, p. 47. Testo

  24. G. di Nissa, La Grande catechesi, cit., p. Xxxii, 6. Testo

  25. La fede eucaristica di Monchanin si fonda in una comunione ontologica con Cristo già chiaramente riscontrabile in quella del nisseno: «quel corpo reso immortale da Dio, una volta introdotto nel nostro, lo trasforma e lo cambia interamente nella propria sostanza» (G. di Nissa, La Grande catechesi, cit., p. Xxxvii, 3). Testo

  26. Cfr. J. Gaïth, La conception de la liberté chez Grégoire de Nysse, cit., p. 47. Testo

  27. Gregorio di Nissa, per illustrare questa sua convinzione, riporta l'esempio dell'occhio che partecipa alla luce grazie all'elemento luminoso insito in lui. Quella da lui svolta è una stretta logica teologica: «Se dunque l'uomo viene alla luce per avere parte ai beni divini, deve avere una costituzione che lo renda capace di partecipare a quei beni. [...] ..era necessario che una qualche affinità col divino fosse innestata nella natura umana. E poiché una caratteristica della natura divina è anche l'eternità, si richiedeva necessariamente che la costituzione della nostra natura non fosse privata neppure di questo bene» (ib., p. 46). Testo

  28. In verità un aspetto originale di Gregorio di Nissa, rispetto alla generalità degli altri Padri, è che nella sua teologia immagine e somiglianza sono sinonimi. In lui perde valore quella distinzione che riconosce nell'immagine la similitudine naturale dell'anima, e nella somiglianza la perfezione acquisita (cfr. ib., p. 45). Testo

  29. Nel contrastare l'anomeismo di Eunomio, Gregorio fornisce a Monchanin, in un certo senso, le basi strumentali della sua analisi critica del Vedânta. La logica ariana voleva che se il Figlio non era della stessa sostanza del Padre, fosse creatura, e in quanto creatura non Dio. La divinità, quindi, appariva come una sola sostanza e una sola ipostasi. Non è un caso, da questo punto di vista, che il monismo differenziato di Râmânuja sia stato associato al modalismo. Monchanin trasmise al compagno Le Saux questa sua lettura patristica del monismo indù, arrivando nei suoi diari ad accostare la disputa Shankara-Râmânuja a quella tra Ario ed Atanasio (cfr. H. Le Saux, Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyâsin hindû, Mondadori, Milano, p. 415). Testo

  30. Un testo di Daniélou da segnalare, da questo punto di vista, è L'être et le temps chez Grégoire de Nysse, Leiden, 1970. Monchanin poteva conoscere la prima versione di questa pubblicazione apparsa in un articolo del 1953. Questo tipo di riflessione, sulla scia di Monchanin e di Le Saux, è stata ripresa in tempi più recenti da G. Lafont, Dio, il tempo e l'essere, Piemme, Casale Monferrato 1992. L'alto prelato francese, in ogni caso, deve essere ricordato anche per la sua fondazione di un Circolo dedicato al dialogo interreligioso intitolato a san Giovanni Battista (primo santo cristiano non cristiano, come disse, anche lui frequentatore del circolo, Giuseppe Lanza del Vasto) e per essere il fratello di un importante indologo del Novecento, sebbene assente nelle citazioni di Monchanin. In ogni caso non solo il lionese frequentò il Centro, ma la sua teologia missionaria ebbe l'esplicita stima del cardinale francese. Testo

  31. Il monarchianismo diventa esplicitamente eretico solo quando degenera in adozionismo o modalismo, eresia, specialmente quest'ultima, da tenere in attenta considerazione in un contesto di dialogo religioso con l'India. Essa, lungo la storia, ha preso le forme anche del patripassianismo e del sabellianismo, nel quale non ci sono reali ipostasi divine, ma solo manifestazioni di un unico principio. Testo

  32. Cfr. J. Gaïth, La conception de la liberté chez Grégoire de Nysse, cit., p. 65. Testo

  33. Ruysbroeck si rifaceva alla scuola dello Pseudo-Dionigi, ma anche all'Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura. In ogni caso è lo stesso De Lubac a ricordare un pellegrinaggio nell'inverno del 1938 nella foresta di Groenendael, dove il fiammingo aveva avuto "il suo albero dell'illuminazione" (cfr. H. De Lubac, Inages de l'Abbé Monchanin, cit., p. 140). Testo

  34. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 122. Testo

  35. Cfr. ib., p. 263. Testo

  36. Ib., p. 115. Questo passo è citato anche in A. De Libera, Eckhart, Suso e Taulero, o la divinizzazione dell'uomo, Borla, Roma, 1999, p. 194. L'autore sostiene che Monchanin suggerisce una risposta alla domanda se Eckhart sia ancora cristiano, sottolineando un'evoluzione della scuola renana che si sarebbe riconcentrata attorno alla figura critica di Ruysbroeck. In rapporto alle strette relazioni che questi scenari mistici sembrano avere con l'idealismo, è forse il caso di menzionare che il testo citato porta anche un'interessante testimonianza sull'iniziazione di Hegel alla lettura di Eckhart, conosciuto il quale avrebbe esclamato: «Ecco ciò che cerchiamo!» (cfr. id., p. 186). Testo

  37. Segnaliamo da questo punto di vista uno studio che raccoglie una serie di conferenze tenute da Svâmi Siddheshvarânanda in Europa e particolarmente in Francia tra il 1949 e il 1953. Svâmi Siddheshvarânanda, Pensiero indiano e mistica carmelitana, Âshram vidyâ, Roma 1977. Testo

  38. M. Giani, Un ponte tra cultura europea e cultura indiana. L'itinerario di Jules Monchanin, Jaka Book, Milano 2000, p. 145. Testo

  39. Sul tema vale la pena riportare per intero le parole di Monchanin: «Maestro Eckhart viene spesso "adattato" al Vedânta da certi filosofi indù, aiutati in questo dall'interpretazione panteistica che della sua dottrina danno numerosi studiosi germanici, i quali però si riferiscono esclusivamente ai suoi sermoni tedeschi, trascurando i trattati latini. Se Eckhart fu panteista (il che è tuttora dubbio: aspettiamo la pubblicazione dell'opera omnia [..] curata da P. Théry e dai suoi collaboratori), non lo fu certo né alla maniera del Vedânta, né tanto meno a quella prehegeliana» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 154). Per quanto riguarda le sentenze di Orange, in effetti, bisogna sempre ricordare che Eckhart morì prima di avere l'opportunità di difendersi. Del resto ci sono interpretazioni moderne della sua teologia, come quella di Marco Vannini, che riabilitano l'ortodossia della sua figura teologica, rettificando alcune delle sue espressioni maggiormente discusse. Particolarmente importante, da questo punto di vista, pare essere la sua precisazione di alcuni termini ekchartiani, come quelli tra fondo dell'anima e la facoltà o potenza: «Fondo di Dio e fondo dell'uomo sono un unico fondo, perché non si tratta qui di una identità anima-Dio nell'ambito delle facoltà. Le facoltà sono appunto le potenze, e sotto il profilo della potenza nessuno si sogna di eguagliarsi a Dio» (M. Vannini, La mistica delle grandi religioni, Mondadori, Milano, 2004, p. 262). Una tale riflessione si accorda benissimo con la linea teologica sostenuta da Monchanin. Testo

  40. J.G. Weber (ed.), In Quest of the absolute, cit., p. 183. Testo

  41. Cfr. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 307. Testo

  42. «Ogni concordismo altera e perverte i due termini che esso pretende congiungere con la sua fallace e arbitraria mediazione» (ib., p. 257). Testo

  43. Questo darsana filosofico, attraverso il suo massimo rappresentante, Râmânuja, ha cercato di salvaguardare la personalità dell'individuo (jîvâtman) rispetto alla Divinità (Paramâtman). Da questo punto di vista, pur subendo gli influssi di Shankara, se ne distingue profondamente, maturando un tipo di accostastamento al testo radice di Bâdarâyana puramente teistico. Apparentemente questa prospettiva è metafisicamente più vicina al cristianesimo, di fatto, invece, è accostabile al modalismo e Monchanin la considerò una tentazione fin troppo facile. Si potrebbe aggiungere che, in fondo, non è affatto semplice ricostruire se Aurobindo si sia riferito al solo Râmânuja o anche agli altri commentatori teisti dei Brahmâsûtra, come Nimbârka (secoli XI-XII), Madhva (1197-1276), Vallabha (1473-1531) e Krshna Caitanya Deva (1486-1533). Tutti autori, questi, che hanno cercato in vario modo di sfumare l'antitesi tra dualismo e non-dualità. Testo

  44. Henri Le Saux, che in alcuni passi paragona Râmânuja ad Ario, si esprime, in altri, con termini più concilianti: «nessun tentativo verso una "Trascendenza Cristiana" dell'Advaita può permettersi di rinnegare il pensiero di Shrî Aurobindo così come quello di Râmânuja» (Abhishiktânanda [H. Le Saux] Hindu-Christian Meeting Point, Ispck, Delhi 1996, p. 22). Testo

  45. Aurobindo ebbe quattro esperienze mistiche, fondamentale è la seconda in cui vide Narâyana, cioè l'Assoluto sotto una forma teistica. Proprio il carattere «inverso» di queste due esperienze mistiche fanno dedurre a Monchanin che «era normale che l'accento fosse posto piuttosto sul Saguna anziché sul Nirguna, piuttosto sugli attributi diversi anziché sull'essenza nascosta, spoglia di attributi» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 293). Testo

  46. Non è un caso, da questo punto di vista, che del pensiero di Aurobindo egli ne colse, in primo luogo, le affinità con le Enneadi di Plotino. Paragone questo che di per sé si presta ad un dialogo con il cristianesimo, se corrisponde al vero che secondo lo stesso Sant'Agostino cambiando qualche parola si poteva fare di lui un pensatore cristiano. Consapevole delle potenzialità dialogiche di questa eventuale radice filosofica, fece anche chiedere ad Aurobindo, tramite un intermediario, se avesse studiato il neoplatonismo. Gli venne risposto di no, ma su questa risposta Monchanin, che sapeva aver compiuto studi classici in Inghilterra, conservò sempre dei dubbi (cfr. ib., p. 286). Testo

  47. Sul piano concettuale la definizione di Monchanin è, in effetti, piuttosto critica: «più un amalgama che una sintesi di tutte le correnti indiane e di alcune europee (compreso un notevole apporto di neoplatonismo)» (ib., p. 153). Testo

  48. In verità Aurobindo diede una grande importanza allo yoga-vâsistha, un testo redatto in ambiente vaisnava, e quindi di sfondo teistico e dallo spiccato carattere filosofico. Collocabile tra la scuola Advaita di Shankara e quella buddhista del Vijñavâda, il mondo è, secondo questo testo, una sorta di proiezione mentale. Monchanin, che confessa di averlo scoperto tardi, sembra indicarlo come il più adatto ai fini di una possibile teologizzazione dello yoga. Di esso, in effetti, sottolinea l'elemento indispensabile ad una sua cristianizzazione: «lo yoga abbastanza classico è qui subordinato a una metafisica e a una mistica dell'Uno che trascende, senza escluderlo totalmente, il molteplice (molto meno "mayâyico" di Shankara) (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 182). Testo

  49. Ib., p. 292. Testo

  50. Ib., p. 293. Testo

  51. Ib., p. 90. Testo

  52. Il primo elemento indica la natura naturante, cioè una realtà dinamica, complessa e femminile; il secondo, invece, riassume il principio spirituale, che è una realtà statica, maschile, frantumata in una pluralità di anime consistenti di sola luce coscienziale. Esso, come si può forse comprendere anche dal parallelismo di Monchanin tra yoga ed esicasmo, non esprime però un dualismo di stampo greco. La prakrti, infatti, non coincide esattamente con la materia, perché vi rientra anche l'attività mentale. Già nel Samkhya e nella sua concezione del puruna come (a-guna), cioè come privo di qualità o attributi troviamo, quindi, le radici dell'apofatismo indiano. Potremmo forse dire che il realismo della prakrti è sottomesso al nulla del puruna e che la coalescenza tra spirito e materia, già in questa prospettiva filosofica, è ultimamente irreale. Aurobindo, proprio, attraverso il samkhya, sembra aver riprodotto l'intuizione plotiniana: non è la mente logica -- proveniente dalla materia -- che può cogliere l'Uno, ma solo il puruna stesso, attraverso una facoltà i cui rapporti con la mente inferiore, però, non sono del tutto chiari, anche perché pare comunque esserci una continuità evolutiva dall'una all'altra. Testo

  53. Cfr. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 110. Testo

  54. Ciò che sembra maggiormente interessare il pensiero di Aurobindo, è la dinamica di questa trasformazione reale, la quale, solo parzialmente è accostabile alla cosmologia biblica: «l'evoluzione dei vari principi dalla prakrti primordiale va vista in termini non di creazione di ciò che prima non era, ma di cambiamento, reale trasformazione di qualcosa che non cessa però di esistere nella sua sostanziale identità pur entro diverse strutturazioni» (R. Torella, Storia della scienza (estratto dal Volume II, Cina, India, Americhe) Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 2001 p. 666). Tuttavia, in un'ottica cristiana, deve essere sottolineato come i filosofi del Nyâya-Vaishesika volessero sostituire questa dottrina del parinâmavâda con una più vicina a quella di creazione, a dimostrazione di come anche il pensiero indiano conosca scenari cosmologici simili a quelli cristiani. Testo

  55. Nelle metafisiche di queste correnti, infatti, lo spirito risulta essere la volta dell'esistenza universale, la materia la sua base e la mente il legame che li unisce. Attraverso questa prospettiva d'insieme Aurobindo sembra recuperare lo stesso ruolo che Isvarakrisna attribuisce alla buddhi, salvo considerare, in termini prettamente tantrici, la materia come strumento della shakti ovvero come la stessa energia evolutiva divina. La creazione, in tale prospettiva, è involuzione dello Spirito supremo nel mondo, ossia entro la sfera delle forme inferiori della Reale (anche se tutto è divino perché in tutto è presente un'unica coscienza), sua proiezione al di fuori di sé o sua immersione nell'ignoranza, stato proprio del mondo implicante l'ascesa del mondo stesso al suo stato originale supremo. Tale ascesa, in ogni caso, si rende realizzabile solo ed esclusivamente attraverso la trasformazione spirituale. Testo

  56. Non è del tutto chiaro quanto e che cosa Monchanin potesse conoscere del tantrismo appena negli anni Quaranta. Molte traduzioni e testi critici erano ancora da venire, tuttavia deve essere sottolineato, a questo riguardo, la sua amicizia con la sanscritista Lilian Silburn traduttrice, appunto, di alcuni tra i più importanti âgama delle scuole tantriche kashmire, sulla cui corrispondenza con lei, significativamente, aggiornava continuamente Padre Le Saux (cfr. Abbé Monchanin, Lettres au Père Le Saux, Cerf, Paris 1995). Testo

  57. «Sul piano dell'assoluto, Shivâdvaita: Shiva e Shakti costituiscono un uno (o vi è ancora un'ombra di distinzione, più che di "ragione"? qualcosa di più o meno analogo alla distinzione formale -- alla non-identità formale -- dello scotismo?) A quanto pare Shiva e Shakti designano uno stesso essere, ma sotto una diversa formalità: in quanto raccolto in se stesso (Siva); in quanto effuso nell'atto di comunicarsi (Shakti)» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 250). Testo

  58. Cfr. ib., cit. p. 88. Testo

  59. È questa una prospettiva molto distante dalla metafisica cristiana. La riflessione filosofica indiana, salvaguardando l'assoluta libertà del divino da ogni necessità, non ha trovato, in genere, categoria migliore dal gioco per esprimere il mistero che causa il reale. Anche il pensiero filosofico occidentale, tuttavia, ha scoperto di recente l'attività ludica, come l'unica attività umana priva di una finalità e, a motivo di ciò, pura. La filosofia, cioè, ha rivalutato il gioco come atto estetico, nel suo senso metafisico più alto come manifestazione e luogo espressivo del vero. Testo

  60. Monchanin sa che per Shankara -- almeno nelle sue opere certamente autentiche -- il mondo è mâyâ e non shakti, dimostrando di conoscere esattamente la derivazione di tale prospettiva dallo shivaismo kashmîro (cfr. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 251). Si consideri, a questo proposito, anche la sua citazione specifica della corrente filosofica della Pratyabhijña, ovvero del "riconoscimento" (ib., p. 301). Testo

  61. P. Teilhard de Chardin, La mia fede [Comment je crois], Queriniana, Brescia 1993, p. 122. Testo

  62. Id., Le direzioni del futuro, Sei, Torino 1996, p. 53. Testo

  63. Id., Convergere in alto, Il Saggiatore, Milano, 1980, p. 108. Testo

  64. F. Mantovani (ed.), Teilhard de Chardin. L'orizzonte dell'uomo, Gabrielli editore, S. Pietro in Cariano (Verona), 2000, p. 103. Testo

  65. Rispetto a Teilhard, l'accento di Monchanin è posto meno su un divenire in cui trova spazio la scienza. Il suo è un divenire tutto introspettivo, che rimane ermeticamente chiuso in una circolarità spirituale estranea alle vicende secolari. Non è direttamente la scienza ad interessarlo, e meno che mai la tecnica, verso la quale potremmo anche ipotizzare un certo sospetto, come una non celata simpatia per Gandhi implicitamente dimostrerebbe. Monchanin, quando riflette sull'evoluzione, ha in mente solo il suo aspetto di convergenza spirituale verso il Cristo, non i corollari sociali, politici, economici e scientifici che necessariamente vengono implicati. Non lo interessa nemmeno la coerenza di massima tra scienza e teologia (da non confondere con il concordismo) affermata dal gesuita. Possiamo dire, forse, che il solo aspetto del pensiero di Teilhard che veramente lo interessi è esclusivamente il suo impianto metafisico. Ad ogni modo, nei suoi scritti, si richiama specificatamente solo a questa dimensione cristocentrica. Egli, nella diversa accentuazione della sua riflessione, è forse rimasto influenzato se non dal modello, almeno dal carattere filosofico della riflessione indiana sul tempo, cha ha un ritmo proprio rispetto a quello dello spirito, al quale fornisce un puro e semplice scenario. Questo, tuttavia, non comporta una sorta di indifferenza per le vicende umane. Come abbiamo detto, infatti, la stima di Monchanin verso Aurobindo e Gandhi nasceva in gran parte proprio dalla loro attenzione alla storia e alla "qualità dell'azione". Testo

  66. J.G. Weber (ed), In Quest of the Absolute. The Life and Works of Jules Monchanin, p. 150 Testo

  67. Ib., p. 144. Testo

  68. La riflessione sulla storia di Monchanin, in un'epoca in cui la teologia è stata quasi costretta a riscoprirla, non è etica, ma prevalentemente ontologica. Proprio nel guardare ad un fine ultimo che non è un "Regno", ma Cristo nella sua realtà intima essenziale, essa però è egualmente e forse maggiormente escatologica, proprio perché direttamente mirata alla realizzazione spirituale. C'è da dire, in ogni caso, che quando Monchanin scrive, ben prima del Concilio, che si occuperà in parte cospicua di questi temi, una teologia della storia era a malapena abbozzata, e comunque non certamente in una chiave di dialogo con la ciclicità indiana. Il lionese, da questo punto di vista, confessa di essere ossessionato dallo sforzo concettuale di conciliare il tempo e l'eternità «Il problema del tempo mi ossessiona. Come si può comprendere la relazione tra tempo ed eternità? Una filosofia ed una teologia del tempo sono uno dei bisogni urgenti del nostro tempo» (Ib., p. 120). In Monchanin, infatti, tale irriducibilità esprimeva tutta la difficoltà metafisica di coniugare ente ed Essere. Egli cioè, al di là di echi heideggeriani, proietta su un piano cosmologico la problematica ontologica, anche perché aveva intuito che passava attraverso di essa, ossia attraverso la tensione evolutiva, l'antitesi tra l'advaita e il Dio personale della Bibbia Testo

  69. Cfr. ib., p. 150. Testo

  70. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 293. Si consideri l'affermazione quasi identica di Abhishiktânanda: «Il mondo è reale della realtà di Brahman, e la stora, l'evoluzione del mondo, è reale della realtà di Brahman» (H. Le Saux, Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyâsin hindû, cit., p. 370). Testo

  71. J.G. Weber (ed), In Quest of the Absolute. The Life and Works of Jules Monchanin, cit., p. 150. Testo

  72. Ib. p. 149. Testo

  73. L'autore, per esempio, cita anche Le Roy e Bergson (cfr. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 307). Testo

  74. Cfr. ib., p. 180. Testo

  75. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 197. La prima prospettiva viene esclusa perché nelle sue conseguenze panteistiche svilisce Dio, la seconda perché come premessa stessa ha la negazione della creazione. Testo

  76. Cfr. ib., p. 199. Testo

  77. J.G. Weber (ed), In Quest of the Absolute. The Life and Works of Jules Monchanin, cit., p. 148. Testo

  78. La prospettiva antropologica di Monchanin si fondava sulle riflessioni patristiche intorno a questa categoria, rilette, però, alla luce del suo personalismo orientato a Cristo: «La persona umana può essere raffigurata da una elisse a due fuochi: la sua ipseità (il suo "per sé", il suo "esse sibi") incomunicabile, e la sua relazione, la sua essenziale comunicabilità (il suo "esse ad"). Metafisicamente parlando, non è detto che alla costituzione della persona umana concorra meno la sua relazione all'altro, a tutti gli altri e al Totalmente-Altro di quanto contribuisca la sua stessa ipseità» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 116). Testo

  79. Ib., cit., p. 93. Testo

  80. Aristotele, in Occidente, ha dimostrato l'indivisibilità della problematica sull'Uno da quella sull'Essere. Una lucida esposizione di come lo stagirita abbia capovolto il paradigma henologico assorbendolo in quello ontologico (cfr. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana. Assi portanti del pensiero antico, Bompiani, Milano 2004, p. 52). Testo

  81. L'opera teologico-missionaria di Monchanin ha come suo fondamento questo ripensamento dell'essenza trinitaria: «La visione vedantica dell'Essere, sat, è forse una sfida alla nostra ontologia postaristotelica tradizionale? Siamo invitati a riformulare il fondamento stesso della nostra ontologia? Analogamente, l'esperienza mistica dell'Essere divino trino non è un appello a riconsiderare la nostra idea dell'esse?» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 123). Testo

  82. È questo un neologismo inventato da Monchanin per esprimere al tempo stesso una verità antropologica e teologica. Testo

  83. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 123. Testo

  84. «Poiché in Dio la persona è essenzialmente relazione, un esse ad alterum, un essere per e verso l'altro in quanto altro» (Ib., p 123). Testo

  85. J.G. Weber (ed), In Quest of the Absolute. The Life and Works of Jules Monchanin, cit., p. 154. Testo

  86. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., 21. Testo

  87. J.G. Weber (ed), In Quest of the Absolute. The Life and Works of Jules Monchanin, cit., p. 148. Testo

  88. L'espressione, al di là del suo accento mistico e poetico, si può dunque leggere sia in chiave "pancristica", nel senso di Monchanin, sia indù: «Cristo è l'Uomo cosmico, il Puruna. Cristo è l'incarnazione dell'unità dell'essere creato. [...] I Puruna non sono separati. Nessuna persona è umana se non nell'Uomo archetipo, Cristo» (cfr. H. Le Saux, Diario spirituale [19 ottobre 1966] cit., p. 370). Testo

  89. Se vogliamo, i paletti per una teologizzazione cristiana dello yoga, li aveva già messi San Giustino: «altro è possedere un seme e una somiglianza proporzionata alle sue facoltà, altro è l'oggetto stesso [il Logos in persona] la cui partecipazione e imitazione è possibile per la grazia che proviene da lui» (San Giustino, Seconda apologia, 13). Testo

  90. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 303. Testo

  91. Tra di essi menzioniamo il camaldolese Thomas Matus, il quale sottolinea come «Jules Monchanin come molti scolari sia indù sia non-indù, enfatizza l'Advaita Vedânta e Shankara come rappresentante del più alto punto filosofico dell'induismo. Tuttavia, negli ultimi anni della sua vita, Monchanin, insieme con Abhishiktânanda, sia in contatto con altri studiosi (incluso Raimon Panikkar), iniziarono a prendere interesse nello shivaismo kashmîro e in autori come lo yogi dell'undicesimo secolo Abhinavagupta ed altri del tempo. La scuola Trika del Kashmir non seguiva né il Vedânta né il Samkhya, ma ha elaborato una sua unica forma di monismo. Così Monchanin, se ancora considerava Sankara come il più grande pensatore indù, incominciò a prendere coscienza, alla fine, di altre grandi correnti filosofiche dell'induismo medievale» (T. Matus, Jules Monchanin and yoga, in Jules Monchanin (1897-1957) as Seen from East and West, vol. II, cit., p 116). Testo

  92. Come abbiamo menzionato, l'ontologia del nisseno appariva a Monchanin la propaggine teologica cristiana maggiormente prossima all'antropologia non dualistica vedânta. Sebbene Gregorio, infatti, non riduca la sopranatura alla natura, afferma nel contempo che l'uomo è capace di essere divinizzato perché contiene nella sua essenza umana un elemento divino. Lo spirito stesso (nous), era da lui considerato il punto di partenza della sopranatura. La natura umana, infatti, a suo avviso, essendo l'immagine della bellezza soprannaturale, presentava ella stessa i tratti della bellezza divina (cfr. J. Gaïth, La conception de la liberté chez Grégoire de Nysse, cit., pp. 46-47). Testo

  93. «Io sto spedendo a N. questa oscura meditazione upanishadica elaborata nel silenzio di Malayadipatti e riesumata nel silenzio di Panneipatti... Essa suppone la mia filosofia della persona, della Trinità, dell'ellenistica speculazione sull'Essere e l'Uno, la teologia trinitaria greca in confronto contro il kevalâdvaita, che inizia e termina nel kevalâdvaita, e le suggestioni di una spiritualità indiana trinitaria: concentrata dopo la fase greca o nello stesso tempo nella finale unità realizzata nello Spirito» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 144). Testo

  94. Monchanin racconta di aver conosciuto personalmente il famoso convertito dal marxismo, in occasione della quale uno dei più vicini discepoli del russo gli confido che Bulgakov aveva confessato di non aver mai conosciuto nessuno in grado di comprenderlo così profondamente quanto lui. Le parole esatte furono: «La sua mente e la tua sono così congeniali» (H. Le Saux, Swami Parama Arubi Anandam (Fr. J. Monchanin 1895-1957). A memorial, Saccidananda asram, The trichinopoly United Printers, Tiruchirapally 1959, p. 223). Testo

  95. La studiosa, in un pregevole intervento durante il Convegno organizzato su Monchanin nel 1995, faceva a questo proposito la seguente affermazione: «La "ciclica visione della teologia greca" che "dilata l'Uno nei Tre" deve essere afferrata nella finale (paraclita) unità che raggruppa i Tre nell'Uno". Questa Trinitaria visione di Monchanin è ispirata dalla teologia di Dionisio di Alessandria, il quale è stato in parte seguito anche da Bulgakov ne Il Paraclito» (Y. de Andia, Jules Monchanin, apophatic mysticism, in Jules Monchanin (1897-1957) as Seen from East and West, vol. I, cit., p. 100). Testo

  96. In questi termini egli parlava di una duplice esigenza missionologica di una dottrina del corpo mistico più elaborata di quella dello stesso Mersch e di una dottrina della Trinità (cfr J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 174). Testo

  97. Cfr. H. Le Saux, Swami Parama Arubi Anandam (Fr. J. Monchanin 1895-1957). A memorial, cit., p. 224. Testo

  98. Monchanin cerca di comprendere anche se sia possibile cristianizzare il tantrismo e la sua centralità del femminile attraverso la mariologia. Al di là del parallelismo immediato, tuttavia, egli ne sottolinea la differenza fondamentale: la shakti non è Altro da Siva, ad essa cioè molto difficilmente si può applicare la distinzione cristiana tra creato ed increato. «Analogia più vicina tra saktismo e cristianesimo: la Sofia increata è identificata con Dio. Ma la Sofia creata ne è soltanto l'immagine» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 196). Il legame con la teologia russa sarà presente anche in Le Saux, nel quale il cristocentrismo di Monchanin e forse sostituito da un pneumacentrismo (cfr. H. Le Saux, Traduzione indù e mistero trinitario, cit., p. 201). Testo

  99. È questo il titolo di una testimonianza scritta sul letto di morte, quasi a testimonianza ultima di ciò che ebbe a scrivere: «È causa del mistero trinitario che io sono cristiano» (cfr. H. De Lubac, Paradossi e nuovi paradossi, cit., p. 138). Questa breve ma intensa meditazione conclusiva la si può leggere in E. Duperray, L'Abbé Jules Monchanin, Casterman, Tournai 1960, p. 198: ed in J. Webber (ed.), In Quest of the Absolute, cit., p. 181. Testo

  100. Sul movimento di unificazione in Cristo si consideri anche la seguente affermazione: «L'unità del Corpo mistico della Chiesa temporale ed eterna è unità non di assorbimento ma di comunione, non monadica ma pleromatica: Dio "tutto in tutti"» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, cit., p. 117 e p. 207). Testo

  101. «C'è un vedantista contemporaneo, Kokileswar Sâstri Vidyâratna (An introduction to Advaita Philosophy) che mi è di sprone (rifiuta la mâyâ; Shankara non è un "acosmista", il suo è un Dio personale e libero -- interpretazione questa che avvicina curiosamente Shankara a Râmânuja). La mia ricerca e la mia meditazione (tra loro intrecciate) sono sempre più centrate sull'unità trinitaria -- l'unità del co-esse creato (divenire) -- l'unità di queste due unità nel Verbo incarnato e nello Spirito inviato. [...] L'enstasi pura (yoga) si transustanzia nello Spirito in pura estasi, partecipazione, quest'ultima, alle Ipostasi; ed è la stessa conversione di quella del dolore del Venerdì Santo nella gioia pasquale. L'India è mia...» (Ib., p. 150). Testo

  102. Ib. p. 115. Testo

  103. «Essenzialmente il misticismo cristiano è perciò partecipazione a Dio, cioè partecipazione alla relazione trinitaria» (Ib., p. 123). Testo

  104. Ib., p. 117. Testo