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Che cos'è la santità per la filosofia?

di Giovanni Salmeri (20 dicembre 2015)

1. La santità impossibile

La filosofia di Immanuel Kant costituisce uno dei tentativi più coerenti e interessanti di dare un'interpretazione puramente razionale all'idea apparentemente tutta religiosa di «santità». Tale interpretazione è anzi doppiamente interessante perché si trova intrecciata ad uno dei punti cruciali della seconda Critica: i «postulati della ragione pura pratica». È solo in essi in effetti che il disegno della teoria morale di Kant giunge a compimento: dopo aver fondato l'etica in maniera autonoma sulla struttura razionale dell'essere umano, la discussione sui «postulati» permette di comprendere come quelle condizioni di natura metafisico-religiosa che la coscienza comune connette alle richieste della moralità sono sì giustificate, ma non come princìpi di esse, ma piuttosto come esigenze per potere ammettere la loro sensatezza e validità. Da questo punto di vista l'uso del termine «postulato» potrebbe essere fuorviante: esso viene scelto in analogia con quanto avviene in matematica non perché da essi si debba o possa dedurre qualcosa, ma piuttosto perché posseggono un elemento di immediata certezza. Ma in che cosa consiste esattamente il postulato in cui è coinvolta l'idea di santità? Il ragionamento di Kant è chiaro: l'obiettivo della moralità è costituito dal sommo bene, il raggiungimento del quale esige però una perfetta corrispondenza della volontà con la legge morale. Ora, tuttavia, questa perfezione è una «santità» alla quale ci si può sì avvicinare, ma che non può essere mai empiricamente raggiunta nei confini di questa vita. Bisognerà dunque supporre che l'anima sia in grado di percorrere tale strada. Con le parole di Kant:

L'attuazione del sommo bene nel mondo è l'oggetto necessario di una volontà determinabile dalla legge morale. Ma, in questa volontà, la perfetta adeguatezza dell'intenzione alla legge morale è la condizione suprema del sommo bene. Essa dev'essere, dunque, altrettanto possibile quanto il suo oggetto, essendo contenuta nel medesimo comando di promuoverlo. Ma la perfetta adeguatezza della volontà alla legge morale è la santità: una perfezione di cui nessun essere razionale del mondo sensibile è capace, in nessun momento della sua esistenza. Poiché, tuttavia, è egualmente richiesta come necessaria dal punto di vista pratico, essa potrà trovarsi solo in un processo all'infinito, verso quell'adeguatezza completa; e, secondo i princìpi della ragion pura pratica, è necessario assumere un tal progredire pratico come l'oggetto reale della nostra volontà (KpV A 219).

Ora, tale processo all'infinito è possibile solo sul presupposto di una personalità dell'essere razionale che dura all'infinito: è questa è appunto l'immortalità dell'anima, che viene introdotta come primo postulato della ragione pura pratica.1 Kant sottolinea che questo ha un valore non solo speculativo, ma anche religioso. Se non si supponesse tale progresso all'infinito, infatti, o si ridurrebbe la legge morale alla misura delle proprie forze privandola della sua perfezione, oppure si riterrebbe l'obiettivo della moralità irraggiungibile, perdendosi semmai in fantasie «teosofiche» (per Kant grosso modo un sinonimo di «teologico-dogmatiche»): e in entrambi i casi non vi sarebbe più motivo di sforzarsi. Ma in quale senso quest'argomentazione ha un valore «religioso»? Certamente non nel senso della coincidenza con la religione cristiana nella sua dottrina classica (sia essa luterana o cattolica): in essa l'immortalità dell'anima non è praticamente mai pensata come la condizione per un perfezionamento «all'infinito» (neppure la dottrina cattolica del Purgatorio ha questo senso). Paradossalmente, qui la ragione pensa di più di quanto è concesso dalla religione rivelata, e la duplice funzione del postulato appare dunque come una duplice supplenza: esso rimedia ad un difetto sia della ragione speculativa, sia del sentimento religioso. La ragione è costretta a pensare di più della religione rivelata proprio perché la «religione nei limiti della pura ragione» è esclusivamente di carattere morale: una moralità che sarebbe troppo fragile e incerta se non si ammettesse la possibilità reale di quella perfezione che in essa deve essere pensata. Dal punto di vista di Kant, è semmai la religione rivelata che può fare a meno dell'idea di questa perfezione. Il concetto di «santità», dunque, con Kant non solo entra a pieno diritto in una discussione filosofica, ma si rivela essere un concetto più filosofico che religioso.

Bisogna anzi notare che esso compare nella Critica della ragion pura ben prima della sezione dedicata ai postulati. Per la prima volta infatti esso viene citato nel commento al par. 7 in cui viene enunciata la legge fondamentale della ragione pratica («Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale») e viene tratto il corollario secondo cui «la pura ragione è per sé sola pratica, e dà (all'uomo) una legge universale, che chiamiamo legge morale». È questo per Kant un fatto incontestabile, così come è incontestabile che tale legge morale, dato che deve valere per un essere razionale in generale, si estende anche all'Essere infinito. In questo specifico caso, tuttavia, non si può parlare di un «imperativo», giacché in un essere che non sia mosso da nessuna causa sensibile non può esservi nessun contrasto tra volontà e legge morale. Proprio questo caso limite della «santità», osserva però subito Kant, è necessario alla legge morale stessa:

Nell'intelligenza perfettissima giustamente ci si rappresenta l'arbitrio come incapace di una massima che non possa essere, al tempo stesso, legge oggettiva, e il concetto della santità, che per questo le compete, non la pone al di sopra di ogni legge pratica, ma certo al di sopra di ogni legge pratico-costrittiva, e pertanto di ogni obbligo e di ogni dovere. La santità del volere è, nondimeno, un'idea pratica, che deve necessariamente servir da modello: avvicinarsi ad essa all'infinito è la sola cosa che tutti gli esseri razionali finiti debbano fare (KpV A 57).

Ora, proprio il fatto che la «santità» compete solo all'essere infinito costringe Kant a negare che un atto compiuto per piacere o per inclinazione abbia un valore morale: ciò supporrebbe infatti che la legge morale sia diventata quasi una seconda natura per l'uomo, il quale dunque non la sentirebbe più come un comando: ma ciò è impossibile per una creatura sensibile. Pretendere di agire moralmente sulla base di un'inclinazione (in altre parole: pretendere di essere santi) è insomma l'arroganza di chi pensa di avere raggiunto una condizione superiore a quella degli esseri umani. La santità è per l'uomo rigorosamente, assolutamente impossibile. Pure la prescrizione evangelica di amare Dio e il prossimo conferma secondo Kant questa interpretazione: in essa infatti non si presenta un precetto che possa realmente essere eseguito (quale senso avrebbe amare su comando?), ma piuttosto un ideale in cui la legge morale viene presentata in tutta la sua perfezione, a cui l'essere umano deve tendere (KpV A 148).

Due ultime considerazioni devono completare il quadro che abbiamo tracciato. La prima è che, malgrado quanto possa apparire a prima vista, è già il primo postulato della ragione pratica che coinvolge l'esistenza di Dio. Nelle pagine successive a quelle che abbiamo considerato l'esistenza di Dio è presentata come causa del sommo bene in quanto garante della felicità che altrimenti in nessun modo si unisce empiricamente alla moralità. Ma già il primo postulato dell'immortalità dell'anima ha senso soltanto perché si suppone come esistente quella «santità» che può essere attribuita soltanto a Dio. È solo insomma perché necessariamente ci si raffigura un Essere infinito che ha anche senso quello sforzo continuo di avvicinamento che Kant ritiene indispensabile all'esistenza morale, ed è anche questo il motivo per cui il precetto di amare Dio al di sopra di ogni cosa ha un significato pienamente razionale. Si potrebbe anzi sostenere che il primo postulato parla ancor più di Dio nella misura in cui egli è raffigurato internamente all'esperienza morale dell'uomo. Una seconda considerazione è che il carattere puramente razionale della moralità che ancora una volta la santità pone in evidenza non è privo di sfumature. È vero infatti che la santità è immaginabile come pura adesione alla legge morale e dunque assenza di qualsiasi movente sensibile. Inoltre nella Critica della ragione pratica Kant descrive come unico movente morale possibile il «rispetto per la legge». È anche vero però che nella Metafisica dei costumi, mutato il punto di vista, Kant sceglie un punto di vista più duttile, riconoscendo che esistono condizioni soggettive, di carattere sensibile, che rendono possibile percepire il dovere:

Ci sono qualità morali tali che, se uno non le possiede, neanche può esserci alcun dovere di venirne in possesso [...] perché sono a fondamento della moralità come condizioni soggettive della recettività per il concetto di dovere, non come condizioni oggettive della moralità. Essi sono complessivamente predisposizioni d'animo (praedispositio) estetiche e preliminari, però naturali, ad essere modificati dai concetti di dovere. Avere tali predisposizioni non può essere considerato un dovere, ma ciascun uomo le possiede e in forza di esse può essere vincolato da un dovere. -- La coscienza di esse non è di origine empirica, ma può essere conseguenza solo di una legge morale, come effetto di essa sull'animo (MS/Tl A 35).

Più in particolare, tali predisposizioni sono «il sentimento morale, la coscienza, l'amore per il prossimo e il rispetto per sé stessi (autostima) ». Ora, proprio la prima di queste predisposizioni chiama in causa quel sentimento del piacere che la Critica sembrava escludere come incompatibile con la moralità, e la cui scelta era stata addirittura denunciata come l'atto di arroganza di chi, anziché lo sforzo della moralità, crede di poter godere della perfezione della santità. Il sentimento morale è infatti definito come «la recettività per il piacere o il dispiacere semplicemente sulla base della coscienza della coincidenza o del contrasto della nostra azione con la legge del dovere»: e Kant ritiene che la mancanza di questo particolare senso del piacere renderebbe completamente impossibile la percezione del carattere vincolante della legge. Insomma, tra questa e l'atto concreto umano vi è sempre lo spessore della vita affettiva umana. Il che in altri termini significa che proprio perché non è santo l'uomo può essere umano.

2. La distruzione del moralismo

Malgrado queste precisazioni, rimane vero che il tratto fondamentale dell'etica di Kant è l'identificazione della razionalità pratica con la moralità, e di quest'ultima nel suo stadio più perfetto con la «santità» di Dio. Essa diventa anzi l'unica strada che permette di congiungere l'aspirazione al bene dell'uomo con la percezione della sua esistenza: il postulato dell'immortalità dell'anima in fondo non significa altro che l'uomo percepisce che egli dovrebbe essere come Dio e che quest'esigenza in qualche modo deve avere una possibilità di compimento. Ma come giudicare dal punto di vista della dottrina cristiana questa identificazione diretta della santità con la moralità perfetta? Una delle risposte più interessanti venne tentata da un prezioso piccolo libro del grande storico del cristianesimo Jaroslav Pelikan, Folli per Cristo, un'opera relativamente giovanile in cui lo spirito del pastore luterano è più evidente che altrove.2 Il libro tuttavia merita molta attenzione, perché come pochi riesce a sintetizzare la posta in gioco anche (come vedremo) tramite le sue aporie. La tesi sostenuta da Pelikan è in sé abbastanza semplice: la santità di Dio non può identificarsi né con la verità, né con la bontà, né con la bellezza; viceversa, tuttavia, la santità di Dio genera verità, bontà e bellezza. Questo secondo aspetto viene esemplificato rispettivamente tramite le figure di Paolo, Lutero, Bach: si tratta di pagine molto attraenti e scritte con competenza, che assomigliano a piccoli saggi sui tre personaggi.

Ancor più interessanti tuttavia sono i tre capitoli dedicati alla tesi negativa, in cui i personaggi presentati sono Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche. I tre si sarebbero appunto scontrati nella loro opera con l'irriducibilità di Dio ai supremi «valori» dell'umanità. Kierkegaard ha vissuto la distanza di Dio e della fede in lui dal «sistema», cioè dal tentativo razionalista (trionfato in Hegel) di identificare Dio con una verità e la fede in lui con la possibilità di pensare i suoi stessi pensieri. Dostoevskij ha mostrato nelle sue opere (e soprattutto in Delitto e castigo) come le vicende della vita possono condurre ad un'oggettiva immoralità che tuttavia assomiglia nel suo genere all'abnegazione della santità (Sonja che si prostituisce per far sopravvivere la sua famiglia). Nietzsche, infine, ha mostrato che, malgrado il fascino che essa esercita, non è la bellezza l'esperienza di Dio, e da questo scacco ha tratto una posizione tragicamente atea: certo un rifiuto di Dio, ma un rifiuto del Dio vero è nel suo genere più profondo dell'accettazione di un falso Dio romantico, identificato con i buoni sentimenti umani. Ora, c'è qualcosa che accomuna queste tre figure, peraltro così diverse tra loro: tutti e tre sono stati da un punto di vista umano, e perfino clinico, tre «folli». Cercare Dio in ciò che l'uomo può concepire, vivere o percepire di più sublime è estremamente razionale, normale, naturale: è necessario quindi qualche tratto di follia per sentire che le cose non stanno così, che la «santità» di Dio non può essere ridotta a nulla di umano, che essa (come poco tempo prima aveva teorizzato da un punto di vista storico-religioso Rudolf Otto) si manifesta piuttosto come il «totalmente altro»:

La distruzione del moralismo che Dostoevskij opera va in senso contrario alle nostre basilari disposizioni e inclinazioni. Sembra innaturale, anormale, completamente immorale credere che Dio non sia anzitutto preoccupato di renderci buoni, ma piuttosto di renderci santi, di metterci da parte per essere in comunione con lui. Ciò vìola convinzioni fondamentali che hanno un nobile retroterra nella storia della filosofia e della teologia. La persona prudente ha l'impressione di correre il rischio di eliminare l'impulso cristiano verso una vita santificata. Alla persona di spirito pratico questa sembra un'affermazione semplicemente astratta che può essere stata formulata solo da un matto o da un teologo! (p. 83).

Come qualificare in questa prospettiva la posizione di Kant che prima abbiamo esposto? Ad essa in effetti Pelikan dedica una certa attenzione perché, almeno da un punto di vista tipico, essa rappresenta il punto di passaggio tra il primo e il secondo tentativo di ridurre il divino all'umano. La posizione di Kant è chiaramente anti-intellettualista (ritiene Pelikan), in essa giunge a compimento la dimostrazione dell'impossibilità di interpretare il «santo» come «vero». E tuttavia questa reazione in sé perfettamente giustificata non gli impedisce di cadere in un altro errore simile e altrettanto grave: il moralismo, in cui il «santo» è interpretato come «buono»; in questo si rivelerebbe anche lo stretto legame che Kant intrattiene con il pietismo nel quale egli viene educato (pp. 58-59). Nei confronti di questa semplificazione è lecito avanzare questa perplessità. In particolare non è esatto affermare che Kant rifiuti l'identificazione di Dio con la verità: si potrebbe anzi sostenere che la funzione di Dio come idea regolativa della ragione speculativa (e cioè come ipotetico insieme di tutte le verità) è quasi perfettamente parallela a quella come postulato della ragione pratica (una funzione quest'ultima che, come abbiamo visto, è quasi più forte benché meno esplicita nel primo postulato, quello dell'immortalità dell'anima). Sono precisazioni importanti non tanto per correggere con pignoleria una breve ricostruzione storica, quanto per suggerire che i rapporti tra verità, bontà e bellezza sono ancor più stretti di quanto Pelikan pur riconosce. Comunque stiano le cose, Pelikan è convinto che tali identificazioni siano, nella lettera e nello spirito, sostanzialmente non cristiane. Il massimo che si può riconoscere al moralismo è che esso è una comprensibile reazione sia contro (come abbiamo visto) l'intellettualismo, sia contro uno scadimento della vita morale e la sostituzione delle esigenze di vita con una morta «fede»: quella contro cui protestava già la Lettera di Giacomo. Ma, ogni volta che l'infinita alterità del «santo» viene ridotta a qualcos'altro, l'essenziale della fede cristiana va perduto, perché essa viene identificata con un buon senso umano. È proprio da questo buon senso, pure quando esso assume i caratteri attraenti della bontà, che ci salva la «follia»:

Nel delineare il carattere peculiare del Santo come realtà che trascende di gran lunga il moralmente Buono, Dostoevskij è riuscito a pronunciare un giudizio profondamente cristiano. Identificare il Santo e il Buono può essere più facile, può essere più pratico, può essere perfino più razionale e normale. Ma la fede cristiana non vuol essere facile o razionale o normale. Pretende solo di riferire in che modo il Santo si è rivolto agli uomini in maniera decisiva in Gesù Cristo. Questa era l'intuizione che Dostoevskij era determinato a portare avanti, anche a costo della sanità mentale. Nella penombra della sua follia egli riscoprì alcune delle implicazioni più profonde del vangelo cristiano (pp. 83-84).

3. Santità di Dio e follia dell'uomo

Le ultime due frasi sono interessanti, perché tentano di fondere insieme due interpretazioni almeno a prima vista molto differenti della follia: essa è la precondizione o l'effetto della scoperta dell'alterità? Evidentemente per Pelikan entrambe le cose, quasi una disconnessione nell'esistenza che, seppure in termini non sempre esattamente precisabili, corrisponde a quella suprema disconnessione che è la differenza di Dio rispetto a tutto ciò che è umano e mondano. Ma è del tutto convincente questa immagine? Le ultime righe del piccolo volume, in cui il pastore ritrova un tono appassionato e lirico, ne riassumono il messaggio e ci offrono qualche elemento in più di riflessione:

Il Santo non è, anzitutto, un Bene supremo, un Vero sublime, un Bello definitivo. Tuttavia, quel Santo che gli uomini hanno invano cercato di afferrare con i loro sistemi di pensiero, le loro categorie di etica, le loro raffigurazioni della bellezza; quel Santo che è sfuggito ad ogni tentativo umano di catturarlo e di addomesticarlo; quel Santo che non è la risposta ad ogni domanda, bensì esso stesso l'enigma presente in ogni domanda: quel Santo si è fatto carne e ha abitato tra noi in Gesù Cristo. Egli è la via, la verità, la vita. Egli è il più bello dei figli dell'uomo. Mediante lui Dio ha riconciliato a sé tutte le cose, inclusi il Vero, il Buono e il Bello. Su questa pietra di scandalo e sasso d'inciampo si sono tutte infrante le concezioni umane della verità, della bontà e della bellezza. E però questa pietra, che i costruttori dei sistemi umani hanno scartato, è diventata la pietra angolare per la dimora dell'Altissimo e Santissimo, dal quale procede tutto ciò che è Vero, Buono e Bello. Coloro che hanno disperato dello sforzo di addomesticare il Santo, coloro che egli ha condotto a conoscere il Vero, il Buono e il Bello in lui stesso, sono loro i «folli per Cristo» (pp. 171-172).

L'idea è chiarissima, e tuttavia non poche sono le perplessità. Ci si potrebbe anzitutto chiedere se, paradossalmente, proprio nell'ultima riga del volume Pelikan non sia costretto a ricadere in una forma di intellettualismo: la «follia per Cristo» consisterebbe dunque in definitiva nel «conoscere il Vero, il Buono e il Bello in Dio stesso»? essa sarebbe dunque prevalentemente una questione di sguardo? e, in ultima analisi, chi sono i veri «folli per Cristo»? Il libro è intitolato a loro, ma paradossalmente fino all'ultima riga non si è in grado di dare una risposta. I tre personaggi che hanno guidato la riflessione negativa (Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche) sono sì accomunati da una certa follia clinica, ma non certo dall'aver visibilmente vissuto un'adesione alla santità di Dio (per lo meno nel terzo caso questo è fuori dubbio). Sotto la penna di Pelikan, la follia per Cristo sembra essere il corrispettivo umano della trascendente santità di Dio: ma dove empiricamente si dovrebbe trovare questa follia? La domanda è particolarmente acuta giacché proprio l'espressione «folle per Cristo» è anche un termine tecnico per indicare una determinata forma spirituale tipica del cristianesimo orientale (in greco diá Chríston salós, in russo jurodivij): ma di essa non viene fatto il minimo cenno esplicito. Solo un'esitazione luterana, o un problema più fondamentale?

Un'altra questione è filosoficamente più radicale. Uno dei presupposti della riflessione di Pelikan consiste nell'assoluta alterità di Dio. La santità consiste appunto in questa distanza, ed è per questo che qualsiasi identificazione pure con i più nobili ideali umani è in fin dei conti empia (pure se, ripetiamolo, metà del libro è occupata ad affermare che il cammino inverso è invece possibile). Dimenticare quest'assoluta separazione significa secondo Pelikan sostituire, in un modo o nell'altro, i sistemi di pensiero umano alla chiamata di Dio stesso, alla sua rivelazione. È evidente quali possano essere, in un testo pubblicato negli anni '50 del secolo scorso, i padrini nobili di tale idea: il già citato Rudolf Otto sul piano storico-religioso, Karl Barth e Anders Nygren sul piano teologico: tutti costoro in effetti vengono seppur brevemente richiamati. Ma è sicuro che in tal modo la «differenza» della fede cristiana venga davvero preservata? In effetti, sia Otto sia Nygren contribuiscono molto poco allo scopo, giacché entrambi discutono quest'assoluta differenza (il primo sotto la forma del sacro «numinoso», il secondo sotto la forma dell'agape) come un'espressione dell'esperienza religiosa in generale, e non anzitutto del cristianesimo.3 Ma neppure Barth è da questo punto di vista risolutivo: la sua veemente affermazione della totale alterità di Dio nell'Epistola ai Romani è in effetti formulata con termini che mostrano non un rifiuto della filosofia, ma piuttosto la scelta di una precisa filosofia della trascendenza, quale per esempio risuona nel neoplatonismo di Dionigi l'Areopagita, talvolta riecheggiato alla lettera. Basti confrontare alcune pagine di Barth con la chiusa della Teologia mistica di Dionigi:

A proposito della [causa universale], non esistono né discorsi, né nomi, né conoscenza; non è né tenebra, né luce; né errore, né verità; non esistono affatto, a proposito di essa, né affermazioni, né negazioni: quando facciamo delle affermazioni o delle negazioni [a proposito delle realtà che vengono] dopo di essa, noi non l'affermiamo, né la neghiamo. In effetti, la Causa perfetta ed unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione; e l'eccellenza di Colui che è assolutamente staccato da tutto e al di sopra di tutto è superiore ad ogni negazione (Theol. myst., 5).

Insomma: l'identificazione di Dio con un «totalmente Altro» è nei confronti della fede cristiana solo una particolare interpretazione filosofico-religiosa, che peraltro la filologia biblica, anche quando il qadoš veterotestamentario sia liberato da un'interpretazione moraleggiante, non è in grado di sostenere. La stessa teologica scolastica appare sul tema oscillante. Per fare solo un esempio, se Tommaso d'Aquino globalmente la accetta e la integra nel suo orizzonte prevalentemente aristotelico, poco più tardi Giovanni Duns Scoto la rifiuta sulla base di considerazioni specificamente cristiane: «negationes non amamus», sarebbe impossibile amare un Dio del quale possiamo solo pronunciare negazioni. E quando Jean Gerson agli inizi del XV secolo osò un'opera con lo stesso titolo di quella di Dionigi, lo fece sotto l'esplicito assunto che il «vuoto» che questi aveva individuato nella Teologia mistica doveva pur essere positivamente riempito in qualche modo.4

Una terza e ultima perplessità che avanziamo nei confronti del testo di Pelikan è tratta dalla sezione che egli dedica alla bellezza. Che Dio non possa essere semplicemente identificato con un ideale umano di bellezza è verissimo: basta esaminare il rapporto fecondo sì, ma anche travagliato, della dottrina cristiana con l'arte per convenire sulla necessità di guardarsi da cortocircuiti. Ciò che invece sorprende è che tra i momenti che avrebbero segnato questa piatta e rischiosa identificazione Pelikan classifichi la mistica medievale:

La mistica medievale fu un altro elemento che perpetuò l'identificazione del Santo e del Bello. La cura mistica di una comunione intima e immediata con Dio portò con sé un'ipertrofia delle emozioni in cui l'esteticismo poteva esercitare un eccitante richiamo. Talvolta in opposizione all'estremo intellettualismo, talaltra in alleata con la teologia scolastica, la mistica medievale indirizzava il credente ad un'unione con Dio che trascende la mera conoscenza intellettuale. Le visioni di S. Ildegarda di Bingen o, nel periodo della Riforma, della celebrata S. Teresa, traevano godimento dalla contemplazione della bella presenza del Cristo che abita l'anima. Gli accenti fortemente sessuali in alcune delle visioni di donne ascetiche nel Medioevo servono a sottolineare la confusione dell'adorazione di Cristo con la fruizione di un rapimento estetico che, a sua volta, ha affinità con gli stimoli delicati e profondi del sesso (pp. 120-121).

Per essere più esatti: questo sbrigativo giudizio non sorprende affatto, ma solo perché coincide con la liquidazione che Anders Nygren aveva effettuato qualche tempo prima. In tutta la sua monumentale opera Eros e Agape, appena una pagina viene dedicata al secolo XII, quello incomparabilmente più ricco di trattatistica sia sacra sia profana sull'amore, della quale non viene citato e discusso neppure un esempio preciso. Il giudizio è drastico: la mistica medievale dell'amore sarebbe solo un esempio di rivincita dell'eros e di cattivo gusto spirituale, sul quale non vale la pena attardarsi neppure un po'. Ancor prima, sarebbe facile ricondurre questa diffidenza a Lutero stesso, il quale ebbe solo una breve infatuazione per il trattatello mistico del XIV secolo ora conosciuto con il nome che egli stesso gli diede di Theologia Deutsch. Ma se fosse proprio qui la chiave per iniziare a riordinare alcune intuizioni preziose?

4. La follia dell'amore

Il XII secolo, dicevamo. Una meritoria edizione italiana riunì qualche anno fa alcuni dei più importanti trattati d'amore di quell'epoca, ma pur con due fitti volumi la raccolta è lungi dall'essere completa (mancano, per esempio, gli innumerevoli commenti dedicati all'epoca al Cantico dei Cantici).5 In generale, poi, avendo scelto di concentrarsi sull'amore «sacro», essa omette l'altro versante, quello profano, che è legato con fili fitti e sottili al pensiero teologico al punto che è tutt'altro che facile comprendere quale dei due abbia maggiormente influenzato l'altro. Una tale estensione obbligherebbe poi a prendere in considerazione anche le composizioni poetiche: la lirica provenzale svolge un ruolo centrale nella promozione di una sensibilità antropologica centrata sull'amore, e ammettere questa funzione dovrebbe specularmente condurre a riconoscere (per esempio) la statura di Adamo di S. Vittore, sicuramente uno dei più grandi poeti della storia europea che ha formulato interamente in poesia (le prosae liturgiche) le sue intuizioni teologiche e spirituali. Ma la ricostruzione della storia degli influssi mostrerebbe a questo punto un incrocio di registri che costringe anche ad intendere in modo diverso il «sacro» e il «profano»: la sensibilità religiosa di un amore assolutamente «libero» è una delle fonti dei testi profani, così come Cicerone e Catullo sono fonti dei tesi sacri. In questo quadro così ricco e variegato c'è un testo che per i nostri scopi ci interessa maggiormente: si tratta dei Quattro gradi della violenta carità di Riccardo di S. Vittore. L'esordio viene posto sotto il segno evidente dei Cantico dei Cantici:

«Sono ferita dalla carità» [Cant. 4.9] . La carità mi spinge a parlare della carità e io mi consacro volentieri al suo servizio perché è dolce ed estremamente dilettevole parlare dell'amore. È argomento affascinante e ricco di contenuto e che non può in nessun modo suscitare noia a chi ne scrive né tedio a chi legge. Infatti quello che è condito dalla carità ha un sapore eccezionale per il palato del cuore. «L'uomo che volesse acquistare l'amore offrendo tutte le ricchezze della sua casa non farebbe che disprezzarlo» [Cant. 8.7] (De quatt. grad., 1).

Malgrado questo inizio e i successivi insistenti richiami al Cantico, l'impianto dell'opera è debitore della poesia erotica latina. È evidentemente da essa infatti che Riccardo trae quella fenomenologia dell'amore che lo induce a distinguere quattro «gradi» dell'amore, che si distinguono per una progressiva intensità:

Occupandomi degli effetti della violenta carità, scopro quale sia la veemenza dell'amore perfetto. Ecco vedo alcuni feriti, altri avvinti, altri languenti, altri sfiniti e tutto ad opera della carità. La carità ferisce, la carità lega, la carità prostra, la carità porta al deliquio. Quale di questi effetti non è travolgente? Quale non è violento? Questi sono i quattro gradi dell'ardente carità ai quali ora intendiamo dedicarci interamente (De quatt. grad., 4).

L'intera operetta sarà quindi dedicata a descrivere questo progresso, ma secondo un duplice registro: il primo è quello carnale (De quatt. grad., 1-16: pagine in cui l'ispirazione della poesia latina classica è debordante), il secondo quello spirituale (De quatt. grad., 21-47). Tale parallelismo si accompagna però ad un'inversione del valore, sulla quale Riccardo riflette nei capitoli intermedi: «nei desideri spirituali più grande è l'amore più è degno; nei desideri carnali più grande è, più è riprovevole» (De quatt. grad., 18). L'intensificarsi dell'amore carnale si accompagna infatti ad un totale assorbimento dell'attenzione e delle forze che alla fine conduce l'uomo alla distruzione. Incapace di pensare ad altro e di fare altro, l'uomo perde anche ogni gioia, perché un amore divenuto insaziabile non permette neppure di godere di ciò che si vive e si possiede, ma desidera parossisticamente sempre di più. Essere invece interamente rivolti a Dio, senza alcun limite, con un desiderio che nulla può soddisfare, questo è appunto il grado di amore spirituale «sommo e straordinario».

È interessante notare che secondo Riccardo l'amore spirituale ha quindi una qualifica positiva non perché sia pacificamente integrato nell'esistenza umana, ma piuttosto perché il suo oggetto, che è il Dio infinito, permette di capovolgere l'attenzione e dare un senso a quella tensione insaziabile che altrimenti è solo una condanna: «Nel primo caso, infatti, qualsiasi cosa le capiti non può bastare all'anima umana mentre in questo secondo caso, qualunque cosa essa faccia per il suo Dio, non può farla sentire soddisfatta» (De quatt. grad., 20). Insomma, nell'amore spirituale l'amante percepisce l'insufficienza di ciò che fa in confronto a Dio, piuttosto che essere preoccupato di ciò che egoisticamente riceve.

Fin qui il piano generale, che nelle sue linee generalissime può assomigliare a numerose discussioni sull'amore, da Agostino in poi. In esso non solo l'amore carnale, ma anche quello spirituale appare descritto in un linguaggio largamente «profano»: si tratta infatti in gran parte di presentare una fenomenologia religiosa che non è affatto esclusiva al cristianesimo. E tuttavia, vi è qualcosa di sorprendente. Il terzo grado dell'amore spirituale viene descritto con termini che fanno precisa allusione ad un'unione mistica completa e totalizzante: «Il terzo grado dell'amore si ha quando la mente dell'uomo viene rapita nell'abisso della luce divina in modo tale che l'animo umano, dimentico di tutte le cose esterne, perde completamente la coscienza di sé e passa tutto nel Dio suo» (De quatt. grad., 38). L'esperienza a cui Riccardo vuole alludere è così profonda che egli non esita ad usare un linguaggio che molti considererebbero più adatto alla visione beatifica nell'aldilà: «In questa condizione, la mente alienata da sé stessa, rapita fino al sacrario del mistero divino, circondata da ogni parte, penetrata nel profondo e infiammata dappertutto dall'incendio del divino amore, si spoglia completamente di sé stessa, si riveste quasi di un sentimento divino e, conformatasi alla bellezza che ammira, passa tutta intera ad una nuova gloria» (ibidem). Ma che cosa può restare dopo questo grado supremo di unione con Dio? L'argomentazione di Riccardo è la seguente: non rimane che conformarsi alla volontà di Dio. Se al terzo grado (secondo una comune metafora) l'animo umano è «liquefatto», nel quarto grado esso può riversarsi nello «stampo» del disegno di Dio, conformandosi al modello di Cristo: ma questo modello non è altro che «dare la propria vita per i propri amici»! È qui che il linguaggio fenomenologico-religioso diventa specificamente cristiano.

Ecco dunque chi ha raggiunto il quarto grado della carità: «coloro che sono in grado di offrire la propria vita per gli amici» (De quatt. grad., 44). È facile immaginare come Riccardo possa qui usare le pagine del Nuovo Testamento che hanno al proprio centro l'amore, fino al celebre elogio della carità della Prima lettera ai Corinzi. Insomma: il culmine dell'amore di Dio è l'amore del prossimo. Le metafore usate da Riccardo fanno anzi perfino supporre che i quattro gradi precedenti sarebbero in fondo scarsamente significativi se non avessero questo compimento: a che scopo «liquefarsi» se non per conformare la propria vita? a che pro amare Dio se non per essere come egli stesso è? A questo punto diventa anche trasparente la metafora spaziale che Riccardo ha enunciato molte pagine prima: «Nel primo grado Dio entra nell'animo e l'animo ritorna a sé stesso. Nel secondo grado esso sale al di sopra di sé stesso e si eleva fino a Dio. Nel terzo grado, innalzatosi fino a Dio, l'animo passa tutto in lui. Nel quarto grado esce a causa di Dio e discende al di sotto di sé stesso» (De quatt. grad., 29). La sequenza degli atteggiamenti dell'animo è dunque la seguente, come viene subito dopo precisato: meditazione, contemplazione, esultanza, compassione.

Ma non vi è qualcosa di contraddittorio nel discendere al di sotto di sé una volta trovata la beatitudine perfetta in Dio? In un certo senso sì, e questo è esattamente ciò che Riccardo chiama amentia, «follia»:

Chi sale a questo grado della carità si trova senza dubbio a un grado tale dell'amore da poter dire in verità: «Mi sono fatto tutto a tutti per salvare tutti» [1Cor. 9,22]. Perciò un uomo simile desidera diventare anatema e separato da Cristo per i propri fratelli [Rom. 9,3]. Che cosa diremo allora? questo grado dell'amore non sembra forse portare quasi alla follia l'animo dell'uomo, dal momento che gli impedisce nella sua passione di conservare limite e misura? non è il massimo della follia rifiutare la vera vita, rimproverare la somma sapienza, resistere all'onnipotenza? (De quatt. grad., 46).

Gli ultimi casi ai quali si allude sono quello di Mosè che intercede per il suo popolo dopo l'episodio del vitello d'oro (Es. 32,31-32), quello di Abramo che discute sulla sorte di Sodoma e Gomorra (Gen. 18,23-25), quello di Aronne che si oppone alla punizione divina (Num. 16,46-48): tre esempi in cui, esattamente come in Paolo, l'amore per i fratelli porta a pronunciare cose apparentemente prive di senso, assurde, addirittura empie: in una parola, appunto, folli. Si tratta del resto della medesima follia che gli uomini hanno sperimentato in Cristo, che a tutti ha offerto l'esempio di un folle abbandono della sua gloria, di una folle abnegazione di sé. Bisogna tuttavia fare attenzione a non credere che questo sia in Riccardo l'invito ad una certa qualità di amore del prossimo. In altro contesto certamente egli lo farebbe, ma nella logica dei Quattro gradi l'idea veicolata è che l'amore del prossimo rappresenti in sé una follia, proprio in quanto compimento dell'amore spirituale, in quanto compassione che si trova al di sopra della somma felicità che viene donata dalla contemplazione divina.6

Siamo così giunti esattamente al punto che ci interessava, che contemporaneamente dà una risposta (discutibile, ovviamente, ma pur sempre una risposta) alle tre questioni che la riflessione di Pelikan lasciava aperte. Anzitutto, l'amore mistico non è una cattiva identificazione del Santo con il Bello, proprio perché esso, al suo grado ultimo, è follia: ed è la follia dell'amore del prossimo che abbandona ogni allettamento -- perfino quello che viene dalla contemplazione di Dio. Poi, in esso si delinea una certa immagine dell'uomo e contemporaneamente di Dio. Dio non è il «totalmente Altro», ma l'infinitamente amabile, che invita l'uomo a condividere il suo folle amore. L'uomo che accoglie questo invito, che accetta di lasciare Dio per scendere al di sotto di sé, è colui che «si configura all'umiltà di Cristo» (cap. 47). E ora, d'accordo con Pelikan, si può convincentemente ripetere che «quel Santo si è fatto carne e ha abitato tra noi in Gesù Cristo», e che contemporaneamente, a modo loro, sono «santi» coloro che vivono questa follia. Ma la follia di cui qui parliamo non mostra una certa familiarità con una delle idee fondanti del pensiero occidentale? e il linguaggio specificamente cristiano non è suscettibile di una almeno parziale comprensione in termini anzitutto umani?

5. Una bontà senza un perché

In effetti, si potrebbe quasi sostenere che la filosofia greca sia nata dall'identificazione dell'amore con una buona follia: è questo il tema centrale del Fedro di Platone. L'orizzonte religioso è il più lontano immaginabile da quello cristiano (concediamo l'onore delle armi a Nygren!), ma la struttura concettuale è analoga a quella che abbiamo visto in Riccardo. Anche in Platone si trova una lode della follia (in greco manía): essa è lo stato di chi è sottoposto ad una particolare ispirazione divina e viene dunque giudicato dai più come uno che delira, in quanto si comporta in modo contrario a ciò che il buon senso consiglia. Tra le varie forme di follie divinamente ispirate una spicca sulle altre: è la follia dell'eros, che nasce dal riconoscimento nel mondo sensibile delle tracce di quella bellezza che ogni essere umano porta nel proprio animo come una nostalgia.

Ma la bellezza non è altro che una componente della bontà, è l'idea che a differenza delle altre ha ricevuto in sorte di essere immediatamente evidente e percepibile. La follia dell'eros è quindi in ultima analisi rivolta al Bene assoluto, ed è proprio la differenza del Bene rispetto a tutto ciò che è sensibile che in ultima analisi spiega il comportamento folle di coloro che ne sono attratti. Ma che cosa significa questa differenza? Saranno gli sviluppi neoplatonici ad interpretarla come assoluta trascendenza, indicibilità, inconoscibilità. E qui il discorso si ricongiunge all'interpretazione della santità che abbiamo trovato in Pelikan. Ma il significato che c'è in Platone sembra abbastanza diverso: il fatto che il Bene sia «al di là dell'essere» (epékeina tes ousías, una formula che piacerà molto ad Emmanuel Levinas) significa che esso, per poter essere l'origine dell'essere degli altri ideali e il criterio in base a cui ritenerli appunto «buoni», dev'essere distinto da essi. Non insomma un valore tra gli altri, ma piuttosto quello che dà senso e consistenza a tutti gli altri. Ma proprio per questo esso è l'assolutamente amabile, ciò che contemporaneamente è all'origine di tutto ciò che gli uomini sperimentano come vero, buono e bello e che quando riconosciuto è in grado di sconvolgere la vita umana. Le tappe di avvicinamento al Buono possono quindi essere descritte come un itinerario esistenziale, l'unico che vale veramente la pena di essere percorso.

Che si percepisca una somiglianza tra questa struttura concettuale e quella del trattatello di Riccardo non è certo un caso: tutta la tradizione della lettura allegorica del Cantico dei Cantici, della quale Riccardo si alimenta, affonda le sue radici in Origene, che proprio dell'analogia di contenuto tra questo e i dialoghi di Platone fece un principio interpretativo. I tre libri di Salomone (Proverbi, Ecclesiaste, Cantico) rappresentano le tre discipline filosofiche: nell'ordine l'etica, la fisica, la metafisica (o «scienza contemplativa», come la chiama Origene). I Proverbi insegnano un onesto modo di vivere, l'Ecclesiaste tratta di questioni naturali e insegna a distinguere il necessario dall'inutile, facendo percepire che tutto ciò che è terreno è caduco. Ed ecco il momento della scienza contemplativa:

Quando si accorgerà [della vanità delle cose terrene], colui che si applica alla sapienza le disprezzerà, non le terrà in alcun conto e, rinunziando per così dire a tutto questo mondo, tenderà alle realtà invisibili ed eterne, che sono insegnate nel Cantico dei cantici con concetti senza dubbio spirituali ma tenuti nascosti dietro immagini di linguaggio amoroso. Perciò, infatti, questo libro tiene l'ultimo posto, perché si venga a lui solo dopo che uno si sarà purificato nei costumi e avrà appreso a conoscere e a distinguere fra le realtà corruttibili e quelle incorruttibili, in maniera da non trarre alcun motivo di scandalo dalle immagini con cui è presentato e descritto l'amore, della sposa per lo sposo celeste, cioè l'amore dell'anima perfetta per il Logos di Dio. Infatti, premesse le nozioni per mezzo delle quali l'anima si purifica nelle azioni e nei costumi e giunge all'esatto giudizio delle realtà naturali, in maniera conveniente essa passa alle conoscenze dogmatiche e mistiche e con amore sincero e spirituale sale alla contemplazione della divinità (In Cant., praef.).

La vicinanza con Riccardo va oltre, perché il linguaggio amoroso del Cantico viene presentato come un invito non solo all'amore di Dio, ma anche del prossimo, e ciò proprio imitando il Logos divino stesso. Qui è l'interpretazione allegorica della parabola del Buon Samaritano che sta sullo sfondo: Cristo è colui che ha soccorso l'umanità quando essa era del tutto impotente e ha mostrato così il supremo modello dell'amore. Insomma, Dio è amore e dunque l'unica comunione possibile con lui consiste nel condividere il medesimo amore senza limiti che egli ha avuto:

Per natura ognuno di noi è prossimo dell'altro, ma per le opere di amore colui che è in grado di fare il bene è prossimo di colui che non è in grado. Sicché anche il Salvatore è diventato prossimo riguardo a noi e non è passato oltre allorché giacevamo mezzi morti a causa delle ferite inferte dai briganti. Pertanto dobbiamo sapere che l'amore di Dio tende sempre a Dio, da cui trae anche origine, e guarda al prossimo, del quale partecipa in quanto creato similmente nell'incorruttibilità. Quindi tutto ciò che è stato scritto dell'agape prendilo come scritto dell'eros, non curandoti affatto dei nomi: infatti nell'una e nell'altra parola si manifesta lo stesso significato (In Cant., praef.).

La conclusione è interessante e riprende un tema che Origene ha già toccato, osservando che i due termini eros e agape hanno in greco un identico significato, se si eccettua la risonanza più carnale del primo (e, possiamo aggiungere, il livello linguistico più popolare del secondo, che si è perpetuato fino al greco moderno). Ma questa osservazione linguistica è evidentemente finalizzata a fondere, per quanto possibile, la tradizione platonica con quella cristiana e a mostrare come la seconda sia l'autentica realizzazione della prima, nel presentare un Logos-amore incarnato. È in lui e grazie a lui che anche gli uomini possono essere «santi» della santità di Dio.

È comunque interessante notare che in questa prospettiva platonico-cristiana siamo paradossalmente tornati al punto di partenza della nostra riflessione: la santità come bontà, come adesione a quel bene che in ultima analisi è Dio solo. Ciò che però in Kant si presentava con la temperatura fredda di un teorema illuminista, una tradizione diversa ha riscaldato con un tono affettivo diverso. Tale tono non ha eliminato però il rigore del discorso. Riconoscere in Dio anzitutto la bontà significa ora percepire che il suo rapporto con il mondo e con gli uomini è libero, gratuito, se non altro perché il Creatore non aveva nessun dovere di giustizia nei confronti di un universo ancora non esistente, che nulla poteva attendersi e reclamare. Ogni giustizia ha dunque sempre come presupposto la gratuità della bontà. Se i biblisti giustamente rilevano che mai nella Scrittura è spiegato il motivo della creazione, ciò potrebbe significare semplicemente che questo rapporto creativo è letteralmente «senza un perché», e l'amore o la bontà sono solo i nomi che tentano di descrivere quest'abissale mancanza, quest'infinita follia. Ma, se ciò che abbiamo tentato di suggerire in questo itinerario è plausibile, ciò significa che pure la bontà umana è coinvolta nella medesima assenza di ragioni e nella medesima follia.

Aveva dunque perfettamente ragione Jaroslav Pelikan nel vedere nella follia ciò che, nella vita umana, corrisponde alla santità di Dio: ma aveva forse torto nel giudicare un passo falso l'identificazione della santità con la bontà -- perlomeno quando la bontà non viene a sua volta identificata con un sistema di norme. Se la bontà è qualcosa di diverso dalla giustizia, allora essa può essere solo gratuità, trascendenza: quella gratuità che porta gli esseri umani all'esistenza (sia metafisicamente sia biologicamente) e che innumerevoli volte viene riattualizzata, spezzettando l'infinito della bontà di Dio nei tanti finiti dell'esperienza umana. È ciò che avviene sempre, in ogni esistenza umana, e che tuttavia appare come una trascendenza vertiginosa, quasi una creazione dal nulla. È questo che fa apparire nell'esperienza umana la santità come qualcosa di contemporaneamente normale, straordinario e impossibile. Se la filosofia può dirne qualcosa, probabilmente non è molto di più di questo.

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Note

  1. Si osservi che, secondo la struttura della discussione, i postulati della ragione pura pratica sono due: l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio. È solo in un secondo momento che Kant inserisce tra di essi anche la libertà, che effettivamente svolge un ruolo molto diverso, pure se è accomunata dall'impossibilità di una dimostrazione teoretica. Testo

  2. Jaroslav Pelikan, Fools for Christ. Essays on the True, the Good, the Beautiful, Fortress Press, Philadelphia (PA) 1955. Il libro è stato ristampato anastaticamente solo nel 2001 (Wipf & Stock, Eugene (OR), 2001) e non è certamente tra le opere più note dell'autore (non ci risulta nemmeno essere stato mai tradotto in altre lingue). Nell'introduzione Pelikan dichiara espressamente che l'intenzione è «dire qualcosa al pensiero protestante contemporaneo» (p. VIII). L'autore si convertì all'ortodossia negli ultimi anni della sua vita, dichiarando tuttavia che non aveva fatto altro che far tornare alla luce lo spirito ortodosso che era sempre stato nel profondo del suo animo. La vicenda viene bene illuminata da Robert Louis Wilken, «Jaroslav Pelikan and the Road to Orthodoxy», Concordia Theological Quarterly, anno 74 (2010), pp. 93-103. In tale resoconto colpisce anche che negli ultimi giorni della sua vita Pelikan era occupato tra l'altro in un'ulteriore lettura di Delitto e castigo, proprio una delle opere, come vedremo, centrali nel volume che stiamo considerando. Testo

  3. Il caso di Nygren è da questo punto di vista meno evidente, giacché gran parte della celebre opera Eros e Agape (Den kristna kärlekstanken genom tiderna. Eros och Agape, Svenska kyrkans diakonistyrelses bokförlag, Stoccolma, 1930-1936, 2 voll.) è occupata da una ricostruzione storica della vicenda dei due concetti nel cristianesimo sotto l'assunto che solo il secondo gli appartiene originariamente. Ma ciò non toglie che la religiosità dell'agape viene appunto delineata come una forma dello spirito umano in quanto tale, e che per di più sotto tale descrizione è facilissimo riconoscere alcuni tratti della religiosità greca (più che cristiana), per esempio nella condanna dell'hybris umana. Testo

  4. Alcuni anni fa il filologo Carlo Maria Mazzucchi ha suggerito con dovizia di argomenti l'identificazione di Dionigi l'Areopagita con il filosofo neoplatonico Damascio («Damascio, autore del Corpus Dionysiacum e il dialogo Peri politikes epistemes», Aevum, anno 80 (maggio-agosto 2006), pp. 299-334). La proposta, contenuta anche in un saggio introduttivo alla nuova edizione italiana delle opere di Dionigi, non avrebbe destato tanto scalpore se non fosse accompagnata da una dirompente interpretazione generale dell'opera: con essa la filosofia neoplatonica avrebbe mosso l'ultimo attacco al cristianesimo, tentando di distruggerlo dall'interno tramite una concezione del divino completamente incompatibile con quella cristiana, nella speranza che essa lo corrompesse fino a trasformarlo, appunto, in una variante della filosofia greca. Ciò avverrebbe in una forma particolarmente sfacciata perché proprio le idee fondamentali della tradizione ebraico-cristiana, e in particolare le parole di Gesù, vengono direttamente negate (qualche riga prima del passo che abbiamo citato, Dionigi afferma che la «causa universale» «non è luce; non vive e non è vita; non è né essenza, né eternità, né tempo; non ammette neanche un contatto intellegibile; non è né scienza, né verità, né regno, né sapienza; non è né uno, né unità, né divinità»!). Con ciò anche l'annoso problema della pseudonimia sarebbe risolto: Damascio sta producendo un vero e proprio falso. Non è qui il luogo per discutere o confutare questa proposta (il minimo che si deve dire è che, se le cose stanno così, Damascio avrebbe singolarmente fallito nel suo intento, giacché l'unico effetto duraturo è stata inversamente la cristianizzazione del neoplatonismo!). Essa è tuttavia un benefico richiamo a non considerare ovvia, o addirittura cooriginaria con il cristianesimo, un'identificazione di Dio con il «totalmente Altro». Testo

  5. Francesco Zambon (curatore), Trattati d'amore cristiani del XII secolo, Fondazione Valla -- Mondadori, Milano 2008, 2 voll. I testi ivi raccolti sono: Guglielmo di Saint-Thierry, Trattato sulla contemplazione di Dio e Trattato sulla natura e sulla dignità dell'amore; Bernardo di Clairvaux, Libro sull'amore di Dio; Aelredo di Rievaulx, Lo specchio della carità; Ivo, Lettera a Severino sulla carità; Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità. Testo

  6. Ci si potrebbe chiedere in che rapporto si trovi questo amore del prossimo con l'amore carnale i cui quattro gradi sono stati descritti nella prima parte del trattato. La domanda è lecita non solo su un piano astrattamente concettuale, ma anche letterario: Riccardo riconosce che al suo primo grado anche l'amore carnale è buono, perché s'identifica con l'amore coniugale. Ma come negare ogni rapporto tra questo e l'amore del prossimo? In Riccardo non si trova però alcuna risposta, e a poco gioverebbe usare l'argomento moderno che vede l'amore carnale nobilitato per il solo fatto che nel Cantico, e anche altrove, esso viene scelto come una metafora dell'amore divino. Nella stessa epoca di Riccardo, colui che giungerà più vicino a toccare il problema sarà Aelredo di Rievaulx, il quale nel suo De amicitia spirituali presenterà la creazione della prima coppia come il modello divino di «amicizia», la quale a sua volta altro non è che la carità filtrata dall'impossibilità umana ad avere un rapporto intimo e costante con molte persone: una prospettiva questa in cui la fede cristiana è esplicitamente mediata dalla riflessione classica sull'amicizia, in particolare di Cicerone. Testo