Salta il menù

Invia | Commenta

Qual è il logos del cristianesimo? Due episodi nella recezione del prologo di Giovanni

di Giovanni Salmeri (15 luglio 2008)

La celebre lezione di Benedetto XVI a Ratisbona suscitò immediatamente reazioni sul terreno del dialogo islamico-cristiano, ed è ancora su questo punto che si possono costatare gli effetti più significativi. Si tratta forse di una conseguenza molto felice, ma essa ha avuto l'effetto collaterale di oscurare un poco il tema principale allora toccato, che si sviluppava in una duplice direzione: una più teorica era il rapporto tra Dio e razionalità, una più storica era il rapporto tra fede cristiana e logos greco. In questa breve riflessione intendiamo riprendere anzitutto questa seconda direzione storica, sperando che alla fine essa possa fornirci anche qualche motivo di riflessione riguardo al problema in sé.

1. Le declinazioni del logos

Nell'ovvia impossibilità di affrontare il problema nella sua generalità, scegliamo un punto di partenza limitato ma particolarmente significativo, e cioè due episodi nella recezione del prologo di Giovanni nella teologia cristiana. È in questa pagina infatti che viene enunciata quell'equivalenza tra Dio e Logos che tanta parte avrà nel problema che ci interessa. La nostra lettura sarà ovviamente più filosofica che teologica: non ci interessa tanto la vicenda della formulazione del dogma, quanto la ripercussione che la fede cristiana ha esercitato sui contenuti filosofici.

Possiamo ritenerci particolarmente fortunati nel possedere, nell'ampio naufragio che ha coinvolto la sua opera, il Commento al vangelo di Giovanni di Origene:1 non solo il primo teologo cattolico che abbia prodotto commentari biblici, ma anche storicamente forse il maggior responsabile di quel ripensamento della fede cristiana in termini filosofici greci che, tra conferme, ridimensionamenti e contestazioni, è giunto fino ai nostri giorni. Le condanne postume da lui subìte da questo punto di vista hanno poca influenza: le dispute sull'origenismo hanno infatti riguardato sempre punti dottrinali specifici, i quali certo possono essere ricondotti ad un'esagerata influenza della filosofia greca (per esempio la preesistenza dell'anima), ma non mettono in questione in quanto tali lo spirito con il quale Origene intende ripensare il significato speculativo del cristianesimo. Da questo punto di vista, il commento che egli scrive sul Prologo di Giovanni è prezioso: è in esso che possiamo lecitamente attenderci di trovare, almeno tra le righe, una giustificazione di questa impresa culturale.

Il commento è molto ampio, e di esso dobbiamo contentarci di mettere in evidenza solo alcuni punti che ci paiono più interessanti per i nostri scopi. La prima costatazione, molto semplice, è che Origene interpreta il «logos» di cui parla Giovanni sulla base del logos della tradizione filosofica: più esattamente, dobbiamo indicare quell'eclettismo platonico-stoico testimoniato dal giudaismo ellenistico di Filone, da cui Origene evidentemente è ispirato. È proprio questa precomprensione tuttavia che gli impedisce di riconoscere in «Logos» il nome principale della seconda ipostasi della Trinità divina. Il logos infatti, identificato secondo tale tradizione filosofica con il luogo delle «idee», i modelli eterni della creazione (una sorta quindi di iperuranio platonico ipostatizzato), possiede già un aspetto comunicativo che indica più la relazione con il creato che quella originaria con Dio. Per indicare quest'ultima il primo nome sarebbe quello di «Sapienza»: è essa infatti che indica la prima riflessione rivolta all'ineffabilità divina:

Dice infatti la Sapienza nei Proverbi di Salomone: «Dio mi creò principio delle sue vie, in vista delle sue opere» (8, 22). Cosicché «il Logos era nel principio», cioè nella Sapienza, intendendo per Sapienza il sussistere della contemplazione relativa a tutte le cose e dei concetti (katá men ten sýstasin tes perí ton hólon theorías kai noemáton tes sophías noouménes); per Logos, invece, la comunicazione agli esseri dotati di logos di ciò che è contemplato (katá de ten pros ta logiká koinonían ton tetheoreménon tou lógou lambanoménou). [...] Se noi esaminiamo attentamente tutti i suoi aspetti, egli è principio soltanto in quanto è Sapienza, non essendo principio neppure in quanto è Logos, dal momento che «il Logos era nel principio». Cosicché ci si potrebbe arrischiare a dire che di tutti gli aspetti, per cui si applicano vari nomi a colui che è il primogenito di ogni creatura, il più antico (presbýteron) è quello di Sapienza (I, 19, 111. 118; it. pp. 151, 154).

Così dicendo Origene non si allontana dal lessico biblico: non soltanto la «sapienza» (hokhmah in ebraico) permea di sé l'intero Antico Testamento, ma in particolare, come abbiamo visto, viene citata nel libro dei Proverbi come «prima creazione» e «prima generazione di Dio». Il versetto di lì a poco sarà al centro delle infuocate dispute ariane, ma sotto la penna di Origene può essere semplicemente la testimonianza di un primato che a suo parere non è inficiato, ma al contrario confermato dal Prologo di Giovanni, il quale è preoccupato di delineare il rapporto di Dio con la creazione. È semplicemente una questione verbale? Non esattamente. Stabilire il primato sul Logos della Sapienza, «una vivente e animata ipostasi incorporea composta di policrome contemplazioni (asómaton hypóstasin poikílon theoremáton [...] zósan kai hoionéi émpsychon)» (I, 34, 244, it. p. 185), significa contemporaneamente alludere al primato della dimensione intuitiva e contemplativa su quella razionale e argomentativa. Non che la seconda possa venire negata, ovviamente: ma essa deriva ed è alimentata dalla prima, la quale a sua volta affonda nel mistero divino e nella sua perfetta unità. Riecheggiando temi platonici, Origene non ha timore di dire che la seconda ipostasi «non rimarrebbe Dio se non perseverasse nella contemplazione perenne della profondità del Padre (ei me parémene te adialéipto théa tou patrikóu báthous)» (II, 2, 18; it. p. 206). Insomma: è proprio il pensiero greco che costringe Origene a riconoscere la non primarietà del logos.

La lettura del prologo di Giovanni secondo le categorie platonico-stoiche apre del resto due ordini di problemi: il primo riguarda il rapporto di esso con Dio Padre (colui che Origene, con terminologia non poco rischiosa, indica come «il Dio»); dall'altra il rapporto con tutte le manifestazioni del creato in cui appunto si manifesta il logos. Sono problemi che Origene mette esplicitamente a tema in pagine molto curiose (II, 3; it. pp. 206-209), in cui effettua il tentativo di stabilire una gerarchia di partecipazione de «il Dio» da una parte, e «il Logos» dall'altra. La discussione ivi condotta può essere scartata (come è avvenuto) quale infelice sussulto di una mentalità classificatoria, che genera un sistema barocco e in fin dei conti privo di senso teologico. Ma è anche vero che spesso i grandi insegnano più con i loro errori che con i loro successi: tentiamo dunque di seguirne l'andamento. Il punto di partenza di Origene è stabilire un'analogia tra quattro entità:

Il logos che è in ciascun essere dotato di logos ha, rispetto al Logos che è Dio e che è «nel principio presso Dio» lo stesso rapporto che il Logos che è Dio ha nei confronti del Dio. Il Padre, il Dio vero, il Dio in sé, sta alla sua immagine (e alle immagini dell'immagine: ed è anche per questo che gli uomini non sono detti «immagini», ma «secondo l'immagine») come il Logos in sé sta al logos che è in ciascun essere dotato di logos. L'uno e l'altro sono sorgenti: di divinità il Padre, di logos il Figlio (II, 3, 20; it. pp. 206-207).

L'analogia ha dunque in sostanza lo scopo di iniziare due linee gerarchiche, che suggeriscono gradi discendenti di partecipazione: la prima secondo il carattere divino, la seconda secondo il carattere logico. Le due sono per così dire congiunte dal Logos divino, che occupa nella prima linea la seconda posizione, nella seconda linea la prima posizione. Ora, come proseguono le due linee? Per la prima il discorso di Origene è abbastanza lineare: dopo il Dio in sé (cioè Dio Padre) e il Logos Dio per partecipazione, vengono gli «dèi», cioè tutti coloro che vengono divinizzati per la loro adesione a Dio stesso, cioè gli «eletti» cui fa allusione l'indicazione del Signore come «Dio dei vivi e non dei morti»; infine, al quarto posto, vanno annoverati i falsi dèi, gli idoli opera delle mani dell'uomo, che di Dio portano solo abusivamente il nome. Per la seconda linea il discorso di Origene è invece sorprendente. Sarebbe logico attendersi che, dopo che sono stati già fissati i primi due elementi (il Logos in sé e il logos presente in ogni essere razionale), egli si limiti ad aggiungerne due nuovi; il suo procedimento è invece diverso:

Quanto abbiamo detto apparirà chiaro, argomentando con questi esempi: da una parte, Dio e quindi il Logos di Dio e quindi gli altri dèi, quelli che partecipano della divinità e quelli che vengono chiamati dèi ma non lo sono affatto; dall'altra parte, il Logos di Dio e quindi il Logos fatto carne (kai pálin lógon theóu kai lógou genoménou sarkós) e quindi i vari logoi, sia quelli che partecipano in qualche modo al Logos e che si possono chiamare logoi secondi, sia quelli che si possono chiamare logoi terzi dopo il primo Logos e che sono creduti logoi, ma che in realtà non lo sono affatto e sono piuttosto, per così dire, logoi illogici (II, 3, 23; it. p. 207).

La sostituzione che subisce il secondo elemento della seconda serie è sorprendente: dall'identificazione iniziale con la razionalità umana, capace di partecipare a quella sorgiva del Logos divino, esso passa a significare il Logos incarnato, considerato appunto come una manifestazione del Logos divino. È come se, dopo aver creato una tabella con le caselle vuote e averne sistemato una colonna, Origene si rendesse conto che manca un posto per il Cristo incarnato, proprio colui con il quale sta e cade l'esperienza della fede cristiana: e per fargli spazio non può far altro che fargli occupare la casella originariamente prevista per un'astratta razionalità, sacrificando quest'ultima: in entrambi i casi due forme sì del logos, ma una la più intellettuale e gelida, l'altra la più fragile e tangibile, l'umanità corporea incarnata di Cristo. È chiaro infatti che con «Logos incarnato» si allude meno all'Uomo-Dio come unione ipostatica (avrebbe poco senso subordinarlo al Logos eterno) che a Cristo nella sua umanità. In queste pagine il punto è ribadito da Origene addirittura quattro volte: il Logos incarnato è solo una forma del Logos, e prenderla come assoluto significa non essere in grado di esercitare quel passaggio, insistentemente presentato come tipico del cristiano perfetto, dalla lettera allo spirito, dalla superficie sensibile e storica al significato profondo ed eterno: «alcuni partecipano al Logos stesso [...]; altri invece [...] ritenendo che il Logos fatto carne sia tutto il Logos, conoscono Cristo solo secondo la carne (héteroi de [...] ton genómenon sárka lógon to pán nomísantes éinai tou lógou)» (II, 3, 29; it. p. 208). Il principio generale, che in effetti coincide con quell'allegorismo che Origene insegnò ad almeno 1700 anni di esegesi cristiana, non meraviglierebbe tanto se non fosse costantemente applicato proprio anche a Cristo, considerato quasi alla stregua di una superficie umana esterna che necessita di essere compresa per giungere al Logos divino che ne è la verità. In questo senso, è sorprendente l'interpretazione che con un'insistenza scostante (anche in congiunzione con il passo appena citato) Origene offre del versetto della Prima lettera ai Corinzi (2, 2) in cui Paolo riferisce di non avere saputo «null'altro che Cristo, per di più crocifisso»: per Origene questo significa non una rinuncia all'ornamento della parola e della sapienza mondana (come qualsiasi lettore non prevenuto intende), ma piuttosto un adattamento alla rozzezza degli ascoltatori, i carnali corinzi, incapaci appunto di comprendere la profondità del logos divino e quindi adatti solo alla superficialità del Cristo crocifisso. Il carattere sorprendente di questa lettura resta anche quando si tenga presente sia l'unità che Origene riconosce al Logos incarnato (il Cristo non è altri dal Figlio di Dio!), sia il fatto fondamentale che la fede nel Cristo incarnato per Origene è la fede dei cristiani semplici, della «moltitudine di quelli che sono ritenuti i fedeli» (II, 3, 30; it. p. 209), perfettamente sufficiente per la salvezza.

2. Le tensioni della razionalità

Ma torniamo alla nostra pagina: nella gerarchia di partecipazione del logos, al secondo posto si trova dunque ora Cristo, come Logos incarnato. Ma che cosa c'è esattamente al terzo posto, nella posizione dei «logoi» al plurale? Qui Origene pone «i logoi che contengono qualche aspetto del Logos, quasi che fossero superiori ad ogni logos: questi sono forse i seguaci delle più illustri ed eccellenti tra le scuole filosofiche greche (lógois metéchousí ti tou lógou, hos pánta hyperéchousi lógon proseschékasi, kai mépote hóutói eisin hoi meterchómenoi tas eudokimóusas kai diapheróusas en philosophía par'Héllesin hairéseis)» (ivi). Si tratta quindi di partecipazioni del Logos divino, ma in una condizione di caratteristica pluralità. Se però nel livello precedente la confusione di un Logos con il Logos era ritenuta una forma di semplicità, qui si tratta di un errore bell'e buono, anche se scusabile: si tratta infatti dell'assolutizzazione di un discorso che di sua natura è parziale; nella prima linea, quella della divinità, ciò ha il suo corrispettivo nell'adorazione degli astri, che sono sì «divini» in quanto opere di Dio, ma il cui culto da parte dei pagani è evidentemente solo un ripiego che evita idolatrie peggiori (II, 3, 25-26; it. p. 208). Da testimone privilegiato dell'integrazione di platonismo e stoicismo che gli serve proprio per fornire alla teologia un concetto adeguato di logos, Origene sa bene di che cosa sta parlando, e più in generale la sua posizione di credente (così come era accaduto per esempio all'ebreo Filone o al cristiano Giustino, e ancora accadrà innumerevoli volte) gli offre un osservatorio privilegiato per giudicare e usare con libertà la sapienza pagana.

La semplice costatazione storica si tramuta però qui in principio: che ne abbia o meno piena coscienza, Origene sta affermando che è il sistema razionale di per sé parziale, giacché più in alto di esso si trovano il Logos incarnato e il Logos in sé preesistente, ma non un qualche sistema filosofico-teologico completo. E soprattutto (ripetiamolo), il sistema razionale si trova più in basso del Logos incarnato, la cui assunzione assoluta pure per Origene è tipica dei semplici e «carnali»: mentre chi assolutizza il primo si dirige ad una singolarità unica, guardando per così dire solo la superficie, ma della verità tutt'intera, chi assolutizza il secondo avrà pure la profondità, ma di una verità monca e presuntuosa. Che Origene stia qui parlando appunto di verità è reso evidente dalla sua interpretazione dei «logoi senza logos», situati al quarto posto: essi sono le filosofie false, quelle negatrici della provvidenza divina.

Sarebbe facile ironizzare su colui che, mentre dichiara il limite di ogni filosofia, filosofeggia spericolatamente, fino a produrre ipotesi che varcano evidentemente i confini del pluralismo concesso dalla fede biblica; e tuttavia l'ironia deve farsi da parte appena la costatazione venga formulata al contrario, notando come un uso disinvolto della filosofia pagana non impedisce ad Origene di essere cosciente dei limiti di ogni sistema razionale umano. In questo senso, è sbagliato dire che Origene identifica il Logos di Giovanni con quello della filosofia greca, che, come visto, viene posta a doppia distanza da esso: si dovrebbe piuttosto dire che egli interpreta spontaneamente il primo tramite la seconda. Rimane comunque vero che tale interpretazione pone la razionalità cristiana in una posizione di equilibrio instabile. Essa infatti, in quanto razionalità umana, non compare neppure, o meglio scompare, nella gerarchia dei logoi che abbiamo visto.

Che in effetti il ruolo della razionalità umana in quanto tale sia difficile da inquadrare teologicamente è ben illustrato dalla lettura di un'altra celebre pagina di Origene, tratta dall'inizio del Commento al Cantico dei cantici.2 Notiamo che si tratta per lui di un luogo cruciale della Scrittura: nella peculiare confluenza che egli mette in scena tra teoria erotica greca, tradizione allegorizzante ebraica e poi giudeo-ellenistica, infine definizione neotestamentaria di Dio come amore, il Cantico rappresenta infatti, qualora ovviamente sia rettamente interpretato in senso spirituale, il vertice della rivelazione, giacché esso corrisponde, nella triade dei libri di Salomone (Proverbi, Ecclesiaste, e appunto Cantico) alla terza delle scienze filosofiche, l'enoptica o contemplativa, insomma la metafisica, giacché esso pone di fronte allo sguardo, nella sua purezza, il mistero di Dio amore (pref.; it. pp. 52-54). Ebbene, quale sia il luogo di una metafisica cristiana viene già suggerito nell'interpretazione del primo versetto: «Mi baci con i baci di sua bocca» (1, 2). L'interpretazione letterale vi legge il sospiro della sposa, che ha già ricevuto i doni nuziali e desidera l'unione con lo sposo; una prima interpretazione allegorica vi vede la Chiesa che, dopo aver ricevuto la caparra della Legge mosaica, desidera la grazia di Cristo; ma la più profonda è evidentemente per Origene la seconda interpretazione allegorica, nella quale gli attori simboleggiano il Logos di Dio e l'anima:

Come terza interpretazione introduciamo l'anima, che desidera soltanto congiungersi ed unirsi col Logos di Dio ed entrare nei misteri della sua sapienza e della sua scienza come nel talamo dello sposo celeste. Anche quest'anima ha i doni che da lui le sono stati dati a titolo di dote: [...] la legge naturale, la facoltà razionale e la libertà del volere. Avendo tali doni per dote, la sua prima istruzione è venuta dai precettori e dai maestri. Ma poiché con questi non è pieno e perfetto l'appagamento del suo amore e del suo desiderio, essa prega che la sua mente pura e verginale sia illuminata dalla presenza e dalla luce dello stesso Logos di Dio. Allorché infatti nessun servizio di uomo o angelo riempie la sua mente di sentimenti e pensieri divini, allora essa crede di aver ricevuto proprio i baci del Logos di Dio. [...] Infatti finché l'anima fu incapace di accogliere la pura e solida dottrina comunicata proprio dal Logos di Dio, necessariamente essa accolse baci, cioè concetti, dalla bocca dei maestri. Ma quando da sé ha cominciato a scorgere ciò che era oscuro, a snodare ciò che era intricato, a risolvere ciò che era involuto, a spiegare con conveniente interpretazione le parabole, gli enigmi e le sentenze dei sapienti, allora ormai sia convinta di aver ricevuto i baci proprio dal suo sposo, cioè dal Logos di Dio (I; it. pp. 75-76).

L'osservazione di Origene può essere letta con varie sfumature: vi si può vedere l'anelito mistico di un contatto immediato con Dio (che peraltro Origene sviluppa altrove in un trattato Sulla preghiera); ma vi si può anche costatare il permanere di uno spirito platonico secondo il quale la verità eterna è un possesso originario dell'anima, che non ha bisogno se non di un'occasione per essere dissepolto. Fatto sta che Origene sottolinea (nel passo che abbiamo citato e poi ancora dopo) come il bacio del Logos avvenga senza la mediazione di alcun essere umano: siamo dunque fuori della dinamica testimoniale della fede cristiana, e fuori anche di quella prospettiva storica secondo cui la venuta nella carne di Cristo taglia in due la storia.3 L'incarnazione in effetti, così si sembra capire in Origene ogni volta che in scena è l'identificazione di Cristo con il Logos, ha un ruolo soprattutto pedagogico, e per di più apparentemente provvisorio, perché il Cristo risorto e asceso al cielo ritorna così com'era in principio. È in questa stessa visuale, peraltro, che Origene sostiene che i profeti conobbero realmente il Logos di cui parla il prologo di Giovanni: ogni volta che la Scrittura afferma che «il Logos di Dio fu rivolto» a qualcuno, sta appunto indicando la funzione mediatrice della seconda ipostasi della Trinità nei confronti di ogni essere razionale, in grado di raccogliere direttamente i suoi «baci», senza che nessun altro lo istruisca.

C'è appena bisogno di accennare che a questi temi si collegano tutti i problemi della difficile connessione tra razionalità e storicità della fede cristiana, problemi sui quali è soprattutto la coscienza moderna che ha sviluppato una sofferta sensibilità. Ciò è avvenuto soprattutto nel momento in cui la medesima razionalità da una parte ha cominciato a rendere problematico il carattere ispirato della Scrittura, interpretata giustamente come fenomeno storico, dall'altra ha sempre più preteso un rigore dimostrativo nei discorsi veritativi, che altrettranto giustamente non possono contentarsi di una testimonianza esteriore, inverificabile e forse incomprensibile. Johann Salomo Semler da una parte, Gotthold Ephraim Lessing dall'altra rappresentano nella seconda metà del Settecento il compiuto atto di nascita di questo drammatico movimento culturale. Qualcosa di interamente nuovo? In un certo senso no, perlomeno non nella misura in cui possiamo chiederci, seguendo la riflessione su Origene, se tali tensioni non sono embrionalmente presenti già nel suo discorso, per esempio nella misura in cui la sua teoria del «bacio» non è tanto lontana dal suasivo illuminismo di Lessing, che (convinto di interpretare lo spirito del cristianesimo) dichiarava che la rivelazione, in maniera analoga all'educazione, nulla dà all'umanità che essa non sia in realtà capace di raggiungere da sola con la propria ragione, solo lo dà con maggiore facilità e velocità.

3. Ragione o figliolanza?

Che l'identificazione di Cristo con il Logos interpretato al modo filosofico fosse tutt'altro che ovvia, è ben dimostrato dall'altro celebre Commento al Vangelo di Giovanni, opera due secoli più tardi di Teodoro di Mopsuestia: ad esso vogliamo dedicare ora un breve raffronto.4 Con esso muta il panorama culturale (qui antiocheno), muta soprattutto il panorama ecclesiale: la teologia alessandrina, stella del panorama della Chiesa, è ora gravata da forti sospetti: la terribile crisi ariana è nata da un prete di Alessandria, e ora il pericolo più vicino è Apollinare, ancora una volta un alessandrino: come non essere sospettosi di un ambiente che prima ha negato la piena divinità del Figlio di Dio, ora ne nega la piena umanità nell'incarnazione? Ma, prim'ancora di rappresentare una reazione polemica, il commento di Teodoro è più semplicemente il testimone di una tradizione diversa, tutt'altro che intellettualmente sprovveduta. Ne toccheremo con mano qualche esempio.

Il tono intenzionalmente semplice e sobrio di Teodoro può facilmente dissimulare le profonde differenze del suo commento rispetto a quello di Origene (che possiamo supporre a lui noto). Per quanto ci riguarda, la prima differenza riguarda l'interpretazione del Logos giovanneo. Con la naturalezza che gli è propria, Teodoro s'interroga sul perché l'evangelista abbia usato questa metafora, la metafora cioè della «parola», per indicare il Figlio di Dio:

Dal momento che ripugna all'umana ragione che della causa per mezzo della quale tutto è stato fatto altra sia la causa, subito -- volendo dissipare nei fedeli questo dubbio -- non lo chiamò «Figlio» onde, in forza della consuetudine umana stabilita per la nostra generazione, il tempo non offuschi l'incomprensibile immediatezza delle divina generazione talché -- negata l'eternità del Figlio -- si ritenga impossibile che questi sia stato sempre con il Padre, quantunque sia con lui dal principio. [...] Pertanto non lo ha chiamato «Figlio» ma «Parola», per designarlo con questo nome in modo analogico. Tale è la consuetudine del libro divino, quando vuol manifestare qualcosa intorno alla natura divina e cioè importa un nome tratto dalle nostre realtà che sia nato per descriverla in maniera appropriata (I; it. p. 36).

Insomma, tale linguaggio evita opportunamente le interpretazioni rozze e materialiste della figliolanza divina (che in effetti nell'antichità cristiana avevano avuto il loro spazio): la parola viene «generata» dal parlante in forma immediata, spirituale e senza alcuna diminuzione, ciò che appunto bisogna dire del Figlio di Dio:

Duplice presso di noi è la parola: la prima, ciò che con la voce è pronunciato grazie alla nostra lingua; la seconda, ciò che nascostamente è nella nostra mente, che diciamo riposto nella nostra anima razionale oppure le è naturale. [...] La parola, dunque, proviene dall'anima ed è conosciuta essere sempre con essa. Pertanto sciogliamo il dubbio con l'analogia: come vediamo questa «parola» -- che è nell'anima -- non essere separata o divisa da essa neppure quando procede nel tempo da essa, ma sempre esiste in essa ed è vista in essa, tanto più non è possibile dubitare che il Figlio non possa procedere dal Padre senza divisione o separazione; che non abbia ricevuto la natura ma sia sempre con lui e presso di lui; che nulla esista fra loro, essendo dall'eternità con lui e avendo quale principio solo il Padre (I; it. p. 39).

La precisione speculativa di tali osservazioni (che somigliano a ciò che in Occidente sviluppa l'esattamente contemporaneo Agostino) non può far dubitare della statura di Teodoro. Eppure, tale indagine intellettuale va in direzione quasi esattamente contraria a quella di Origene: se questi, pur teorizzando la necessità di una lettura allegorica di tutta la Scrittura, di fatto si arresta di fronte al linguaggio speculativo del Prologo di Giovanni e intende quindi «logos» nel senso letterale-filosofico, Teodoro, che altrove teorizza la necessità di attenersi al senso letterale, proprio in questo caso interpreta in maniera figurata (ed è per tal motivo che da ora in poi preferiamo non usare il termine logos). La seconda persona divina è in senso proprio Figlio, e dunque solo in senso figurato Parola. È facile immaginare che la crisi ariana fornisse a Teodoro una ragione decisiva per sostenere questa lettura: il punto critico dell'arianesimo non consisteva tanto in una negazione della «consustanzialità» del Logos (che per motivi per lo meno linguistici molti altri avrebbero all'epoca rifiutato), quanto nella negazione di un senso reale della generazione divina. Non prendere dunque neppure in considerazione una lettura filosofica del termine «logos» non significa dunque affatto per Teodoro rifiutare le esigenze della razionalità. Significa piuttosto cercare di prendere sul serio l'esperienza storica della fede, che in Cristo ha incontrato il farsi pienamente uomo del figlio di Dio.5 La crisi ariana aveva ben mostrato come tutta la sapienza greca non aveva gli strumenti concettuali migliori per dire il mistero fondamentale rivelato nel cristianesimo: il fatto che Dio ha un Figlio unico, che gli uomini hanno potuto vedere, ascoltare, toccare, e nella partecipazione alla cui vita, morte e resurrezione terrena vi è l'unica possibilità di salvezza. Solo un figlio rende ragione ultimativamente di una vita divina, ed è nell'infinità di questa vita che anche l'uomo può vivere. Su questo punto anche la profondissima teologia di Origene doveva a posteriori mostrarsi elusiva.

Coerentemente con questa impostazione, Teodoro aggiunge una puntigliosa precisazione sul termine «Parola»: solo quando usato in senso assoluto (vale a dire in pochi casi della letteratura giovannea) esso indica, per l'uso metaforico che abbiamo detto, il Figlio di Dio. Ovunque si parli di parola «di» qualcuno o «pronunciata da» qualcuno, si parla di altro, anche quando quel qualcuno è Dio stesso:

Con somma cura l'evangelista non ha detto «parola di Dio» ma «Parola», in assoluto. Aveva appreso infatti che «parola di Dio» designa anche il suo comando o addirittura l'opera compiuta per volere di Dio com'è detto nei profeti: «parola di Dio che fu data al tale o al tal altro», vale a dire «rivelazione», che è stata fatta loro -- secondo la volontà di Dio -- perché predichino. [...] Da ciò, dovunque la Scrittura faccia menzione della parola di Dio non si esprime in modo assoluto: dice infatti «parola di Dio» o «parola del Signore» o «parola della croce» o «parola che ha inviato», specificando ciascun caso con qualche aggiunta. Il beato Giovanni, invece, ha chiamato lui in forma assoluta «Parola» (I; it. p. 38).

I profeti, dunque, hanno ascoltato sì la parola di Dio, ma non la Parola, dunque non hanno conosciuto il Figlio di Dio. Neppure le profezie messianiche cambiano questo dato, perché esse non dicono nulla della figliolanza divina di Cristo stesso. Ancora una volta, è chiara la distanza da Origene, che sosteneva il contrario. Ma qual è il senso di questa differenza? La questione è abbastanza sottile. Sostanzialmente bisogna dire che riconoscere che Dio Padre ha una parola che non s'identifica con il suo Figlio significa ridimensionarne il carattere di assoluta e ineffabile trascendenza. È un Dio al di là di ogni pensabilità che può entrare in comunicazione con il mondo solo tramite la mediazione di un terzo: questo è esattamente uno schema di pensiero platonizzante, che spontaneamente (anche se forse non inevitabilmente) giunge ad una certa subordinazione del mediatore. Ancora una volta era stato l'arianesimo a mostrare le conseguenze ultime di questa impostazione, e Teodoro è attento ad eliminarne le premesse.6 Restituire a Dio una parola propria significa dunque riconoscere l'originalità e l'insostituibilità di una sua nuova, inedita, imprevedibile rivelazione come Padre, non più nel senso metaforico tramite cui egli può essere padre di tutti gli uomini, ma nel senso in cui è dall'eternità Padre di un Figlio unico. (E tutto questo è possibile solo se si rifiuta, ripetiamolo, l'identificazione tra Figlio di Dio e logos filosofico.) Se così non fosse, perché mai per esempio la Lettera agli Ebrei (1, 1) dovrebbe contrapporre ad un tempo in cui Dio parlò per mezzo dei profeti, dunque verbalmente, un tempo nel quale egli ha parlato en hyió, «in un figlio», suggerendo appunto che la figliolanza e la paternità sono la modalità nuova in cui ora Dio comunica per eccellenza? Insomma, delimitando rigorosamente il senso in cui il Figlio di Dio è Parola, Teodoro intende (al contrario di quanto si potrebbe supporre) ridimensionare la trascendenza divina: dal suo punto di vista il vero problema della trascendenza, se vogliamo così dire, non è tanto la possibilità di pensare Dio, ma quella di incontrarlo: lo incontrò il popolo di Israele nella storia e nelle parole profetiche, ora lo incontrano i cristiani nella storia e nella vita del suo Figlio.

4. Il logos cristiano e i suoi limiti

Se una delle preziose funzioni della filosofia è rendere meno chiare le idee, la funzione della storia è sovente completare l'opera e confondere le poche idee lasciate chiare dalla filosofia. Certo, i punti di riferimento che abbiamo scelto non sono affatto casuali, ma la loro scelta non può neppure essere tacciata di pretestuosità: nell'uno, Origene, abbiamo la prima dettagliata e consapevole assunzione del Logos di Giovanni in un senso pienamente filosofico; nel secondo, Teodoro, troviamo, fuori da ogni sospetto di «deellenizzazione», la migliore testimonianza di un rifiuto consapevole di questo senso. Ebbene, entrambi questi punti di riferimento rendono molto meno ovvio il senso in cui possiamo dire che il Dio cristiano è logos. Origene lo limita in almeno tre modi: anzitutto, il Logos non è Dio nella sua origine prima; poi, anche la seconda ipostasi è prima Sapienza contemplativa che Logos; infine, i lógoi umani, proprio nella loro conformazione filosofica, devono accontentarsi di una provvisorietà di fronte alla quale pure i semplici credenti nell'umanità di Cristo, che è pur sempre un logos, si trovano un gradino più in alto. Si tratta di limiti tanto più significativi in quanto vengono posti da colui che nel suo tempo forse meglio di qualsiasi altro sapeva che cosa fosse la filosofia greca. D'altra parte, il modo in cui egli segue una lettura filosofica apre tensioni irrisolte, ieri come forse ancor oggi, anzitutto in merito alla relativizzazione della rivelazione storica, e quindi della stessa incarnazione di Cristo. Da parte sua, Teodoro rifiuta di affermare che la seconda persona è Logos in almeno due sensi: in un primo, perché essa è essenzialmente Figlio, e la vita donata e ricevuta è più originaria della razionalità; in un secondo, perché la sua identificazione con il Logos in assoluto porrebbe Dio Padre in una trascendenza che è smentita dall'esperienza della fede ebraico-cristiana. Forse Teodoro non conosceva il pensiero greco tanto bene quanto Origene, ma in compenso conosceva la terribile crisi dottrinale che il cristianesimo aveva attraversato.

Che cosa concluderne? Sembra inevitabile osservare che la storia ci pone di fronte, assieme al fatto dell'incontro tra fede cristiana e filosofia greca, al problema di che cosa possa valere della filosofia greca per un credente. In effetti, questa domanda semplice è proprio ciò che volevamo raggiungere. Se il contatto tra logos giovanneo e logos greco è stato così faticoso e incerto, ciò non è avvenuto per remore sulla razionalità in sé, che in quanto tali sono tutto sommato molto marginali nella storia del cristianesimo.7 Le incertezze e i dubbi hanno riguardato, come questo esempio importante ci ha mostrato, i contenuti specifici di questa o quella razionalità e dunque i modi dell'incontro. È solo per un'illusione ottica che oggi possiamo parlare dell'incontro tra cristianesimo e «la filosofia greca», sorvolando sia sul fatto che esistevano molte filosofie greche, sia sul fatto che anche per le filosofie «buone» all'assunzione di alcuni elementi si accompagnò un netto ridimensionamento, o semplicemente rifiuto, di altri. L'illusione ottica nasce ovviamente dal fatto che proprio la storia della tradizione cristiana è il filtro inevitabile attraverso cui vediamo la filosofia greca: quel filtro che per esempio mette all'angolo il materialismo antifinalistico di Democrito ed Epicuro, che relega a curiosità aberranti lo scetticismo o il cinismo, che in Platone declassa a residuo mitologico il politeismo e ad esperimento mentale la teoria politica, che in Aristotele sublima e spiritualizza l'ideale della vita contemplativa sganciandolo dal retroterra che esso ha nella teoria sociale della schiavitù. È ovviamente il filtro che anzitutto l'apologetica cristiana primitiva ha posto, quando era in atto il tentativo di presentare il cristianesimo in profonda continuità con la parte migliore e la silenziosa invocazione del mondo pagano, il quale così poteva e quindi doveva avere accesso a Cristo a partire da una strada differente dall'ebraismo. Ma ovviamente l'apologetica ha le sue regole, e ciò che essa mise in opera fu un processo creativo di scomposizione e ricomposizione.8

Se tutto questo è vero, e se d'altra parte il pensiero cristiano non va interpretato come una forma d'insignificante eclettismo, tutto ciò significa che la fede cristiana è stata capace di sviluppare forme di una sua razionalità, con una rete molto complessa di prestiti, consonanze e dissonanze nei confronti dell'ambiente circostante. Non è per esempio vero, per dare un ultimo sguardo agli esempi che abbiamo addotto, che la vicenda della recezione del Logos di Giovanni fa tralucere una sporgenza tipicamente cristiana dei temi razionali della vita e della storia? Sono due temi sui quali, al confronto, gran parte della filosofia greca appare povera e malcentrata. Ma questo non pare un caso: il motivo fondamentale di tale reticenza sembra essere nel fatto che tali temi, senza nulla togliere al ruolo della ragione, le impediscono di autofondarsi, mettendola invece davanti ad una fecondità e un'imprevedibilità che essa non può far altro che accettare: pena, appunto, fraintendere il «qualcosa» del logos per il tutto. Ma è proprio questa integralità che caratterizza l'autocomprensione cristiana. La questione dell'incontro tra fede e ragione perde così il suo carattere di questione di principio, sempre a rischio di divenire vaga e retorica, e si declina in una moltitudine di problemi specifici, che meritano di essere tutti trattati con attenzione e pazienza.

È da questo punto di vista che ci appare un nonsenso sia rivendicare la necessità di deellenizzare il cristianesimo, sia vaticinare che non fare tappa ad Atene significhi rinunciare alla razionalità: due atteggiamenti speculari che anzitutto mostrano di ignorare o fraintendere la natura delle trasformazioni che la cultura cristiana dal suo nascere ha attraversato. Forse sarebbe anzitutto necessaria una storia del pensiero cristiano più equilibrata, che non trascuri l'enorme peso delle Chiese orientali non bizantine, che prima dell'avanzata islamica hanno costituito un polmone determinante del cristianesimo e ancora oggi, nella loro spesso commovente sopravvivenza, testimoniano la possibilità di elaborare la fede in modo originale e profondo. Altrettanto utile sarebbe sorvegliare meglio l'interpretazione della patristica di lingua greca, che per lo più ha proprio rifiutato la qualifica di «greca», stabilendo piuttosto un rapporto complesso e differenziato con la éxo sophía, la «sapienza di fuori». Tutto ciò, per tornare al punto da cui eravamo partiti, conferma che la definizione e la centratura della ragione cristiana sono anzitutto problemi interni alla tradizione cristiana, che rivelano subito una grande complessità. L'incontro interreligioso e le sue urgenze, con la sofferenza di persone e popoli oppressi dalla mancanza di logos, non debbono autorizzare a semplificazioni miopi che rischiano di tradire contemporaneamente la fede cristiana e l'uomo stesso. Questo è per lo meno ciò che ci ha suggerito il travaglio dei due grandi dell'antichità cristiana che abbiamo invocato a testimoni.

I vostri commenti

Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!

Note

  1. Origène, Commentaire sur saint Jean, texte grec, introduction, traduction et notes par Cecile Blanc, Les éditions du Cerf, Paris 1966-1992, 5 voll.; trad. it, Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, a cura di Eugenio Corsini, Utet, Torino 1995 (2). La traduzione italiana sarà a volte leggermente modificata, in questa e nelle altre opere che citeremo. Testo

  2. Come è noto, questa monumentale opera di Origene ci è giunta solo in una traduzione latina parziale, e quasi certamente semplificata, di Rufino: Origène, Commentaire sur le Cantique des Cantiques, texte de la version latine de Rufin, introduction, traduction et notes par Luc Bresard et Henri Crouzel, avec la collaboration de Marcel Borret, Les éditions du Cerf, Paris 1991-1992, 2 voll.; trad. it., Origene, Commento al Cantico dei cantici, introduzione, traduzione e note di Manlio Simonetti, Città Nuova, Roma 1997 (4). Testo

  3. È interessante notare che Gregorio di Nissa, nelle Omelie sul Cantico dei cantici che in tanti aspetti riecheggiano l'opera di Origene, lascia cadere la sottolineatura della mancanza di mediazione umana, e sviluppa al suo posto una teoria dei «sensi spirituali»: «Nel baciare le labbra si toccano ma esiste anche il tatto dell'anima col quale ella tocca il Logos e lo sfiora mediante un contatto incorporeo e spirituale». L'interpretazione viene poi sviluppata in modo da recuperare la superiorità del «latte divino» sul «vino umano»: «Apprendiamo da questo giudizio che tutta la saggezza umana, la scienza della natura, tutta la forza intellettiva e l'intelligenza razionale non possono essere paragonate né confrontate col nutrimento semplicissimo delle mammelle divine. [...] Il massimo che può dare la sapienza esterna è molto inferiore all'insegnamento della parola di Dio, per quanto questo sia da lattanti (to en te éxo sophía téleion tes nepiódous tou théiou lógou didaskalías esti mikróteron)» (Gregorius Nyssenus, In canticum canticorum, edidit Hermannus Langerbeck, Brill, Leiden 1986 (2); trad. it., Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei cantici, a cura di Vincenzo Bonato, Edizioni Dehoniane, Bologna 1995, om. I, p. 41). Sono affermazioni che non contraddicono Origene (anzi che possono essere mostrare in continuità con alcune sue intuizioni centrali), e che tuttavia vengono inserite proprio nel contesto in cui egli di fatto sembrava reintrodurre surrettiziamente un primato della razionalità filosofica, che qui viene chiamata con distacco (con una terminologia che avrà una lunga storia nella patristica greca) «sapienza esteriore». Testo

  4. Il testo, per circostanze non casuali, ci è stato giunto solo nella traduzione siriaca: Theodorus Mopsuestenus, Commentarius in Evangelium Iohannis Apostoli, edidit Iacobus-Maria Vosté, Peteers, Lovanii 1940, 2 voll.; trad. it., Teodoro di Mopsuestia, Commentario al Vangelo di Giovanni apostolo libri VII, a cura di Luigi Fatica, Borla, Roma 1991. Testo

  5. O, come in forma caratteristica gli antiocheni si esprimevano, l'assumere il Cristo-nella-carne da parte del Figlio di Dio. Tale linguaggio divisivo sarà poi oggetto di riprovazione e da questo punto di vista la sorte di Teodoro sarà simile e speculare a quella di Origene: entrambi in vita considerati campioni della teologia, entrambi dopo la morte coinvolti nelle condanne dei loro discepoli diretti o remoti (nel caso di Teodoro, ovviamente Nestorio, la cui condanna provocò retroattivamente la travagliata questione dei «Tre Capitoli»). Le riabilitazioni postume di cui è molto facile gratificare l'uno e l'altro sottolineano ancor di più un innegabile pluralismo nelle forme concettuali assunte dalla fede cristiana. Testo

  6. A giustificare la caduta di questo tema c'è inoltre l'estinguersi di una preoccupazione che era invece centrale per Origene: la rivendicazione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento, che otteneva un ottimo sostegno nell'affermazione di una costante presenza del Logos divino già nelle vicende del primo. Allontanato il rischio gnostico, il problema sembra uscito dall'agenda teologica di Teodoro, che quindi è più libero di presentare Antico e Nuovo Testamento come storicamente e teologicamente connessi (e quindi uniti dall'intervento storico dell'unico Dio), e tuttavia indipendenti e autonomi nelle loro forme rivelative. In questa vicenda è interessante notare che una più forte presenza del pensiero greco (sotto forma di una teoria del Logos, ma anche di un uso esteso del metodo interpretativo allegorico) era stata esattamente a servizio di un'integrazione dell'Antico Testamento nella coscienza di fede cristiana: un motivo in più per essere cauti di fronte alla semplificazione che considera il ricorso alla filosofia greca come un'alternativa alla valorizzazione delle radici ebraiche della fede cristiana. Testo

  7. Perfino il fin troppo citato «credo quia absurdum» di Tertulliano è in realtà debitore di una razionalità retorica abbastanza facile da descrivere e formalizzare: vedi Giovanni Salmeri, «Crisi della ragione e modelli di razionalità. La logica testimoniale nella fede cristiana», Humanitas, anno 62 (2007), n. 2, pp. 340-348. Testo

  8. Da questo punto di vista, testo fondatore può essere considerato il primo capitolo della Lettera ai Romani, dove come strada di conoscenza parallela alla Legge ebraica viene presentata la razionalità pagana (evidentemente interpretata attraverso una filosofia, o almeno una filosofia popolare, chiaramente distaccata dall'idolatria). Tale testo è da considerarsi fondatore non solo per il materiale che esso dà da pensare alla tradizione cristiana, ma anche per l'ambiguità che esso intenzionalmente inietta tanto nella ragione quanto nella Legge: nel momento stesso in cui l'una e l'altra vengono lodate, la necessità dell'esito della fede cristiana non è argomentata sulla base di una continuità, ma al contrario di una rottura. È infatti il fallimento dell'uomo razionale o destinatario della Legge che lo dichiara bisognoso della grazia divina. Per mutuare un termine da tutt'altro contesto, la razionalità precristiana (storicamente o logicamente) è preambulum fidei non solo malgrado i suoi limiti ed errori, ma in un certo senso proprio grazie ad essi: il che, ovviamente, non esclude il compito di una razionalità postcristiana. Riguardo all'elaborazione storica del rapporto tra filosofia e fede, cfr. Giovanni Salmeri, «Quale ragione per la filosofia della religione? L'origine del problema nella teologia scolastica», in Sergio Sorrentino (curatore), Teologia naturale e teologia filosofica, Atti del 4º Convegno annuale dell'Associazione italiana di filosofia della religione (Chieti, 9-10 giugno 2005), Aracne, Roma 2006, pp. 133-144. Testo