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Né mero segno né solo simbolo, ma sacramento. Per una rilettura della categoria di sacramento nella teologia di Ugo di San Vittore

di Nicola Reali (9 maggio 2010)

Il presente studio intende approfondire la teologia sacramentaria di Ugo di San Vittore soffermandosi in particolare sui sacramenti della nuova alleanza. Erede di una teologia che, dopo la querelle berengariana del secolo precedente, privilegiava unilateralmente la categoria di segno, Ugo, grazie soprattutto all'influsso derivante dalla teologia dello pseudo Dionigi l'Areopagita, muove i primi passi verso un deciso superamento della lettura del sacramento in genere signi che lo conduce a mettere in evidenza la simbolicità della realtà sacramentale. Nello stesso tempo, stante la profonda ecclesialità dell'insegnamento del Vittorino, il carattere simbolico del sacramento viene in parte ridimensionato per far posto ad una presentazione della mediazione sacramentale che, irriducibile a quella del segno e del simbolo, ne sigla l'originalità.

Ugo di San Vittore, il primo maestro dopo Guglielmo di Champeaux alla scuola canonicale agostiniana di San Vittore a Parigi, è conosciuto, nella storia della teologia, anzitutto come l'autore del De sacramentis christianae fidei,1 una delle prime Summae teologiche, che in futuro conobbe una discreta fortuna per la sua sistematica storico-salvifica (opus conditionis -- opus restaurationis) e per il suo contenuto (Ugo rielaborò in maniera stilisticamente accurata e pedagogicamente riuscita l'eredità patristica).2 A questo si aggiunga che essere un teologo nel dodicesimo secolo significava non avere alcuna particolare specializzazione, per cui, fin dagli anni della giovinezza, il giovane insegnante sassone (o fiammingo?) elaborò un programma di studio e di ricerca di grandi vedute (Didascalicon de studio legendi) e si consacrò a parecchie indagini che spaziavano dalla grammatica (De grammatica) e dalla storiografia biblica (Chronicon) fino alla geometria (De practica geometriae) e alla cartografia (Descriptio mappae mundi).

In questo programma di Ugo, che contiene implicazioni filosofiche, pedagogiche, ma anche etico-spirituali, si avverte l'affascinante paesaggio spirituale e culturale del dodicesimo secolo: un tempo di nuove speranze e nuovi inizi, di spiritualità adulta e di speculazione cosmologica, di rigore dialettico così come di poesia e ricerca scientifica. In Ugo, infatti, riconosciamo anche il temperamento di un uomo che trascorse da ragazzo le notti in esperimenti tecnico-scientifici di tutti i tipi e che più tardi costruì con i suoi alunni un modello dell'arca di Noè come la quintessenza dell'universo, della chiesa e dell'anima, secondo le indicazioni del libro della Genesi.

Pur tuttavia quest'uomo fu anzitutto un profondo lettore che ha privilegiato soprattutto gli scritti di Dionigi e l'opera di Agostino. Ciò è rilevante in particolare per quel che concerne lo specifico della presente ricerca che mira a leggere, o rileggere, la sua teologia sacramentaria con la preoccupazione di mettere in evidenza le categorie utilizzate da Ugo nello svolgere il suo pensiero. Certamente, essendo un 'figlio spirituale' di Agostino, Ugo, come il suo maestro, non conosce un uso ristretto della nozione di sacramento. Basti a questo proposito ricordare che nell'impianto della sua principale opera (De sacramentis) l'intera storia della salvezza è letta partendo dalla consapevolezza che, ad ogni sua tappa, corrisponde l'istituzione di tre 'gradi' di sacramento: ci sono tre epoche, quella della lex naturalis, quella della lex scripta e il tempus gratiae. Per ognuna di esse Dio ha istituito dei sacramenti specifici: «I sacramenti sono stati istituti dall'inizio fino alla restaurazione e cura dell'uomo: alcuni sotto la legge naturale, altri sotto la legge scritta, altri sotto la grazia».3

Il sacramento, pertanto, è una nozione che Ugo applica contemporaneamente all'intera storia della salvezza per 'gradi'. Questo sta a significare che nella nozione stessa di sacramento c'è qualcosa che la rende applicabile a tutte le epoche e, nello stesso tempo, esistono delle gradazioni che differenziano la stessa nozione sì che essa debba essere specificata dal riferimento al periodo cui si riferisce. Il sacramento viene quindi presentato da Ugo come la descrizione delle variazioni di una stessa figura: variazioni che indicano i 'gradi', senza che essi contestino l'unità del sacramento, permettendo così di distinguere quell'aspetto della realtà sacramentale che consente la sua applicabilità a tutta la storia della salvezza e gli altri che, viceversa, ne caratterizzano la sua specificità epocale.

Il presente studio intende approfondire il pensiero del maestro di San Vittore soffermandosi in particolare sui sacramenti del tempus gratiae. Ugo, infatti, dovendosi impegnare a mantenere il suo insegnamento entro l'orizzonte dottrinale che nel frattempo si stava fissando specialmente dopo la querelle berengariana, dovette cimentarsi a precisare le coordinate epistemologiche della categoria stessa di sacramento. Leggendo le pagine dedicate ai sacramenti della nuova alleanza, si trova un approfondimento che consente di cogliere la loro peculiarità e contemporaneamente mette in luce l'originalità del pensiero di Ugo, il quale, grazie soprattutto all'influsso derivante dalla teologia dello pseudo Dionigi l'Areopagita, muove i primi passi verso un deciso superamento della lettura del sacramento in genere signi. Il lavoro sulle categorie che Ugo compie ogniqualvolta deve affrontare i sacramenti e in particolare l'eucaristia, rivela, infatti, un'apertura in direzione della simbolicità che non ha eguali nel secolo immediatamente successivo alle tesi di Berengario. Nello stesso tempo, stante la profonda ecclesialità dell'insegnamento del Vittorino, il carattere simbolico del sacramento viene in parte ridimensionato per far posto ad una presentazione della mediazione sacramentale che, irriducibile a quella del segno e del simbolo, ne sigla l'originalità. Di conseguenza, approfondendo quella variazione della realtà sacramentale data dai sacramenti in senso stretto, si ha l'opportunità di mettere in evidenza uno sforzo riflessivo unico nel suo tempo, che, grazie in particolare alla sottolineatura della simbolicità del sacramento, stabilisce la ricchezza di un secolo troppo spesso lasciato all'ombra delle Summae del tredicesimo.

1. Il sacramento come segno. L'affaire Berengario e le sue conseguenze

Per introdursi adeguatamente alla teologia sacramentaria del Vittorino, occorre premettere una breve presentazione della storia della nozione di sacramento, al fine di poter meglio illustrare il quadro storico-teologico che fa da sfondo alla teologia di Ugo.4

Il punto di partenza è sicuramente l'agostiniana definizione «sacramentum est sacrae rei signum», la quale, seppur non appaia mai nei suoi scritti, attraversa indisturbata tutto il medioevo.5 Il motivo dell'attribuzione è risaputo: una delle principali definizioni di sacramento che Agostino propose, «sacramentum, id est sacrum signum»,6 venne glossata con «id est sacrae rei signum»: si riteneva infatti che questo corrispondesse alle idee del vescovo di Ippona sul segno, esposte nel De magistro e nel De doctrina christiana; ed inoltre Agostino stesso aveva suggerito questa variante con l'affermazione «cognoscenda tantae rei sacramenta, id est sacra signa».7 Comunque, al di là della ricostruzione storica dei motivi dell'attribuzione, è indubbio il fatto che la definizione grazie all'autorità di Agostino ebbe un'influenza decisiva e profonda su tutta la teologia medievale in particolare per quel che riguarda l'interpretazione del sacramento in genere signi. Prova ne è che il riferimento ad Agostino rappresenta l'orizzonte sul quale comprendere la più importante disputa dell'undicesimo secolo sull'eucaristia: quella aperta dalle tesi di Berengario di Tours.8

A questo proposito è risaputo che punto di partenza e prova di fondo della posizione di Berengario è proprio la definizione agostiniana, dato che il teologo di Tours la interpreta al fine di mostrare a quale condizioni un segno possa divenire un sacramento.9 Berengario, applicando il metodo dialettico, offre un'interpretazione dell'eucaristia nella quale diventa decisivo comprendere come nel sacramento il segno, anche dopo la consacrazione, rimane intatto nella sua struttura ontologica. Di conseguenza, durante la celebrazione della messa, è il pane in quanto tale ad essere spezzato e consumato, di modo che esso è realmente il segno sacramentale del corpo di Cristo senza per questo dover mutare sostanzialmente. A mo'di slogan si può affermare che Berengario, della definizione di Agostino, accentua la funzione del segno: il sacramento è il segno di una cosa sacra, «sacramentum est sacrae rei signum».

Le tesi di Berengario suscitarono asperrime reazioni specialmente in chi vedeva nelle sue conclusioni la negazione della presenza reale di Cristo nel sacramento dell'altare, sul presupposto di una visione esclusivamente 'sensibile' della presenza.10 La contrapposizione fu comunque vincente, tanto è vero che la conclusione della disputa sull'interpretazione di Berengario, che trovò in Lanfranco di Pavia il più strenuo avversario del teologo di Saint-Martin de Tours, si ebbe con il concilio di Roma del 1059, al termine del quale Berengario dovette riconoscere che il corpo di Cristo «sostanzialmente presente» nell'ostia «viene spezzato» e distribuito dalle mani del celebrante e «triturato dai denti dei fedeli».11 Gli avversari di Berengario rovesciarono dunque la sua spiegazione, sottolineando come nel mistero eucaristico si realizzi un vero e proprio cambiamento del segno, il quale, prima e dopo la consacrazione, risulta sostanzialmente differente. Così, se per Berengario ciò che viene spezzato e manducato è il pane, per i suoi critici è il corpo di Cristo sostanzialmente presente sotto gli accidenti del pane. È chiaro che in questo caso tutto il peso del ragionamento si appoggia sull'avverbio 'sostanzialmente', il quale, tenuto conto della controversia da cui si origina, indica una comprensione 'fisica' e 'naturale' della presenza di Cristo: è presente così come qualsiasi altra realtà può dirsi presente alla percezione umana; è dunque presente come qualsiasi altra cosa.12 L'epilogo della disputa sull'eucaristia dell'undicesimo secolo conduce pertanto ad una lettura della definizione di Agostino che, contrariamente a quella di Berengario, dà risalto alla cosa: il sacramento è il segno di una cosa sacra «sacramentum est sacrae rei signum».

Tutte le tendenze dell'indagine teologica sull'eucaristia, che seguirono la contesa aperta dalle ipotesi di Berengario, derivarono apertamente dall'intento di seguire il dettato del concilio di Roma, e ciò comportò una serie di conseguenze che influirono notevolmente sullo sviluppo della teologia sacramentaria. Tra queste sicuramente è da rilevare in primo luogo una certa separazione del sacramento dalla fede del singolo e della comunità, visto che al centro della celebrazione eucaristica veniva collocata l'onnipotenza divina, la cui volontà si compiva esclusivamente grazie al potere del sacerdote consacrato.13 Nello stesso tempo non si può non notare che la dottrina teologica stabilita contro Berengario provocò una reale svalutazione dell'importanza del segno eucaristico. Il privilegio accordato alla res sacramentale, sorretta unicamente dall'onnipotenza divina, spezzò ogni interiore e necessaria connessione tra il visibile e l'invisibile, tra il segno sacramentale e la 'cosa del sacramento' (res sacramenti). Il timore suscitato dall'interpretazione 'simbolica' o 'spirituale' di Berengario provocò infatti, in modo unilaterale, una reazione fortemente 'realista', che finì per far sì che gli accidenti del segno, da aspetti naturali di una sostanza quali essi sono, divennero le specie non-naturali di una sostanza radicalmente altra e diversa. L'apparire -- il segno -- venne separato da ciò che in esso appare, così che quest'ultimo -- la res sacramenti -, persa ogni strada per poter apparire fenomenalmente, si ritrovò incluso nella legge metafisica della non-fenomenalità di ogni sostanza generalmente intesa.

In questo quadro diventa comprensibile osservare come l'idea di segno venne epistemologicamente sviluppata partendo dalla consapevolezza che in esso occorre distinguere la verità a cui il segno rimanda dal segno stesso, specialmente quando si trattava di mettere a tema i sacramenti della nuova alleanza, quando pertanto era in gioco il segno sacramentale. In altri termini, d'ora in poi il termine di segno diventa la categoria principale ed unica con la quale specificare il tipo particolare di fenomenalità che il sacramento possiede, per il fatto che esso, più di qualsiasi altra nozione, è idoneo ad affermare questa necessaria distinzione tra la res invisibile e il signum visibile: distinzione che, da Berengario in poi, appare ai teologi indispensabile per parlare dei sacramenti ecclesiali. Prova ne è, come opportunamente fa notare Weisweiler, «il cambiamento da parte di Abelardo della seconda formula prediletta da Berengario (invisibilis gratiae visibilis forma). Abelardo la riformulò attraverso l'accentuazione formale della parola 'signum' al posto di 'forma'. Di lì derivò la formula usata nella sua scuola: visibile signum invisibilis gratiae».14

Nello sviluppo seguito dalla teologia all'indomani della controversia berengariana si nota così una accentuazione del rilievo conferito alla categoria di segno che conduce la teologia di ispirazione antiberengariana ad accogliere il medesimo presupposto ontologico del teologo di Tours. Infatti, ad una lettura attenta non può sfuggire come Berengario venga criticato perché le sue affermazioni correvano il rischio di relegare la realtà del corpo e sangue di Cristo al di là di ciò che sensibilmente appariva: si criticava, dunque, che il sacramentum non avesse nessun legame con la res. Di conseguenza, se la teologia uscita dal concilio di Roma sente la necessità di stabilire la distinzione tra la verità a cui il segno rimanda e il segno stesso, è evidente che il risultato che in questo modo si ottiene è identico, seppur rovesciato, a quello a cui ci si oppone. In altri termini, una volta appurato che l'incomprensione di fondo sia da riferire ad un pregiudiziale dualismo spirituale/reale, è da sottolineare che gli avversari di Berengario si oppongono a quest'ultimo perché vedono nella sua difesa dell'identità ontologica del segno l'impossibilità della manifestazione sensibile del vero corpo e sangue di Cristo (la res sacramenti). In questo modo rimproverano a Berengario ciò che essi stessi sostengono contro di lui: una separazione della res dal sacramentum. Berengario viene quindi condannato perché lo si accusa del fatto che la non-mutazione sostanziale del segno confini la res sacramenti al di là del segno. Tuttavia, se la risposta che la teologia si sente di dover opporre al teologo di Tours, muove dalla volontà di conferire realtà sensibile alla res sacramenti, non si può non notare che, appoggiandosi unilateralmente sulla necessità del cambiamento sostanziale del segno, essa giunga ad affermare che la presenza sensibile della verità del sacramento rimane distinta dal segno: sensibilmente appare solo il sacramentum. L'incoronazione della categoria di segno, come si è or ora messo in evidenza, a strumento epistemologico privilegiato per specificare la necessaria distinzione tra la res invisibile e il sacramentum visibile, ne è la convalida.

2. Non solo segno: la somiglianza

L'affaire Berengario segna pertanto una conferma della volontà di comprendere il sacramento in genere signi, unitamente ad una ermeneutica del segno dove appare decisiva la sottolineatura della necessaria distinzione tra il signum e la res, dunque tra il visibile e l'invisibile, tra l'apparire e ciò che in esso appare. Questo è l'esito, sintetico, ma definivo, della controversia dell'undecimo secolo, il quale rappresenta altresì il punto di partenza di tutta la teologia sacramentaria successiva. Infatti, anche Ugo di San Vittore sembra non mettere in discussione questo presupposto, dato che egli stesso dimostra di recepire integralmente i risultati del dibattito scaturito dalle opinioni del teologo di Tours: «Distinguiamo dunque il segno dalla verità, sapendo che un conto è ciò che viene collocato all'esterno per l'istruzione dei sensi e altro è ciò che è custodito all'interno per la beatitudine dell'anima».15

Non c'è dubbio quindi che con questa affermazione Ugo manifesti una piena adesione a quanto nel secolo precedente era stato giudicato necessario al fine di comprendere la realtà dei segni. Tuttavia il Vittorino non dimostra la stessa disponibilità quando si tratta di interpretare i sacramenti. I suoi scritti mettono infatti in evidenza che, se da una parte lo statuto epistemologico del segno chiede di sottolineare una differenza radicale tra il signum e la res, dall'altra il sacramento realizza una relazione tra il visibile e l'invisibile diversa da quella del segno. Ugo introduce pertanto nella teologia sacramentaria postberengariana una significativa novità: la distinzione tra il segno e il sacramento.

In altri termini, pur accettando che il segno si debba distinguere dalla verità, Ugo è altrettanto convinto che nel sacramento si dia un'effettiva partecipazione alla verità, di modo che il riferimento alla res sacramenti non sia solamente legato ad un'istanza estrinseca alla natura del sacramentum, ma, viceversa, vi appartenga. Di conseguenza per Ugo è determinante indicare quale caratteristica peculiare l'elemento esteriore del sacramento possieda, in modo che esso sia idoneo a rendere partecipabile la verità interiore, pur restando quest'ultima al di là dell'elemento esteriore. Da questo punto di vista Ugo, riprendendo Agostino,16 non ha dubbi nell'indicare nella somiglianza (similitudo) l'aspetto che permette all'elemento materiale di poter avere effettivamente la possibilità di partecipare la verità interiore: «ogni sacramento, infatti, deve avere una certa somiglianza con la stessa res di cui è sacramento, di modo che esso sia idoneo a rappresentare la medesima sua res».17

Si nota così che, se per la teologia uscita dal concilio di Roma la separazione del signum dalla res era l'unico aspetto col quale illustrare l'economia sacramentale con la conseguenza di ritenere pacifico il considerare il sacramento come un segno tra gli altri, per Ugo tale opzione metodologica deve essere sì mantenuta, ma non separatamente dalla convinzione che la significazione sacramentale possiede una sua specificità. Deriva da qui la volontà di Ugo di sottrarre il sacramento allo statuto epistemologico del segno, affermando la necessità di una similitudo tra il sacramentum e la res indispensabile per garantire all'elemento visibile la possibilità di rappresentare l'invisibile. Prova ne è che Ugo non esita minimamente ad affermare che solo il sacramento, differentemente dal segno, possiede questa caratteristica: «Discepolo: qual è la differenza tra il segno e il sacramento? Maestro: il segno significa solo per istituzione, il sacramento anche per somiglianza».18 Così il sacramento, pur essendo un segno, non è solamente un segno, visto che -- come il segno -- possiede la qualità di significare ex institutione, ma -- differentemente dal segno -- ha anche la caratteristica di rappresentare ex similitudinem. Tanto è vero che per Ugo: «... non ogni segno di una res sacra può essere convenientemente detto suo sacramento».19

È evidente che in questo modo Ugo fa compiere un passo decisivo alla teologia sacramentaria, ed è altrettanto manifesto che tale evoluzione rivela una recezione della tradizione agostiniana che, da una parte sottolinea l'insufficienza della tradizionale definizione «sacramentum est sacrae rei signum», dall'altra dà risalto all'insegnamento del vescovo di Ippona mediante il rilievo concesso alla somiglianza. Forse sarebbe meglio dire che Ugo approfondisce e completa il riferimento ad Agostino, dal momento che non si può non notare che lasciare oscillare il sacramento tra il signum e la res, così come la disputa dell'undicesimo secolo aveva fatto, non dà conto della specificità fenomenica del sacramento. Agostino aveva sì indicato che il sacramento dovesse essere interpretato in genere signi, ma non aveva attrezzato la teologia degli strumenti idonei a comprendere la peculiarità del rapporto tra il signum e la res -- dunque tra il visibile e l'invisibile, tra l'apparire e ciò che in esso appare -- che nel sacramento si realizza. Si può dire che il percorso che la teologia intraprende l'indomani dell'affaire Berengario rivela la necessità di andare a fondo dell'apparente paradossalità della fenomenalità del sacramento: «un solo e unico visibile (la cosa che chiamiamo sacramentum) appare, da un lato, come fenomeno già costituito (la cosa mondana: pane, vino, acqua, olio, etc.), come cosa visibile tra le altre cose visibili esistenti nel mondo; dall'altro lato, però, è anche ciò che fa da tramite, non ancora costituitosi come tale, verso un altro termine che è rimasto invisibile (la «cosa» che si compie nel sacramento, la res sacramenti, la grazia santificante di Cristo), e che, tuttavia, supponiamo che si costituirà come fenomeno ultimo e definitivo».20 Davanti a tale paradossalità è sicuramente inadeguato comprendere il sacramento solamente alla luce della categoria di segno, quando quest'ultima è ridotta epistemologicamente a strumento per siglare una separazione radicale tra il segno e la res.

Per Ugo, viceversa, la relazione sacramentale tra il visibile e l'invisibile non può essere genericamente assorbita nella legge universale della significazione. Più precisamente: essa è appropriata a spiegare l'istituzione del sacramento, ma lascia irrisolto il problema di capire perché quel segno, e non un altro, è eletto ad essere sacramento. In altri termini, interpretare il sacramento esclusivamente come un segno, afferma uno scarto tra il visibile e l'invisibile che dovrebbe poter essere superato solamente partendo dall'ipotesi di una unità arbitraria tra le due facce del segno: un ente sensibile già esistente nel mondo (il pane, il vino, l'acqua) dovrebbe avere un legame col suo referente invisibile, la grazia di Cristo. Tuttavia, con quale diritto si può stabilire tale legame tra il segno e il suo referente? Chi potrebbe avere l'autorità necessaria per ciò? Evidentemente solo il referente, Cristo.

Lo statuto epistemologico del segno, separando il signum dalla res, ben si adatta ad evidenziare l'unicità e -- per usare il linguaggio di Tommaso21 -- la potestas auctoritatis di Cristo, ma non rende ragione del motivo per il quale il Salvatore assume quel segno come proprio sacramento. L'elemento sensibile deve possedere una caratteristica che lo rende adatto a svolgere questa sua funzione. Di conseguenza si deve rivendicare fortemente una similitudo tra il signum e la res: «Pertanto l'acqua che si vede è il sacramento e la grazia invisibile la res o la virtù del sacramento. Dunque, ogni acqua ha, per naturale qualità, una certa somiglianza con la grazia dello Spirito Santo, poiché, come questa pulisce il sudiciume del corpo, così quella monda i peccati delle anime. E da questa congenita qualità ogni acqua è in grado di rappresentare la grazia spirituale».22 In questo modo Ugo, sottolineando la necessità di una somiglianza tra il sacramentum e la res, recupera l'elemento materiale che dopo Berengario era stato svalutato: esso ridiventa importante, ma non un elemento materiale qualsiasi, bensì solo quell'elemento che abbia una somiglianza con la res che deve rappresentare. Diversamente si avrebbe solamente un segno che -- privato di somiglianza -- potrebbe significare la res solo per istituzione, quindi solo per un accordo estrinseco: «può essere sacramento solo ciò che ha una reale, non solo esterna, somiglianza con la res significata».23 Il valore dell'elemento materiale per Ugo è indiscutibile: esso non può essere solo istituito, ma deve possedere una somiglianza, altrimenti con la sola istituzione per Ugo non si ha un sacramento, ma solo un segno. Certo, è da evidenziare fin d'ora che vale anche la reciproca. Pertanto non basta la somiglianza per avere un sacramento: è indispensabile anche l'istituzione. La somiglianza che l'ente sensibile naturalmente possiede lo rende capace esclusivamente di rappresentare (repraesentare) la res invisibile, non di significarla. Ciò è possibile solo ex institutione: «In virtù di questa sua qualità innata ogni tipo di acqua fu in grado di rappresentare la grazia spirituale, prima ancora di significarla in virtù di un'ulteriore istituzione. Venne poi il Salvatore e istituì il visibile lavacro dei corpi mediante l'acqua per significare l'invisibile purificazione delle anime mediante la grazia spirituale. E da quel momento ormai l'acqua non rappresenta la grazia spirituale in virtù della sola somiglianza naturale, ma anche la significa in virtù di una ulteriore istituzione».24

3. Nel mondo del simbolo

La conclusione del paragrafo precedente indica chiaramente che, per Ugo, il sacramento è un segno, ma non è solamente un segno, poiché la res, pur distinguendosi dal sacramentum, si rende partecipabile in esso. Occorre, infatti, qualcosa che tenga insieme, pur nella separazione, il segno e la verità, altrimenti quest'ultima non si manifesterebbe sensibilmente. A questo punto la domanda è d'obbligo: perché, per Ugo, è proprio la similitudo la caratteristica che consente questa partecipazione/espressione della verità nel segno? Oppure, detto diversamente: perché attraverso la somiglianza l'invisibile si manifesta nel visibile pur rimanendo invisibile? La risposta, per Ugo, è una sola: il sacramento, grazie alla similitudo, acquista tale proprietà perché acquisisce carattere simbolico.

Per Ugo, infatti, parlare di somiglianza significa entrare nel mondo del simbolo, del quale il Vittorino, sulla base della sua personale rilettura di Dionigi, ha formulato una vera e propria teologia simbolica. Il problema, come abbiamo visto, è quello di mantenere uniti, pur nella distinzione, il sacramentum e la res. La similitudo è necessaria proprio a questo fine, dal momento che -- occorre ribadirlo -- la semplice istituzione, tipica del puro segno, non è sufficiente: si affermerebbe unicamente la separazione del segno dalla verità, della res dal sacramentum, dell'invisibile dal visibile. Ora, il simbolo per Ugo ha appunto questa funzione di tenere-insieme, secondo il significato etimologico della parola, due realtà in sé distinte poiché una visibile e l'altra invisibile: «Il simbolo è un insieme di forme visibili destinate a mostrare delle realtà invisibili».25

Questa proprietà tipica del simbolo ben si adatta allora ad illustrare la dinamica intrinseca alla Rivelazione divina, dato che quest'ultima realizza un'economia nella quale le forme manifestative del divino si caratterizzano precisamente come realtà materiali delegate ad illustrare una verità invisibile. Tuttavia, tenendo presente che spesso la Scrittura fa uso di forme ed immagini che apparentemente sembrano del tutto estranee alla realtà di Dio, Ugo -- allo stesso modo di Dionigi -- osserva che la verità di Dio appare sia attraverso simboli somiglianti sia mediante simboli dissomiglianti26: i primi sono quelli che -- grazie al loro splendore, alla loro nobiltà e al loro carattere quasi spirituale -- sono predisposti a significare le realtà celesti; i secondi sono quelli meno nobili, spesso grossolani e perfino turpi e indecenti.27 Di conseguenza, Ugo -- assieme a Dionigi -- ritiene che non ci si debba scandalizzare dell'uso scritturistico di immagini indecenti, poiché anch'esse sono idonee a significare l'invisibile verità rivelata, essendo simboli dissomiglianti. La differenza sta nel fatto che «I simboli somiglianti sono stati proposti in vista di questa dimostrazione: far vedere la verità delle realtà invisibili in un'apparenza visibile che somiglia loro (specie consimili). I simboli dissomiglianti, al contrario, [sono stati proposti] per dimostrare, attraverso la loro stessa significazione, che occorre abbandonare la figura per la verità (a figura ad veritatem exeundum) e che non ci si deve fermare a questi [elementi sensibili] i quali non possono essere veri. Di conseguenza, tanto i simboli somiglianti eccellono per la loro apparenza sensibile, [tanto] al contrario, i simboli dissomiglianti trascendono per la loro significazione (significatione); poiché, sebbene i primi abbiano un'apparenza più bella, i secondi in compenso possiedono una significazione più evidente. I primi mostrano la verità, i secondi costringono ad uscire dall'errore. I primi significano la verità in una maniera tale che uno spirito non educato può facilmente lasciarsi trattenere in essi, i secondi propongono un insegnamento capace di impedire alle intelligenze che li contemplano di smarrirsi in essi rendendo loro un culto. I primi, tuttavia, essendo segni della verità, si fanno forse talvolta accogliere, in vista della verità, grazie all'eccellenza dell'apparenza visibile, a meno che manchino i secondi segni, nei quali la verità non è creduta, benché mediante loro la verità è significata».28

Il dettato di Ugo è quindi chiaro: nei simboli somiglianti è accentuato il legame che unisce la verità all'elemento materiale, in quelli dissomiglianti la separazione, necessaria per affermare la trascendenza della significazione. Di conseguenza, è evidente che i sacramenti appartengono alla categoria dei simboli somiglianti, dal momento che, possedendo una specie consimile, mostrano la verità per similitudinem. Sembrerebbe pertanto confermato quanto si è tentato di evidenziare nel paragrafo precedente: è la somiglianza a rendere possibile quella rappresentazione della res attraverso il sacramentum che il mero segno non garantisce, per cui è lecito sottolineare che, invocando la similitudo, Ugo collochi il sacramento sul versante del simbolo.

Questa conclusione, tuttavia, ha da essere precisata, considerato che è nota la preferenza della teologia dionisiana per i simboli dissimili: essi, proprio grazie alla loro difformità, assicurano quella illuminazione dall'alto che per Dionigi è la strada privilegiata, se non l'unica, per poter accedere alle realtà divine nascoste nei simboli.29 Il primato assoluto concesso alla Rivelazione conduce infatti Dionigi ad affermare che è solamente dall'alto, gratuitamente, per rivelazione che può essere ricevuto il vero significato dei simboli. Pertanto, quanto più quest'ultimi differiscono visibilmente dalla verità invisibile, tanto più l'intelligenza umana è costretta a lasciarsi purificare e rischiarare dalla luce della conoscenza divina per tendere verso il suo principio, con il concorso necessario degli ordini gerarchici che la precedono e le trasmettono dall'alto la forza stessa che la converte. Tale conversione (epistrophé) diviene così il movimento ascendente dell'uomo verso Dio (anagogia) che trova la sua condizione di possibilità nell'illuminazione divina. Di conseguenza, la dissomiglianza dei simboli è per Dionigi quasi necessaria ad affermare il rapporto Dio/uomo: «il movimento discendente della simbolizzazione che, in effetti, avvolge le verità divine sotto i rivestimenti più diversi, non è assolutamente separabile dal movimento delle intelligenze che -- a partire dai simboli, attraverso i simboli e al di là di essi -- si sforzano di ritrovare la verità nascosta sotto i veli. Non esiste una forma di rivelazione che sarebbe esclusivamente anagogica [...] non esiste neppure una forma di rivelazione unicamente simbolica».30 L'anagogia è dunque garantita dalla simbolicità della rivelazione divina, la quale -- se vuole realmente condurre l'uomo in questo cammino di purificazione e conversione -- deve costringere il suo intelletto a oltrepassare l'apparenza della forma manifestativa che Dio ha assunto. Va da sé, quindi, che per Dionigi i simboli dissomiglianti siano quelli dove maggiormente il rapporto rivelazione/anagogia può essere illustrato: «Se dunque le negazioni sono vere nei riguardi delle cose divine, mentre le affermazioni non si adattano al mistero delle cose arcane, ne segue che il metodo di descrivere per mezzo di cose dissimili sia quello più conveniente alle cose invisibili. Dunque, le descrizioni della Sacra Scrittura onorano gli ordini celesti e non li coprono di vergogna spiegandoli con figure dissimili, ma dimostrano mediante queste che gli ordini sorpassano tutte le cose materiali in maniera sovramondana. Io, poi, penso che nessuno degli uomini veramente intelligenti potrebbe negare che le similitudini più lontane innalzino maggiormente la nostra intelligenza. Infatti, di fronte a sacre raffigurazioni più elevate è possibile che alcuni si facciano una falsa idea credendo che esistano sostanze celesti auriformi e uomini fatti di luce, sfolgoranti, splendidamente vestiti di uno splendido abito ed emananti innocue fiamme o sotto tutte le altre belle forme dello stesso tipo che la Sacra Scrittura ha immaginato per rappresentare le intelligenze celesti. E affinché non dovessero incorrere in un simile pericolo coloro i quali non concepiscono nulla di più alto dei beni sensibili, la sapienza dei santi sacri autori, che conduce verso l'alto, discende santamente anche verso le dissomiglianze oscure, non per permettere alla nostra parte materiale di soffermarsi e di indugiare nelle immagini turpi, ma per innalzare la parte dell'animo che tende verso l'alto e sollevarla mediante la bruttezza stessa delle immagini, di modo che non sembri né giusto né vero, perfino agli esseri molto materiali, che gli spettacoli sovracelesti e divini possano essere simili a figure così turpi».31

Questa esplicita preferenza di Dionigi per il simbolismo dissomigliante viene recepita anche da Ugo: «La difformità [delle immagini] costringe l'intelligenza ad allontanarsi dalla figura per [raggiungere] la verità; io intendo l'intelligenza che ha la forza di non fermarsi a queste [figure] radicalmente indegne e inconvenienti alla verità delle [realtà] divine».32 L'apparente scandalo che può derivare dall'indecenza dell'immagini deputate a mostrare l'invisibile realtà divina fa parte dell'azione autorivelativa di Dio stesso, il quale, in questo modo, ha nascosto la verità «agli spiriti carnali ed impuri» che si ritrovano nell'impossibilità di comprendere, dal basso, i simboli dissomiglianti.33 Da questa impraticabilità naturale del simbolo attestata dalla Scrittura si può evincere che Ugo non solo adotta la distinzione proposta da Dionigi tra simboli simili e dissimili, ma che sottoscrive anche la posizione espressa nel testo commentato, secondo la quale questi ultimi sono superiori ai primi in quanto non consentono al credente di fermarsi all'espressione della realtà sensibile, bensì lo costringono ad andare al di là dell'immagine per cogliere il vero contenuto del simbolo. Di conseguenza il movimento ascendente dell'uomo verso Dio (l'anagogia) si caratterizza come quella forma di conoscenza che -- non fondandosi su nessuna somiglianza naturale, ma esclusivamente su una illuminazione dall'alto -- non solo impedisce di attardarsi sulla apparente bellezza delle immagini somiglianti, ma permette di trascendere la mediazione stessa dell'immagine: «Il simbolo è un insieme di forme visibili destinate a mostrare delle realtà invisibili. L'anagogia invece è l'ascensione ovvero l'elevazione della mente alla contemplazione delle realtà superiori. Si noti qui [che esiste] una duplice modalità della rivelazione divina, che viene infusa nelle menti dei teologi e dei profeti attraverso visioni e dimostrazioni, che i Greci chiamano teofanie, cioè apparizioni divine. Talvolta, infatti, le realtà invisibili sono dimostrate attraverso segni sensibili simili, talvolta attraverso la sola anagogia, ovvero l'ascensione della mente alla pura contemplazione delle realtà superiori».34 È sintomatico che, in questo contesto, l'anagogia consista in una visione diretta delle realtà divine offerta alle menti dei teologi che si oppone alla visione indiretta data attraverso segni sensibili. E, ancor più significativo, è il fatto che da queste due modalità di rivelazione, per Ugo, derivino due tipi di descrizioni o di discorso teologico: uno, in cui la verità è velata e adombrata da figure e similitudini, che prende il nome di symbolica demonstratio; l'altro, in cui la verità è mostrata 'senza veli' (absque integumento) in una rivelazione 'nuda e pura' che è detta anagogica demonstratio.35 L'ultimo testo citato è quindi la testimonianza più forte di come la logica del simbolismo dissomigliante spinga Ugo su una prospettiva che ricalca quasi letteralmente quella di Dionigi.

Questa posizione in Ugo è talmente accentuata che «in effetti, ad essere rigorosi, non c'è né si può avere un simbolismo somigliante».36 L'importanza dell'illuminazione dall'alto è l'unica garanzia dell'anagogia, di conseguenza, se quest'ultima vuole condurre a Dio, si deve rigettare la possibilità che qualsiasi forma di manifestazione divina possa essere compresa al livello delle immagini. Queste appaiono solo per affermare il loro trascendimento, di conseguenza tutto ciò che impedisce o, per lo meno, corre il rischio di opporsi a questo dinamismo ascendente deve essere dichiarato estraneo alla logica del simbolismo. «Il simbolo, dunque, porta necessariamente con sé la dissomiglianza»,37 ma, qualora anche quest'ultima ritardasse o compromettesse l'effort anagogico, l'anagogia stessa sarebbe garantita da una rivelazione 'nuda e pura'. «Il simbolismo, quindi, è sempre dissomigliante, quale che sia la sua denominazione»,38 perché, alla fine, si tratta di conoscere l'essenza di Dio, che è sempre oltre lontana, remota e dissimile: «Così Dio, paragonato con la creatura, si rivela di gran lunga più eminente di quanto lo sia il più nobile degli esseri creati comparato ai più umili o agli ultimi esseri della creazione. Non è dunque dall'ordine di questi [esseri creati] che si può concepire ciò che è Dio, poiché egli è altro, ben diverso, lontano, estraneo e dissomigliante: chi egli sia non può esprimersi».39

Questa conclusione sembra pertanto mettere in discussione quanto affermato all'inizio di questo paragrafo. Se, infatti, si è messo in evidenza che attraverso la similitudo il sacramento acquisisce carattere simbolico, adesso il privilegio assoluto conferito al simbolismo dissomigliante, pare smentire questa affermazione: con la somiglianza il sacramento non entra a far parte del mondo del simbolo, poiché a quest'ultimo appartengono esclusivamente i simboli dissomiglianti, dato che solo essi garantiscono l'ascensione anagogica a Dio. Ciò nonostante, è lecito e forse doveroso sottolineare che Ugo non ricalca letteralmente il testo di Dionigi: egli manifesta un accordo col pensiero dell'Areopagita che, tuttavia, non può dirsi completo, considerato che oltre alle convergenze appaiono anche delle divergenze.

In primo luogo si deve notare una iperonimia del termine simbolo. Quest'ultimo, infatti, nei testi di Ugo possiede un'accezione più estesa rispetto a vocaboli di significato più specifico, ad esempio signum e simulacrum. Ciò vuol dire che non c'è una univocità di senso nell'uso del Maestro di San Vittore. Prova ne è che, in altri contesti, Ugo descrive l'anagogia negli stessi termini usati per definire la symbolica demonstratio nel Commento alla Gerarchia celeste di Dionigi: la conoscenza, che in quest'ultimo faceva a meno delle immagini, altrove chiede la mediazione sensibile. Nel De scripturis, infatti, dopo aver applicato il metodo proposto da Agostino nel secondo libro del De doctrina christiana40 all'interpretazione della tradizionale teoria dei sensi della Scrittura, Ugo distingue ulteriormente l'allegoria in due classi: una semplice in cui un evento (factum) visibile significa un altro evento visibile e l'anagogia dove un evento visibile significa un evento o una realtà invisibile.41 L'anagogia, in questa cornice, è dunque la significazione di realtà invisibili attraverso immagini visibili, che non si distingue da ciò che nel commento al testo di Dionigi viene attribuito alla symbolica demonstratio. Quindi, che ci sia questa differenza testimonia dell'iperonimia del termine simbolo e contemporaneamente del fatto che Ugo, trattando nel Commento alla Gerarchia celeste della superiorità del simbolismo dissomigliante su quello somigliante, arriva a stabilire che il simbolo dissomigliante, proprio grazie alla sua dissomiglianza, manifesta la sua natura di simbolo e correlativamente la trascende al punto di porsi al di là di ciò che comunemente è chiamato simbolo. Di conseguenza, stabilire in maniera unilaterale che per Ugo esista solamente il simbolismo dissomigliante appare forse troppo frettoloso, anche perché quest'ultimo può vantare un eccellenza esclusiva solo sul presupposto che il mondo del simbolo non si esaurisca in esso, ma, viceversa, possieda una varietà di accenti irriducibile ad una significazione univoca.

L'altro elemento che permette di accertare una aliquale presa di distanza da Dionigi, lo si può cogliere laddove si constata che, sebbene la superiorità del simbolismo dissomigliante sia esplicitamente affermata, nello stesso tempo Ugo non estromette il simbolo somigliante dall'universo simbolico. Anzitutto perché, dal punto di vista dei presupposti metodologici della conoscenza di Dio in generale, Ugo «accetta come valida la teologia 'mondana' che Dionigi, per lo meno in principio, aveva radicalmente esclusa».42 Secondariamente poiché «egli ha saputo in particolare mettere in rilievo la somiglianza del simbolismo dissomigliante, equilibrando il tema simmetrico della dissomiglianza del simbolismo somigliante. In linea di massima, egli ha voluto giustificare -- molto più di quanto non lo avesse fatto Dionigi -- il valore proprio del simbolo, di cui egli ha accentuato il 'realismo', opponendo simbolo e anagogia».43 In altri termini, si può dire che la valorizzazione delle espressioni mondane su Dio, ha spinto Ugo a mettere maggiormente in evidenza la bontà e l'utilità della creazione, che reca in sé l'impronta del Creatore, senza contrapporla in modo radicale alla trascendenza di Dio stesso, che niente e nessuno può esprimere. Su questa base Ugo ha così potuto offrire una descrizione dell'universo simbolico della manifestazione di Dio che, da una parte lo spinge a ricercare in ogni realtà creata l'indicibile e irrappresentabile trascendenza del divino, dall'altra a mostrare come l'ulteriorità divina non neghi né annulli il valore simbolico della creazione presa in se stessa. Sul piano del simbolo ciò corrisponde al tentativo di mostrare, da un lato, che ogni simbolo è radicalmente dissimile dalle realtà divine trascendenti e che, dall'altro, ogni cosa, anche la più umile, non può essere completamente dissimile da Dio, poiché è da Lui che deriva: «Così dunque, in un'unica e medesima realtà, da una parte, separano la figura dalla verità [quando si tratta] di immagini somiglianti; dall'altra, nelle [immagini] dissomiglianti, onorano la figura della verità associandola alla verità, poiché, da un lato, essi distinguono [la verità dei simboli somiglianti], dato che quest'ultimi mostrano delle [realtà] estranee, e, dall'altro, essi onorano i [simboli dissomiglianti] assegnando loro una funzione di somiglianza. Così, infatti, era conveniente che si dimostrasse che quanto è stato fatto, comparato in ogni suo aspetto all'eccellenza del [suo] Creatore, per un verso non lo eguaglia neppure nei suoi elementi più nobili, per l'altro non gli è [del tutto] dissimile, perfino negli elementi più umili. Infatti, poiché creato, [l'insieme delle realtà] non è paragonabile al Creatore a titolo di uguaglianza, in quanto creato da Lui, non può essere totalmente dissimile da Colui che lo ha originato».44

Questa posizione di Ugo, come giustamente fa notare Roques, trova il suo fondamento nell'opposizione simbolo/anagogia, dal momento che sia la dissomiglianza dei simboli somiglianti sia la somiglianza di quelli dissomiglianti, si basa proprio sulla convinzione che non esiste realtà creata capace di addurre il divino per una proprietà naturale. Di conseguenza quel che conta realmente nel simbolo è ritrovare in esso ciò che consente una ascensio dell'uomo alla verità, permessa e concessa dall'abbagliante luce divina riversata sull'intelletto dell'uomo. Così è il cammino anagogico che assegna di volta in volta una funzione di somiglianza al simbolo dissomigliante e una di dissomiglianza a quello somigliante. Si tratta cioè di lasciare agire la luce discendente da Dio che converte lo sguardo umano, rendendolo capace di vedere la dissomiglianza nella somiglianza e viceversa.

Il simbolo somigliante, per Ugo, partecipa dunque a pieno titolo all'universo simbolico.

4. Non solo simbolo: l'efficacia

Il breve (e sicuramente incompleto) excursus condotto sul simbolismo permette a questo punto di tornare alla questione sacramentale, riassumendo anzitutto i risultati finora acquisiti. Conservando al sacramento il carattere di segno, Ugo mantiene la separazione della res dal sacramentum che la teologia aveva ereditato dalla controversia berengariana. Nello stesso tempo, tuttavia, egli introduce (o re-introduce) il tema della similitudo al fine di rendere ragione della specificità del rapporto visibile/invisibile che nel sacramento si realizza. L'elemento materiale torna ad avere una rilevanza e il sacramento, grazie alla somiglianza, acquista carattere simbolico, dato che la simbolicità afferma un legame (collatio) tra il visibile e l'invisibile irriducibile ad entrambi i termini della relazione: il sacramentum rappresenta la res per similitudinem, ma non può dirsi coincidente con la res, poiché il simbolo porta sempre con sé una dissomiglianza che impedisce qualsiasi identificazione. Attraverso la similitudo, dunque, l'invisibile verità si manifesta nell'elemento visibile pur rimanendo invisibile e, grazie, all'istituzione, la materialità della forma esteriore può significare l'interiore virtù.

Detto questo, occorre fare un passo in avanti. Sempre restando sul piano simbolico, si può ulteriormente rafforzare la conclusione del paragrafo precedente, prendendo in considerazione il trattamento che Ugo riserva al sacramento dell'eucaristia nel Commento alla Gerarchia celeste di Dionigi. In pratica si tratta di verificare che Ugo, allorché prende direttamente in considerazione il sacramento dell'altare, è condotto ad una sottolineatura della specificità della simbolicità sacramentale che, se da una parte conferma l'idea che il sacramento -- in quanto possiede una specie consimile -- sia in tutto e per tutto un simbolo, dall'altra mette in evidenza come il sacramento non sia solo un simbolo.

Il punto decisivo è quando Ugo deve commentare l'affermazione di Dionigi su «la recezione della divinissima eucaristia come immagine della partecipazione a Gesù»45: questo passaggio ad Ugo appare problematico dal momento che teme che l'affermazione di Dionigi possa essere accusata di un certo 'irrealismo'. Tanto è vero che egli cita alcuni suoi contemporanei al fine di puntualizzare che l'asserzione di Dionigi sarebbe interpretata erroneamente qualora si pensasse che riconoscere valore di immagine all'eucaristia significasse negare la presenza del vero corpo e sangue di Cristo nel sacramento dell'altare: «Conviene osservare qui che alcuni hanno pensato poter appoggiare il loro errore su questo passaggio, affermando che il sacramento dell'altare non contiene la verità del corpo e del sangue di Cristo, ma solamente la sua immagine e figura».46 L'errore denunciato da Ugo è quindi quello di leggere l'affermazione di Dionigi sul presupposto di una rigida separazione tra l'immagine e la verità che conduce ad estromettere qualsiasi partecipazione ed espressione della res eucaristica nel sacramentum. È come se Ugo volesse sottolineare che Dionigi, parlando dell'eucaristia come immagine, non corre il rischio di riproporre la visione berengariana, che ritiene la verità del sacramento al di là delle speci eucaristiche. Nello stesso tempo, non si può non notare che, difendendo la dizione dionisiana, Ugo evochi anche l'unilateralità della teologia antiberengariana, poiché giustifica la plausibilità di usare una categoria differente da quella di segno. Si tratta pertanto di intravedere il riproporsi dei risultati della controversia berengariana, i quali, così come si è tentato precedentemente di mettere in evidenza, vengono da Ugo superati proprio nel momento in cui egli, convergendo e divergendo dalla teologia di Dionigi, accentua il valore della similitudo tra la res e il sacramentum e, dunque, conferisce carattere simbolico al sacramento.

Di conseguenza appare quasi scontato che, dopo aver biasimato la possibile lettura berengariana di Dionigi, Ugo offra la propria personale interpretazione rivendicando ancora una volta il valore della similitudo. Infatti, non stupisce che Ugo, per rispondere ai suoi contemporanei, moderi l'opposizione immagine-verità, mostrando, attraverso un richiamo al mistero della morte e resurrezione di Cristo, che l'eucaristia è simultaneamente immagine e verità o, meglio, similitudo e verità, senza nuocere alla presenza del vero corpo e sangue del Salvatore: «Che dunque? Forse che il sacramento dell'altare, per il fatto che è figura, non è verità? [...] Quindi la morte di Cristo fu vera e tuttavia essa fu un esempio; allo stesso modo la resurrezione di Cristo fu vera e ciò nonostante essa fu un esempio. Perché dunque il sacramento dell'altare non può essere somiglianza e verità? Per un aspetto è somiglianza, per l'altro è verità».47

La risposta di Ugo è dunque chiara nel difendere giustamente Dionigi dall'accusa di 'irrealismo' sorta da un'erronea interpretazione della sua affermazione. Nondimeno è lampante che per Ugo comprendere il modo in cui la verità del corpo e sangue di Cristo si rende presente nell'elemento materiale del pane e del vino è possibile solo se si riconosce il valore della similitudo, e, riconoscendolo, si evita di opporre la res al sacramentum. Esiste quindi una relazione di somiglianza (ma, per essere più precisi, si dovrebbe dire di somiglianza/dissomiglianza) tra ciò che all'esterno è visibile e ciò che all'interno è invisibile, di modo che il sacramento mostra visibilmente una verità invisibile che pur rimane invisibile. È evidente -- alla luce di quanto messo in evidenza nel paragrafo precedente -- che ciò è possibile affermarlo solo nel momento in cui si riconosce valore simbolico al sacramento.

La tutela della correttezza dell'affermazione di Dionigi, spinge successivamente Ugo a precisare l'identità del sacramento dell'altare, soffermandosi ad analizzare più precisamente gli elementi di questa realtà sui generis che tiene insieme in un unico fenomeno il visibile e l'invisibile: il sacramento eucaristico «da un lato è somiglianza, dall'altro è verità. Invero, sebbene si tratti di un solo sacramento, si è in presenza di tre elementi distinti, vale a dire: un'apparenza visibile, la verità del corpo e la virtù della grazia spirituale. Infatti una cosa è l'apparenza visibile che la vista discerne; un'altra è la verità del corpo e del sangue, che si crede sotto un'apparenza visibile senza vederla; un'altra ancora è la grazia spirituale che si riceve in maniera invisibile e spirituale con il corpo e il sangue».48 Ugo introduce in questo modo il tema della virtù del sacramento come un terzo elemento costitutivo dell'eucaristia: la virtus, non coincidendo con l'apparenza visibile, appartiene al campo dell'invisibile, così come il vero corpo e sangue del Salvatore, e tuttavia si distingue da quest'ultimo poiché si identifica non solo con quel che si crede essere presente nell'eucaristia pur senza vederlo, ma anche con ciò che si riceve invisibilmente per aver creduto presente nel sacramentum il vero corpo e sangue di Cristo.

Si può dunque affermare che in questo modo Ugo senta la necessità di mostrare come nell'eucaristia si tratta di poter ricevere la grazia che il sacramento vuole offrire. Di conseguenza è come se Ugo, fedele all'identità del sacramento dell'altare, volesse sottolineare il carattere di 'cibo' dell'eucaristia e quindi mettere in evidenza come la sua descrizione teologica non possa esimersi dal mostrare, non solo come il sacramento rappresenti il vero corpo e sangue di Cristo, ma come esso lo contenga effettivamente. Così si capisce, che l'eucaristia, dal momento che non solo rappresenta la res, ma la contiene, può comunicare i benefici della redenzione cristologica.

Il problema è pertanto, ancora una volta, quello di capire quale caratteristica l'elemento materiale possieda per poter istituire una relazione con la res che non si limiti né solo a significarla né solo a rappresentarla, ma possa contenerla e, dunque, comunicarla efficacemente: «Se poi qualcuno avesse voluto definire che cosa sia sacramento in modo più pieno e perfetto, avrebbe potuto dire che sacramento è un elemento corporeo o materiale sensibilmente proposto all'esterno, che rappresenta mediante una somiglianza, significa mediante un'istituzione e contiene mediante una santificazione una grazia invisibile e spirituale».49

Ecco, allora, che appare la proprietà santificante del sacramento che deriva dal fatto che il sacramento contiene realmente il vero corpo e sangue di Cristo e può, per questo, comunicare la grazia spirituale. Ragion per cui il sacramento realizza una relazione tra l'elemento materiale e la res che possiede questa triplice caratteristica: nel modo con cui il sacramento significa la res è un segno; in quello grazie al quale la rappresenta è un simbolo; ma in quello attraverso il quale esso contiene e conferisce la res si distingue sia dal segno sia dal simbolo.50

Di conseguenza è evidente che, per Ugo, il sacramento non è solamente un segno, ma parimenti non è neppure solamente un simbolo, perché «tutto ciò che ha queste tre [caratteristiche] è sacramento e tutto ciò che manca di queste tre non può propriamente dirsi sacramento. Ogni sacramento, infatti, deve avere una certa somiglianza con la stessa res di cui è sacramento, secondo la quale sia abilitato a rappresentare la medesima sua res. Deve anche avere l'istituzione per la quale sia stato ordinato a significarla. Infine deve avere la santificazione per mezzo della quale possa contenerla e sia efficace a conferirla a coloro che devono essere santificati».51

L'efficacia, che deriva dal fatto che il sacramento contiene effettivamente la res,52 è dunque l'elemento specifico che permette ad Ugo di rivendicare la peculiarità dei sacramenti e parimenti la loro differenza dai puri segni e simboli. Ciò appare ulteriormente rafforzato se si considera la modalità con la quale Ugo prosegue la descrizione dei tre elementi costitutivi dell'eucaristia nel Commento alla Gerarchia celeste di Dionigi: «L'apparenza visibile è il sacramento del vero corpo e del vero sangue; a loro volta, il corpo e il sangue sono il sacramento della grazia spirituale [...] E così, essendo tre elementi di una sola realtà, si trova nel primo il segno del secondo; nel secondo la causa del terzo; nel terzo la virtù del secondo e la verità del primo. E questi tre elementi sono riuniti in un'unica realtà e costituiscono un unico sacramento».53 La preoccupazione di Ugo è chiaramente quella di mettere in evidenza come i tre elementi rilevati non pregiudichino l'unità della forma sacramentale. Per questo sente la necessità di rivendicare tale unità sottolineando sia l'unicità della verità del sacramento sia l'unicità dell'elemento materiale. La verità del sacramento è la grazia spirituale di Cristo, la quale dona la sua virtus al corpo e sangue di Cristo e la sua verità all'elemento materiale. Di conseguenza, si tratta di riconoscere la comunione eucaristica come una reale partecipazione al corpo e sangue del Salvatore. Detto diversamente, si può evidenziare come Ugo sviluppi la sua riflessione sul sacramento eucaristico cercando di salvaguardare fondamentalmente una preoccupazione: accentuare il 'realismo' della mediazione sacramentale e, conseguentemente, metterne in evidenza l'originalità. Ciò gli permette di correggere ulteriormente il pensiero di Dionigi, il quale, avendo legato e subordinato ogni forma di conoscenza all'attitudine anagogica dell'intelligenza umana di ricevere dall'alto il vero significato del sacramento, non avrebbe mai attribuito efficacia spirituale alla consumazione del sacramentum. Né avrebbe mai pensato che la verità del simbolo, il corpo e il sangue di Cristo, quand'anche fosse stata rivelata dall'alto all'intelletto umano, potesse essere la causa della nostra partecipazione alla vita del Salvatore (o dell'Uno, nel linguaggio di Dionigi). Pertanto Ugo, interpretando Dionigi in un contesto dottrinale completamente differente, si ritrova a prenderne sempre di più le distanze, in particolare rendendosi conto della necessità nel caso specifico dell'eucaristia di non potere in alcun modo recepire integralmente la teologia simbolica dell'Areopagita, per non correre il rischio di vincolare la verità e l'efficacia del sacramento al cammino anagogico dell'uomo.

La logica conseguenza di questa attenzione è quella di mostrare come l'efficacia sacramentale non possa rientrare nella logica simbolica, ma appartenga esclusivamente alla mediazione che i sacramenti della nuova alleanza, e solo essi, possiedono. Questi ultimi, allora, pur essendo segni perché significano ex institutione e, pur essendo simboli perché rappresentano la verità ex similitudine, non sono esclusivamente né segni né simboli: sono sacramenti.54

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Note

  1. D'ora in poi DS: ed. R. Berndt, Hugonis de Sancto Victore De sacramentis christianae fidei, (Corpus Victorinum. Textus historici, I), Münster 2008, con punteggiatura e ortografia normalizzate ed eventuali correzioni. Testo

  2. Cf. R. Berndt, «La théologie comme système du monde. Sur l'évolution des sommes théologiques de Hugues de Saint-Victor à Saint Thomas d'Aquin», in Revue de Sciences Philosophiques et Théologiques 78(1994), 555-572. Testo

  3. DS I,xi,1 (Berndt, 243): «Sacramenta ab initio ad restaurationem et curationem hominis instituta sunt, alia sub naturali lege, alia sub scripta lege, alia sub gratia». Testo

  4. Cf. J. De Ghellinck, «Un chapitre dans l'histoire de la définition des sacrements au XIIe siècle», in Mélanges Mandonnet. Études d'histoire littéraire et doctrinale du Moyen âge, II, Paris 1930, 79-96; A. Caprioli, «Alle origini della definizione di sacramento: da Berengario a Pier Lombardo», in La Scuola Cattolica 102(1974), 718-743; S. Ubbiali, Il sacramento cristiano. Sul simbolo rituale, Assisi 2008, 191-201. Testo

  5. Pietro Lombardo stesso nelle Sentenze (IV,i,2) e con lui Tommaso d'Aquino, nel commento alle medesime, attribuiscono ad Agostino questa definizione: Scriptum in Sententiis. Liber quartus, I, q. 1, a. 1, ad 1. Testo

  6. De civitate Dei X,5. Testo

  7. Agostino, Contra adversarium legis et prophetarum I,2,9. Sull'interpretazione dell'attribuzione ad Agostino della definizione «sacramentum est sacrae rei signum» cf. De Ghellinck, Un chapitre, 82-83. Testo

  8. J. F. McCue, «The Doctrine of Transubstantiation from Berengar through Trent. The point at Issue», in Harvard Theological Review 61(1968), 385-430; J. de Montclos, Lanfrac et Bérenger. La controverse eucharistique du XIe siècle, Louvain 1971; J. Pelikan, The Christian Tradition. A History of the Development of Doctrine, III: The Growth of Medieval Theology (600-1300), Chicago-London 1978, 184-204; A. Cantin, Foi et dialectique au XIe siècle, Paris 1997; A. de Libera, La philosophie médiévale, Paris 2004, 288-292. Testo

  9. D. Van den Eynde, Les définitions des sacrements pendant la première période scolastique, Roma 1950. Testo

  10. De Libera, La philosophie médiévale, 290: «Contrairement à ce que l'on dit, Berengar ne nie pas la présence réelle, il nie simplement que cette réalité soit sensible: une présence spirituelle est réelle, elle n'est, pour autant, ni physique ni matérielle». Testo

  11. Denz 690. Testo

  12. Cf. K. Flasch, Introduzione alla filosofia medievale, Torino 2002, 56-61. Testo

  13. Ibid., 61-63. Testo

  14. H. Weisweiler, «Sakrament als Symbol und Teilhabe. Der Einfluß des Ps.-Dionysius auf die allgemeine Sakramentenlehre Hugos von St. Viktor», in Scholastik 27(1952), 325. cf. 321-343. Anche Van den Eynde, Les définitions des sacrements, 27-29. Testo

  15. Expositio in Hierarchiam coelestem Dionysii Areopagitae III (PL 175,964a): «Discernamus ergo signum a veritate et sciamus aliud esse quod foris sensui erudiendo apponitur, aliud autem quod intus animo beatificando reservatur»; cf. ibid. (PL 175,961d): «Aliud enim est veritas atque aliud signum veritatis, quia signum veritas non est, etiam cum veritatis signum est et verum est». Testo

  16. Epistulae 98,9: «Si enim sacramenta quandam similitudinem earum rerum quarum sacramenta sunt non haberent, omnino sacramenta non essent». Testo

  17. DS I,ix,2 (Berndt, 210): «Debet enim omne sacramentum similitudinem quandam habere ad ipsam rem cuius sacramentum est secundum quam habile sit ad eandem rem suam repraesentandam». Testo

  18. De sacramentis legis naturalis et scriptae (PL 176,34d): «D<iscipulus>: Quid interest inter signum et sacramentum? M<agister>: Signum solum ex institutione significat, sacramentum etiam ex similitudine repraesentat», formula ripresa quasi letteralmente dall'autore della Summa Sententiarum (PL 176,117c): «sacramentum non solum ex institutione significat, sed etiam ex similitudine repraesentat». Testo

  19. DS I,ix,2 (Berndt, 209): «non omne signum sacrae rei sacramentum [est delevi] eiusdem convenienter dici potest». Testo

  20. J.-L. Marion, «La fenomenalità del sacramento: essere e donazione», in N. Reali (ed.), Il mondo del sacramento. Teologia e filosofia a confronto, Milano 2001, 136-137. cf. 134-154. Testo

  21. STh III, q. 64, a. 3,. resp. Testo

  22. DS, I,ix,2 (Berndt, 210): «Est ergo aqua visibile sacramentum et gratia invisibilis res sive virtus sacramenti. Habet autem omnis aqua ex materiali [nateriali emendavi] qualitate similitudinem quandam cum gratia Sancti Spiritus. quia sicut haec abluit sordes corporum, ita illa mundat inquinamenta animarum. Et ex hac quidem ingenita qualitate omnis aqua spiritalem gratiam repraesentare habuit». Testo

  23. Weisweiler, Sakrament als Symbol und Teilhabe, 325. Sulla similitudo come caratteristica peculiare del sacramento nel pensiero di Ugo di S. Vittore cf. L. Karfíková, «Symbol und Unmittelbarkeit. Zur Interpretation des dritten Buches In Hierarchiam coelestem Hugos von St. Viktor», in E. Naab (ed.), Ex latere. Ausfaltungen communialer Theologie, Eichstätt 1993, 45-47. cf. 32-55. Testo

  24. DS I,ix,2 (Berndt 210): «Et ex hac quidem ingenita qualitate omnis aqua spiritalem gratiam repraesentare habuit, priusquam etiam illam ex superaddita institutione significavit. Venit autem Salvator et instituit visibilem per aquam ablutionem corporum ad significandam invisibilem per spiritalem gratiam emundationem animarum. Et ex eo iam aqua non ex sola naturali similitudine repraesentat, sed ex superaddita etiam institutione significat gratiam spiritualem». Testo

  25. Expositio in Hierarchiam coelestem II (PL 175,941b): «Symbolum est collatio formarum visibilium ad invisibilium demonstrationem»; cf. III (PL 175,960d): «Supra iam diximus quid sit symbolum, collatio videlicet, id est coaptatio visibilium formarum ad demonstrationem rei invisibilis propositarum»; VIII (PL 175,1082d): «symbolum erat hierarchicum, id est figura hierarchica, quia hierarchia visibilibus figuris utitur ad invisibilium demonstrationem». Testo

  26. Expositio Expositio in Hierarchiam coelestem III (PL 175,961ab): «Utraque haec convenienter manifestantur non solum per similia symbola, id est non solum per pulchras et decentes atque eorum maiestati et puritati congruas sive consimiles figuras et formas, sed etiam per dissimilia symbola, id est per tales formas et descriptiones, quae ab eorum excellentia alienae et puritate indignae videantur». Testo

  27. Ibid. (PL 175,968c): «turpis et indecens formatio [...], immundas compositiones»; ibid. (PL 175,979b): «indecoras similitudines». Testo

  28. Expositio in Hierarchiam coelestem III (PL 175,961cd): «Ergo symbola similia in demonstrationem ad hoc proposita sunt, ut invisibilium veritatem specie consimili ostenderent, dissimilia autem, ut significando a figura ad veritatem exeundum et non remanendum in iis, quae vera esse non poterant, demonstrarent. Ergo quantum similia symbola praecellunt specie, tantum [tamen emendavi] dissimilia symbola transcendunt significatione, quoniam, etsi illa habent speciem pulchriorem, tamen ista significationem tenent manifestiorem. Illa veritatem ostendunt; ista a falsitate exire compellunt. Illa sic veritatem significant, ut facile possit rudis animus in eis detineri; ista sic erudiunt, ut non sinat in sui veneratione animos considerantium falli. Illa, cum sint signa veritatis, tamen aliquando fortassis se pro veritate propter excellentem speciem recipi facerent, nisi ista signa essent, in quibus veritas non creditur, etiamsi per ipsa veritas significetur». Testo

  29. Cf. R. Roques, L'univers dionysien. Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Denys, Paris 1954; P. Scazzoso, Ricerche sulla struttura del linguaggio dello pseudo-Dionigi Areopagita, Milano 1967; Y. de Andia, Denys l'Aréopagite et sa postérité en Orient et en Occident, Paris 1997; S. Lilla, Dionigi l'Areopagita e il platonismo cristiano, Brescia 2004. Testo

  30. R. Roques, «Connaissance de Dieu et théologie symbolique d'après l'Expositio in Hierarchiam coelestem Sancti Dionysii de Hugues de Saint-Victor», in Id., Structures théologiques de la gnose à Richard de Saint-Victor. Essais et analyses critiques, Paris 1962, 330. cf. 294-364. Testo

  31. De coelesti Hierarchia II,3 (PG 3,241ab; trad. ital. P. Scazzoso, Dionigi Areopagita. Tutte le opere, Milano 41999, 84-85). Testo

  32. Expositio in Hierarchiam coelestem III (PL 175,989a): «Nunc autem ipsa deformitas interveniens compellit animum egredi a figura ad veritatem, animum dico non valentem remanere in iis quae per se indigna sunt et incongrua divinorum veritati». Testo

  33. Ibid. (PL 175,970c): «Propterea enim aenigmata et parabolae et figurae in mystico eloquio Scripturarum apponuntur, ne veritas spiritualium rerum carnalibus et immundis spiritibus patescat, et ut simul studiosos et devotos ipsa sua profunditate exerceat». Testo

  34. Expositio in Hierarchiam coelestem II (PL 175,941bc): «Symbolum est collatio formarum visibilium ad invisibilium demonstrationem. Anagoge autem ascensio sive elevatio mentis est ad superna contemplando. Notat autem hic duplicem modum revelationis divinae, quae theologorum et prophetarum mentibus infusa est per visiones et demonstrationes, quas Graeci theophanias appellant, id est divinas apparitiones. Quoniam aliquando per signa sensibilibus similia invisibilia demonstrata sunt, aliquando per solam anagogen, id est mentis ascensum, in superna pure contemplata». Testo

  35. Ibid. (941cd): «Ex his vero duobus generibus visionum duo quoque descriptionum genera in sacro eloquio sunt formata: unum, quo formis et figuris et similitudinibus rerum occultarum veritas adumbratur; alterum, quo nude et pure sicut est absque integumento exprimitur. Cum itaque formis et signis et similitudinibus manifestatur quod occultum est vel quod manifestum est describitur, symbolica demonstratio est; cum vero [puro delevi] pura et nuda revelatione ostenditur vel plana et aperta narratione docetur, anagogica». Testo

  36. Roques, Connaissance de Dieu et théologie symbolique, 337. Testo

  37. Ibid. Testo

  38. Ibid. Testo

  39. Expositio in Hierarchiam coelestem III (PL 175,975c): «Sic quod Deus est, ad creaturam comparatum, amplius excellens invenitur quam quod summum est conditum ad ea, quae sunt ima vel extrema facta, comparatum. Non ergo secundum ista potest cogitari Deus quod est, quoniam aliud est et aliter est et longe et remote et dissimiliter; et quid est dici non potest». Testo

  40. De doctrina christiana II,10,15. Testo

  41. De Scripturis et scriptoribus sacris 3 (PL 175,1b): «Dicitur allegoria quasi alieniloquium, quia aliud dicitur et aliud significatur, quae subdividitur in simplicem allegoriam et anagogen. Et est simplex allegoria, cum per visibile factum aliud visibile [invisibile emendavi] factum significatur. Anagoge, id est sursum ductio, cum per visibile invisibile factum declaratur». Testo

  42. Roques, Connaissance de Dieu et théologie symbolique, 363. Testo

  43. Ibid., 362-363. Testo

  44. Expositio in Hierarchiam coelestem III (PL 175,987bc): «Sic ergo in una eademque re et in similibus figuram a veritate separant, et in dissimilibus veritatis societate figuram veritatis honorant, quoniam et illa, cum alia ostenduntur, discernuntur et ista, cum ad similitudinem coaptantur, honorantur. Sic enim conveniens erat ut id quod factum est omne, ad Creatoris excellentiam comparatum, et in sublimibus demonstraretur non esse aequale et in infimis non esse dissimile. Quia enim factum est, non potest ad aequalitatem esse comparabile et quia ab eo factum est, non potest illi, a quo factum est, omnino esse dissimile». Testo

  45. De coelesti Hierarchia I,3 (PG 3,124; trad. ital. Scazzoso, 79). Cf. Ugo di San Vittore, Expositio in Hierarchiam coelestem II (PL 175,951b-953d). Testo

  46. Expositio in Hierarchiam coelestem II (PL 175,951bc): «Sane hic notandum quod quidam ex hoc loco munimentum erroris sui dicere putaverunt, dicentes in sacramento altaris veritatem corporis et sanguinis Christi non esse, sed imaginem illius tantum et figuram». Testo

  47. Ibid. (PL 175,951d-952b): «Quid enim? Nunquid ideo sacramentum altaris veritas non est, quia figura est? [...] Ergo mors Christi vera fuit, et tamen exemplum fuit; et resurrectio Christi vera fuit, et tamen exemplum fuit. Quare ergo sacramentum altaris similitudo esse non potest et veritas? In alio quidem similitudo et in alio veritas». Testo

  48. Ibid.: «In alio quidem similitudo et in alio veritas. Nam, cum unum sit sacramentum, tria ibi discreta proponuntur, species, scilicet visibilis, et veritas corporis et virtus gratiae spiritualis. Aliud est enim visibilis species, quae visibiliter cernitur; aliud est veritas corporis et sanguinis, quae sub visibili specie invisibiliter creditur, atque aliud gratia spiritualis, quae cum corpore et sanguine invisibiliter et spiritualiter percipitur». Testo

  49. DS I,ix,2 (Berndt, 209-210): «Si quis autem plenius et perfectius quid sit sacramentum diffinire voluerit, potest dicere quia sacramentum est corporale vel materiale elementum foris sensibiliter propositum ex similitudine repraesentans et ex institutione [exstinctione emendavi] significans et ex sanctificatione continens aliquam invisibilem et spiritualem gratiam». Testo

  50. Cf. Karfíková, Symbol und Unmittelbarkeit, 46: «In seiner Significare-Relation ist das Sakrament ein Zeichen (es hat eine durch seine Einsetzung bestimmte Referenz, nämlich "eine geistige Gnade"), in seiner Repraesentare-Relation ist es ein Symbol (es ist eine unähnliche-ähnliche Darstellung des Gemeintes), in seiner Conferre- (oder Continere-)Relation unterscheidet es sich letztlich sowohl vom Zeichen als auch vom Symbol». Testo

  51. DS I,ix,2 (Berndt, 210): «Omne enim quod haec tria habet sacramentum est et omne quod his tribus caret sacramentum proprie dici non potest. Debet enim omne sacramentum similitudinem quandam habere ad ipsam rem cuius sacramentum est, secundum quam habile sit ad eandem rem suam repraesentandam; institutionem quoque per quam ordinatum sit ad illam significandam; postremo sanctificationem per quam illam contineat et efficax sit ad eandem sanctificandis conferendam». Testo

  52. Cf. H. Weisweiler, Die Wirksamkeit der Sakramente nach Hugo von St. Viktor, Freiburg i.B 1932, in particolare 44-53. Testo

  53. Expositio in Hierchiam coelestem II (PL 175,952b-953c): «Et speciem quidem visibilem sacramentum esse veri corporis et veri sanguinis; corpus autem et sanguinem sacramentum esse gratiae spiritualis [...] Et sic quidem, cum tria in uno ibi sint, in primo quidem signum invenitur secundi, in secundo autem causa tertii, in tertio vero virtus secundi et veritas primi. Et haec tria in uno sunt et unum sacramentum». Testo

  54. DS I,ix,2 (Berndt, 210-211): «sed quia haec duo, ut diximus, nondum adhuc ad perfectum sufficiunt, accedit verbum sanctificationis ad elementum et fit sacramentum, ut fiat sacramentum aqua visibilis ex similitudine repraesentans, ex institutione significans, ex sanctificatione continens gratiam spiritualem [Ma poiché questi due elementi, la significazione e la somiglianza, come abbiamo detto, non sono ancora sufficienti per la perfezione, si aggiunge la parola della santificazione all'elemento e si fa sacramento, affinché l'acqua visibile sia sacramento, rappresentando mediante una somiglianza, significando mediante un'istituzione e contenendo la grazia spirituale mediante una santificazione]». Testo