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L'identità sessuata: volto, genere e differenza

di Stella Morra (15 luglio 2008)

Questo luogo su cui ci apprestiamo a riflettere, l'identità sessuata, caratterizzata cioè come maschile o femminile, si presenta anche metodologicamente come disomogeneo rispetto agli altri luoghi su cui abbiamo riflettuto e rifletteremo in questa occasione: infatti sia quanto all'oggetto in sé della riflessione, sia quanto alla relazione di questo oggetto alla tradizione cristiana, sia quanto al metodo in senso proprio, questo luogo mostra profondamente il suo essere «altro» e richiede dunque «altre» categorie e strumenti di comprensione.

Per quanto riguarda l'oggetto della riflessione in sé, se è vero che l'unica rivoluzione riuscita del '900 è quella delle donne, come ha scritto Luce Irigaray, siamo di fronte ad un luogo che non si pensa in crisi, a differenza degli altri citati, né si presta ad essere interpretato come luogo di sconfitta della modernità e della postmodernità; piuttosto, la riflessione e la pratica della identità sessuata come rilevante nei mondi delle donne vengono vissute come pacatamente e moderatamente soddisfacenti, sia nei propri contenuti che nei propri risultati e assai determinate a raggiungerne altri (almeno nei paesi occidentali e ricchi).

A fronte della tentazione che ci potrebbe cogliere di leggere la crisi dell'autocomprensione della postmodernità come una specie di occasione favorevole per reintrodurre elementi di identità cristiana, questo ambito, quella della riflessione sull'essere umano nella sua identità sessuata che, in particolare, nasce dalla riflessione delle donne, ci confronta con un pensiero che non si concepisce certo forte, non si è mai pensato tale fin dalla sua origine!, ma sicuramente si pensa progettuale, ha ancora degli obiettivi da raggiungere, vive di una propria vitalità, fino all'eccesso e dunque si presenta come estremamente differenziato, effervescente, con percorsi molto diversi, e di con grande ricchezza.

Questo luogo si presenta poi anche con una differenza in quanto oggetto rispetto alla sua relazione alla tradizione cristiana, perché, almeno nella forma di aucomprensione contemporanea, ha una storia molto recente e breve. Certo non possiamo davvero confrontarci con una tradizione, per esempio, dell'autocomprensione della vita spirituale come esperienza di i teriorità che è riflettuta, espressa, sistematizzata già in tempi e in luoghi pre-moderni.

Il nostro, invece, è un problema moderno, anzi postmoderno, che si è posto ai cristiani in una storia recente e che si è posto alla tradizione cristiana.1

Ma c'è anche una differenza di metodo: questo luogo della formazione dell'identità che è l'identità sessuata si pone esattamente in quell'incrocio dell'immediatezza, tra l'immediatezza del soggetto e la mediatezza della realtà, dove si costituisce una particolare forma della immediatezza della coscienza comune. E questo luogo richiede strumenti ed attenzioni metodologiche che sappiano articolare il sapere della realtà come si presenta con il sapere della teologia in una combinazione abbastanza inedita.

Parlare di uomini e donne e/o maschi e femmine (e vedremo che è diverso) quasi non ha neppure strumenti linguistici sufficenti, soprattutto in italiano. Per esempio abbiamo qui sempre detto, riferendoci all'antropologia, «uomo»: sembra banale, ma non è così scontato che così debba essere e così sia. Fuori di qui, in molti ambiti della vita e della scienza, questo è molto discusso ormai, da anni. E una revisione del linguaggio è un dato considerato di base ed acquisito. In tutti testi anglofoni è considerato politicamente scorretto non usare sempre il doppio pronome personale (he/she, him/her, ecc.) e nessuno userebbe, nei programmi di convegni e incontri, il termine «chairman», ma pittosto si scrive «chairperson». Questi esempi indicano in modo chiaro, speriamo, come, in uno dei luoghi dove la coscienza comune guadagna una certa immediatezza come nel linguaggio, la pratica della coscienza del soggetto finisce per trovare mediazioni di realtà che la conformano nella misura stessa in cui vengono usate.

1. Alcune premesse

C'è una domanda che sorge spontanea: è davvero necessaria una riflessione su questo luogo? È solo un prezzo che paghiamo ad una certa moda del tempo o c'è qualcosa di significativo per una antropologia teologica? Da un lato abbiamo un'evidenza pratica, tutti siamo uomini o donne, esistiamo in una differenza abitata; d'altra parte abbiamo, in ambito teologico, un grande silenzio teorico, al massimo alcune riflessioni pastorali o alcuni temi socio-pastorali, in specie spesso con toni rivendicativi. Ma tutto questo assume scarsa rilevanza teologica, come se non avesse una consistenza, se fosse solo un problema di appendici applicative, come se i quadri teorici si giocassero in modo indifferente rispetto a questa questione.

L'evidenza pratica accompagnata da un silenzio teorico, fuori dai mondi della teologia, corrisponde alla fatica crescente che riconosciamo in noi e negli altri, nell'essere, nel diventare, nell'educare a identificarsi come uomini e donne. È come se la mancanza di quadri più ampi rispetto alle esperienza biografiche finisca per lasciare ognuno solo e disorientato nella ricerca di una presenza a se stesso che sia anche sessualmente determinata. L'evidenza pratica diventa così anche l'evidenza di una difficoltà di identità praticabile.

Da questo punto di vista il primo scoglio che si incontra, nella ricerca di più ampie riflessioni teoriche, è uno scoglio linguistico: tutti abbiamo un'esperienza biografica, cioè il rapporto personale che ciascuno di noi ha raggiunto con il proprio essere maschio o femmina e con la collocazione che ha scelto in questo, ma questa esperienza biografica non significa ancora una competenza, che siamo cioè in grado di confrontarci con una distanza sufficiente che, normalmente, ci richiediamo gli uni gli altri in qualsiasi forma di lavoro scientifico.

Ad esempio, quando si è individuato questo nodo/luogo da affrontare nella preparazione di questo Congresso, è stato quasi automatico pensare che lo avrebbe dovuto presentare una donna; eppure, i maschi non sono forse sessuati? O forse loro possono occuparsi solo di una teologia che non sia implicata con la riflessione circa le condizioni del soggetto che la compie? Ma forse è vero che le donne hanno storicamente accumulato studi e sensibilità su questa questione, cioè le donne teologhe sono state in qualche modo costrette, dalla loro stessa biografia innanzi tutto, a pensare il loro essere sessuate anche nel fare la teologia. E questo direbbe allora di una urgenza di una questione maschile!

Un'ultima questione: c'è un intreccio culturale molto complesso su questi temi, la danza dei pregiudizi e delle precomprensioni che tutti sperimentiamo a causa della crisi della postmodernità e della nostra frammentazione interna, qui si moltiplica e si amplifica. E questo è il tipico caso dove gli estremi si toccano: cioè dove la danza dei pregiudizi e delle precomprensioni crea strane saldature su singoli problemi, ma fa perdere di vista (e si tratta di una grave perdita per tutti) i quadri di riferimento generali e dunque finisce per non offrire apporti significativi e credibili per una antropologia convincente. Continua infatti ad analizzare frammenti. E sui frammenti le femministe più accese sono d'accordo con documenti molto restrittivi e le femministe più moderate e pensose, o le donne che riflettono sui loro percorsi, faticano invece a stare in quelle posizioni, e tutta questa serie di frammenti non costituisce e non riesce a costruire un quadro almeno linguistico minimo e condiviso su cui sia possibile lavorare.

2. Chiarimenti terminologici: di cosa stiamo parlando?

Si impone dunque la necessità di un chiarimento terminologico che, per lo meno nello spazio di questo nostro discorso comune e senza l'ambizione di stabilire unificazioni impossibili allo statodella questione, ci consenta di orientarci nel percorso. Come abbiamo già detto, il patrimonio è amplissimo e molto fluido. E soprattutto è molto difficile ricostruire itinerari e genealogie di pensiero, non c'è storia abbastanza. Si tratta infatti di una riflessione che, negli ambiti più «antichi» (cioè ad esempio nell'ambito della esegesi biblica) ha 120/150 anni di storia e negli ambiti, ad esempio, della teologia sistematica ne ha forse 40 o 50. Quindi lo stato è ancora molto magmatico.

Con molta circospezione, possiamo in qualche modo individuare comunque quattro grandi quadri di riferimento, quattro orientamenti terminologici e di pensiero che, per un certo verso, nascono l'uno come eresia dell'altro, come correzione, ma non sono necessariamente e rigidamente in successione, presentano anche coesistenze e soprattutto si articolano anche in figure complesse all'interno delle singole pensatrici e pensatori.

Il quadro più antico, quello in qualche modo originario, è quello che viene normalmente definito il mondo del femminismo. Si presenta, innanzi tutto e sicuramente, come l'espressione della rivolta di un soggetto marginale contro l'universalità del soggetto maschio; è una forza di azione prima di tutto, ma anche di riflessione, che nasce in reazione a qualcosa che esisteva prima e che era la definizione implicita del soggetto universale come maschio, bianco, adulto, sano di mente e produttivo. Questo soggetto di potere e di azione si definisce, in epoca moderna, come l'inevitabile soggetto del cogito e tutte le condizioni marginali che ne costituiscono il confine, le donne, i non bianchi, i non adulti, i non produttivi e i non sani di mente (che dunque definiscono l'identità del soggetto per sottrazione) vengono interpretati come «condizioni» che dunque devono definire la loro specificità.2

Queste «condizioni particolari», di cui quella delle donne diventa, almeno in Europa e negli Stati Uniti, una sorta di portabandiera cercano una collocazione e un ruolo sociale; negli anni '50 e '60 c'è una domanda che ha molto abitato questo dibattito: c'è uno specifico femminile? La rivolta dei soggetti marginali nei confronti di una autocmprensione implicita del soggetto che non è solo una autocomprensione teorica, ma molto di più una autocomprensione pratica, pone questo primo ambito, con un forte rischio di ghettizzazione di ritorno.

Non a caso molto di quel movimento è diventato un movimento separatista, che ha cioè teorizzato l'incompatibilità e l'impossibilità di una convivenza, oppure ha teorizzato la sostituzione dei livelli di potere (per trentamila anni avete governato il mondo, adesso tocca a noi), che non riflette tanto sul potere in sé, ma punta soprattutto invece a risultati concreti. L'accento è dunque soprattutto sui temi della emancipazione e della rivendicazione.

In reazione esattamente a questa deriva, nasce un quadro di riferimento che ha invece avuto un grande interscambio e che ha anche accolto molto che veniva da fuori, dalla riflessione maschile, ma che diventa molto fecondo nel mondo della riflessione delle donne, ed è quello che è stata definita la cultura dell'alterità. L'accento si pone, in questo caso, sull'alterità come esperienza di parzialità, ognuno è altro da un altro.

Dunque ognuno è una parte, e questa questione dell'alterità ha come centro e fuoco caratteristico di riflessione tutti i temi riguardanti la relazionalità. Relazionalità tra sé e gli altri, tra sé e la natura, tra sé e la realtà del mondo, tra sé e un Dio/un Sacro, ecc...

L'accento è soprattutto filosofico: dal punto di vista metodologico la cultura dell'alterità che comincia ad abbandonare il tema dell'essere solo delle donne, e comincia invece ad essere diffusa, incrocia soprattutto contributi della filosofia e propone le donne come caso tipico e tipologico di una alterità storicamente percorsa. Non solo le donne sono «altre», tutti sono altri, ma il caso storico delle donne è il caso dove alcune questioni si sono viste e sperimentate.

Ancora in reazione a questo, in reazione alla tentazione di una certa genericità delle cultura dell'alterità, nasce un quadro di riflessione che è stato poi convenzionalmente chiamato la cultura della differenza, e si tratta di un passo in più rispetto alla questione dell'alterità: in fondo la cultura della alterità conserva una specie di innocente desiderio che la alterità possa essere curata, che sia una malattia che dipende dalla storicità o dal peccato, ma che alla fine potrà (potrebbe) essere ricondotta ad una unificazione.

La cultura della differenza suppone invece che la differenza non sia una patologia, che la differenza sia il plurale, e dunque pone la parzialità dell'essere altri come tema identitario: non semplicemente ognuno di noi è altro da un altro e dunque parziale. Ma è piuttosto proprio l'essere parziale che ci dà una identità storicamente determinata, che mi dice chi sono perché mi rende un sistema aperto, rende la mia identità non un risultato (pre-scritto o raggiunto) ma piuttosto la rende il percorso delle parzialità.

Questa area è forse quella soggetta, proprio per il suo metodo e contenuto, alla più ampia variazione interna e a mille semplificazioni: ad esempio, il nome che dentro una certa riflessione ecclesiale questo percorso ha assunto è il tema della reciprocità, che tende a smorzare l'eccessivo relativismo della differenza, ma mantiene il suo carattere aperto, uomini e donne sono visti, anche a partire dalla lettura di Genesi, come reciproci, come assimmetricamente reciproci. E su questo avverbio si potrebbe discutere.

Ma la questione rimane questa: la cultura della differenza porta in sé in modo implicito l'idea di poter immaginare la parzialità come forma di identità. Ovviamente questo è stato molto stimolante, ad esempio, per le esegete, che hanno lavorato sulla Bibbia: che significa leggere il tema della immagine e somiglianza a partire da questa acquisizione? La parzialità creaturale stessa è struttura identitaria e si apre da questo punto un filone di studi piuttosto fecondo.

In termini generali, dunque, la sottolineatura della parzialità come identità finisce per avere un tono privilegiatamente politico, tende cioè soprattutto a «»praticare» le parzialità, nella logica di ciò che Brambilla diceva sulle identità come atto pratico. In questa riflessione la cultura della differenza è molto forte e usa metodologicamente soprattutto gli strumenti della sociologia e dell'antropologia.

Anche però questa riflessione viene in qualche modo criticata dal quadro successivo, che è quello di più relativamente recente nascita, da un nuovo quadro proposto che è quello della questione del genere:

La riflessione antropologica e filosofica contemporanea ha messo a fuoco in anni recenti il concetto di «genere», che viene ora applicato come criterio euristico in diversi ambiti di studi e pratiche. Esso è stato sviluppato, tra gli anni '70 e gli anni '80 del XX secolo, soprattutto in ambito anglofono, e in particolare americano, in dialettica relazione col pensiero della differenza sessuale, sviluppato in precedenza soprattutto in ambito europeo continentale, nell'alveo del pensiero femminista.

La categoria di «genere» è stata concepita come evoluzione di quella di differenza sessuale, a seconda dei casi, come ampliamento, approfondimento o superamento di quest'ultima; nella concezione di alcuni studi, addirittura, come liquidazione di essa, accusata di essere correlativa a una concezione eterosessuale e di restare legata alle differenze biologiche, manifestatesi a livello corporeo.

Il «genere», come costruzione culturale e sociale dei ruoli e delle attribuzioni, dipendente dai rapporti di potere, è concepito come correlato non ovvio del sesso, del dato naturale e biologico.3

La domanda di partenza di questa riflessione è intorno all'origine e alla causa della parzialità identitaria della differenza: questa parzialità da dove viene, quale è la sua origine? La parzialità che riguarda ciascuno, uomini e donne, è una parzialità originaria oppure/e una parzialità costruita? Il quadro di riferimento della questione del genere tende a sottolineare gli aspetti di costruzione culturale e sociale di questa identità e a ragionare soprattutto sul nodo del rapporto tra mediatezza e immediatezza nell'identità. Questo è un po' il tema principe nella questione della cultura di genere.4

Dunque tema che ci chiama in causa in modo inevitabile; a questo punto, infatti, benchè i soggetti che si sono dedicati a questi studi siano per lo più donne, o meglio benchè la pratica di questo tipo di pensiero sia più diffusa nei mondi di studio femminili/femministi, esso assume il carattere di non essere più un pensiero né sulle, né dalle, né delle donne, ma di essere un pensiero che riguarda piuttosto il carattere di genere di ogni nostro atto e esperienza, degli uomini e delle donne. Per me, per noi, questa è la riflessione interessante, la questione dell'identità sessuata, non quella dell'identità femminile. E d'ora in avanti ragioneremo sempre avendo questo come riferimento.

Da questo punto di vista la questione del genere è una questione estremamente complessa che ha aspetti, esponenti, autori, autrici molto esasperate fino alla teorizzazione della totale autodeterminazione del genere (non ci sarebbe nulla di dato e il genere sarebbe unicamente socialmente e culturalmente costruito e quindi potrebbe e dovrebbe essere «liberata» e affidata alla totale autodeterminazione del singolo individuo). E insieme si suppone che la tecnica (sia medica che cyborg, ad esempio) sia in grado oggi (e se non lo è ancora del tutto lo sarà comunque tra poco) di intervenire per mutare ciò che la natura eventualmente non consente, perché l'autodeterminazione, liberata da condizionamenti socioculturali dovrebbe potersi liberare anche dai condizionamenti biologici per poter essere totale.

Ovviamente, queste posizioni radicali sono per noi totalmente inaccettabili, per motivi sia di convinzioni antropologico-teologiche (alla creatura non si dà autodeterminazione totale su di sé, c'è un dato, un ricevuto meglio, che ci viene dalle mani, benevole, del Creatore e che anzi è il meglio di noi che dalla fine dei tempi ci chiama), ma sia anche per motivi inerenti proprio alla riflessione in sé. Queste posizioni radicali, infatti, negano ogni dato di genere come ricevuto e suppongono una volontà assoluta del soggetto, non solo negandone la dimensione biologica, ma anche supponendo che il soggetto possa determinarsi astraendo da qualsiasi elaborazione culturale ricevuta.

D'altra parte ci sono posizioni molto più moderate e interlocutorie, e sono queste per noi le più interessanti, che cercano di indagare sulla riconosciuta relazione fondamentale, quella tra sesso (biologico) e genere (socio-culturale). La apparente datità del corpo e del suo carattere sessuato è sufficiente? Siamo così materialisti da pensare che i caratteri sessuali primari che alla nascita vengono riconosciuti in ciascuno di noi dicano il tutto? E che cosa succede poi? Più volte in questi giorni il tema del corpo come esperienza simbolica è stato evocato e richiamato, perché è tema molto denso e importante per una teologia che ha alla sua radice il paradigma dell'incarnazione. Ma che cosa significa allora il rapporto tra il dato biologico, ciò che la lingua anglosassone chiama sex, della determinazione sessuale e tutto il portato simbolico, appunto, di ruoli e di cultura, già riferito al corpo biologico stesso? Non è solo la datità biologica che mi determina, ricevo in una tradizione reale una coscienza comune di ciò che il nome che mi è dato significa.

Allora è ovvio che il nodo critico rispetto a questa posizione del genere è esattamente il nodo del corpo:

Il corpo appare come portatore di un'ambivalenza di fondo nell'essere assunto quale referente immediato della questione di genere. Da un lato, tale ambiguità si lascia comprendere proprio in ragione dell'immediatezza con cui la datità del corporeo rimanda alla figura, semanticamente più ampia, della differenza di genere.

D'altro lato, l'ambivalenza sembrerebbe essere dovuta anche al fatto che il corpo, in se stesso, non definisce la qualità dell'evidenza di cui è portatore e referente. [...] Quasi a bilanciamento del fisicismo biologico che tende a ridurre la questione di genere al carattere sessuato del corpo umano, si pone un filone ermeneutico caratterizzato da una marcata sottolineatura della valenza simbolica iscritta all'interno della differenza sessuale (e, conseguentemente, all'interno della relazione fra soggettività che si danno -- e si intrecciano -- solo in quanto sessualmente caratterizzate nel loro corpo).5

Infatti il corpo è il luogo in cui la datità biologica si articola con un dato simbolico che non è ancora immediatamente la mia sola elaborazione, che non è ancora proprio e totale della mia coscienza, ma dipende, per esempio, dal rapporto con la madre, da come vengo educata e vestita; tutto ciò esige da me una riappropriazione che non è ovviamente meccanica: l'esercizio di riappropriazione di una datità seconda è già un esercizio di identità, per esempio nella misura in cui mi confronto con il modello maschile o femminile che ricevo, e in cui sono chiamata ad esercitarmi nell'uguaglianza e nella differenza. Per dirla sinteticamente, l'identità si determina in una pratica corporale significante. Capisco che l'affermazione è provocatoria, dopo tutte le riflessioni fin qui fatte, ma ci pare di poter ricevere, dalla riflessione sul genere, che l'esperienza di identità che ciascuno di noi fa (e non si tratta di un riduzionismo psicologistico) è una esperienza storica della determinazione progressiva di una pratica corporale significante il cui esito è inscritto insieme alla mia libertà nella datità ricevuta (biologica, culturale e creaturale).

Nessuno di coloro che incontro vede il mio «io»: ciò che di me è incontrato, ciò per cui sono ri-conosciuta è la pratica significante del mio corpo. E non è mai una pratica che invento, perché è una pratica che si fonda sul dato biologico e che ri-nasce dentro lo stato simbolico della cultura in cui sono, della storia dei ri-conoscimenti e delle delusioni ricevute, della accumulazione delle delusioni e delle feste che gli occhi degli altri mi hanno offerto, e così via. E gli occhi degli altri sono gerarchicamente ordinati rispetto alla mia determinazione (e riappropriazione) identitaria: il riconoscimento di una madre per una figlia ha un peso che è molto diverso dal riconoscimento o dall'invidia della compagna di banco.

In questo senso cosa potrebbe voler dire cominciare a pensare all'identità, anche alla identità cristiana, come una identità che si determina in una pratica corporale significante? Solo a titolo di esemplificazione indicativa, significa ad esempio che la questione ecclesiale non viene come questione seconda, successiva alla determinazione e alle scelte «interiori» dell'individuo, ma piuttosto che solo in un tessuto di pratiche corporali (liturgiche, caritative...) come esperienza di chiesa si dà un'identità cristiana che incida e performi insieme le pratiche corporali significanti.

Come ovvio si potrebbe e si dovrebbe continuare, per questo vorremmo offrire un secondo passo, che indichi le strade che ci piacerebbe percorrere.

3. Un quadro interpretativo teologico: cosa vorremmo pensare?

Questo secondo punto sarà molto più schematico, perché è un elenco di aree di riflessione su cui ancora non è possibile un'articolazione completa e pacata; piuttosto si tratta di uno schema di lavoro possibile, in cui integrare ciò che già si pensa insieme alle domande che si pongono come nuove. Ci sembra comunque interessante mostrare la possibile fecondità posta alla teologia da questo itinerario di riflessione sull'essere sessuato dell'essere umano. Ci chiediamo: che cosa vorremmo (poter) pensare?6

E vorremmo prendere le mosse dalle tre parole che si trovano anche nel titolo: volto, genere, differenza. Si tratta di un intreccio tra biografia, riflessione e linguaggio, non come uno slogan, ma piuttosto per la potenzialità speculativa generata dal tenerli insieme, e dal tenere insieme simbolico, biologico e sociale. La teologia ha sempre come sirena, come rischio, di occuparsi solo (anche se non è poco!) del simbolico. Riteniamo di aver superato i rischi del razionalismo, perché non ci occupiamo più solo di concettuale, ma rischiamo di aver solo allargato il concettuale al simbolico. Ma esistono almeno altre due dimensioni, il biologico-biografico e il sociale, che non possono essere considerati delle appendici, che vanno pensati insieme.

In questo senso volto, genere e differenza ci sembrano tre coordinate, tre elementi che ci provengono dai quadri di cui abbiamo fin qui parlato prima.

Da qui discende la nostra I tesi previa: in ogni riflessione teologica sull'identità umana è necessario tenere insieme biologico, simbolico, sociale come decrittatori dello storicamente collocato.

Ma questa prima tesi non può essere disgiunta dalla II tesi, inevitabile per una riflessione che si voglia teologica: il rapporto con Dio conforma la nostra identità e viceversa; se la prima parte della tesi è autoevidente e stabilisce la relazione fondamentale tra Creatore e creatura, più critico può sembrare il «viceversa»: in questo caso indica che l'autocomprensione che abbiamo di noi come soggetti conforma, quanto a noi, il linguaggio, la concettualizzazione, l'esperienza che possiamo riconoscere del nostro rapporto con Dio.

L'insieme di biologico, simbolico e sociale, che costituisce progressivamente la nostra identità nell'articolazione della nostra libertà non solo non è indifferente, ma adirittura finisce per essere discriminante circa le forme in cui diamo conto in teologia della esperienza di Dio e della nostra comprensione della sua Rivelazione in Cristo.

Ci sembra che questa esigenza oggi possa essere profondamente arricchita dagli strumenti categoriali raggiunti dalla riflessione delle donne. Ma ci sembra anche che la teologia mostri singolari resistenze e diffidenze a questi apporti. Proveremo ad indicare al paragrafo 3 alcuni di questi punti di difficoltà.

Cominciamo ora a tracciare una mappa delle strutture categoriali che ci possono aiutare e provocare provenendo dalla storia di riflessione che abbiamo cercato di tracciare.

Il primo elemento ci viene dalla categoria della differenza nella misura in cui non viene considerato un problema di contenuto, cioè non in quanto cerca di trovare nuovi o vecchi specifici, lo specifico femminile, lo specifico maschile, lo specifico laicale, lo specifico presbiterale, ecc., ma piuttosto come provocazione di metodo e struttura, il metodo della parzialità, del punto di vista non egemone. È un punto di vista sempre dal confine e mai dal centro, considera permanentemente la domanda che l'altro è per me.

In questo nostro congresso ci eravamo dati una opzione, interrogare la cultura contemporanea come la domanda che la cultura altra è per noi, per la nostra migliore comprensione dell'identità umana: ci stiamo riuscendo?

Da questo punto di vista, questa questione, che è forse quella già più elaborata, ha un tema paradigmatico che è l'altro come interno. Con tema paradigmatico intendiamo la questione di contenuto, già abbastanza articolata, che fa da paradigma per l'insieme della provocazione.

E la categoria della differenza presenta anche un chiaro aggancio con la teologia, quasi una matrice teologica piuttosto chiara che viene chiamata in causa, che è la riflessione trinitaria, là dove uguaglianza e differenza si mostrano in comunione e dove possiamo avere un riferimento per una parzialità non relativista.

Ma poi ci si presenta un secondo apporto, che è quello del genere,7 appunto: in questa differenza c'è uno specifico, che non è uno specifico qualsiasi, c'è una differenza originaria e non patologica, precedente al racconto del peccato originale, dato che si è uomini o donne prima del racconto del peccato originale. Solo dopo ci sono tutte le altre differenze, che risultano sempre un po' sospette di patologia.

Questa non qualsiasi differenza che è il genere, è una differenza di corpo, ma anche di storia e di cultura nella articolazione con la natura. Questa questione, più che un tema paradigmatico, essendo ancora molto immatura, si presenta con un nodo problematico: pieno e denso di conseguenze, e che è la questione posta sul bilanciamento tra produzione e ricezione dell'identità. Ciò che siamo è scritto alle nostre spalle o davanti a noi? O ancora in cielo? O è scritto nei nostri piedi, nei passi che facciamo? Come comprendiamo l'equilibrio tra l'immagine posta in noi alla creazione, che leggiamo segnata nella datità della natura, e l'immagine che riceveremo l'ultimo giorno perfettamente conformati a Cristo, e come articoliamo la storia che unisce questi due punti e che, nell'intreccio di biografia, simbolico e sociale, apporta la nostra libertà a questo percorso?

La matrice teologica di riferimento è, ovviamente, la questione cristologica, che ci guida e che viene interpellata dalla nostra categoria in relazione alla necessaria corporeità storica; ma oggi rischia di essere dominante il topos della creazione a immagine e somiglianza di Genesi, come fosse diventato la chiave unica che apre tutte le porte dell'antropologia, e la cristologia rischiasse di non stabilire più una significativa differenza, se non uno svolgimento automatico, rispetto al dato protologico dell'immagine e somiglianza (forse anche per la difficoltà posta dalla specificità cristologica a fronte di un preteso facile universalismo del tema genesiaco).

Possiamo davvero dire che tutto è antropologicamente detto nell'immagine e somiglianza? E che l'incarnazione, la morte e la risurrezione non rivelano altra verità, se non il logico sviluppo dell'immagine e somiglianza? Pensiamo di no, ma questo significa che allora l'identità è innanzi tutto identità escatologica, non dietro, ma davanti a noi.8

Su questo, la riflessione di genere, la riflessione sul rapporto tra mediatezza e immediatezza, ma anche sulla datità del dato sociale e culturale condiviso, è strumento indispensabile (e non solo come apporto quasi esterno delle scienze umane, ma come questione teologica propria).

Il terzo apporto che ci si propone è la questione del volto: non del nome, ma del volto. Infatti, la centralità dell'unicità del soggetto viene detta qui cercando di evitare un fraintendimento: il nome, che pure caratterizza la mia identità e unicitò, è dato dall'uomo padrone, nelle culture patriarcali è la legge del padre che dà il nome; il volto invece è ciò che di me è riconosciuto dall'altro, non può essere narcisistico, né autodeterminato, ma è invece strutturalemente relazionale. Nel racconto creazionale, l'attribuzione del nome è potestà concessa da Dio come partecipazione al suo stesso gesto di creare; leggere se stessi in questa chiave è una tentazione che la «cultura dei padri» ha percorso come gesto di potere e possesso. Il volto invece è ciò che è scritto nella carne, e che mi viene restituito solo da chi ho di fronte a me, è lo sguardo della madre, e in questo senso ci offre una centralità e unicità del soggetto sana e indispensabile.

E qui ci troviamo non più con un tema paradigmatico, né con un nodo problematico, ma piuttosto con una struttura necessaria: corrispondente al volto si mostra la necessità della visibilità di questo, nasce la domanda sul cosa e sul come; come i volti stanno insieme e cosa sono i volti che stanno insieme? E cosa e come si vedono? Si tratta di trovare una pratica di riconoscimento possibile, dove la regola concreta che regge gli sguardi non ceda alla tentazione dell'invidia del potere, ma realizzi piuttosto uno sguardo benedicente, che ama la vita che incontra sul volto dell'altro.

E dunque la matrice teologica non può non essere che una riflessione sulla ecclesiologia possibile, su una pluralità e plenarietà, per citare Sartori, della ecclesiologia. Ed è la questione posta ad una ecclesiologia pratica, che si chiede del «cosa e del come» piuttosto che interrogarsi sul perché, una riflessione sulle forme di chiesa che assuma in pieno lo spessore di teologia, riconoscendo un valore non solo applicativo, né solo morale e questa dimensione.

Con una tabella, vorremmo riassumere la mappa di ciò che ci piacerebbe, insieme, uomini e donne, pensare; e ci piacerebbe farlo a partire dalla provocazione che viene dal fatto che il soggetto che pensa la teologia è già un soggetto sessuato, ma insieme dal prendere sul serio il segno dei tempi posto dalla storia del pensiero e della pratica di genere:

differenza
  • parzialità
  • punto di vista dal confine (non egemone)
  • la domanda che l'altro è per me
Il tema paradigmatico:
l'altro come interno
La matrice teologica:
una trinitaria
genere
  • corpo
  • di storia/cultura nella articolazione con la natura
Il nodo problematico:
produzione/ricezione dell'identità
La matrice teologica:
una cristologia escatologica
volto
  • centralità e unicità del soggetto
  • nel suo farsi storico
La struttura necessaria:
cosa e come
plurali e plenari
la matrice teologica:
un'ecclesiologia

I due estremi di questa tabella, la questione della differenza e la questione del volto, in qualche modo hanno già un discreto apparato disponibile di riflessioni condivise e di categorie, quanto alla loro articolazione non solo come temi in sé, ma anche esattamente come temi circa l'immediatezza della coscienza comune, come temi articolati (la questione dell'alterità come paradigma, quella della pluralità e plenarietà come regolazione della relazione tra uno e molti, ecc.). Ci sembra che offrano l'attenzione profetica ad evitare una autoattribuzione di universalità di soggetto, che i teologi sanno bene spettare solo a Dio. Ma insieme, considerati allo stato attuale del pensiero, ci sembra anche siano perennemente sottoposti a due rischi opposti, nella oscillazione tra una certa evanescenza di una alterità resa astratta e generica e una unicità di sé sempre tentata di autoreferenzialità.

Proprio a causa di questi rischi, ci pare fecondo introdurre la terza categoria, quella del genere, di fronte alla quale la nostra teologia si trova, a nostra parere, abbastanza impreparata: abbiamo una fatica di strumenti, di concetti, di categorie, di possibilità incisive di pensiero, fatica che viene anche da una certa non conoscenza e da una certa diffidenza.

È categoria che offre una possibilità di articolazione dei diversi elementi, ma che richiede uno grande sforzo speculativo dal punto di osservazione della teologia, capace anche di discernere tra le acquisizioni che gli studi di genere extra teologici offrono, assumendo e rifiutando non ideologicamente. A titolo esemplificativo, elenchiamo alcune delle domande che sarebbe davvero urgente esaminare:

4. Percorso de-genere: quali strade?

In forma di conclusione, vorremmo accennare come anticipato ad alcune delle fatiche che ci sembrano manifestarsi nella teologia di fronte alla sfida posta dalla questione del genere, e per questo abbiamo un po' provocatoriamente chiamato questo punto «Percorso de-genere».

Il primo punto da sottolineare ci sembra la fatica che la teologia continua ad avere con la storicità, con il dirla compiutamente, con il darne conto e non tanto nell'assumerlo come tema, ma nel farlo funzionare come una categoria, come un principio generatore. Siamo sempre tentati di affermare che ciò che viene dalla storicità attiene alla filosofia, o alle scienze umane, che la teologia si occupa di «principi». Eppure, se la categoria storia della salvezza ci è proposta da Vaticano II come categoria propriamente teologica, e se essa non ha unicamente valore descrittivo del passato (la storia compiuta da Dio con il suo popolo e che ha pienezza e compimento in Gesù Cristo), dobbiamo necessariamente trovare una ermeneutica della storicità soddisfacente.

La seconda questione è la difficoltà che la teologia ha a districarsi tra identità e identico, a causa dell'eccessiva contiguità di queste due aree semantiche nella cultura occidentale; identità non dice solo ciò che è proprio di ogni essere umano, ma dice l'essere uguali, identici appunto. Ci siamo pensati senza neppure più esplicitare questo presupposto nel cono d'ombra dell'identità come uguaglianza e oggi diffidiamo della differenza e dell'alterità, rischiando di farne evocazioni invece che realtà.

Di conseguenza, e si tratta del terzo punto, si produce una difficoltà nel pensare la differenza non in termini di specificità, né in termini di genericità, ma in termini di individuazione, della capacità cioè di farsi individui e individuali. Eppure il paradigma trinitario dovrebbe ben provocarci in questa direzione! Quale è la possibilità terza tra specifico e generico? Forse non lo sappiamo ancora trovare.

E per ultimo la difficoltà nel pensare una natura umana che sarebbe definita esattamente dall'essere dinamica e molteplice, cioè storica e creaturale, e di come tutta questa riflessione interroga la questione della verità. Cercare l'uscita dalla cosificazione della natura e della verità, per andare verso una natura storicamente compresa e una verità che è una persona, il Signore Gesù, ci sembrano compiti non più dilazionabili.

Ci sembra particolarmente interessante che ciò che individuiamo come fatica nella teologia non si presenta come una resistenza al tema della collocazione di genere in sé (questioni di donne?), ma piuttosto questioni che stanno occupando la riflessione comune; ne può dunque venire un guadagno per tutti...

Ma proprio per questo, vorremmo concludere con una poesia, di una donna, che dice della singolarità e della particolarità, se una lezione stiamo imparando è che tutti non è mai senza ciascuno:

Ah smetti sedia di esser così sedia!
E voi, libri, non siate così libri!
Come le metti stanno, le giacche abbandonate.
Troppa materia, troppa identità.
Tutti padroni della propria forma.
Sono. Sono quel che sono. Solitari.
E io li vedo a uno a uno separati
e ferma anch'io faccio da piazzetta
a questi oggetti fermi, soli, raggelati.
Ci vuole molta ariosa tenerezza,
una fretta pietosa che muova e che confonda
queste forme padrone sempre uguali, perché
non è vero che si torna, non si ritorna
al ventre, si parte solamente, si diventa singolari.9

[Relazione al XX Congresso nazionale dell'Associazione Teologica Italiana, L'identità e i suoi luoghi. L'esperienza cristiana nel farsi dell'umano, Oristano, 10-14 settembre 2007.]

5. Suggerimenti bibliografici

5.1. XX secolo: il secolo delle donne

5.2. Pensare al femminile, pensare femminista

5.3. Categorie e modelli relazionali

5.4. Teologia femminista

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Note

  1. Per questo motivo, il testo non è particolarmente ricco di note, ma rimandiamo invece alla bibliografia che si trova in appendice (di cui dobbiamo essere grati a Serena Noceti) perché sembrava interessante offrire qualche riferimento più ampio per chi fosse interessato a conoscere lo stato della questione. Testo

  2. Si vedano M. De Certeau, Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Troina, 2006, 184-187; S. Morra, L'altro che è Dio, in AA VV, Tanti mondi, un solo futuro. Quando le donne guardano al domani, Teramo, 1994. Testo

  3. M. C. Bartolomei, Genere verso Corpus e Simbolo?, in: M. Perroni (a cura di), Non contristate lo Spirito. Prospettive di genere e teologia: qualcosa è cambiato?, Il Segno dei Gabrielli Ed., Negarine, 2007, 9. Testo

  4. Per una lettura completa e documentata della nascita e delle possibilità della categoria «genere» si veda, con ampia bibliografia, S. Noceti, Di genere in genere, in: Vivens Homo, 18/2 (2008). Testo

  5. M. Neri, Configurazione del senso e mondo della vita. Suggestioni fenomenologiche intorno alla questione di genere, in: M. Perroni (a cura di), Non contristate lo Spirito. Prospettive di genere e teologia: qualcosa è cambiato?, Il Segno dei Gabrielli Ed., Negarine, 2007, 75-76. Testo

  6. Metodologicamente, questo secondo punto è stato pensato nel corso del seminario del Coordinamento delle Teologhe Italiane, svoltosi a Tivoli il 20-22 aprile 2007 dal titolo «Sui Generis»: se l'identità, infatti, si determina in una pratica corporale significante, il pensare una relazione da soli o in una biblioteca dà alcuni frutti, il pensare e poi condividere e discutere insieme dà anche altri frutti. E dunque così abbiamo fatto. Testo

  7. Qui viene considerato come l'insieme dei dispositivi (simbolici, psichici, culturali, di potere, ecc.) in cui una società organizza la sessualità biologica. Ci sono usi diversi; in particolare, ad esempio, il documento della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai vescovi della chiesa cattolica sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella chiesa e nel mondo, 31 maggio 2004, censura gli usi più radicali e, in questo, ha trovato l'assenso di numerose studiose della stessa area femminista. Si può vedere anche la molto articolata analisi svolta da Jacques Arenes all'Assemblea plenaria dei Vescovi Francesi del novembre 2006 (notizia su Il Regno/attualità 2/2007, 5) pubblicata integralmente su Il Regno/documenti 11/2007, 377-384. La possibile fecondità della categoria genere risiede, a nostro parere, nella sua capacità di tenere insieme modelli simbolici, pratiche di identità, relazioni sociali in una dimensione processuale. Testo

  8. Si veda in proposito, ad esempio, l'assai acuto e pungente saggio di E. Benvenuto, Imago Dei, in: Id., Fede e ragione. Scritti per «Bailamme», Genova, Marietti, 1999, pp. 324-335. Testo

  9. P. Cavalli, Poesie (1974-1992), Torino, 1992, 193. Testo