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Religioni per la pace? La dichiarazione Nostra Aetate: teologia delle religioni e dialogo interreligioso

di Sandra Mazzolini (18 luglio 2006)

L'interrogativo del titolo evoca scenari della nostra contemporaneità, i quali sembrerebbero offrire non soltanto una risposta negativa, quanto piuttosto indicare il fatto che le religioni motivano diverse forme conflittuali che rendono incerta la vita di molti popoli e gruppi umani, travalicando in qualche caso i confini delle Nazioni ove forme anche massive di violenza sono una tragica realtà quotidiana.

Si uccide e ci si uccide in nome di Dio. Le analisi puntuali, elaborate da studiosi di diverse discipline teologiche e non, tendono a precisare la fisionomia del fenomeno, individuando altre cause -- l'ingiustizia, la povertà, la discriminazione, lo sfruttamento, ecc. --, ricercate nell'odierno contesto -- ad esempio la globalizzazione, il non riconoscimento dei diritti umani, le forme politiche, ecc. -- o indagate nelle loro radici più antiche -- quali il colonialismo, l'egemonia politica e soprattutto economica dell'Occidente globalmente inteso. Se poi tali analisi si riferiscono al fatto religioso, in esse c'è la tendenza a distinguere tra i contenuti propri, correttamente intesi e declinati, di una specifica religione e la loro erronea interpretazione. La pertinenza di tale distinzione è certamente fondata; tuttavia essa è spesso estranea a colui che opera contro la pace e che motiva il suo agire con un riferimento più o meno generico al sacro.

La domanda "Religioni per la pace?" può essere compresa nel senso di un interrogarsi se le religioni in quanto tali disegnino necessariamente orizzonti di violenza nella storia umana, qualora esse, in modi differenti e a vari livelli, entrino in reciproco contatto. L'interazione delle diverse tradizioni religiose, che configura il nostro contesto contemporaneo in termini assolutamente inediti rispetto al passato -- basti pensare all'immigrazione nei Paesi tradizionalmente cristiani di persone portatrici di altri valori culturali e religiosi --, innesca necessariamente un circolo vizioso di violenza, oppure è un elemento utile e necessario per spezzare tale ciclo, innescato da altre cause? La formulazione di tali domande è semplice, non così i contenuti che esse veicolano; proprio per questo non è possibile elaborare risposte immediate e riduttive di tale complessità, alla quale allude l'interrogativo del titolo dell'incontro di questa sera.

Il processo di recezione del Vaticano II, processo dinamico che supera una mera e letterale ripetizione dei testi, offre elementi utili per una risposta articolata. Utilizzando come chiave di lettura la nozione di "dialogo", il mio intervento parte da alcune osservazioni sulla dichiarazione Nostra Aetate [NAe]; sviluppa poi due grandi aree tematiche, che possono essere intitolate rispettivamente "come si parla dell'altro" e "come si parla con l'altro". La scelta di trattare in questo modo l' argomento deriva da una semplice considerazione di un dato di fatto, esperienzialmente e storicamente verificabile, ovvero la relazione che si istituisce tra la violenza delle parole e la violenza dei fatti. Emblematica in tal senso mi sembra la Shoah; tutto ciò che è accaduto a partire dalla "notte dei cristalli" (1938) fino al drammatico epilogo di uno sterminio realizzato -- l'orrore del processo di Eichmann, grigio burocrate del Terzo Reich, risiede, a nostro modo di vedere, proprio nella sistematicità, programmata al dettaglio, dello sterminio e nella valutazione esclusivamente numerica delle persone oggetto di tale sterminio -- ha radici remote, ma anche radici più prossime nella violenza delle parole, parlate o scritte.1 La possibilità di una relazione tra religioni e pace non si gioca perciò, prima di tutto, su una condivisione di progetti in ordine alla realizzazione di una vita più umana per tutti e per ciascuno, e neppure su quella di ideali umani e religiosi congiuntamente perseguiti. Essa va declinata prima di tutto con riferimento alla parola, dunque nell'orizzonte del dialogo.

1. La dichiarazione Nostra Aetate (28 ottobre 1965)

Lo storia della redazione del testo promulgato è una storia piuttosto complessa per più motivi;2 nella sua ricostruzione, si impone con evidenza il fatto che il punto di partenza non corrisponde con quello di arrivo, né per quanto riguarda la forma del documento, né per quanto concerne i suoi contenuti. In un primo momento, infatti, non era prevista la scrittura di un testo sulle relazioni della Chiesa con le altre religioni, ma una dichiarazione sugli ebrei, che esprimesse, da un lato, la condanna dell'antisemitismo e, dall'altro, la consapevolezza della Chiesa di non poter mai dimenticare che le sue radici sono in Israele (cf Rom 11). Senza tacere la differenza cristologica,

questa presa di posizione del magistero doveva ribadire: -- l'elezione permanente di Israele; -- la colpevolezza di tutti i peccatori per la morte di Gesù; -- la necessità stringente di rigettare l'accusa di deicidio, sia riferita agli ebrei del tempo di Gesù che a quelli venuti dopo; -- la riunificazione escatologica di Israele con la chiesa nella fede in Cristo secondo Rom 11, 26-29, quale tema della speranza cristiana; -- infine le radici della chiesa nel popolo di Israele: Gesù, Maria, gli apostoli e i testimoni della risurrezione, ovvero la generazione che ha fondato la chiesa, erano nell'insieme e pienamente ebrei, e su loro si basa la chiesa come colonne e fondamenta.3

Le discussioni della fase preparatoria e di quella conciliare, sulle quali certamente incidono i diversi orientamenti teologici dei soggetti ecclesiali che partecipano al Concilio -- ricordiamo in particolare il Segretariato per l'unità dei cristiani, presieduto dal cardinale A. Bea, al quale è affidata la stesura dello schema da dibattere --, il pellegrinaggio di Paolo VI in Israele (4-6 gennaio 1964), il contesto coevo, attestano un progressivo allargamento dell'orizzonte tematico. Si dibatte la collocazione del testo sugli ebrei, inizialmente pensato come capitolo dello schema sull'ecumenismo, poi come sua appendice. Due elementi determinanti sono il riconoscimento della non opportunità di tale collocazione, poiché in senso proprio l'ecumenismo concerne il problema dell'unità delle Chiese, e la richiesta di estendere la nuova impostazione nei confronti degli ebrei anche ai membri delle altre religioni. Il primo determina la redazione di una vera e propria dichiarazione autonoma, il secondo il ripensamento delle relazioni della Chiesa con le altre religioni.4 La dichiarazione NAe è approvata il 28 ottobre 1965 con 2221 voti favorevoli, 88 contrari e 3 nulli.

Nel ripercorrere la storia di NAe indubbiamente va messa in rilievo la maturazione del pensiero conciliare su tale argomento; ma, al tempo stesso, la lettura di tale sviluppo non può essere ingenua, comprendendolo ad esempio nei termini di un'inedita presa di coscienza collettiva degli episcopati mondiali, quasi una specie di creatio ex nihilo. In realtà, la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le altre religioni può essere letta correttamente soltanto nell'alveo di un processo di recezione e sullo sfondo delle intenzioni che soggiacciono alla convocazione e alla celebrazione di un concilio pastorale e di aggiornamento. A proposito del processo di recezione, ovvero di quel processo lento e complesso mediante il quale la Chiesa, con l'assistenza dello Spirito Santo, accetta nuove comprensioni del messaggio cristiano contenuto nella Scrittura e nella Tradizione,5 va segnalato che il dibattito del Vaticano II recepisce la dottrina magisteriale e la riflessione teologica antecedente -- non solamente quella cattolica --, riproponendola come insegnamento autorevole che presenta i punti dottrinali già acquisiti, apre nuovi itinerari di riflessione soprattutto su aspetti ancora dibattuti e fonda la possibilità di indagare ulteriori implicazioni tematiche.6 L'analisi delle diverse fasi della celebrazione conciliare testimonia poi anche una recezione trasversale all'interno dello stesso dibattito: punti fondamentali già assodati diventano punto di riferimento imprescindibile nella discussione sugli schemi non ancora approvati.7

Tali annotazioni offrono criteri per una corretta ermeneutica di NAe; i suoi contenuti vanno compresi superando la mera letteralità del testo -- questo è soltanto un primo livello di lettura, certamente necessario, ma non sufficiente --, perché in esso sono condensati soltanto gli elementi certi, che di fatto non coincidono con la ricchezza della riflessione pregressa e delle ulteriori possibili implicazioni. Poiché il rapporto della Chiesa con le altre religioni suppone una riflessione su dati dottrinali, non è superfluo ricordare un principio generale: i dogmi -- cioè le dottrine -- anche quelli definiti non possono essere compresi in senso statico, come se fossero singoli tasselli di un corpus dottrinale omogeneo e rigidamente fissato.8 Essi in realtà vanno interpretati nell'orizzonte della gerarchia delle verità (cf Unitatis redintegratio [UR] 11) e sono soggetti a sviluppo storico,9 nel quale si intrecciano la fedeltà ai dati della Rivelazione e la capacità di lettura dei cosiddetti "segni dei tempi". Proprio per questi motivi, la lettura delle indicazioni dottrinali di un testo magisteriale non può fermarsi al primo livello della comprensione letterale delle parole. Va da sé che tale possibilità sussiste e non meraviglia allora l'insorgenza di un certo fondamentalismo cattolico, purtroppo chiaramente rilevabile non soltanto in singole persone, ma anche in certe realtà ecclesiali, in settori della pubblicistica cattolica e, attualmente, anche in siti web.10

La presentazione dei contenuti di NAe prende le mosse dalla contestualizzazione della dichiarazione. In senso più ampio, fattori geopolitici -- tra i quali rilevanti sono la divisione in due blocchi, facenti capo rispettivamente agli USA e all'URSS, e il processo di decolonizzazione, che associa all'affermazione dell'autodeterminazione dei popoli il recupero di una propria identità nazionale e culturale -- richiedono che la Chiesa precisi meglio e in termini non equivoci il senso e le modalità della sua presenza nelle diverse realtà umane. Con riferimento all'oggetto proprio della dichiarazione conciliare sulle relazioni della Chiesa con le altre religioni, due temi sono particolarmente urgenti: una declinazione del rapporto della Chiesa con lo Stato nei termini dell'autonomia, che, se non esclude la reciproca collaborazione, supera però definitivamente il modello di relazione disegnato dall'epoca coloniale; una valorizzazione delle varie culture e tradizioni religiose, per sciogliere l'assoluta identificazione del cristianesimo con la cultura occidentale.

In senso più prossimo, il Concilio è chiamato a pronunciarsi in modo autorevole sulla coeva riflessione teologica in materia. Il problema di fondo dibattuto dai teologi prima del Vaticano II non riguardava il se i membri delle altre religioni conseguissero la salvezza -- questo è un dato tradizionale ormai assodato --, ma il come; detto in altri termini si "trattava di mostrare che il cuore sincero dei non cristiani procurava loro accesso alla salvezza adempiendo la volontà di Dio che la coscienza rivelava e dettava loro".11 Le diverse linee teologiche elaborate prospettavano però "una visione troppo esclusivamente oggettivante. La fede che mette in relazione con Gesù Cristo salvatore supponeva la proposizione esteriore della verità da conoscere e credere sulla base dell'autorità di Dio".12 Il conseguente approfondimento della natura della fede e della grazia di Dio che opera nell'essere umano contribuirono a formulare un nuovo approccio al tema, che sarà fatto proprio dal Vaticano II, il quale sottolinea la dimensione soggettiva e personale della fede, la cui essenza sta "nell'azione segreta di Dio nell'intimo dei cuori, azione capace di muoverli ed orientarli verso di lui. L'adesione alla verità è il frutto di questo movimento del cuore, di questa sottomissione di tutta la persona a Dio che si comunica".13

Il carattere personale e comunitario dell'esperienza religiosa è sottolineato dal Concilio; nella prospettiva conciliare, che pone sullo sfondo la storia della salvezza dalla creazione al compimento escatologico, le religioni sono comprese "come sistemi socioculturali, diversi dalle ideologie, ai quali gli uomini si rivolgono per risolvere i problemi più profondi dell'esistenza".14 Da qui prende le mosse NAe, che delinea poi le relazioni della Chiesa nei confronti di tre correnti religiose, indicando anche atteggiamenti fondamentali di sincero apprezzamento: le religioni "connesse con il progresso della cultura" (si citano l'induismo e il buddismo), la religione musulmana, la religione ebraica. LG 16 usa invece un ordine inverso (ebraismo, islam e altre religioni in genere). In entrambi i testi emerge il dato ecclesiologico. Per quanto riguarda LG, il numero 16 fa parte del secondo capitolo, dedicato alla Chiesa come popolo di Dio (LG 9-17), modello ecclesiologico che sottolinea in maniera peculiare la presenza della Chiesa nella storia umana che tende a un compimento; esso evoca pure il profilo sacramentale della Chiesa nei termini di partecipazione all'unica mediazione salvifica di Cristo (cf LG 9). Questo popolo si caratterizza per la sua partecipazione al munus regale, sacerdotale e profetico di Cristo (cf LG 9-12), per la sua universalità (cf LG 13) dalla quale consegue la relazione che ogni essere umano, in forma sacramentalmente determinata, ha con la comunità ecclesiale (cf LG 14-16), per la sua natura missionaria (cf LG 17; AG 2). Anche in NAe, le relazioni della Chiesa con le altre religioni sono comprese nell'ottica del suo essere sacramento universale di salvezza. Non è priva di valore la puntualizzazione ecclesiologica nei termini della sacramentalità, che, attribuita in senso analogico alla Chiesa, ne dichiara il suo immediato riferimento a Cristo, superando così indiscutibilmente ogni visione o tentazione ecclesiocentrica.

La dichiarazione NAe non contiene un'esplicita valutazione positiva delle altre religioni, pur supponendola, e neppure il riconoscimento del loro valore salvifico oggettivamente inteso. Non si precisa cioè "il posto delle religioni in quanto tali nel disegno di salvezza di Dio, lasciando aperto il campo alla ricerca teologica".15 Nel post Concilio, la riflessione si sposta quindi sul valore salvifico delle altre religioni in quanto tali; l'orizzonte dell'indagine non sono più i singoli credenti delle diverse tradizioni religiose, ma le altre religioni, "poiché di fatto le religioni si presentano autorevolmente come "tradizioni accumulate" alle quali approda la domanda religiosa, ossia la "fede dei singoli"".16 In altre parole l'interrogativo specifico è se i credenti di altre religioni trovano la loro salvezza in Cristo malgrado le loro religioni o in esse o tramite esse.17

Nell'odierno contesto che, sotto il profilo religioso, è pluralistico, tale interrogativo e le conseguenti risposte non vanno compresi nel senso di una qualificazione valoriale esterna alle religioni; come scrive Dupuis, il cui pensiero condividiamo, la "questione non consiste più semplicemente nel domandarsi quale ruolo il cristianesimo possa attribuire alle altre tradizioni religiose storiche, ma nel cercare la radice del pluralismo stesso, il suo significato nel disegno di Dio per l'umanità, la possibilità di una convergenza delle varie tradizioni nel pieno rispetto delle loro differenze, e il muto arricchimento e la loro fecondazione reciproca".18 È un percorso ancora agli inizi, che richiede molti e seri approfondimenti, non inficiati da pregiudizi di sorta, che purtroppo percorrono trasversalmente il dibattito in corso, la riflessione teologica e l'interpretazione dell'insegnamento magisteriale. Ma è un cammino ineludibile, anche nella prospettiva di disegnare scenari di pace nel mondo odierno e in quello che consegneremo alle generazioni future.

2. Come si parla dell'altro: la teologia delle religioni

La nostra riflessione parte ora dalla constatazione che per parlare della relazione della Chiesa con le altre religioni i padri conciliari hanno valorizzato perlopiù un linguaggio positivo, pur non mancando di indicare il fatto che esistono divergenze tra la tradizione cristiana e le altre (cf NAe 2) ed elementi che necessitano di purificazione (cf AG 9), purificazione che il Vaticano II indica come necessaria anche per la Chiesa (cf LG 8). La motivazione di tale scelta è molteplice. È innanzitutto storica: l'atteggiamento tradizionale dei missionari nei confronti delle altre religioni è stato sostanzialmente negativo, il loro giudizio su di esse è stato perciò soltanto parziale e non sempre onesto e obiettivo. Essa rimanda poi alla celebrazione di un concilio pastorale, che sceglie di partire da ciò che è già comune a tutti gli interlocutori e, così facendo, supera il registro linguistico della condanna e dell'anatema. È infine teologica, perché assume come presupposto prioritario la volontà salvifica universale di Dio,19 alla quale, coerentemente con il principio della gerarchia delle verità, subordina la questione dei mezzi di attuazione.

L'assunzione di un linguaggio positivo non significa però soltanto il riconoscere gli elementi comuni a tutti gli interlocutori; essa comporta anche il riconoscimento di soggettualità specifiche a partire da ciò che esse sono realmente, cioè in se stesse. L'aggettivazione "cattolico" -- "non cattolico", "cristiano" -- "non cristiano", terminologia che il Concilio ancora adopera, è abitualmente usata nel linguaggio proprio della teologia e della catechesi, ma anche in quello comune, per qualificare la specificità di una data comunità, dottrina, ecc. Ci si può interrogare sulla loro pertinenza, perché in realtà tali formule esprimono il fatto che il soggetto che definisce prende se stesso come punto di riferimento dell'identità dell'altro, non riconoscendo quindi l'altro da sé a partire da quella peculiare diversità che lo costituisce appunto in modo proprio. Parlare dell'altro a partire dall'autocomprensione che l'altro ha di sé è, a nostro modo di vedere, la forma propria del linguaggio di interlocutori effettivamente alla pari; il "non" premesso a un aggettivo riduce la comprensione dell'altro alla propria misura e non accoglie l'istanza della diversità che è specifica dell'alterità. Scrive Dupuis "che l'espressione "non cristiani" [...] ha lo svantaggio di definire gli "altri" per ciò che non sono -- ossia cristiani. Ciò che è più grave, li definisce in relazione a ciò che siamo noi, ponendo così la comunità cristiana al centro del discorso teologico quale imprescindibile punto di riferimento".20

Il linguaggio deve rispettare dunque la diversità dell'altro, che, sotto il profilo dei fondamenti, è radicata nella diversità esemplare e fondativa della diversità del Dio che i cristiani professano come Unitrino. L'articolazione di unità, che rimanda a ciò che è comune, e di diversità, che esprime il proprium dei soggetti in relazione, configura il come parlare degli altri, evitando linguaggi esclusivi e, all'opposto, inclusivi. Il parlare esclusivo è omologante, riduce a uno ciò che non è soltanto uno; il parlare inclusivo, per contro, compone sincretisticamente le diversità in una visione di fittizia uguaglianza tra esperienze religiose che, oggettivamente, hanno un peso differente, ad esempio, rispetto alla comprensione del sacro, del senso della vita, ecc. Le conseguenze di un parlare esclusivo si evidenzia poi nelle relazioni tra le religioni, che nelle loro forme estreme ed esasperate originano fenomeni di fondamentalismo o di proselitismo religioso, i cui esiti sono quotidianamente di fronte ai nostri occhi. Quelle di un parlare inclusivo alterano anch'esse le relazioni tra le religioni; il modo è diverso, ma gli esiti sono altrettanto devastanti, perché generanti una fittizia omologazione che di fatto nega la diversità, contrariamente a quanto teoricamente dichiarato.

La paradossale articolazione di unità e diversità consente invece di declinare forme asimmetriche di relazioni tra le religioni, nelle quali la diversità è riconosciuta come possibilità di comunione. Tale asimmetricità suppone poi che ci siano linguaggi diversi per esprimere le relazioni tra le diverse religioni; in tal senso si muove anche il Vaticano II: LG 16 e NAe non trattano infatti questo argomento in maniera indifferenziata, semplicemente rimandando a un generico fatto religioso.

L'introdurre la categoria dell'asimmetricità con riferimento alle relazioni tra le religioni comporta l'interrogarsi sui criteri da assumere, per esprimere con linguaggi adeguati e propri una riflessione condivisa. Come corallario, va menzionata anche la domanda circa l'istanza cui compete la scelta o la ratifica della scelta di tali criteri. Su che cosa basarsi per una rilettura in chiave asimmetrica dei rapporti tra le diverse tradizioni religiose? Il problema è complesso e spinoso. A nostro parere, è demagogico ritenere che esista una risposta neutra, universalmente valida; detto in altri termini, ci sembra che l'appartenenza a una specifica tradizione religiosa sia un postulato imprescindibile.21 Poiché essa determina conseguentemente l'angolo prospettico della sistematizzazione dell'argomento, va dichiarato con chiarezza che, dal punto di vista delle tradizioni cristiane, nello specifico da quello della tradizione cattolica, l'asimmetricità ha come criterio essenziale il riferimento al mistero cristologico, ovvero alla mediazione del Verbo di Dio, che si dispiega dalla creazione al compimento escatologico e raggiunge il suo compimento nell'Incarnazione del Figlio di Dio, e all'azione dello Spirito Santo nella storia umana e non soltanto in quella della Chiesa.

Quanto all'istanza cui compete la scelta e la ratifica di tale criteriologia, si rimanda a quanto il Concilio afferma a proposito del sensus fidei del popolo di Dio: "La totalità dei fedeli, avendo ricevuto l'unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2, 20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando "dai vescovi fino agli ultimi suoi fedeli laici" mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale" (LG 12).22 Questa istanza coinvolge la specificità di più soggetti ecclesiali; è perciò un'istanza collettiva, nella quale confluiscono innanzitutto la vita e la prassi ecclesiali, la riflessione delle diverse teologie regionali, la parola del magistero. Si esclude quindi che tale istanza possa essere rivendicata sempre e comunque come appannaggio esclusivo di un solo soggetto ecclesiale, a scapito degli altri. Si esclude altresì a fortiori che il singolo cristiano, neppure quello più dotato di doni umani e di grazia, possa appropriarsi di essa.

Non è sufficiente però stabilire criteri e indicare l'istanza competente per una loro scelta o conferma di essa; l'assunzione del linguaggio dell'asimmetria per delineare il rapporto tra le religioni implica un ripensamento dei contenuti di tale rapporto. Lo sviluppo che in questi ultimi anni ha conosciuto la teologia delle religioni ne dà abbondante conferma. Lo stesso discusso e discutibile documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Dominus Iesus [DI], invita la teologia "ad esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino della salvezza" (DI 14). Riferendosi a LG 62, che afferma che "l'unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, che è partecipazione dell'unica fonte", la dichiarazione sostiene che è "da approfondire il contenuto di questa mediazione partecipata, che deve restare pur sempre normata dal principio dell'unica mediazione di Cristo" (ivi). Si riprende qui un affermazione di Giovanni Paolo II, il quale asserisce che se "non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari" (Redemptoris missio [RM 5]). Anche se, per alcuni autori, battute di arresto sembrano caratterizzare, almeno a livello della riflessione teologica e dottrinale, la parte terminale del pontificato di Giovanni Paolo II,23 la discussione rimane aperta e vivace, soprattutto in quelle aree del mondo nelle quali il cristianesimo è realtà minoritaria, che quotidianamente si relaziona, talvolta conflittualmente, con altre tradizioni religiose.

La novità della nostra epoca sta nel fatto che pare che "viviamo già in epoca postcristiana. Questo dato non è soltanto un risultato del processo di emancipazione iniziato con la modernità, con la secolarizzazione ivi connessa, ma è anche in relazione con l'influsso sempre più crescente delle religioni non cristiane".24 La teologia delle religioni è impegnata oggi a chiarificare il proprio oggetto e statuto, a precisare i suoi compiti e metodi; più specificamente essa assume la necessità di ripensare il "concetto di religione e il rapporto di Dio con le religioni, per poi precisare in che modo il mistero di Cristo stia in relazione con le religioni e le implicazioni che ne scaturiscono".25

Dall'individuazione di alcune coordinate neotestamentarie discendono tre esigenze per l'odierna teologia delle religioni. La prima concerne le diverse reazioni di Gesù nei confronti del sacro; esse fondano "un atteggiamento di accoglienza nei confronti di tutto quanto nelle diverse religioni del mondo testimonia un autentico slancio verso il Mistero ultimo dell'esistenza. Ma troviamo pure una giustificazione per un atteggiamento critico nei confronti di quanto esige purificazione o guarigione".26 La seconda rimanda alla priorità accordata dal NT agli atteggiamenti fondamentali della fede, speranza e carità. "Il Nuovo Testamento riconosce la possibilità di una fede o speranza a persone che non hanno conosciuto Cristo e che l'amore manifestato al prossimo ci è rivelato come il criterio decisivo di una relazione con il "Figlio dell'uomo", anche quando non lo si conosce".27 La terza recepisce il tema biblico dell'elezione, "nel senso che il cristianesimo, nel suo approccio con le altre religioni, deve tener conto del suo legame di origine con il destino di Israele, così pure nel senso della dialettica paolina di Israele e delle Nazioni (Rom 9-11). Così l'apertura a un geocentrismo radicale necessita di un nuovo approfondimento della confessione di fede cristologica".28

3. Come si parla con l'altro: il dialogo interreligioso

Nell'ottica delle relazioni della Chiesa con le altre religioni, occorre precisare poi il come si parla con l'altro; a tale livello, si presuppone anche il perché del dialogo tra tradizioni religiose differenti. La riflessione sul dialogo interreligioso ha conosciuto un progressivo ampliamento negli anni del post Concilio; pur non potendolo descrivere nei termini di sviluppo omogeneo in crescendo -- in questi decenni si sono conosciute infatti anche battute d'arresto per cause infra ed extra ecclesiali --, esso costituisce però un punto di non ritorno.

Limitandoci a considerare l'insegnamento magisteriale, i testi prodotti coprono un arco di tempo che parte dall'epoca della celebrazione del Vaticano II per giungere a ridosso della conclusione del XX secolo. La redazione di testi che illustrano il tema del dialogo in modo specifico o che affrontano l'argomento, inserendolo in un più vasto orizzonte tematico, ha per soggetto non soltanto l'istanza magisteriale della Chiesa universale, ma anche quella delle Chiese locali e/o particolari. Sarebbe erroneo credere che i documenti delle Chiese locali e/o particolari siano soltanto una clonazione di quelli della Chiesa universale, che ora prendiamo in esame. In realtà tra le due istanze magisteriali si è instaurato su tale argomento un variegato movimento bidirezionale, che sarebbe ora troppo complesso indagare.

Nei documenti conciliari, non si trova una definizione vera e propria di dialogo. Dhavamony menziona due accezioni secondo le quali il Concilio intende il dialogo: come strumento di ricerca condivisa della verità (cf Dignitatis humanae [DH 1]) e come mezzo di collaborazione per il conseguimento del bene comune (cf, ad esempio, Gaudium et spes [GS] 21). Il Concilio profila anche una diversa tipologia del dialogo: dialogo ecumenico, interreligioso, nelle missioni, con i cosiddetti "non credenti". "È ovvio che i principi sui quali poggia ciascun tipo di dialogo e i temi che esso affronta sono parzialmente diversi da quelli che caratterizzano altri tipi di dialogo. Tuttavia le differenti forme di dialogo non possono essere dissociate le une dalle altre".29

Il 6 agosto 1964, tra il secondo e il terzo periodo conciliare, esce l'enciclica Ecclesiam suam [ES] di Paolo VI; con essa "il dialogo entra nelle nuova prospettiva adottata dalla Chiesa nel suo programma di rinnovamento e l'enciclica, nel quadro conciliare, costituisce un notevole indice di apertura al mondo. Il termine stesso di "dialogo"30 fece con questa enciclica il suo esordio nei documenti ufficiali della Chiesa".31 La terza parte è dedicata infatti al dialogo, che è "dialogo della salvezza" declinato in forme differenti e che ha per destinatari tutti gli esseri umani; Paolo VI distingue a tale proposito quattro cerchi concentrici: tutto ciò che è umano e il mondo; i credenti di altre religioni; gli altri cristiani; i cattolici.32 Una nota di autentica e cauta apertura conclude la parte dell'enciclica dedicata al dialogo con i credenti in Dio. Scrive Paolo VI:

Ma non vogliamo rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane, vogliamo con esse promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficenza sociale e dell'ordine civile. In ordine a questi comuni ideali un dialogo da parte nostra è possibile; e noi non mancheremo di offrirlo là dove, in reciproco e leale rispetto, sarà benevolmente accettato (ES 112).

ES non ragguaglia né spiega il ruolo e il posto del dialogo nella missione della Chiesa; del resto non lo fanno neppure i documenti conciliari nei quali il tema ricorre.33 Ci si limita ad affermare che in virtù della sua missione, la Chiesa "si trova in una posizione privilegiata per dialogare. Non è detto però quale sia il significato di questo dialogo interreligioso nell'ambito della sua missione di evangelizzazione";34 tale silenzio può essere meglio compreso, considerando la discussione a proposito della missione e dell'attività missionaria della Chiesa:35 l'affermazione della essenziale natura missionaria della Chiesa (cf AG 2) e l'inserimento dell'attività missionaria nell'unica missione ecclesiale comportano un nuovo quadro di riferimento, i cui singoli elementi non sono ancora completamente sviluppati teologicamente ed ecclesiologicamente.36 La loro recezione può essere verificata nel post Concilio, analizzando conferenze e congressi teologici, documenti magisteriali, la vita e la prassi delle Chiese locali e/o particolari. La domanda a proposito del ruolo e del posto del dialogo nella missione della Chiesa comincia a ricevere risposta.37

I documenti magisteriali postconciliari in cui viene sviluppato chiaramente un concetto ampio della missione evangelizzatrice della chiesa fino a includere in essa, come elementi costituivi e integranti, da una parte, la promozione e la liberazione umana integrale e, dall'altra, il dialogo interreligioso, sono il documento Dialogo e missione (1984), l'enciclica Redemptoris missio (1990) e il documento Dialogo e annuncio (1991).38

Non potendo analizzare i singoli documenti, dati i limiti del nostro contributo, soffermiamo brevemente la nostra attenzione su RM 55-57. Questi numeri sono inseriti nel quinto capitolo dell'enciclica, nel quale Giovanni Paolo II presenta le vie della missione. Il dialogo interreligioso è indicato come parte della missione evangelizzatrice della Chiesa (cf RM 55); nell'orizzonte della missione ad gentes, il dialogo non può essere separato dall'annuncio del Cristo, ma neppure confuso con esso o adoperato in modo strumentale. Il dialogo interreligioso ha cioè una propria consistenza, uno specifico valore e una peculiare metodologia, è perciò qualcosa di più di un semplice mezzo dell'annuncio. Anche la puntualizzazione di ciò che motiva il dialogo va su questa linea.

Il dialogo -- scrive il Papa -- non nasce da tattica o da interesse, ma è un'attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità; è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell'uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole. Con esso la Chiesa intende scoprire i "germi del Verbo", i "raggi della verità che illumina tutti gli uomini", germi e raggi che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell'umanità (RM 56).

Il dialogo ha quindi un fondamento teologico, poiché è posto in connessione con l'opera dello Spirito nell'essere umano; coerentemente con tale enunciazione, si sottolinea che scopo specifico e proprio del dialogo è la scoperta della presenza e dell'azione salvifica di Dio, con riferimento alle singole persone e alle tradizioni religiose che "costituiscono una sfida positiva per la Chiesa: la stimolano, infatti, sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell'azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l'integrità della rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti" (ivi).

Nel contesto del pluralismo religioso, il dialogo comprende dunque ogni forma di relazione interreligiosa con singoli individui o con comunità di fedi diverse, in vista di una reciproca comprensione e arricchimento, "nel pieno rispetto della verità e della libertà. Esso comprende sia la testimonianza, sia l'esplorazione delle rispettive convinzioni religiose";39 le diverse modalità del dialogo interreligioso sono menzionate anche in RM 57, che profila il vasto campo della sua attuazione:

dagli scambi tra esperti delle tradizioni religiose o rappresentanti ufficiali di esse alla collaborazione per lo sviluppo integrale e la salvaguardia dei valori religiosi; dalla comunicazione delle rispettive esperienze spirituali al cosiddetto "dialogo di vita", per cui i credenti delle diverse religioni testimoniano gli uni agli altri nell'esistenza quotidiana i propri valori umani e spirituali e si aiutano a viverli per edificare una società più giusta e fraterna.40

Assumendo tali affermazioni come dato di fatto, sono diversi i nuclei tematici sui quali riflettere; particolarmente significativi nell'odierno contesto appaiono essere il tema della conversione con il corollario del proselitismo; la teologia dell'inculturazione nel doppio movimento: dal cristianesimo alle culture, dalle culture al cristianesimo. Per quanto riguarda il primo tema, non sfugge la necessità di una precisazione terminologica, che assumiamo dal documento DA.

Nell'idea della conversione -- si legge in DA 11 -- è racchiuso generalmente il concetto di un movimento verso Dio, il "ritorno umile e penitente del cuore a Dio nel desiderio di sottomettere più generosamente a Lui la propria vita". Più specificatamente, la conversione può far riferimento a un cambiamento di appartenenza religiosa, in maniera particolare all'adesione alla fede cristiana.41

Il passo citato mette in evidenza la doppia accezione del termine "conversione"; riflettendo sulla presenza della Chiesa nella storia, e non soltanto su quella remota,42 è indiscutibile che tale precisazione semantica è qualcosa di più che un semplice gioco linguistico. Nella prima accezione, la conversione è intesa in termini generali come orientamento o riorientamento della propria vita a Dio; nel contesto del dialogo interreligioso essa va compresa quindi basicamente come attitudine a far sì che ciascun interlocutore possa liberamente indirizzare la propria esistenza a Dio. Alla luce del Vaticano II, ci sembra che questo richiede alle Chiese locali e/o particolari e ai loro membri una maggior presa di coscienza che la grazia di Dio opera nel mondo anche al di fuori dei confini visibili della realtà ecclesiale. A tale presa di coscienza, deve poi accompagnarsi una capacità di discernimento di tale azione divina. Nella seconda accezione, la conversione implica il passaggio da un'appartenenza religiosa a un'altra, in senso più specifico alla fede cristiana. Si tratta di un senso particolare, che solleva problemi di natura delicata, in quanto attinenti al rapporto religioso sul quale ogni persona decide in piena e autonoma libertà di coscienza. Nell'orizzonte del dialogo interreligioso, non ci sembra che questa seconda accezione possa in verità essere aprioristicamente esclusa; ci sembra piuttosto che essa implichi per i membri della Chiesa una particolare attenzione, perché effettivamente la decisione soggiacente tale passaggio sia libera, autonoma e secondo coscienza; si esclude cioè ogni forma di coazione, esplicitamente dichiarata -- essa potrebbe conseguire ad esempio da una interpretazione letterale, peraltro ripetutamente condannata dal magistero ecclesiastico, dell'assioma Extra Ecclesiam nulla salus -- o implicitamente sottesa, quale potrebbe essere, tra l'altro, il sollecitare o il ratificare tale passaggio come condizione necessaria per un miglioramento della propria situazione sociale o economica (ovvero l'essere cristiano come condizione per ottenere qualche cosa che, in un contesto di povertà, può essere essenziale). Su tali passaggi ci sembra necessaria una costante attenzione e vigilanza, perché la mera incorporazione nella Chiesa non è affatto un passaporto, neppure per la vita eterna.

Per quanto riguarda invece la teologia dell'inculturazione, essa rimanda alla valorizzazione delle culture umane e quindi anche delle religioni, che il Vaticano II indica come loro elemento costitutivo (cf GS 52). Tale attenzione non può essere intesa nei termini meramente funzionali di una strategia missionaria. Muovendosi nell'orizzonte della teologia della creazione, della cristologia (con particolare riferimento al mistero del Verbo Incarnato) e della pneumatologia, il rapporto del cristianesimo con le culture deve essere declinato, da un lato, come discernimento e assunzione degli elementi culturali positivi nei quali si manifesta l'azione della grazia di Dio e, dall'altro, come legittima domanda se essi, una volta riconosciuti e assunti, consentono ulteriori comprensioni del mistero del Dio Unitrino che in Cristo si è definitivamente rivelato. Non si tratta di diminuire l'unicità e la definitività della mediazione del Verbo Incarnato in ordine alla rivelazione del mistero di Dio, ma piuttosto di muoversi nella linea dell'approfondimento della possibilità di altre forme di partecipazione a essa. Ciò va ovviamente inteso non nel senso di aggiunte a qualcosa che è di per sé mancante, ma di individuare e assumere nuove chiavi di lettura per una ermeneutica maggiormente articolata e contestualizzata del messaggio cristiano.43

Osserva J. Dupuis che la pienezza della rivelazione in Cristo non dispensa i cristiani dall'ascoltare e dal ricevere; poiché essi non detengono il monopolio della verità divina, devono invece lasciarsi possedere da essa. Doppio è il beneficio che i cristiani ricevono dal dialogo.

Da un lato, otterranno un arricchimento della loro fede. Attraverso l'esperienza e la testimonianza altrui, saranno in grado di scoprire in maggior profondità certi aspetti, certe dimensioni del mistero divino, che essi avevano percepito con minor chiarezza e che sono stati comunicati meno chiaramente dalla tradizione cristiana. Allo stesso tempo, essi guadagneranno una purificazione della loro fede. L'urto dell'incontro solleverà spesso delle questioni, costringerà i cristiani a rivedere assunzioni gratuite e a distruggere dei pregiudizi profondamente radicati, o a rovesciare concezioni o visioni eccessivamente ristrette, esclusive e negative nei confronti delle altre tradizioni.44

Arricchimento e conversione sono quindi i due elementi che, in senso bidirezionale, configurano le relazioni delle religioni tra loro; il linguaggio positivo con cui si parla dell'altro e all'altro prende corpo in un reticolo di relazioni, modulate sull'arricchimento e sulla conversione reciproca, sicché l'interrogativo dubitativo "Religioni per la pace?" si trasforma nell'affermazione positiva "Religioni per la pace".

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Note

  1. Per motivi analoghi, lo stesso orrore è suscitato dalla lettura degli interrogatori dei principali gerarchi nazisti, in vista della celebrazione del processo di Norimberga (cf. R. Overy, Interrogatori. Come gli alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich, Mondatori, Milano, 2002). Testo

  2. Cf G. Alberigo (dir.), Storia del Concilio Vaticano II, voll. 1-5, Peeters -- il Mulino, Leuven -- Bologna, 1995-2001; cf in particolare G. Miccoli, "Due nodi: la libertà religiosa e le relazioni con gli ebrei", ivi, vol. 4: La chiesa come comunione settembre 1964-settembre 1965, 1999, 119-219. Testo

  3. H.O. Pesch, Il Concilio Vaticano Secondo. Preistoria, svolgimento, risultati, storia post-conciliare, Queriniana, Brescia, 2005, 310. La stesura dello schema è preceduta da alcune iniziative sia cattoliche, sia ebraiche (cf ivi, 307-310). Testo

  4. Ivi, 311-320. Testo

  5. Cf. A. Antón, "Risposta alla relazione di E. Lanne", in H. Legrand -- J. Manzanares -- A. García Y García (edd.), Recezione e comunione tra le Chiese. Atti del colloquio internazionale di Salamanca 8-14 aprile 1996, EDB, Bologna, 1998, 52-55. Dal punto di vista teologico, la recezione rimanda alla pnematologia, alla teologia della comunione, della tradizione, della Chiesa particolare, alla conciliarità e sinodalità. Attualmente il concetto è adoperato anche per analizzare con precisione il divenire storico delle Chiese. Testo

  6. Per quanto riguarda le relazioni della Chiesa con le altre religioni, tale asserto risulta assolutamente appropriato. Nel post Concilio l'apertura di nuovi scenari, difficilmente prevedibili all'epoca della celebrazione del Vaticano II, ha comportato di percorrere piste di indagine non sempre direttamente riferibili al dibattito conciliare e ai testi promulgati. Testo

  7. "Questo documento [NAe] va letto però nel quadro di altri testi del Vaticano II, quali la costituzione Lumen gentium, la costituzione Dei Verbum, il decreto Ad Gentes, la costituzione Gaudium et spes e il decreto Dignitatis humanae" (J. Ilunga Muya, "La teologia delle religioni. Uno sguardo d'insieme", in G. Lorizio, Teologia fondamentale, vol. 3: Contesti, Città Nuova, Roma, 2005, 77). Testo

  8. "Il dogma è un aspetto inalienabile della specificità cristiana. Oggi vi è anche una cattiva reputazione. Il termine, e più ancora l'aggettivo "dogmatico", sono usati correntemente nella nostra cultura per sferzare una attitudine ideologica intransigente, che rifiuta tanto il dibattito quanto la realtà dei fatti, quando non serve a designare delle ragioni talmente astratte del sapere da non interessare più a nessuno. Nella Chiesa il lato "autoritario" del dogma è sovente inteso e vissuto come una costrizione e un ostacolo a una vera libertà di pensiero" (B. Sesboüé, "Presentazione", in Id. (dir.), Storia dei dogmi, vol. 1: Id. -- J. Wolinski, Il Dio della salvezza. I-VIII secolo. Dio, la Trinità, il Cristo, l'economia della salvezza, Piemme, Casale Monferrato [Al], 1996, 8s). Testo

  9. La storia dei dogmi non è più oggi oggetto di una crisi. La tensione che a volte permane legittimamente tra il punto di vista propriamente storico e quello teologico appare maggiormente gestibile; le "conoscenze storiche non hanno cessato di arricchirsi e di affinarsi, invitando a sfumare giudizi troppo affrettati o perentori. La concezione teologica del dogma si è anch'essa spostata: non si cerca più di stabilire in modo troppo materiale e immediato, tanto sul piano delle formule quanto su quello delle istituzioni ecclesiali e sacramentali, l'identità del dogma con se stesso attraverso il tempo. L'approccio stesso della necessaria normatività del dogma si fa più aperto e sanamente critico [...]. Esso si fa attento alla distanza storica e risitua la differenza dei linguaggi e delle pratiche nella continuità del senso" (ivi, 8). Testo

  10. Cf N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio Vaticano II, Studium, Roma, 2003. Testo

  11. J. Ilunga Muya, "La teologia delle religioni", cit., 56. Cf H. Nys, La salvezza senza vangelo. Studio storico e critico del problema della "salvezza degli infedeli" nella recente letteratura teologica (1912-1964), AVE, Roma, 1968. Testo

  12. J. Ilunga Muya, "La teologia delle religioni", cit., 56. Testo

  13. Ivi, 57. Nel suo contributo, l'autore offre anche alcune coordinate storiche, utili per comprendere lo status quaestionis nell'epoca antecedente la celebrazione conciliare (cf ivi, 58-77). Testo

  14. Ivi, 78. Testo

  15. Ivi, 79. Testo

  16. Ivi. Testo

  17. Sullo sviluppo postconciliare della teologia delle religioni, cf ivi, 80-107. Testo

  18. J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997, 19s. Cf anche Id., Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all'incontro, Queriniana, Brescia, 20022. Testo

  19. Cf M. Dhavamony, "Evangelizzazione e dialogo nel Vaticano II e nel Sinodo del 1974", in R. Latourelle (ed.), Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo 1962/1987, vol. 2, Cittadella, Assisi 19882, 1223. Testo

  20. J. Dupuis, Verso una teologia, cit., 444. Dupuis menziona altre espressioni teologiche a suo parere discutibili nel contesto delle relazioni del cristianesimo con l'ebraismo e con le altre tradizioni religiose (cf pp. 444-448). Testo

  21. Una ricognizione del pensiero di altre tradizioni religiose mostra la diversità di prospettive rispetto al modo di concepire le relazioni tra le religioni (cf, ad esempio, B. Kanakappally, "Il "religiosamente altro" nell'ottica induista. Alcune precisazioni", in C. Dotolo [cur.], Pluralismo e missione. Sfide e opportunità, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2005, 71-92). Essa risulta necessaria per una comprensione del punto di vista dell'altro. Testo

  22. Tale senso della fede è suscitato dallo Spirito di verità. Il magistero ricopre una funzione di guida, che richiede, da parte dei battezzati, una fedele obbedienza, che consente al popolo di Dio di "ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2, 13)", di aderire "indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gd 3)", di comprenderla correttamente e più a fondo e di applicarla più pienamente alla vita. Per quanto concerne il magistero, la comprensione massimalista o, al contrario, minimalista del suo ruolo rispetto allo sviluppo dottrinale è errata; tale ruolo va compreso e apprezzato tendendo conto di un doppio elemento: la diversità delle forme d'insegnamento magisteriale (cf LG 25) e il rapporto del magistero con la Parola di Dio. A tale proposito, la costituzione conciliare Dei Verbum [DV] ricorda che il "magistero [...] non è superiore alla parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio" (DV 10). Testo

  23. Per una presentazione del pensiero di Giovanni Paolo II sulle altre religioni, cf A. Mazur, L'insegnamento di Giovanni Paolo II sulle altre religioni, Pont. Univ. Gregoriana, Roma, 2004. Testo

  24. J. Ilunga Muya, "La teologia delle religioni", cit., 53. Testo

  25. Ivi, 111. Testo

  26. Ivi. Testo

  27. Ivi. Testo

  28. Ivi; cf anche S. Mazzolini, "Cristo, Regno di Dio e Chiesa", in Euntes docete, 55 (2002) 98s. Testo

  29. M. Dhavamony, "Evangelizzazione e dialogo", cit., 1221. Testo

  30. Nell'enciclica ricorre il termine colloquium, non dialogus; analogamente in NAe 2, ove ricorre l'espressione per colloquia et collaborationem. Testo

  31. J. Dupuis, "Dialogo interreligioso nella missione evangelizzatrice della Chiesa", in R. Latourelle, Vaticano II, cit., 1236. Va osservato che i documenti conciliari che trattano del dialogo interreligioso (NAe, AG, GS) sono ancora in fase di elaborazione. Testo

  32. GS 92 riprende in senso inverso i quattro cerchi concentrici. Testo

  33. Cf J. Dupuis, "Dialogo interreligioso", cit., 1236-1239. Testo

  34. Ivi, 1239. Testo

  35. Cf, ad esempio, S. Mazzolini, La Chiesa è essenzialmente missionaria. Il rapporto "natura della Chiesa" -- "missione della Chiesa" nell'"iter" della costituzione "de Ecclesia" (1959-1964), [Analecta Gregoriana 276], Ed. Pont. Univ. Gregoriana, Roma, 101-143. Testo

  36. Nel periodo postconciliare, lo stesso linguaggio, adoperato per esprimere la missione ecclesiale, è precisato e arricchito sotto il profilo dei contenuti. Testo

  37. Cf J. Dupuis, "Dialogo interreligioso", cit., 1240-1252; ID., Il cristianesimo, cit., 403-410. Testo

  38. Id., Il cristianesimo, cit., 406. Testo

  39. Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Il dialogo e l'annuncio. Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e sull'annuncio del Vangelo di Gesù Cristo [DA], 9. Testo

  40. Nel tratto successivo del testo, si richiama l'impegno comune a praticare il dialogo. "Tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo, anche se non nello stesso grado e forma. Per esso è indispensabile l'apporto dei laici che "con l'esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni", mentre alcuni di loro potranno pure dare un contributo di ricerca e di studio". In conclusione, c'è un invito alla perseveranza, anche laddove gli sforzi di molti missionari e comunità cristiane non incontrano un riscontro positivo. "Il dialogo è una via verso il regno e darà sicuramente i suoi frutti, anche se tempi e momenti sono riservati al Padre (cf. At 1, 7)". Testo

  41. Per quanto concerne le conversioni bidirezionali di cristiani all'islam e viceversa, cf A. Negri, "Cristianesimo e islam: conversioni bidirezionali", in Ad Gentes, 9 (2005) 243-261. Testo

  42. Analoghe riflessioni riguardano anche le altre tradizioni religiose. Testo

  43. In questo senso, è interessante un ripensamento delle modalità con le quali i Padri hanno declinato il rapporto tra cristianesimo e cultura ellenistica; indicazioni particolarmente significative possono essere trovate nell'assunzione del linguaggio simbolico. Per illustrare il mistero della Chiesa, essi adoperano i simboli della tradizione biblica, magari ampliandoli alla luce della cultura coeva, oppure adoperano figure e immagini proprie del mondo pagano (cf. H. Rahner, Simboli della Chiesa. L'ecclesiologia dei Padri, San Paolo, Cinisello Balsamo [Mi], 1995). Testo

  44. J. Dupuis, Il cristianesimo, cit., 431. Testo