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Il mistero dell'azione umana. Ermeneutica della grazia

di Paola Mancinelli (10 marzo 2005)

L'indagine circa la condizione di possibilità di una filosofia della grazia, che implica un ripensamento radicale dell'intero ambito filosofico, a partire dalla possibilità di assunzione di figure come la kenosis, la croce, ed egualmente, di forme inedite alla stessa sistematica filosofica, quali il paradosso, l'invocazione, la preghiera, investe non solo l'ambito ontologico del pensiero, ma anche quello che la tradizione ha sempre definito l'ambito morale, declinabile nel senso di un primato della volontà, e di un'antropologia dell'azione, nella quale venga data sia un'apertura trascendentale del soggetto agens, sia la possibilità rivelativa della sua persona.

Ciò implica un'assunzione dei termini classici di actus directus e actus reflexus, ma essi necessitano di essere ripresi in ambito fenomenologico ed ermeneutico, proprio per evidenziare che l'azione apre un campo semantico nel quale risulta decisivo il momento rivelativo, e, di conseguenza, il soggetto agente si rapporta alla verità di sé, recupera la sua immagine nel commercio con il mondo e con il prossimo, si riscopre nella sua natura linguistica, ed in quella sociale. Interlocutori preziosi saranno senza dubbio Paul Ricoeur ed Hannah Arendt, in virtù della loro attenzione all'agire come ek-sistenza, nodo ineludibile della condizione umana, che si declina da un punto di vista filosofico nell'ambito semantico della creaturalità, in opposizione alla natura sic et simpliciter, e prelude sempre ad una possibilità di inizio. Questo dice, tuttavia, di una fenomenologia della temporalità come senso dell'esser-ci in quanto l'azione si lega, così, alla promessa ed al perdono, nelle quali è data hic et nunc una possibilità di redenzione.

Se le cose stanno così, non si può non fissare l'attenzione sulla trascendenza dell'atto, il quale non termina, né si determina nel perseguimento del telos particolare che pure plasma la natura dell'atto stesso, ma assume una portata già oltre lo stesso motivo che lo ha avviato, tanto che si dà una dismisura tra l'atto in quanto compiuto e storicamente ravvisabile e il suo valore per il futuro. Questo accade, però, non soltanto per la weberiana eterogenesi dei fini, ma anche perché la portata intenzionale dell'azione si apre continuamente all'inedito e al presagito ma non ancora dato, aprendosi in ultima analisi ad un'esigenza di verità che non può non coinvolgere la persona stessa. Per questo asserisce già Dante Alighieri nel De Monarchia che ogni azione è rivelazione della propria immagine.

Già da un punto di vista filosofico è dunque possibile ottenere una fondazione trascendentale dell'atto senza mai prescindere dal carattere personale né dalla riscoperta del chi, in modo tale che l'atto acquisisca valore di evento. Tutto questo va letto sullo sfondo di un recupero della linguisticità che lo rende correlazionale e plurale, e quindi connesso ad un rinnovamento ontologico della grammatica; non da ultimo è necessario fissare l'attenzione sulla connotazione della responsabilità e della promessa che determina già un legame solidale fra i membri della città dell'uomo, ambiti entro i quali è possibile comprendere il darsi della caritas e della dilectio proximi, di cui Hannah Arendt ha scritto pagine memorabili.1 Qui si giunge, però, al nodo problematico che si voleva indagare; l'irrompere della grazia nell'ambito storico. Effettivamente si deve sottolineare la pregnanza della posizione della teologia classica sancita da Tommaso: gratia non tollit naturam sed eam perficit. Viene, infatti, qui, salvaguardato sia l'ambito della libertà dell'azione, sia quello dell'agire divino altrettanto libero, sia, poi, quello di un'interazione feconda fra l'iniziatore della creazione e l'intrinseca vocazione di essa a perseguire la libertà del suo essere.

Eppure questo nodo risulta complesso nonostante la sorprendente semplicità di tale posizione: fino a che punto il teologico non interferisce nell'antropologico, in altri termini gli ambiti immanenti della storia e dell'etica sono dotati di una loro assiologia garantita dalla libertà divina che fa spazio alla creazione o invece il loro valore è dato ab extrinseco da una sorta di sovraccoperta che è la grazia? Nel porre tali problematiche si cercherà anche di individuare non tanto delle risposte quanto dei possibili percorsi per mantenere la dialettica fra i due ambiti, per questo motivo sarà necessario interrogare anche la teologia per lasciarci provocare dall'incidenza che essa inevitabilmente esercita nella sfera dell'esser-ci umano e per dare alla filosofia la possibilità di rendere ragione del mistero dell'uomo e dell'essere che la chiama ad essere sul confine, ferita ed insaziabile, ma solo così capace di essere compagnia, memoria, custodia.

Cifra portante non può, ancora una volta, che essere l'incarnazione; la condizione di incarnazione del Verbo permette, infatti, di dare una lettura più radicale della carne, della storicità, della partecipazione reciproca e responsabile all'azione ed alla passione per un mondo nuovo e vero, che, sia pur in una intenzionalità anonima, per usare il linguaggio del grande teologo Karl Rahner, preluda ad una Lichtung rivelativa. Crediamo, poi, che anche un concetto come quello di azione sacramentale, sia pur strettamente teologico possa gettare una luce nuova sull'etica e sul suo darsi nella storia come intenzionalità dell'ultimo e della redenzione. Naturalmente la posizione da noi assunta è quella di esaminare in modo rigoroso quali implicazioni filosofiche abbia questa istanza di fede, e quali possibili svolte e passaggi essa può inevitabilmente indicarci. Ci avvarremo per questo di un metodo ermeneutico, nel senso di un mettere a confronto le fonti per lasciarle dialogare, traendo da questo tesoro antico il novum dell'inedito ed anche dell'insperato. Senza questa interrogazione serrata, infatti, non ci sarebbe vita, né il pensiero potrebbe farsi carne e sangue, pulsando come sostanza del mondo, come tensione a quell'humanitas qui apparuit, ma che si cela ancora, in attesa, nelle forme del cercare, dello sperare, del volere.

1. La passione dell'agire, una fenomenologia dell'umano

L'azione è sempre manifestazione, phainestai e la manifestazione non è mai quoad se, essa implica, bensì, la possibilità di un interlocutore capace di accoglierla e di interagire con il suo senso. Certo, essa sottende un primo incontro di sé con sé, avanti di volgersi all'esterno nell'incontro e nel coinvolgimento relazionale, un incontro dell'altro dentro il sé, secondo la prospettiva ricoeuriana, un evento di silenzioso dialogo entro cui si dà la decisione ed entro cui essa si esplica. Agendo si è condotti al chi dell'azione, il ferito cogito dell'uomo che vuole, desidera e può, ma che volendo e potendo acquisisce il suo essere patendo la storicità, la terrestrità, la solitudine, intenzionando nell'evento del proprio agire una comunione di volti, nella quale la sua azione possa avere eco e risonanza, possa divenire la promessa di un inedito. Non si è, neppure nel caso di un attingimento di sé nel sé, dinanzi ad un soliloquio; la decisione per l'azione è legata ad un linguaggio interiore, che è lo stesso linguaggio dell'inizio. L'uomo è salvato, anche storicamente, da questa capacità di inizio, perché l'inizio è promessa ed invio.

Per questo motivo l'azione va guardata e custodita come quella capacità di essere con l'altro e per l'altro anche laddove si è nella solitudine, laddove la storicità e le sue distrette invocano un novum di una prassi che arricchisca l'essere, rovesciando la prospettiva per cui l'azione sarebbe solo successiva al pensare in una consapevolezza di un agire pensante che ha cura, per dirla con Heidegger, escogitando dunque un'ontologia dell'azione in quanto terra promessa di un altro vivere possibile. Ma qui si deve subito far intervenire una categoria del nomos nel quale si dà un essere sociale, che sia anche capace di farsi anomia per poter dire nella storia il più grande dell'umanità e della dignità, la condizione di fraternità-sororità che, per citare ancora Italo Mancini, traduca la comunione dei volti nella possibilità qui ed ora di un mondo alleggerito che sappia prefigurare la tensione alla redenzione.

Un'intuizione spirituale sembra attraversare il pensiero dell'Occidente, forse talora nascosta come una specie di filone aureo, ma terribilmente pregnante e feconda se si è capaci di immergersi nelle sue profondità; si tratta dell'intuizione di un'eccedenza anche nella prassi, di una spinta utopica che conduce ad un vero experimentum mundi (Bloch). Da Marx alla Scuola di Francoforte, da Benjamin a Hannah Arendt, a quella pensatrice tanto straordinaria quanto impossibile da collocare che è Simone Weil, al pensiero chassidico, tutti questi filoni sembrano recare indelebile la traccia di un'attesa e di una promessa perciò l'essere non può né è tutto ciò che appare e che si rende disponibile o manipolabile ma vive e si rivela nella capacità di attendere l'altrove e la verità nell'intrico e nella pesantezza del quotidiano, (non per niente Simone Weil oppone la pesanteur alla grazia, rintracciando insonnemente i suoi germi nell'attività umana, come se l'azione fosse una sorta di sacramentum naturae).

Tuttavia, ci sembra che già il sapere pre-filosofico meglio individuato nella tragedia greca offra già una prospettiva simile, se si cerca di superare quell'intepretazione per cui la scissione dalla physis intesa nel senso di phyestai implichi l'ineludibilità della colpa, per approdare, invece, ad una consapevolezza che il dramma, termine greco per dire proprio l'azione è la condizione stessa di quella feconda grandezza dell'uomo che si dà nella storia ma che la storia tutta non può contenere, di cui tantomeno può rendere ragione. Ricoeur parla di tragico dell'azione, certamente inevitabile, come inevitabile, nella finitudine, è la colpa. Eppure anche questa colpa è talora feconda e felice, come mostrerà secoli dopo il Cristianesimo e la teologia della redenzione ad esso sottesa.

L'emblematica figura di Antigone può certamente costituire un notevole spunto teoretico. Ella non esita a seguire un altro nomos, non scritto ed interiore, un nomos che è di natura divina in virtù del quale la pietas viene ad incidere l'ordine dato, sovvertendolo, certo, ma, tramite questa sovversione, rendendolo più degno, più alto, più prossimo al divino. Avanti il legame politico di amico-nemico, avanti il legame di sangue e l'obbligazione familiare c'è il sentimento fraterno, la pietas per la sua morte, per la sua spoglia che riassume tale altezza, da non poter esser lasciata senza sepoltura, pur se Antigone sa di essere colpita dalla stessa legge che sovverte.

Come si diceva, tentando una lettura di diverso tipo, Antigone potrebbe qui rappresentare quella che già Platone chiamava epiekeia, la correctio legis assunta anche dalla teologia morale cristiana, per cui la legge stessa veniva corretta nel senso di un'attenzione all'uomo più che al principio, dell'universale concreto più che all'astrazione casistica. Non possiamo qui indagare circa l'idea di un'intuizione pre-cristiana, che ci farebbe notevolmente sconfinare rispetto alla portata del nostro tema, in ogni caso ci sembra una bellissima conquista dell'antichità, assieme all'altra, davvero mirabile dell'essere epekeina tes ousias. Eccoci al paradosso di una legge al di là della legge, nella quale però l'ethos, inteso nel senso di consuetudine riesce ad inserire l'idea di una pietas che fa solidali, poiché di un abitare insieme il mondo si tratta, kosmos, appunto e non mera physis, ordine di giustizia in cui l'uomo scopre la sua prossimità ed eguaglianza all'altro.

Si tratta, in ultima analisi, di fare la verità nell'azione, laddove la veritas è il telos e l'origine che mantiene una connessione fra esse e agitur. Tuttavia, secondo la nostra prospettiva, la verità è un incontro, dono di senso e vocazione ad un tempo che interpella ogni singolarità e ne fa un universale concreto, ciò implica che non ci si può attenere all'analisi dell'atto tout court senza fissare l'attenzione sul versante antropologico, che si connette inevitabilmente a quelle fenomenologico ed ontologico. In altri termini, il riferimento è sempre al chi dell'azione. Per questo motivo ci sembrano preziose le analisi di Paul Ricoeur che conduce un'indagine fenomenologica a partire dall'evento narrativo e poetico, che ha la radice di fare, per individuare come in quell'opera di discorso che è un testo, non solo si plasmi un mondo, ma questo fingere è essenzialmente un agire, il che lo conduce via via a scorgere nell'azione quell'intenzionalità simbolica ed in qualche maniera utopica che spinge l'umano estaticamente al di là per ridonarlo alla sua condizione.

Procediamo, ad ogni modo analiticamente nei passaggi testuali dell'opera Dal testo all'azione.2 Dapprima si può individuare una pregnante definizione di azione, che recita come segue:

I discorsi sono a loro volta delle azioni; ecco perché il legame mimetico fra l'atto di dire (e di leggere) e l'agire effettivo non è mai del tutto spezzato.3

Questo accade non solo in virtù del valore sempre perlocutorio e non solo illocutorio del linguaggio ma anche per il fatto che, come asserisce il celebre filosofo francese:

tra queste cose dette (quelle del testo) ci sono uomini che agiscono e che soffrono.4

Il testo come teoria paradigmatica dell'azione intreccia ermeneutica e fenomenologia per il fatto che indica una configurazione del reale, e dunque l'evento del mondo che accade nel discorso, ma al contempo essa prelude ad un'idea dell'azione come metafora la quale inerisce ad un primato della volontà umana, alla sua realtà tensiva che si traduce in una passione per il possibile. Da questo punto di vista la possibilità è più in alto della realtà perché la spinge e la configura.

Ciò che è più originale, qui, è in ogni caso la connessione fra funzione narrativa ed azione, infatti, si prefigura una singolare ermeneutica testuale. Ricoeur asserisce che la funzione referenziale (e non autoreferenziale) del linguaggio implica sempre un'esperienza, un modo di abitare il mondo. La connessione fra mondo e linguaggio, poi, si individua bene nel testo, il quale sottende sempre una tensione fra mythos e mimesis, laddove la prima figura riguarda il mondo organizzato nell'opera di discorso sempre inerente ad un'autentica esperienza dell'umano, la seconda concerne invece il carattere di finzione, laddove però, fingere è compreso nella sua accezione di plasmare il mondo. Sullo sfondo va compresa altresì un'ontologia del linguaggio cui l'attenzione ricoeuriana è altrettanto rivolta, e sulla base di cui è possibile individuare un mondo come apertura plurale. Quindi non solo si dà una semantica, ma anche una grammatica dell'azione, e s'intende per grammatica il codice di accesso e comprensione del reale; quindi occorre guardare ad essa come una cifra filosofica che recuperi quell'antico rapporto fra parola e cosa, fra signum e res. Da questo punto di vista è importante rilevare quanto Ricoeur asserisce riguardo alla mimesis:

La mia tesi circa la mimesis dell'opera narrativa e la mia distinzione dei tre stadi della mimesis-prefigurazione, configurazione, trasfigurazione del mondo dell'azione grazie al poema-esprimono la medesima preoccupazione ricongiungere la precisione dell'analisi con l'attestazione ontologica.5

La mimesis in realtà prelude all'istanza ontologica perché esibisce un essere come della cosa, ma d'altro canto, essa concerne anche un come se nel senso kantiano di als ob per cui porta al linguaggio un'esperienza di verità più alta, non determinabile ma ravvisabile qui ed ora nella speranza di un mondo altro. Configurazione e trasfigurazione, quindi, si danno insieme, ma questo è possibile perché l'agire ed il patire dell'uomo si consolidano nel. linguaggio per dire un non ancora ed un'ulteriorità già intenzionati nell'azione come metafora. Come dire che l'actus directus dell'azione non potrebbe darsi senza l'actus reflexus di un ritorno su di sé. E forse non è la poesia, il testo narrativo una trasfigurazione consapevole del proprio commercio con il mondo?

Ricoeur ci guida ancora una volta a riflettere su questo, spostando l'attenzione in modo decisivo sul chi, ovvero sul soggetto di imputazione convocato a riconoscersi dopo il lungo detour attraverso la pluralità delle sue azioni, la sua volontà, il suo patire. Egli afferma:

La riflessione è questo atto di ritorno su di sé mediante il quale un soggetto ritrova nella chiarezza intellettuale e nella responsabilità morale il principio unificatore delle operazioni tra le quali si disperde e si dimentica come soggetto.6

L'actus reflexus è un guadagno in trasparenza, sebbene l'ermeneutica insegni, interagendo con la fenomenologia, che in quella poderosa operazione di Sinngebung che il soggetto deve fare con sé, in quanto storicità, non ci si risolve mai in autotrasparenza. Questo ci permette, in ogni caso, di individuare, non solo quel filo dei doppi pensieri manciniano, ma altrettanto quel nucleo di trascendenza dell'umano per cui, secondo l'asserzione pascaliana, l'homme depasse toujours l'homme. E noi intendiamo analizzare tale superamento come apertura trascendentale che, usando una bellissima quanto pregnante espressione di Dietrich Bonhoeffer, che ci sarà altrettanto prezioso compagno di viaggio, potremmo definire come disciplina dell'arcano.7 Espressione, si diceva alquanto pregnante, per mettere in evidenza non solo l'alterità che costituisce l'ipse dell'identità. ma anche quell'al di là nel prossimo al di qua, per dirla con Ernst Bloch che colora di speranza la sostanza delle cose e che fa trascendere la stessa identità nella fedeltà etica ad un alleggerimento della terra. Anticipiamo già qui il Leitmotiv teologico che sottende questo approccio filosofico e che ne sfida in modo salutare il suo costituirsi, quello rahneriano del Cristianesimo anonimo che permette alla filosofia di accostarsi alle masse di vita religiosa come al suo proprio en haut e en avant.

La connessione fra finzione narrativa ed azione, il cui versante semantico e fenomenologico è stato a lungo esplorato da Ricoeur, sottende una forza euristica che permette di evidenziare come l'agire sia capace di aprire altre dimensioni della realtà. Per questo motivo Ricoeur parla di una poetica della volontà, la quale si collega ad un'immaginazione condivisa, declinabile nel paradigma della speranza che assume nel suo darsi una connotazione politica nel senso più ampio del termine. Questo significa da un lato il carattere comunitario dell'azione, mentre dall'altro sottende la sua progettualità incessante del suo avanzare trascendendo il qui e l'ora. L'azione è quindi una sorta di ermeneutica della speranza nella quale l'actus reflexus sta per la significazione del vissuto, poiché non si è contenti di semplicemente vivere. Occorre però meglio fissare l'attenzione sul carattere ermeneutico dell'azione. Essa implica sempre l'espressione del proprio modo di essere nel mondo, ma il carattere mondano di questo esser-ci, che si esplica nella linguisticità, nel discorso, nel dialogo, per cui è sempre un essere con gli altri, necessita di essere plasmato in una immagine, anzi una sorta di attività immaginativa nella quale disporre il dover essere come in una sorta di schematismo di marca kantiana, perché il non-ancora utopico sia leggibile nel tessuto storico. Come già Ricoeur ben sottolineava si tratta sempre di una configurazione-trasfigurazione; potremmo aggiungere di una forma simbolica nella quale l'umano converge perché parte di una verità più grande, intenzionata e non meramente riducibile alla datità storica.

Ricoeur può quindi asserire:

In questa immaginazione anticipatrice dell'agire che io «provo» diversi corsi eventuali dell'azione e che «gioco» nel preciso significato della parola, con le possibili pratiche. È in questo punto che il «gioco» pragmatico riprende il gioco narrativo [...]; la funzione del progetto, volta verso l'avvenire, e la funzione del racconto volta verso il passato, sis cambiano allora i loro schemi e le loro griglie, il progetto prende a prestito dal racconto il suo potere strutturante, e il racconto riceve dal progetto la sua capacità di anticipazione.8

Come si diceva, l'anticipazione funge da schematismo latens, che è, insieme, lo spazio comune di confronto e mediazione per termini così eterogenei come la forza che spinge alla spalle e il fascino che seduce e attira in avanti, le ragioni che legittimano e fondano dal di sotto.9

Tuttavia, per ritornare al senso antropologico già specificato, è necessario evidenziare come l'azione conduca ad un punto in cui la concentrazione sul chi determini una sorta di ex-centrazione, in modo tale che essa si orienti all'umano e lo trascenda, ma trascendendolo, lo riveli nella sua verità. Suggestiva a questo proposito la citazione di Paul Celan che nel poema Un passo fuori dall'umano tratteggia l'utopia come quel convergere dell'umano con un suo oltre indeterminabile da un punto di vista kantiano, scrivendo che l'utopia, come l'in avanti dell'azione umana è in una sfera diretta verso l'umano, ma eccentrica. Anche in questo caso la logica è paradossale; soltanto dimenticando la centralità dell'umano (o forse, in questo caso quella del soggetto), si recupera l'umano. In altri termini, l'azione delinea in una certa misura un criterio di trascendenza; nell'azione ci si oblia in nome di una verità più alta, universale che investe, tuttavia, la concretezza dell'esistenza incarnata. Qui è il nodo di una apertura al dato teologico, la cui condizione di possibilità trascendentale è fornita da una criteriologia della testimonianza e sul valore dell'azione come testimonianza fisseremo a lungo la nostra attenzione per decifrare nel tessuto dell'agire stesso la possibilità di un'esperienza storica della grazia, da cui il pensiero della prassi, ben lungi dall'essere sminuito è invece sostenuto e valorizzato.

Andare verso l'umano è dunque trascenderlo. Questo è il senso fondamentale a cui siamo pervenuti. Ma questo trascendere è ad un tempo ciò che connota antropologicamente l'azione, in quanto tale trascendenza si collega inevitabilmente alla temporalità, altro tratto connotativo della condizione umana su cui si declina la parabola della promessa e del perdono. Anche nel caso di queste due categorie che si esplicano nell'umano ma la cui referenzialità è meta-umana, la logica dell'umano è inverata in quanto è trascesa. Dovremo, pertanto, affrontare la questione a partire dalla categoria di inizio in un continuo giro di vite fra storico ed eterno, fra evento fondatore e attualizzazione storica, adottando come criterio ermeneutico l'agire sacramentale per vederne le notevoli implicazioni filosofiche.

Hannah Arendt da un lato e Dietrich Bonhoeffer dall'altro forniranno il supporto alla tesi secondo la quale l'agire umano è un rispondere ad un evento ed un incontro, che potremo riassumere, il che è inedito come cifra filosofica, ma proprio per questo ne ravvisiamo la pregnanza, resurrezione.10

La sfida viene nuovamente ripetuta: quanto può la filosofia sopportare l'enorme massa kerygmatica che ha la sua ragione d'essere in questo evento affatto inedito? Ma se essa lo può fare, e di conseguenza può accettare la provocazione forte che gliene deriverebbe, non sarebbe proprio qui la sua riserva di senso? Noi restiamo alla domanda, certi che porre in modo adeguato le questioni sia già un incedere verso l'incontro con la verità; d'altro canto questo essere nell'erranza è quanto di più salvifico si doni al pensiero, perché la sua penultimità non chiude l'efficacia dell'atto e dell'evento alla sfera del finito ma si attesta sulla soglia di un'attesa. Ultimo e penultimo si intersecano, come evento fondatore ed attualizzazione, dello stesso, ma, come ogni attualizzazione segna la novità della presenza, ogni penultimità diviene gesto annunciatore del nuovo ed inedito.

Procediamo, in ogni caso, secondo l'ordine. In primis: l'inizio. Hannah Arendt osserva in Vita activa:11

Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini prendono l'iniziativa sono pronti all'azione. Initium ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit (perché ci fosse un inizio fu creato l'uomo, prima del quale non esisteva nessuno», dice Agostino nella sua filosofia politica. Questo inizio non è come l'inizio del mondo, non è l'inizio di qualcosa ma di qualcuno che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell'uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e, questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l'uomo ma non prima.12

Il cominciamento è conforme alla libertà ed essa è quanto fa dell'uomo una creatura che condivide con il Creatore la capacità di inizio, in tal senso ogni azione nel tempo risponde a quel primo inizio per cui il mondo è creato. L'agire libero come cominciamento, dare inizio a qualcosa è connotato ontologicamente dalla libertà stessa del Creatore. Quindi non solo la libertà fu creata con l'uomo, ma nell'agire libero l'uomo riconosce la gratuità dell'agire di Dio. Dunque l'agire diviene risposta a questa affidata libertà dell'inizio, rivelando in tal senso l'esistenza di un tempo assiale, un evento fondatore infinito che si dona senza mai ripetersi negli innumeri kairói umani. Che Hannah Arendt assuma tali categorie teologiche è indicativo di quella necessaria esplorazione circa le implicazioni filosofiche di questa coscienza. Del resto è proprio tale acquisizione a sancire una sorta di fenomenologia della vita umana, che si riappropria di sé nel momento stesso della dimenticanza della sua chiusura, e nella consapevolezza di poter essere avvio e dunque apertura. In altri termini, heideggeriani, più in alto della realtà sta la possibilità.

Sotto questo aspetto, la notissima allieva di Heidegger opera una connessione fondamentale fra vita ed azione, superando la mera naturalità nella creaturalità, cifra più saliente dell'antropologia filosofica, ancora una volta intrecciata alla teologia. In ogni caso la creaturalità è anche la categoria più appropriata per indicare sia una trascendenza in senso verticale, se pur qui ne manteniamo il solo valore di apertura di senso fenomenologica (Sinngebung), sia per individuare una trascendenza orizzontale che immette nella pluralità della relazione e nella comunicabilità dell'azione stessa. Dunque la vita è questo intessersi di azione e discorso entro cui essa assume la sua significanza. Come afferma Hannah Arendt:

Tutte le attività umane sono condizionate dal fatto della pluralità umana, dal fatto, cioè che non un Uomo ma degli uomini al plurale abitano la terra e in un modo o nell'altro convivono. Ma soltanto l'azione e il discorso si riferiscono specificamente al fatto che vivere significa sempre vivere fra uomini, tra coloro che sono miei eguali. Per conseguenza, quando mi inserisco nel mondo, si tratta di un mondo in cui sono presenti altri inizi. Azione e discorso sono così strettamente correlati perché l'atto primordiale e specificamente umano deve sempre anche rispondere alla domanda che si pone per ogni nuovo venuto: «Chi sei? ». L'apertura del chi si è implicita nel fatto che un'azione priva di discorso in un certo modo non esiste, o se esiste è irrilevante (... .) Esattamente come ha detto Dante, con una concisione che non saprei eguagliare (De Monarchia, I, 13) «Giacché in ogni azione ciò che è primariamente inteso dall'agente (... . .) è la rivelazione della propria immagine.13

Da queste righe emergono significative istanze:

Siamo, di conseguenza, immessi sulle altre due significative connotazioni dell'azione: il perdono e la promessa. Sarà ancora una volta Hannah Arendt ad accompagnare la nostra riflessione, individuando nell'azione in quanto rivelazione, più che realizzazione, una struttura aperta ad un chi si è sempre da conseguire, il quale funge da criterio antropologico per una fenomenologia del tempo che è sempre assiale e paradigmatico ma anche capace di intenzionare il kairós che lo supera. Nell'agire, il tempo è decisione e questo decidere è ad un tempo struttura anticipante. Questo ci immette però nell'ambito dell'irreversibilità dell'azione, che sembrerebbe contrastare con quanto si diceva circa il suo carattere aperto. Vi entra una logica paradossale. In effetti ciò che l'azione determina come fatto, anche solo come fatto storico, è incancellabile, quod factum infectum non fit, eppure la possibilità della redenzione entra nell'azione fino a mettere in discussione anche l'irreversibilità della stessa. In quanto responsabilità, infatti, l'azione ha nella sua natura la capacità della promessa, e la sua potenzialità è ad un tempo anche il perdono come intrinseca conseguenza della capacità di inizio. Tutto questo, in ogni caso, non inerisce a qualche facoltà più alta, quanto invece alla stessa apertura trascendentale dell'agente. Riportiamo, in tal senso, un'affermazione di Hannah Arendt

Senza essere perdonati, liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, la nostra capacità di agire sarebbe per così dire confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci; rimarremmo per sempre vittime delle sue conseguenze, come l'apprendista stregone che non aveva la formula magica per rompere l'incantesimo. Senza essere legati all'adempimento delle promesse, non riusciremmo mai a mantenere la nostra identità; saremmo condannati a vagare privi di aiuto e senza direzione nelle tenebre solitarie della nostra interiorità, presi nelle sue contraddizioni e ambiguità -- tenebre che solo la sfera luminosa che protegge lo spazio pubblico, mediante la presenza degli altri che confermano l'identità di chi promette e chi mantiene, può dissolvere.15

Arendt evidenzia come il contesto relazionale dell'esistenza umana possa essere lo sfondo ontologico nel quale l'azione trova la sua capacità di trascendere il singolo atto ed immettersi in una sfera antropologica più ampia, quella della storia, nella quale, però, la possibilità protegge da ogni irreversibile determinatezza, preludendo, in qualche misura, alla sfera della creaturalità sempre da perseguire. In effetti, il potere della promessa connette all'agire responsabile per l'altro, come criterio di un'etica aperta, ed investitura per le generazioni (E. Balducci), permettendo altresì all'azione di farsi significato di un senso. Per questo motivo un'idea che si traduce in atto apre un quid novi, istituisce un diverso spazio di condivisione, fino ad essere accolta e attualizzata in un contesto sociale più ampio, ad essere inverata come evento comunicativo ed emancipativo. Questo si potrà, ad ogni modo, meglio chiarire attingendo alle riserve della teologia cristiana, specie nel suo aspetto ecclesiologico, ove la sacramentalità dell'atto rimanda sempre ad un'origine (memoriale) pur nell'apertura al futuro della promessa sancito dal fatto che il contesto ecclesiale, in quanto mystica persona, si configura come assunzione ipostatica del Cristo presente nella comunità.

Tuttavia, non si può dimenticare l'altro aspetto che è quello del perdono, capace di riscattare l'irreversibilità della chiusura costringendola in una tragica scrittura del soggetto e della sua ultima desolazione. Proprio il carattere relazionale dell'azione fa si che essa si inserisca in una pluralità di inizi nei quali anche il male possa venire riscattato nella responsabilità dinanzi al mondo. Ciò implica un portare la contraddizione riassumendola in una più grande fedeltà all'umano, che lo possa contemplare dal punto di vista dell'esistenza redenta. In merito non possiamo non tener conto dell'immensa letteratura dostoevskijana che con-sona in modo sorprendente con questo passo arendtiano, legittimando la nostra prospettiva ermeneutica di un'azione che si recupera come significato della vita a partire dalle opere, in particolare dei testi che sono sempre delle trascrizioni di emblematiche esperienze umane; il che ci riconduce al contesto incarnativo come a quella condizione più prossima ed intima da essere inoggettivabile, in cui il sé umano si riconosce nel rischio del proprio essere convocato, anche dinanzi all'atto altrui. Anche qui si dà una sorta di dialettica fra solidarietà col peccato e solidarietà nella grazia che permette di assumere la colpa non già come stigma di una finitudine irriducibile, quanto invece come possibilità di redenzione anche e soprattutto dove può sorgere lo spettro di un male che ristagna nell'ultima desolazione. Interviene qui, una sorta di necessario sacramentum naturae, traducibile forse come fides implicita, che permette di delineare nella città della terra il corpo della città di Dio, proprio a partire da questo agire per l'altro e anche in sostituzione, fino alla pura dimenticanza di sé, che traduce il senso della kenosis cristica.

Hannah Arendt sottolinea meglio altrove una connessione fra facere e diligere che recupera a nostro avviso l'accezione dell'agire sulla base di un'ermeneutica della grazia.16 L'antica allieva di Heidegger si sofferma, in quest'analisi del concetto di amore in Agostino, sul mondo inteso come creazione ma anche come sfera etica nella quale il Mit-sein non sia solo il mero con-essere, ma anche il diligere, nel senso di un habitus che faccia del mondo stesso il luogo delle passiones Dei.

Ci soffermiamo sul passaggio più pregnante:

Si chiama mondo, in effetti, non solo la creazione di Dio, il cielo e la terra... ma analogamente tutti gli abitanti del mondo sono chiamati mondo... di conseguenza tutti coloro che amano il mondo. Il mondo sono dunque i dilectores mundi. Il concetto di mondo è duplice: mondo è, da un lato, la creazione-coelum et terra- di Dio preesistente a ogni dilectio mundi, dall'altro il mondo umano che ricostituisce nell'habitare e nel diligere.17

Si parla qui di una mondità del mondo e di una mondità dell'uomo, sottese nell'uso di mundus ma questa mondità, talora, concerne in senso più generale l'essere nel mondo di heideggeriana memoria, e corrisponde dunque ad un dato fenomenologico incontrovertibile. Tuttavia, questo non si riduce ad un'ontologia della finitudine, ed è proprio l'interpretazione di Agostino a venirci in soccorso. L'essere nel mondo come creatura è in sintesi memoria e attesa, e la distensio animae di cui Agostino parla ne è un'indicazione. Proprio l'essere nel mondo della creatura fa in modo che essa divenga quaestio a sé e nel suo domandare circa sé incontra l'ante, il Creator18

Tuttavia, qui, si dà una doppia dialettica che rimette in connessione, a nostro avviso, l'agere e la gratia, per cui l'essere nel mondo è non essere del mondo, se pure è necessario esercitarvi l'atto della caritas, il cui vincolo alla dilectio proximi, si contrappone tipologicamente alla solidarietà del peccato che unisce le creature nel loro divergere dal Creatore, e dalla quale esse sono rigenerate, ri-elette. La caritas nella quale Dio elige ex mundo è l'atto stesso con cui l'uomo converge a Dio, in quanto teminus ad quem della sua dilectio. In tal senso la creatura non è del mondo, ma nel mondo deve volgere questa sua dilectio, nella caritas. La dilectio proximi è dunque la relazione retrospettiva che permette alla creatura di rivolgersi a Dio solo, ma che le permette altrettanto di essere nel mondo in quanto creazione di Dio pura imitatio di quell'Amore fino alla kenosis, che è segno inconfutabile dell'appartenenza all'ordo gratiae.

Da questo punto di vista si intenderebbe anche in modo meno equivoco la questione del sola gratia, che, in tal senso, non implica la svalutazione della creaturalità e del suo agire, quanto invece la coscienza di un agire nell'amore di Cristo, in quanto la dilectio ante della creazione divina ha scelto nell'humanitas il soggetto possibile della Sua azione nel mondo, scegliendo di manifestare la Sua immagine in quella dell'uomo. Agire nel mondo è aderire all'azione di Dio per il mondo.

Ecco dunque che l'inizio si riferisce alla possibilità che la creazione divenga sempre più creazione, il perdono alla possibilità che l'azione divenga il divergere dalla chiusura dell'amor sui e sia apertura all'altro, rispondente e responsabile; la promessa, infine alla possibilità che l'azione dica di una trascendenza e di un senso che superano il mondo, contribuendo altresì alla comprensione dell'esser-ci del mondo.

Agire è, in ultima analisi, dare un senso all'eccedenza nella quale si è, se pur non tematizzata, ma certamente intuita in un istante rivelativo di sé e del mondo, in un incontro con il sé e con l'altro, dove l'iniziativa iniziata e la libertà affidata dell'uomo recuperano un rapporto con l'origine in cui è inscritto, già hic et nunc il futuro come evento di senso.

2. Agire davanti a Dio senza Dio: la via di Bonhoeffer al Cristianesimo in un mondo adulto

L'esigenza di coniugare il Cristianesimo con questo orizzonte di pensiero si fa via via più serrata, proprio per il fatto che non di una rinuncia al pensare si tratta, quanto di indagare e sondare quali implicazioni filosofiche si prospettano alla fede ed anche quale paradigma di fede il pensiero può accogliere in un mondo adulto. Si tratta di ricomprendere il linguaggio e la verità della Rivelazione, si tratta ancora di leggere l'idea della kenosis e della Croce nell'ambito di un contesto secolarizzato, si tratta inoltre, di cogliere la sfida per cui la secolarizzazione è lo spazio di un più autentico e cosciente scoprire il messaggio del Cristianesimo come possibilità di istituzione di una prassi autenticamente umana.

Scegliamo, a questo punto del percorso, la compagnia di Dietrich Bonhoeffer, proprio per l'estrema fedeltà alla sua vocazione di cristiano e di abitatore della storia, la cui coscienza di essere testimone del Cristo presente nella comunità, lo ha indotto ad un abbraccio serrato e drammatico alla sua storia ferita. La sua proposta di un Cristianesimo non religioso, maturata nel lager di Flossenbürg, ma ancora prima possibile risposta alla domanda che assillava il teologo e il credente Bonhoeffer, cioè che cosa significa Cristo oggi, ci sembra fondamentale; certo non si tratta di una risposta data una volta per tutte, ma un invito a recuperare la vivezza della Rivelazione e a decifrare nel Grande Codice della Bibbia la possibilità di un'emblematica esperienza umana, entro cui si apre lo spazio per una coscienza vissuta dell'alterità e della trascendenza di Dio come l'esistere per l'altro. Dunque ritrovare in quel testo l'azione stessa di una prassi liberante, che è partecipazione all'umano, nel senso di una partecipazione messianica alle doglie del mondo nuovo; un ritrovamento che è possibile grazie alla chiave ermeneutica della Persona Christi, che si traduce nel pensiero bonhoefferiano tanto nella Sequela quanto nel concetto di rappresentanza (Stellvertretung), che è l'esistere per gli altri. L'operazione ermeneutica bonhoefferiana ci sembra di assoluta importanza perché permette di applicare al tessuto storico la passione per il possibile, la denuncia e l'annuncio profetico del novum, individuando nei gesti e nella prassi umana della fedeltà alla terra l'istanza della kenosis come forma di esistenza totalmente data per l'altro. Già prima di Levinas, Bonhoeffer individua in questa forma etica la possibilità di una nuova trascrizione ontologica che si innerva, come vedremo, sull'idea dell'Incarnazione. Per questo motivo egli ridiscute la proposta cristiana spogliandola da ogni forma metafisica che fa di Dio un'enfasi mondana, liquidando così il Dio tappabuchi, in modo che sulla chiave di volta dell'Incarnazione anche le categorie di ultimo e penultimo acquisiscano una semantica altra.

In una famosa lettera dal carcere la proposta inaugurante del suo pensiero:

Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana è arrivata alla fine (spesso anche per pigrizia mentale), o quando le forze umane vengono a mancare, ma è sempre il deus ex machina che chiamano in campo, sia per la soluzione dei problemi irresolubili, sia perché soccorra il fallimento umano, sempre sfruttando la debolezza umana, ovvero sempre ai limiti dell'umano. Questo inevitabilmente riesce sempre e soltanto finché gli uomini con le loro forze non spingono i limiti un pò più avanti e Dio in quanto deus ex machina diventa superfluo. Il discorso sui limiti dell'umano è divenuto per me problematico (sono oggi ancora autentici limiti la morte che gli uomini quasi non temono più o il peccato, che gli uomini quasi non comp9rendono?), mi sembra che si voglia con questo far spazio a Dio solo nell'angoscia: e io voglio parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nella debolezza ma nella forza, non nella morte e nella colpa, ma nella vita e nel bene dell'uomo. Raggiunti i limiti mi sembra meglio tacere e lasciare irrisolto l'irrisolvibile. La fede nella Resurrezione non è la soluzione del problema della morte. L'al di là di Dio non è l'al di là delle nostre possibilità di conoscenza. La trascendenza teoretico-conoscitiva non ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio. Dio è trascendente al centro della nostra vita. La Chiesa non sta là dove le forze umane vengono meno, ai confini, ma al centro della città. Questa idea è veterotestamentaria e in questo senso leggiamo poco il Nuovo Testamento a partire dall'antico. Come appaia questo Cristianesimo non religioso e quale forma assuma è ciò su cui sto meditando molto.19

Venuta meno l'ipotesi del Dio tappabuchi, non viene meno né il Cristianesimo, né la possibilità di una prassi storica orientata nel senso del kerygma cristiano. Anzi su questo congedo riappare nuova l'idea di un Dio che si fa storia con e per l'uomo, riappare come la cosa più nuova anche il messaggio dell'Antico Testamento, sempre teso a rendere ragione di un Dio che elegge l'uomo suo partner, che chiede all'uomo non la debolezza, ma la forza di essere colui che porta la Sua Parola, che sappia profetare in rappresentanza, e confessare la centralità di Dio nella sua storia. Per questo l'antico ed il nuovo hanno una continuità; Gesù è in tal senso la concretizzazione dell'essere di Dio nella centralità dell'uomo, una concretizzazione che avviene in modo via via crescente tanto più la Sua Rivelazione manifesta il suo essere ed agire in relazione a.

Tuttavia questa consapevolezza implica la necessaria età adulta del mondo, nella quale, occorre ribadirlo, non si dà un contrasto con la Rivelazione, su cui è per altro inscritta la progressiva acquisizione dell'età dello Spirito, che fa di ogni credente un testimone nella storia, anzi è proprio questo il tempo di vivere davanti a Dio senza Dio. Questa frase paradossale di Bonhoeffer va senz'altro spiegata sulla scorta dell'abbandono del deus ex machina come ipotesi metafisica, che sancisce per altro l'abbandono del sacro come connotazione del divino. Tanto più che il teologo martire della follia nazista ribadisce con altrettanto vigore nella sua opera Atto ed essere:20

Un Dio che c'è non c'è. Dio è nella relazione personale e l'essere è il suo essere persona.21

C'è non significa qui si dà nel senso heideggeriano, quanto invece la possibilità di un Dio manipolabile come ente, sia pure il summum ens, assurto ad enfasi del mondo. Il suo essere persona, al contrario, che lo fa accadere nella relazione dice di una Sua appartenenza all'uomo e dell'uomo all'uomo, ma rimanda al contesto storico dell'azione possibile e responsabile. Dunque senza Dio dinanzi a Dio vuol dire assumere l'esistenza come Lui l'ha assunta, consumata nell'essere per gli altri, ritrovando nella debolezza della kenosis l'efficacia della Sua azione salvifica, e ravvisando nell'imitatio il criterio ermeneutico per un alleggerimento della terra. Tuttavia, l'accento va posto su questa continua interazione fra ultimo e penultimo, che forse ci fa porre legittimamente la domanda circa ciò che è umano e ciò che è soprannaturale. Siamo certo nell'ambito di quei doppi pensieri manciniani che indicano la necessità di tenere insieme i due contrari, ma la compossibilità di umano e soprannaturale è data, in tal caso, dal perno dell'incarnazione, che è icona dell'umano e della sua trascendenza. Non solo, la cosa risulterà ancora più chiara dal momento in cui si affronterà un concetto come la disciplina dell'arcano, che è senz'altro una ulteriore felice acquisizione del pensiero bonhoefferiano.

Una preziosa indicazione ci è fornita proprio da Italo Mancini, il quale, nella prefazione all'edizione italiana dell'Etica osserva:

La cristologia bonhoefferiana non proclama dunque soltanto la fine dell'in sé teologico e dell'in sé umano, ma permette il realismo dell'azione in forza di una struttura in cui Dio e il mondo sono già sintetizzati in una situazione storica e quindi, indicativa, e non in una situazione ideale, e quindi normativa o imperativa. Certamente può sembrare scandalosa una simile compromissione di Dio con il mondo, soprattutto per coloro che vogliono salvare il carattere di eccezionalità della Parola di Dio, Ma tant'è la soluzione etica bonhoefferiana tocca i suoi bersagli polemici proprio sulla terraferma di questa struttura. Che cosa infatti diventa d'ora in poi il bene? Bene è la partecipazione alla realtà di Dio che nell'essere di Cristo è compromesso con l'essere del mondo. Il cristiano ha in Cristo questa doppia tangenza e questa doppia responsabilità.22

Se teologicamente, Cristo rappresenta il già dell'eschaton sempre realizzato e il non ancora della definitiva promessa di Dio, assumere la cristologia in un ambito filosofico implica tematizzare più chiaramente la riserva critica sancita dal pensiero e attestarsi nell'ambito stesso della domanda di senso, che non può essere sostenuta né dall'Aufhebung hegeliana e dalla sua sintesi dialettica, né dal positivismo della storia declinabile talora nel radicalismo dell'immanenza che è in fondo una larvata via al compromesso. In effetti, pur ammettendo che nella cristologia è presente una forma di superamento, per cui il penultimo respira e ha senso perché l'ultimo gli si dà come orizzonte tensivo (e qui è possibile recuperare il locus classico del telos dell'azione come tensione al bonum), è pur vero che la storia e la sua penultimità non viene confutata e cancellata nel lampo di un escatologismo surrogatorio, ma confermata nella sua ragion d'essere di possibile luogo della fedeltà etica. Come asserirebbe Ernst Bloch, in tal senso l'al di là è il più prossimo al di qua, togliendo a queste metafore la connotazione spaziale, leggendole al contrario nel senso di una temporalità in cui l'oggi della fedeltà alla relazione con l'uomo e la storia testimoni, da un punto di vista teologico, la capacità di irruzione del Regno.

Dunque l'essere di Cristo come manifestazione e parabola del Dio trinitario sancisce ad un tempo l'essere in Cristo dell'uomo, per cui la sua azione può divenire un'azione sacramentale. Ammettere questo, tuttavia, significa connotare di una semantica nuova il concetto di partecipazione ontologica, che, diviene, quindi, il senso di un esserci come progetto, non sancito dalla gettatezza della nuda fenomenalità, ma aperto alla e dalla possibilità di dare senso al Cristo, sia pure nell'anonimato di una drammatica ricerca, nel gesto inerme di chi si assume l'impegno della denuncia, vivendo l'amore come fatto politico (Dorothee Soelle), e ancora nell'impegno quotidiano e storico contro la guerra, la violenza, l'emarginazione. Tutto questo, Bonhoeffer chiamerebbe partecipazione messianica ai dolori del regno.

Nella già citata lettera del 30 aprile 1944, il teologo della Bekennende Kirche individua una categoria efficacissima per evidenziare ancor più efficacemente la tangenza di ultimo e penultimo. Si tratta della disciplina dell'arcano. Tale figura viene citata nell'ambito della serrata domanda del giovane pastore circa chi sia Cristo oggi per noi e circa il valore del Cristianesimo nella storia come forma di spogliazione e di responsabilità per il mondo. Qui, tuttavia, l'interrogativo diviene ancora più urgente. Bonhoeffer ritiene, infatti, che

Cristo, quindi, non è più oggetto della religione, ma qualcosa di totalmente altro, il vero Signore del mondo.

Tuttavia tale consapevolezza non risolve ma apre più ampiamente il problema. Infatti, con una intensità drammatica, Bonhoeffer prosegue:

Ma cosa significa questo? Cosa significa nell'ambito di un culto e di una preghiera non religiosi? La disciplina dell'arcano, ovvero la distinzione fra Ultimo e Penultimo assume un'importanza nuova?23

La disciplina dell'arcano può corrispondere al termine mistero che, a nostro avviso connota l'agire fondato in verità. Essa indica, a nostro avviso anche l'eccedenza, con cui un'azione storica si dà nell'esser-ci nel mondo, mostrandosi già nella sua efficacia sovratemporale. Si vedano gli episodi di testimonianza fino al martirio, già pregni di una passione per il possibile che guarda il mondo dal punto di vista della redenzione. Là dove Bonhoeffer parla di disciplina dell'arcano, Hannah Arendt asserisce, in una notevole convergenza, che la caritas è la soluzione all'aporia della temporalità, dunque è quanto conferisce all'azione la capacità di dare significato ad un senso, di significare fenomenologicamente la vita, senza che questo sia necessariamente come dice Ricoeur un'interruzione della vita stessa.

Chiaramente escludiamo, qui, ogni vitalismo ut sic; in ogni caso l'agire che si sa sostenuto da tale eccedenza, che la si chiami disciplina dell'arcano o caritas comprende anche la sua efficacia veritativa nel momento in cui riconosce la solidarietà con l'uomo e con il mondo, mantenendola come apertura all'inedito, secondo quanto già si diceva, nella prima parte del lavoro, sulla scorta dei diari di Lukacs.

Bonhoeffer termina però la pericope della lettera con un'altra domanda pressante circa il culto e la preghiera, che passano attraverso una desacralizzazione necessaria. Non si tratta certo di una svalutazione, e gli ultimi istanti di vita del pastore della Chiesa confessante lo mostrano. Si tratta forse, e più decisamente, di compiere quel decisivo passaggio per cui rendere culto a Dio è adorarLo in Spirito e Verità facendo in modo che questa veritas sia l'azione per il mondo, che la verità come preghiera mostri il nodo profondo con l'umanità. Ben lo dice Italo Mancini, nei suoi studi sull'ermeneutica e sulla prassi, nei quali la fedeltà al Verbo e la fede nell'Incarnazione si declinano sempre in uno sforzo di alleggerire la terra e nell'insonne ricerca di convergenze etiche per cui l'esigenza di giustizia, espressa mirabilmente nel Discorso della Montagna, lascia le sue tracce indelebili nell'attesa e nell'utopia di una politica, come teoria della terra, attraversata dall'attesa di un nuovo rapporto fra uomo e uomo, uomo e natura. Mancini cerca pertanto di attuare una suggestiva ed efficace lettura di tanti tentativi di coniugazione di quelle che chiameremo sic et simpliciter due fedeltà, per evidenziare fra questi, l'eredità di Lombardo Radice o di Aldo Capitimi che

postula la compresenza dei morti con i viventi e il valore non puramente simbolico ma quasi sacramentale del sacrificio umano, sudore e sangue versati per l'alleggerimento della terra, da legare a quello di Cristo.24

Un altro modo di dire la disciplina dell'arcano che risponde, altresì, alla pressante domanda di Bonhoeffer e che permette anche di leggere la storia come luogo di questa compresenza che è anche la compresenza del mistero come possibilità di orientamento della prassi.25 Proprio avvalendoci di tali istanze possiamo tornare a riflettere sulla compresenza bonhoefferiana di ultimo e penultimo per tentare di dirne altresì la possibilità dialettica. Dietrich Bonhoeffer sottolinea, in effetti, come nella realtà storica siano compresenti l'Incarnazione, in quanto adesione alla vita ed alla storia, la Crocifissione, in quanto contestazione dell'una e dell'altra, come darsi di giudizio e salvezza, ed infine la resurrezione come criterio di infuturazione inedito che pure rende legittimo il penultimo e l'impegno testimoniale di questa eccedenza. La realtà dell'Incarnazione, all'avviso di Bonhoeffer, depura l'etica dal purismo che sconfina nel fanatismo e da un'astrattezza dell'idea del Bene che svuota di senso la realtà storica. Il martire di Flossensbürg scrive infatti:

Ogni volta che si propone all'uomo l'ideale del bene, gli si rovescia addosso «qualcosa» di estraneo, di inautentico, di artificiale, di fantastico, e al tempo stesso di tirannico, senza che l'uomo ne sia veramente toccato nel suo intimo, trasformato e costretto a prendere le proprie decisioni.

Ma

Dacché Gesù ha detto di se stesso: «Io sono la vita» nessuna riflessione cristiane e neppure filosofica può evitare di tenere conto di quest'affermazione e della realtà che essa racchiude [...]. L'azione dei cristiani non nasce dall'amara rassegnazione per l'insanabile contrasto tra vitalità e rinunzia a se stessi, tra «cose del mondo e cose cristiane», tra «etica autonoma» ed «etica di Gesù»; nasce invece dalla gioia per l'avvenuta riconciliazione del mondo con Dio, dalla pace per l'opera di salvezza compiuta da Gesù Cristo, dalla vita onnicomprensiva che è Gesù Cristo.26

Asserire questo implica naturalmente ridonare alla vita ed alla storia la propria legittimità, ma anche ridare alla realtà penultima dell'uomo il suo valore, perché l'incarnazione non è sic et simpliciter la tangente che tocca il cerchio come se non lo toccasse, non è un gigantesco Als ob che svaluterebbe in una sorta di docetismo la stessa storicità del Verbo incarnato. Essa è, al contrario, il cuore della realtà storica, il suo segno di contraddizione e la sua possibilità di riconciliazione.

Si dovrà, tuttavia, rendere conto di questo, fissando l'attenzione su quanto Bonhoeffer sostiene circa la partecipazione messianica ai dolori del Regno. La chiave ermeneutica è ancora una volta l'istanza dell'Incarnazione, in quanto figura perfetta dell'essere di Dio in Cristo e dell'essere di Cristo come esistenza per gli altri. In altri termini, Bonhoeffer dà una lettura attualizzante della dottrina paolina del Corpo mistico, donde il rimando sempre costante fra l'esse di Cristo come presenza di Dio nella storia e l'esse di Cristo presente nella comunità, che corrisponde all'idea bonhoefferiana di Chiesa. La domanda sulla quale ci si deve attestare, dunque, è quella circa il significato per la contemporaneità, di questa incorporazione a Cristo, e, nel nostro caso specifico anche circa la decisività filosofica.

Afferma Bonhoeffer:

La responsabilità verso se stessi è in realtà una responsabilità verso l'uomo verso l'umanità. Il fatto che Gesù abbia vissuto senza una responsabilità coniugale, familiare, professionale, non lo estromette dal campo della responsabilità ma rende ancor più evidente la sua responsabilità e la sua funzione vicaria per tutta l'umanità. Arriviamo perciò al punto fondamentale di tutto ciò che abbiamo detto fin qui. Gesù, che è la vita, la nostra vita, ha vissuto vicariamente per noi in quanto figlio di Dio divenuto uomo; perciò per mezzo di lui ogni vita umana è per essenza una vita vicariamente responsabile.27

Pregnanti qui ci sembrano due termini, il sostantivo responsabilità e l'avverbio vicariamente. In questo contesto essi si declinano indubbiamente in un paradigma di antropologia teologica, ma l'idea di fondo è altrettanto efficace per la filosofia. Innanzi tutto responsabilità ha la radice di rispondere di qualcosa a qualcuno, e questo richiama all'azione come partecipazione all'essere con gli altri. Essere responsabili implica assumersi, farsi carico dell'umanità di ogni uomo, ma questo farsi carico è ad un tempo anche arrivare fino alla sostituzione, quindi si giustifica l'avverbio. L'azione responsabile che si fa carico della dignità e della giustizia, in nome di una città dell'uomo che sia una comunione di volti28 è un'azione vicaria che urge ad assumere anche la colpa ed il male; per dirla con Levinas, a portare la responsabilità etica per il perseguitato e il persecutore, in nome di un'eccedenza che implica la deposizione di sé perché ogni volto sia riconosciuto nella sua ingiunzione al non uccidere, al riconoscimento di una dignità che lo stesso volto manifesta, come epifania dell'Altro. Quanto l'etica di Bonhoeffer incroci l'etica qua philosophia prima di Levinas lo si può comprendere proprio da questa idea di responsabilità come partecipazione e sostituzione vicaria; il primo vi legge l'intera vicenda di Gesù di Nazaret, il secondo ricorre alla figura dell'ebed Jhwh, del servo misterioso dei mirabili carmi di Isaia, che incarna quella che nel mondo biblico si chiama personalità corporativa, e che depone già a favore di una possibile vita vicariamente vissuta, come emblematica esperienza umana. Bonhoeffer prosegue:

In questo suo reale sostituirsi a noi, che costituisce la sua esistenza umana, Cristo è il responsabile per antonomasia. Essendo la vita, egli conferisce a ogni vita un carattere vicario, e se anche una vita vi si ribella, essa rimane pur sempre responsabile e vicaria per la vita e per la morte, così come il padre rimane il padre per il bene e per il male.

Sostituzione e quindi responsabilità sono possibili soltanto mediante il dono totale della propria vita al prossimo. Soltanto chi non pensa a sé vive responsabilmente, ossia, vive.29

La vita di Cristo come essere per gli altri è visibile storicamente in ogni capacità di esistere per l'altro, e qui non può che essere ribadita l'idea di una rappresentanza che si assume il carico del bene dell'uomo, congedandosi definitivamente da quell'idea metafisica del Dio in sé, che Bonhoeffer ravvisa nell'ipotesi del deus ex machina. Come afferma Italo Mancini, si tratta, qui, non solo di una rilettura del groziano etsi deus non daretur che capovolge l'essere di Dio nell'impotenza e nello scandalo della kenosis, ma altrettanto di una sorta di Umkehrung alles menschlichen Seins,30 atto a superare l'individualismo illuministico e la generica spiritualità unificante dell'illuminismo.

Tuttavia, se le cose stanno così, l'ipotesi da noi prospettata assume i tratti di una dialettica paradossale fra teodrammatica ed ontodrammatica che colloca l'azione nell'ambito di una trascendenza sulla cui scorta è possibile parlare di un'ermeneutica della grazia, che riconduce a quella auscultazione dell'altro nel sé ed alla decifrazione del sé, attraverso l'actus reflexus dell'azione come libertà affidata e responsabile. La figura dell'Incarnazione, quindi, assurge a criterio fenomenologico della condizione umana nella sua apertura trascendentale nella quale l'agire nella storia assurge a testimonianza di altro che non è dall'uomo, ossia dal suo essere immanente, ma che nell'umanità dimora come nel tessuto del suo stesso apparire. Non a caso la martyria è presa come criterio di attestazione del valore universale ed universalmente umano dell'azione.

A questo punto, tuttavia, si dovrà affrontare l'aporetica della colpa e il tragico dell'azione, tentando altresì di leggere questo aspetto così forte nell'ambito di quella che si è già definita come criteriologia della testimonianza. La colpevolezza, secondo l'imprescindibile opera di Heidegger, è il dato fenomenologico inconfutabile della finitudine, ma è anche il Da-sein nel quale il progetto esistenziale si trova alla costante decisone per l'autenticità, una volta interpellato dall'Essere. Nonostante si dica, non a torto, che Heidegger esprime una filosofia della finitudine, ci sembra qui, però che le asserzioni heideggeriane abbiano un'incidenza teologica molto pregnante. In effetti, riecheggiano in qualche modo la domanda paolina chi mi libererà da questo corpo di morte e aprono ad una dialettica del giudizio e della salvezza compossibili, che sono un Leitmotiv di tanta teologia riformata. In Bonhoeffer, tale compossibilità paradossale si incarna ancora nella vita di Cristo in quanto essere per l'altro. Qui, tuttavia, si può ben individuare un contrasto con Heidegger, laddove il filosofo di Messkirch, esprime nell'idea di autenticità la chiamata all'unità con la possibilità più propria, mentre la chiamata alla vita in Cristo, in virtù del suo carattere vicario implica una kenosis dell'io. Si dà, qui una vera interruzione antropologica, che immette nella categoria teologica della grazia, la quale getta realmente un guanto di sfida alla filosofia. Asserisce Bonhoeffer:

Quando Cristo, vero Dio e vero uomo, è diventato il centro di unità della mia esistenza, la coscienza rimane ancora sempre formalmente la voce che nasce dal mio essere autentico e mi chiama all'unità con me stesso ma tale unità non si può più realizzare nel ritorno alla mia propria autonomia che vive della legge, bensì soltanto nella comunione con Gesù Cristo. La coscienza naturale anche la più rigorosa, appare allora come la più empia delle autogiuistificazioni, essa è vinta dalla coscienza liberata in Cristo, la quale mi chiama all'unità con me stesso in lui.31

La stessa coscienza, intimo centro del mio essere più proprio, è tale perché partecipe della libertà in Cristo, e questa è la fattualità incontrovertibile dell'evento della grazia, che -- tuttavia -- si dona nella nudità dell'esser-ci storico. In effetti, la coscienza viene definita in termini dinamici dal teologo martire di Flossenbürg, come l'incontro con il Dio vivente con l'uomo vivente, ipostatizzato in Cristo.

Per questo incontro si ha la partecipazione alla vita di Cristo, ma per questo stesso incontro, riteniamo possibile ravvisare il superamento dell'aporia della colpa, non soltanto perché l'incontro con il Cristo, essendo giudizio e salvezza che attraversa la storia negli eventi dell'Incarnazione e della Crocifissione è la giustizia compiuta, ma anche perché esso sancisce in modo inequivocabile la responsabilità vicaria della vita donata a Dio ed al prossimo, in modo che ogni azione sia partecipazione all'azione di Cristo. Il teologo tedesco osserva in modo pregnante:

Mentre Gesù Cristo è per essenza esente da peccato l'azione umana non lo è mai, anzi è avvelenata dal peccato originale; tuttavia, in quanto azione responsabile partecipa indirettamente all'azione di Gesù Cristo, a differenza dell'azione che si fonda sui principi astratti e si autogiustifica.32

L'idea di partecipazione è il perno della dialettica fra il dato incontrovertibile della colpevolezza, che si può intendere come Da-sein e la possibilità di superamento di questa condizione fattuale nell'apertura alla vita di Cristo, da intendersi filosoficamente come quel vincolo solidale che recupera all'azione una ontologia dell'evento, inedita. Quello che teologicamente si può definire solidarietà con il peccato nella grazia, può legittimamente essere visto, da un punto di vista filosofico come la capacità etica di assunzione di responsabilità che sappia attuare non un'idea di bene per sé e di verità per sé ma di quel bene e di quella verità nella storia in cui la giustizia ed il diritto non siano principi astratti ma traguardino ad un'etica del riconoscimento del volto e della dignità che può comportare talora il sovvertimento di un atto considerato sic et simpliciter da un punto di vista forense.33 Così Bonhoeffer continua:

La coscienza liberata dalla legge non temerà di partecipare per amore del prossimo alla colpa altrui, ma anzi dimostrerà appunto in quel modo la propria purezza. La coscienza liberata non è ansiosa come quella vincolata alla legge ma è largamente aperta al prossimo e alle sue sofferenze concrete. Così essa si unisce alla responsabilità fondata in Cristo per prendere su di sé il peccato per amore del prossimo.34

Qui è il nodo di quella che Bonhoeffer chiama partecipazione messianica ai dolori del Regno, in quanto tale libera assunzione rende presente l'Incarnazione e la Croce, ma attesta altresì un'esperienza di senso che orienta la prassi a partire dalla Resurrezione. Il typus di Antigone, citato sopra ha la sua legittimazione piena nel typus Christi, per il quale l'azione responsabile avviene nel rischio della libertà. Sorprendente è questa assunzione della concretezza in Bonhoeffer che nulla ha da invidiare alla fenomenologia della vita concreta heideggeriana, anche se, nel teologo tedesco, la fenomenalità del dato della finitudine è di fatto aperta ad un'ultimità che è quella del kairós della Rivelazione la cui portata inedita è ravvisabile nell'intenzionalità di senso che connota l'assunzione della responsabilità. Da questo punto di vista anche la colpa è riassunta nella disciplina dell'arcano che, da un lato dice l'ineluttabilità dell'esistenza storica e del suo tragico, dato che si tratta, come dice Bonhoeffer, talora, di scegliere fra un'ingiustizia ed un'altra, fra un bene ed un altro, ma dall'altro recupera all'azione un valore trascendente, che possiamo chiamare grazia, e per il quale è forse possibile esclamare Felix culpa.

In questo nodo è dialettizzata, da un lato l'assoluta libertà dell'ingresso nella storia di Dio, fino a fare della storia il luogo dell'incontro con il vivente, dall'altro il fatto che l'entrata nella storia, come incarnazione, non è mera tangenza, ma vero e proprio commercium attraverso la carne, e dunque necessaria coscienza di assunzione della contraddizione, perché colui che era senza peccato si è fatto peccato per noi. Per questo motivo Bonhoeffer ripete:

Operando responsabilmente nell'esistenza storica degli uomini, Gesù si fa colpevole. Null'altro che il suo amore lo fa incorrere nella colpa. Per il suo amore disinteressato Gesù abbandona la propria perfezione ed entra nella colpa umana. L'assenza di peccato e il caricarsi del peccato altrui sono per lui due fatti inseparabilI [...]. Qualsiasi azione costitutivamente responsabile ha dunque origine in Gesù Cristo, l'innocente colpevole.35

Il nesso importante sembra essere quello fra colpevolezza e storicità, altrimenti possibile da rendere nel binomio finitudine-colpa. Si tratta di un nesso fenomenologico irriducibile nel quale si sperimenta il proprio Da-sein. Tuttavia la colpevolezza, diviene, in questo modo riserva di senso, nel momento in cui il suo vincolo, che stringe l'umanità in una comunità misteriosa, viene capovolto in virtù della responsabilità dell'agire, nella quale si scioglie l'aporia della temporalità e l'assunzione della propria storicità diviene criterio di assunzione della storicità di ogni uomo, e si prefigura così il legame fra promessa che ci fa responsabili per l'altro e perdono che è capacità di inizio. Nell'universale concreto del Cristo tutto questo incrocia la storia umana e si fa carne, tutto questo presagisce l'al di là dell'astrazione legalistica e l'al di là del principio, per convergere sulla responsabilità capace di riscattare la finitudine come colpa.

Può la filosofia, giunta sul limite di questa acquisizione non fare un'epoché, sospendendo per un attimo il suo procedere per cogliere l'impensato e l'inatteso che le viene dalla figura cristica dell'azione, in altri termini, può la filosofia non prendere sul serio la kenosis e la Croce, riconoscendole come riserva critica dell'oggi e come segni di una prassi liberante?

3. L'azione come fenomenologia della promessa

Un pittore ci aveva promesso un quadro.
Ora, in New England, ho saputo che è morto. Ho sentito, al pari di altre volte, la tristezza di comprendere
che siamo come un sogno. Ho pensato all'uomo e al quadro perduti.
(Solo gli dei possono promettere, perché sono immortali).
Ho pensato a un luogo prefissato che la tela non occuperà.
Poi ho pensato: se stesse lì, sarebbe col tempo una cosa di più, una cosa, una delle vanità o abitudini della casa; ora è illimitata, in cessante, capace di qualsiasi forma e qualsiasi colore e non costretta
In alcuno.
Esiste, in qualche modo. Vivrà e crescerà come una musica e starà con me fino alla fine. Grazie.
Jorge Larco
(Anche gli uomini possono promettere, perché nella promessa è qualcosa d'immortale)

J.L. Borges, The unending gift.36

I versi introduttivi di Borges ci sembrano sottendere in modo ancora più mirabile il nesso fra azione e promesa, in modo tale che si comprenda ancora meglio in che senso abbiamo parlato di soluzione dell'aporia temporale. La poesia può dividersi in due parti. L'antefatto, prima, poi la riflessione. Fra le due parti, una struttura chiastica: la promessa come immortalità che quindi non compete all'uomo, e la promessa come tensione all'immortalità che, invece, è la stessa vita dell'uomo. Questo paradigma ci sembra molto efficace per individuare nell'azione la possibilità anticipante di una promessa che è farsi carico dinanzi all'altro, convocazione persino dal suo silenzio e capacità di inizio. L'azione sottende un primato della volontà volente che si sa ontologicamente aperta all'infinito e da esso posta, e che per questo si vuole immortale, essa è sostenuta, infatti, dalla coscienza che l'agire è corresponsabile e corresponsoriale, ovvero si esplica in una fedeltà all'eterno che, per la condizione di Incarnazione, non può che tradursi in una fedeltà all'alterità. Dunque essa è una donazione nella quale è possibile riconoscere l'evento ontologico dell'esserci come capacità di futuro. Come dire che il futuro è l'intenzionalità nella quale si attesta l'evidenza stessa dell'agire come tensione a. L'azione è dunque legata a questa fenomenologia della promessa che connota la stessa trascendentalità umana. Il linguaggio della promessa è la stessa connotazione di un agire la cui portata eccede la sua origine e le sue conseguenze, come già si diceva; ragione per cui la spiegazione causale non può applicarvisi; agire, in effetti è sempre comunque dare senso ad un novum, che si inscrive talora nella categoria dell'inattendibile e dell'insperato. Il paradigma biblico di Abramo che spera contro speranza è perfettamente pregnante, e questa stessa impossibile e necessaria speranza si pone come interruzione dell'autoreferenzialità dell'azione stessa e come possibilità di comprenderla nella sua eccedenza, come un dare forma a quella nostalgia della patria non raggiunta e percepita oscuramente, nella quale si innerva la tensione all'essere e a quello che Bloch chiama l'incontro con il Sé (Selbstbegegnung). Paradossale è questo essere spazio possibile dell'impossibile, che, se seguiamo la lettura allegorica della lirica di Borges è la tela mai compiuta, ma che dice di un essere altrove nel quale si è già, pur non essendovi, di un non so che che pure dà senso al qui ed ora. E forse l'azione artistica è quella che meglio di ogni altra rende ragione di questa futurante origine.

Ciò implica l'assunzione di un differente paradigma della soggettività, che, non solo si comprende nell'azione come accusativo nell'interazione con altri, ma anche convocato da altro ed altri, fino a pronunciare le parole della promessa che si esplicano come interruzione della propria chiusura, in una fedeltà all'imprevedibile. È ancora una volta il paradigma di Abramo a soccorrerci.

Il versante ermeneutico da cui valutiamo l'azione, anche in questo caso è la sua linguisticità: promettere, il promettere umano è, infatti, dare la parola. Così osserva Jean Louis Chrétien:

La promessa si apre la via attraverso l'impossibile che attraverso il suo stesso atto e attraverso il suo solo atto essa rende possibile. Ciò che farò non posso saperlo, ma posso prometterlo. La promessa porta in cuore un'oscurità poetica che le è coessenziale. La sua sola chiarezza è profetica.37

Chrétien parla di oscurità noetica, individuando, così, quell'evidenza spirituale intuitiva che ha carattere di protensione ma che non si fonda su alcun telos immediato, semplicemente partecipa di un compito più grande, che è l'evento del mondo come evento etico, come passione per il possibile. Questa eccedenza è grazia che permette di superare le sicurezze dell'oggi e di dimenticarsi nell'assunzione di una responsabilità che riguarda il progresso della storia, in un sostituirsi che, come si è già visto, assume una portata sacramentale.

Da questo punto di vista ci riferiamo alla figura grandissima e sconosciuta di Dag Hammarskjöld, ex segretario dell'ONU svedese, morto in un misterioso incidente aereo negli anni sessanta, il quale intendeva la sua carica politica come l'agire corresponsoriale per l'uomo e adempimento di una vocazione alla fedeltà storica per la quale l'azione assurga a valore paradigmatico di una vita consumata nel servizio.

Nel suo diario, tradotto in italiano con il titolo Tracce di cammino,38 Hammarskjöld, scrive:

Una volta risposi «sì» a qualcuno-o qualcosa.

A quel momento risale la certezza che l'esistenza ha un senso e che perciò la mia vita, nella sottomissione ha un fine.39

L'adesione ad un'alterità interpellante, che pur avviene nel silente dialogo con sé, come già insegna la migliore tradizione filosofica diventa poi, nel suo volgersi esterno l'azione di cui si dà conto, e solo in tal modo, il condiviso senso del mondo. Per questo l'azione è già eccedente nel momento in cui è sostenuta dalla decisione, essa si dà nella storia al di là della stessa storicità che la ospita, essa non sa come il suo incidere avrà forma, quale domani sortirà e se il domani le appartiene, essa reca solo in sé il seme di questo domani che è insieme la promessa insita in essa, senza cui non c'è progetto o redenzione, senza cui non si può pensare salvezza dell'umano e nell'umano. Ma qui si tratta di dar carne ad un'utopia filosofica, e più di un'utopia filosofica, perché ne va dell'umanità, non nel senso di specie, di Gattungswesen in senso marxiano, quanto invece di ogni singolarità che va salvata nel suo senso più pieno, e salvando ogni singolarità si salva e si dà senso ad un mondo possibile. Qui è il nodo di esistenza, azione, persona, ma qui è anche il nodo di quell'essere solidali che solo rivela il mistero che si è a se stessi.

Dag Hammarskjöld è ben consapevole di questo vincolo che consegnandoci alla decisione, riconsegna pur sempre alla responsabilità storica, e questo è vero di qualsiasi esistenza umana, e sembra ricalcare, in sintonia con Bonhoeffer il dramma della responsabilità, dal momento in cui afferma:

Che terribile responsabilità la nostra! Se tu tradisci sarà Dio a tradire l'umanità nel tuo aver tradito lui. Ti illudi di poter assumere la responsabilità verso Dio: puoi assumerti la responsabilità per Dio?40

La misteriosa connessione dell'azione, non solo implica un essere uniti sacramentalmente all'azione di Dio, ma altresì comporta anche la possibilità di coinvolgere Dio stesso nell'opacità della storia, laddove l'ethos subisce una brusca interruzione del suo nomos astratto, e appare drammatico nella cogenza di una situazione via via propria, legandosi alla possibilità di decidere di un bene storico, a cui non è sufficiente l'astrattezza del Bene in quanto principio metafisico. Ci siamo riferiti alla manciniana comunione dei volti sul calco di Levinas per affermare proprio questa idea di responsabilità dinanzi al mondo e questo farsi carico come senso dell'agire responsabile. Farsi carico è assumere la responsabilità per Dio, forse anche etsi Deus non daretur nel senso bonhoefferiano del termine, e questo dice di un inevitabile coinvolgimento storico, di una scandalosa partecipazione di Dio al mistero della colpa, ma altrettanto dialetticamente di una sua partecipazione non ai margini, ma nel bene dell'uomo, laddove l'azione si fa testimonianza di altro e più alto. La cultura ebraico-biblica ed il mondo rabbinico insegnano ineccepibilmente questa connessione, fino a far dire a Dio in un Midrasch, se non mi rendete testimonianza non sono.

Se le cose stanno così, si può realmente introdurre il termine di semantica dell'azione, che assume il suo senso linguistico grazie alla pluralità della sua valenza antropologica. Ci sembra necessario individuare, allora, il nesso che coinvolge promessa e testimonianza, con particolare riguardo al concetto di martyria derivante dalla tradizione cristiana. La promessa è legata alla capacità prolettica, che dice di un eterno al fondo della vita e di una sua oscura intuizione per cui si dà voce e risposta ad un Appello. È necessario, tuttavia, ricordare che la risposta che si dà nella capacità di promettere, proprio per poter essere Sinngebung, deve fare un'epoché rispetto al soggetto cartesianamente inteso. L'oblio del cogito chiuso ed autoevidente sancisce tale epochizzazione a favore di un porre in avanti l'evento di un dono che, dandosi come promessa ad altri, connota sé come sujet convoqué e nella convocazione apre la possibilità di un senso altro.

Levinas parla di deposizione, e proprio in questo deporsi, altro paradigma della kenosis, nel quale l'assunzione agapica dell'altro viene totalmente accolta come compito storico ed escatologico insieme, si può introdurre la categoria della martyria come testimonianza. Italo Mancini stesso ne dà una definizione ineccepibile:

Testimone vuol dire la deposizione di sé, proprio come si depongono i re e l'esistere-per-gli altri, come vero essere di Dio, dopo l'arrovesciamento prodotto dalla Sua incarnazione in Cristo.41

Nel Vangelo e nella tradizione neotestamentaria, dunque, la martyria, non implica innanzi tutto l'idea del sangue versato, che è, al contrario successiva, quanto invece quella che i discepoli hanno preso parte agli eventi fondatori di Gesù. Con il tempo, essa però assume un valore estensivo, e dalla testimonianza dei fatti si passa a quella del kerygma, della conoscenza di Cristo, kata pneûma, che ha a che fare con l'idea della contemporaneità a Cristo nella Sequela. Così l'azione del testimoniare è una riattualizzazione di Cristo, che, nella storia, ha poi significato, dal Protomartire Stefano ai martiri contemporanei, anche un versare sangue. La testimonianza come criteriologia dell'azione kenotica e cristica implica da un punto di vista strettamente evangelico la promessa di una Presenza di Cristo nella sua comunità, per cui ogni testimone sarà un suo imitatore, e farà cose anche più grandi, per virtù dello Spirito. Tuttavia questo implica anche un agire nell'attesa del compimento, inscritto non nell'azione stessa del testimone, quanto nella stessa promessa di Dio, esperita nella fedeltà alla storia, nella quale si è capaci di dare la vita. Appare in maniera decisa la figura della grazia a caro prezzo, di cui parla lo stesso Bonhoeffer, che spinge fino alla partecipazione al destino di un popolo.

L'azione che rende testimonianza, tuttavia, non rende testimonianza di sé, ma della Verità che convoca, e convocando è promessa di un adempimento che necessita dell'azione in quanto possibilità di anticipazione della Verità compiuta. In questo senso potremmo inserire l'azione liturgica come significante di tale anticipazione e come partecipazione comunitaria dell'evento del Cristo che anticipa e testimonia la presenza e la parusia.

Non ci è possibile un ulteriore ampliamento in questa sede, ad ogni modo lo spunto sembra essere prezioso al fine di una riflessione antropologica che necessariamente incide nell'ambito del sapere come compito della filosofia. L'azione connotata dalla testimonianza nella prolessi della promessa implica, come si diceva, una deposizione ma anche, secondo l'affermazione di Mancini:

essere afferrato, penetrato, sequestrato, biograficamente spezzato da una potenza estranea senza che la personalità venga assorbita, «da un essere che è infinitamente più potente», qualcosa di analogo al ferro arroventato dal fuoco.42

È questa interruzione del proprio sé, portata nella carne, come sbilanciamento oltre il tempo e oltre il qui e l'ora a fondare la più autentica corrispondenza a questo evento di senso che, in virtù della promessa si pone come pienezza totale. Possiamo parlare di un totum, certo, assunto ora, però, con ogni riserva critica rispetto al suo impiego dialettico, poiché non si tratta affatto di quella totalità che le dialettiche non hanno raggiunto e che hanno finito per deformare nella verwaltete Welt dei francofortesi; al contrario si parla di un intenzionalità di senso che non può che darsi in un rapporto con la differenza, con l'alterità che convoca in una sorta di partecipazione al suo stesso dono. Per questo, la connotazione dell'azione come semantica, si legittima non solo perché essa è l'istituzione di un mondo da parte dell'uomo, ma anche perché la pluralità dei segni nei quali si esplica dice di un non compimento salvifico, perché apre lo spazio al riconoscimento dei gesti e delle azioni di chi ha spezzato la vita per la città dell'uomo, di chi, vittima fra le vittime ha cercato di scrivere un'altra storia possibile, leggendo gli eventi in quella misteriosa tessitura della Croce, che felicemente il grande teologo Karl Rahner definisce cristianesimo anonimo; altresì essa riscatta quanto storicamente è ambiguo, opaco e colpevole, in virtù di questo esistere per gli altri, in cui ogni altro viene restituito alla sua umanità.

Ed è questo oggi anche il senso di un'etica come filosofia prima.

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Note

  1. H. Arendt, Der Liebesbegriff bei Augustinus. Versuch einer philosphischen Interpretation, trad. it. e cura di L. Boella, Il concetto d'amore in Agostino, Studio Editoriale, Milano 1992. Testo

  2. P. Ricoeur, Du texte à l'action. Essais d'herméneutique II, trad. it a cura di G. Grampa, Dal testo all'azione Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1992(2). Testo

  3. Ivi, p. 8. Testo

  4. Ibidem. Testo

  5. Ricoeur, Du texte..., trad. it. cit., p. 33. Testo

  6. Ivi, p. 25. Testo

  7. Espressione che appare nella lettera dal Lager di Flossenbürg del 30 aprile 1944, contenuta in Widersand und Ergebung, trad. it. Resistenza e resa, su cui ci fermeremo diffusamente nel corso della trattazione. Testo

  8. Ricoeur, op. cit. , p. 216. Testo

  9. Ricoeur, op. cit. , p. 216. Testo

  10. Il perdono e la promessa connotano l'ansia di superamento dell'umano ma possono, nell'ambito filosofico, solo essere interpretati nel senso di una apertura trascendentale su cui è possibile vedere un'intenzionalità simbolica. Ma perdonare e promettere sono già hic et nunc metafora di un nuovo inizio che fa saltare qualsivoglia lettura causale. Questo nuovo inizio, che si dà, perché l'uomo è iniziativa iniziata è la possibilità di sperimentare nell'ora storico l'effetto della resurrezione. Ci sembra pertanto che tale figura corrisponda ad una perfetta traduzione del teologico nell'umano, e sia, in tal senso preziosa per leggere la pregnanza dell'atto oltre la coscienza della determinazione storica. Testo

  11. H. Arendt, The human condition, trad. it. di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994. Testo

  12. Arendt, The human..., trad. it. cit., p. 129. Testo

  13. H. Arendt, Lavoro, opera, azione, le forme della vita attiva, Ombre corte edizioni, Verona 1997, pp. 64-65. Testo

  14. Non estranei a questa prospettiva sono sia le teoria critica della Scuola di Francoforte, sia gli studi di R. Koselleck sul rapporto fra memoria e attesa, sia quelli della teologia politica di Johann Baptist Metz, il quale, sulla pista del dato cristologico, individua nell'agire storico e ancora di più in quello politico la memoria del Dio dei vinti e delle vittime e la redenzione operata dalla Croce, così che ogni agire sulla terra, in virtù di questa redenzione paradigmatica, può essere capacità di comunione con le vittime del passato e apertura di un futuro liberato dalla violenza. Sulla stessa pista ermeneutica sembra a nostro avviso muoversi ogni teologia della prassi di liberazione. Questo sembra allora giustificare la legittimità dell'uso filosofico di categorie teologiche, le quali ci servono da riserva critica ma anche da cifra demistificante rispetto alla dialettica totalitaria di cui abbiamo trattato nella prima parte del lavoro. Testo

  15. Arendt, The human..., trad. it. cit, p. 175. Testo

  16. Arendt, Il concetto di amore..., trad. it. cit. Specie la parte dal titolo Creator inteso come origine della creatura, dove emerge chiaramente il concetto di caritas come dilectio mundi, per la quale il mondo diviene creazione amata e contemplata da Dio. Come dire che è la caritas di Dio, concretizzata nella persona del Figlio ed in quella dello Spirito, che ne sancisce l'intenzionalità salvifica per ogni creatura, il criterio di ogni azione per il mondo, perché divenga ordo amoris. Per lo stesso motivo, nell'esistenza storica civitas Dei e civitas hominis si intersecano. Testo

  17. Ivi, p. 77. Testo

  18. Ivi, p. 82. Testo

  19. D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft. Neuausgabe, hrsg. von Eberhard Bethge, trad. it. di A. Gallas, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni Paoline, Milano 1998, p. 351, con modifiche alla trad. it. Testo

  20. D. Bonhoeffer, Akt und Sein. Transzendentalphilosophie und Ontologie in der systematischen Theologie, trad. it. di A. Gallas e C. Danna, Queriniana, Brescia 1993. Testo

  21. Ivi, p. 103. Testo

  22. Cfr. Prefazione a D. Bonhoeffer, Ethik, trad. it. di A. Comba, Etica, Bompiani, Milano, 1992 p. XXIX. Testo

  23. Bonhoeffer, Widerstand, trad. it. cit, p. 350, con modifiche alla trad. it. Testo

  24. I. Mancini, Scritti cristiani, cit., p. 345. Testo

  25. Sono debitrice di questa idea alla mia amica Alessandra Cislaghi, ricercatrice di filosofia teoretica presso la facoltà di scienze della Formazione dell'Università di Trieste, ai colloqui con lei, nonché al suo libro, Il sapere del desiderio, libertà metafisica e saggezza etica, Cittadella Editrice, Assisi 2002. Testo

  26. Bonhoeffer, Etica, trad. it. cit., pp. 186, 228. Testo

  27. Ivi, pp. 190. Testo

  28. Mancini, Tornino i volti, Marietti, Genova 1989. Testo

  29. Ibidem. Testo

  30. Mancini, Teologia..., cit., p. 251. Testo

  31. Bonhoeffer, Etica, trad. it. cit., p. 205. Testo

  32. Ibidem. Testo

  33. Si prenda ad esempio la polemica bonhoefferiana con il formalismo kantiano circa il dire la verità, che a nostro avviso evidenzia efficacemente la sua stessa consapevole condizione di pastore della Chiesa, impegnato per giunta nella possibilità di una teologia della pace. Cfr. Appendice V dell'Etica, pp. 308-314. Testo

  34. Bonhoeffer, Etica, trad. it. cit., p. 205. Testo

  35. Ivi, p. 203. Testo

  36. J. L. Borges, Opere, 2 voll., Mondatori, Milano 1985, vol. II, p. 275. Testo

  37. J. L. Chrétien, La voix nue. Phénomenologie de la promesse, Les Editions du Minuit, Paris 1990, p. 149. Riportiamo il testo francese di cui abbiamo dato la traduzione italiana nel corpo del testo: «La promesse se fraie la voie à travers l'impossible que par son acte même et par son acte seul elle rend possible. Ce que je ferai, je ne peux le savoir, mais je peux le promettre. La promesse porte en son cœur une obscurité noétique qui lui est coessentielle. Sa seule clarté est prophétique». Testo

  38. D. Hammarskjöld, Tracce di cammino, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 1992. Testo

  39. Annotazione di Pentecoste 1961, in id. , p. 10. Testo

  40. Hammarskjöld, op. cit., p. 188. Testo

  41. Mancini, Scritti..., cit., p. 194. Testo

  42. Ivi, p. 221. Testo